“Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata
scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del
socialismo democratico, per come lo vedo io.”
George Orwell (Eric Arthur Blair)
Fra poche settimane (l’Italia entrò nella 1GM il 24 Maggio
del 1915, saranno dunque cent’anni esatti) scatterà l’ambaradan mediatico ed
istituzionale delle celebrazioni e dell’orgoglio nazionale. Sinceramente, non
comprendo cosa ci sia d’eroico da ricordare se non il grande sacrificio umano,
una pura questione di pietas – sia
chiaro – che nulla ha a che vedere col trionfalismo altezzoso che ci
ammansiranno da ogni parte. Dagli Stati Maggiori ai partiti politici.
Due dati, solo per capire la tragedia: circa 17 milioni di
morti (militari + civili), decine di milioni di tonnellate di navi affondate,
alcune regioni europee (Mosella, Saarland, Alsazia, Veneto e Friuli, ecc.)
distrutte, una crisi economica (e politica) che colpì chi aveva perso (Germania/Weimar,
Impero Asburgico/Austria e Impero Ottomano/Turchia moderna) e chi aveva vinto
(l’enorme debito inglese nei confronti dei banchieri, che iniziò ad estinguersi
solo intorno al 1935, quando bisognò iniziare di nuovo). Insomma, il solito
grande affare per i capitalisti e le consuete disgrazie per la povera gente.
Gli storici affermano che, fra cent’anni, le due guerre
mondiali saranno raggruppate in una sola “in due atti” – e ne conveniamo –
però, come “contemporaneo” (un po’ datato!), non posso esimermi dal sentire
quella guerra ancora dietro l’angolo, grazie alle narrazioni di mio nonno e di
mia nonna, che mi raccontarono – viva voce – la “rivolta del pane” di Torino
nel 1917 ed i torbidi che seguirono quelle vicende, oppure lo sbarco dai treni
dei feriti a Reggio Emilia, coi lamenti e le imprecazioni contro Re, Preti ed
Imperatori.
L’unica cosa saggia da fare – invece di spendere inutilmente
soldi in parate e “rievocazioni” – sarebbe raccogliersi in preghiera (ognuno
s’inventi la sua, secondo quel che crede) in un luogo per noi prezioso – un Heimat, come dicono i tedeschi – e
piangere per quella povera gente, preda dell’ingordigia di governanti e
finanzieri dell’epoca, invitati forzati ad un sabba di sangue, accompagnato da
tutte le benedizioni possibili dei cardinali e dei cappellani militari.
Finis della breve trattazione storica, forzatamente
incompleta e carente.
Ciò che ci domandavamo, era un quesito che spesso viene
ignorato: ossia, quanto conta la fedeltà di un popolo allo scoppiare di una
guerra? Quanto si sente “partecipe”? Qual è la “Patria” che sente dentro di sé?
Per prima cosa andiamo a vedere come mai, in Gran Bretagna –
ad esempio – la gente s’offriva volontaria per le operazioni di ricerca e
disinnesco delle bombe tedesche inesplose: Giorgio VI in persona chiese che a
dirigere quelle squadre – composte di 4 persone – fosse un nobile. Le offerte
non smisero mai d’arrivare. Ah, dimenticavo un particolare: la vita media di
quelle squadre era di circa quattro giorni.
In Germania, invece – pur non sottovalutando l’apporto della
Hitlerjugend nella FLAK, la contraerea (ma erano giovani, non dimentichiamolo!
Ci andò anche Ratzinger...) – non vi furono movimenti collettivi di supporto,
perché tutto doveva essere regolato dall’alto, dai comandi e dal partito
nazionalsocialista. Questo quadro di passività della popolazione traspare e
spicca dalle pagine di Jörg Friedrich nel suo “La Germania bombardata” (Der Brand, 2002) edito in Italia da Mondadori nel 2004.
Un primo aiuto ci
giunge da Richard Titmuss, creatore dello stato sociale inglese del
dopoguerra, dunque da un economista – anzi, un politico autodidatta in
economia:
“La Guerra non poteva
essere vinta a meno che milioni di persone comuni, in Gran Bretagna e al di là
della Manica, si convincessero che noi avevamo da offrire qualcosa di meglio
del nemico, non solo durante ma anche dopo la guerra”.
Quel “al di là della Manica” fa pensare che la guerra, in
realtà, fu tra Germania ed Impero
Britannico e gli inglesi seppero coinvolgere gli abitanti dei dominions – indiani, sudafricani,
neozelandesi, ecc – in modo impeccabile e coinvolgente. Non vi furono episodi
di diserzione – a parte alcuni indiani, presi prigionieri in Africa dai
tedeschi ed inglobati in una compagnia dell’Afrika Korp, subito ripresi e
fucilati all’istante. Eppur esistettero,
in quei Paesi, movimenti di liberazione (pensiamo a Gandhi) che sarebbero
sfociati, nel dopoguerra, nel famoso Suez
Act, ossia il ritiro ad Ovest di Suez di tutti i militari britannici (e,
soprattutto, della Marina che regnava in quei mari da tre secoli).
Chi erano, dunque, gli inglesi – tanto per citare un esempio
– che raccolsero a decine di migliaia i prigionieri italiani (soprattutto) e
tedeschi all’indomani di El-Alamein?
Vale la pena d’attingere ad un ricordo personale, ad un
racconto in prima persona di chi c’era.
Di là della caciara retorica nazionale, sembrava d’essere in
centro a Milano il giorno di S. Ambrogio – raccontava la mia fonte – tanto era
il frastuono ed il casino di migliaia d’italiani, colonne di uomini che
parevano sbucare dalle sabbie, che correvano ad arrendersi. Erano già
disarmati: avevano abbandonato tutto fra le sabbie.
Gli inglesi, appollaiati su qualche raro Bren Gun Carrier,
sorridevano fra il divertito e lo stupito da tanto andirivieni e, riavutisi
dalla sorpresa iniziale, capirono che bisognava radunare ed organizzare quella
marea di uomini tornati ragazzi che chiedevano acqua e una sigaretta: per gli
italiani – gli straccioni della guerra tedesca – era finita: basta, si tornerà
a casa, fine della fame fra le sabbie africane.
Solo ad un reparto di Camicie Nere – arresosi fra i primi –
fu riservato un trattamento più “duro”: furono fatti passare fra due ali di
soldati che li presero a calcinculo. Non una violenza: un dileggio. Altro che
“l’onore delle armi” chiesto da Sordi a David Niven ne Il mio nemico!
La mia fonte – io scrivo, ma è lui che parla, anche se
oramai morto e sepolto – era infermiere della Sanità e fu subito condotto
all’ospedale di Porto Said, perché gli infermieri scarseggiavano. Finita la
guerra, fu chiamato dal medico del reparto “I’m sorry...non posso lasciarti andare, troppo lavoro...” così
rimase a Porto Said fino al 1947, ma dal mese successivo iniziarono a pagargli
lo stipendio di un infermiere civile.
Torniamo alla domanda iniziale: chi erano quegli inglesi?
Agricoltori delle Midlands, minatori gallesi, operai di
Manchester, portuali di Liverpool, braccianti scozzesi, pescatori delle
Orcadi...oltre ai neozelandesi, agli indiani, ai sudafricani...
Perché erano così dignitosamente diversi dagli scugnizzi
italiani che s’arrendevano? Eppure, le loro brave batoste le avevano prese anche
loro in Africa Settentrionale. Ce lo racconta una fonte eccezionale: George
Orwell.
Oh certo, lo conosciamo per la Fattoria degli animali e per 1984...ma
forse non tutti hanno letto le sue opere cosiddette “minori”.
Alla metà degli Anni 30, Orwell fu incaricato dal Left Book Club (un'associazione
culturale filo-socialista) di redigere un rapporto sulla vita nelle aree
minerarie del Nord, nell’area di Sheffield: partì per il Nord e ne uscì un
libro, La Strada di Wigan Pier, che
non è una meraviglia di racconto, perché nasce come saggio o “rapporto” ed è,
forzatamente, intriso di cifre, interviste, sillogismi politici.
E’, però, straordinariamente utile per capire
l’atteggiamento della Gran Bretagna imperiale nei confronti della
disoccupazione (anch’essi patirono il 1929) e della miseria in genere.
Una Gran Bretagna che non lesinava un sussidio di
disoccupazione universale, senza troppe limitazioni, che faceva imbestialire i
conservatori dell’epoca i quali non si risparmiavano frasi del tipo “A che
serve mantenere tutta quella marmaglia...” oppure il classico “Mangiapane a
tradimento!”. In pratica, il Fornero-verbo.
Orwell racconta che un minatore – che faceva una vita da
bestia, non dimentichiamolo, perché le gallerie raramente superavano il metro e
mezzo – guadagnava una cifra fra le 110 e le 140 sterline annue, per un
servizio di sette ore e mezza il giorno.
L’assegno di disoccupazione – che non aveva limiti di tempo
– era di poco più di una sterlina la settimana, ossia circa 60 sterline l’anno
le quali – Orwell riporta conteggi precisi sui costi di farina, pancetta, ecc –
garantivano la pura sopravvivenza, niente di più. Al punto – fa notare – che
chi fumava aveva delle grosse difficoltà.
Non c’erano limitazioni di sorta per ricevere l’assegno,
perché bastava dimostrare di non avere lavoro; c’era però una sorta
“d’ispettorato”: se venivi scoperto a fare un secondo lavoro – anche modesto,
bagnare l’orto del vicino ad esempio – avevi dei guai e rischiavi di perdere
tutto.
Se noi tentiamo un parallelo (impossibile per il “paniere”
d’acquisto) con le condizioni attuali, notiamo però che l’assegno di
disoccupazione (consegnato al capofamiglia) era circa la metà di un salario. Se
consideriamo un salario fra i 1.500 ed i 2.000 euro il mese, oggi, ne uscirebbe
un assegno di disoccupazione di circa 750-1000 euro il mese. Uno sforzo
economico notevole per la Gran Bretagna, con precise motivazioni politiche:
“Sicurezza sociale
indica l’impegno da parte delle autorità pubbliche per garantire a tutti un
reddito minimo di sopravvivenza e per combattere cinque grandi «giganti»
cattivi, che minacciano la dignità dei cittadini: la miseria, la malattia,
l’ignoranza, il degrado provocato da abitazioni malsane e l’ozio connesso alla
disoccupazione e alla dipendenza.” (1)
Si noti che la “dipendenza” – l’ultimo dei “giganti cattivi”
– era la possibilità di ricatto che potesse giungere da qualsiasi parte: il
disoccupato non cessava d’essere un uomo libero e dignitoso. Quasi un reddito
di cittadinanza ante-litteram.
Il risultato?
La sopravvivenza della Gran Bretagna si vide nei tristi
giorni dell’assalto aereo tedesco, quando un popolo dignitoso e preciso accettò
di buon grado i “consigli” delle autorità, che non furono mai “ordini”. Tutto
fu diretto alla produzione di Spitfire,
e la popolazione reagì compostamente e con un senso del sacrificio
inappuntabile. Uno Stato che dà, può anche (e liberamente) chiedere: uno stato
che impone, dovrà sempre mantenere la forza come deterrente per imporre.
Al punto che Karl Doenitz – Comandante in Capo della
Kriegsmarine e successore di Hitler per poche settimane – ammise, in un’intervista
(2):
D) Ha mai pensato alla
possibilità di uno sbarco in Inghilterra?
R) «Non credo, e non
credevo, che avremmo potuto farcela, perché le nostre truppe avrebbero avuto
bisogno di continui rifornimenti, e la Royal Air Force era abbastanza potente
per mandare a monte le nostre operazioni».
In definitiva, gli inglesi videro bene: una popolazione, nei
limiti del sopportabile, accetta sacrifici perché sa che, il medesimo Stato, li
terrà seriamente in considerazione e non lascerà nessuno fuori, al gelo.
Un’ultima osservazione – che propone proprio Orwell –
riguarda la produzione bellica: negli anni ’30 – quando vigevano le norme sulla
disoccupazione da lui descritte – il Governo era conscio che la disoccupazione
era endemica e provocata dallo sconquasso del 1929. Sapeva anche, però, che la
piena occupazione sarebbe stata facilmente raggiunta in caso di guerra, con
l’aumento della produzione (e del debito, aggiungiamo noi) e le conseguente
economia di guerra.
La domanda da porsi è: come ci sarebbero giunti senza quei
sostegni al reddito? La risposta la fornisce Orwell stesso: quando i
conservatori si lamentavano degli esborsi per pagare gli assegni di
disoccupazione, il Governo rispondeva che, se preferivano, s’annullava tutto.
Poi, a vedersela con la gente affamata...chi ci andava? Forse i nobili stessi,
in divisa da caccia alla volpe?
Una nazione che ha vissuto una rivoluzione durata un secolo,
dove caddero persino le teste dei regnanti, sa bene cosa comporta il rischio e
prende gli adeguati provvedimenti.
Come si comportarono, invece, Germania ed Italia?
Lo stato sociale, nei due Paesi, fu diverso: basato sulla
genetica in Italia, con molti aspetti eugenetici in Germania. In Italia non vi
furono episodi come la “Notte dei Cristalli” – che preparava il passaggio in
serie Z dei commercianti ebrei – se non dopo le leggi razziali del ’38 ed in
modo molto blando. Lo stesso giorno nel quale firmò le leggi razziali,
Mussolini promosse a Generale di Divisione il Generale Levi. Il che, è tutto
dire.
In Germania si puntò sulla piena occupazione, la quale aveva
dei prodromi: la nazionalizzazione della Banca Centrale tedesca e, appunto,
un’economia di guerra in tempo di pace, che non poteva non sfociare in una
guerra vera: come andò a finire, lo sappiamo.
I tedeschi puntarono sempre alla difesa della razza ariana, non a quella della popolazione tedesca, fino a giungere ai Lebensborn dell’ultimo periodo. In ogni
modo, il concetto è ben spiegato nel libro di Götz Aly, Lo Stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e
nazionalsocialismo, edito in Italia da Einaudi.
L’Italia, Paese più povero, puntò sulla genetica:
“Dato non fondamentale
ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle
nazioni, è la loro potenza demografica. (…) L’Italia, per contare qualcosa,
deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una
popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti.” (dal cosiddetto “Discorso dell’Ascensione” di Benito
Mussolini).
In pratica, contava il numero: dobbiamo riconoscere che, in
quegli anni, un po’ ovunque il numero era sinonimo di potenza, poiché la
concezione dell’esercito napoleonico tardava a scomparire.
Il problema, però, è un altro: una volta raggiunto il
“numero” – e allora vanno benissimo le opere a favore dell’infanzia, i
consultori, ecc, tutte opere sociali promosse dal Fascismo – dopo, che ne
facciamo? I milioni di baionette, certo, che dopo s’arrendono a decine di
migliaia agli inglesi sorridendo e domandando una sigaretta. Senza il minimo
problema di “onore” o di “dignità”: a me – sembravano dire – lo Stato non ha
dato nulla...e adesso, che vuole? Sciuscià,
eccolo da dove esce.
La testimonianza di mia madre è importante per comprendere i
livelli di povertà delle campagne: la sua famiglia era una qualsiasi famiglia
d’agricoltori del ferrarese. Agricoltori, non braccianti: quelli stavano
peggio.
Mia madre raccontava che il suo grande divertimento era
pescare: con un ago curvato, una canna di fiume ed uno spago di canapa pescava
un mare di pesci gatto, anguille ed altro dal canale dietro casa.
Il problema era che la nonna – che doveva provvedere al
desco di una famiglia numerosa – non aveva olio per friggerli: così, li
arrostiva sulle braci del camino. Secondo problema (chi conosce la “bassa” lo
sa): dove prendere la legna? Non ci sono boschi nella “bassa”.
Così, ci si doveva arrangiare bruciando residui vegetali
quali la parte lignea della canapa o gli stocchi del granturco: addirittura –
con grandi fatiche – gli uomini sradicavano i ceppi dei gelsi tagliati e i
vecchi li riducevano a pezzetti con l’accetta. Poi, dopo tante fatiche, un po’
di polenta con un pesce arrostito, tutti i giorni.
Non c’è da meravigliarsi se – ancor prima della guerra –
appena ci fu “l’odore” di un lavoro nell’industria tessile biellese, emigrarono
tutti.
Oggi tutto è cambiato: non c’è odor di guerra per l’aria,
anche se – lontano dall’Europa – si combatte quasi ovunque. Ma, se tocca a
qualche italiano andarci, si tratta sempre e solo dei 100.000 uomini
dell’esercito professionale, non i milioni di baionette che coinvolgono la
popolazione (e richiedono consenso politico).
Per questa ragione Renzi, Berlusconi e tutta la baracca dei
saltimbanchi parlamentari non pongono mai in primo piano il vero problema dello
stato sociale e delle finanze italiane: la separazione della previdenza
dall’assistenza. Tutto un solo calderone, chiamato INPS. Questo sarebbe il
primo passo verso un vero stato sociale.
Il reddito di cittadinanza è un obiettivo del M5S, ma non
avranno mai i numeri per approvarlo: i nostri Gauleiter potranno continuare tranquilli a regnare, ampiamente
foraggiati con i nostri soldi e protetti dai due battaglioni dei “Lancieri di
Montebello”, che stazionano a Roma da decenni, fissi come un pilastro di
cemento.
Curioso l’aspetto del “foraggiamento”: soldi che servono soltanto
a garantire e verificare gli equilibri interni del potere, non il consenso
della popolazione. Oramai, a votare ci và si e no la metà degli aventi diritto
e, dosando attentamente le risorse (ossia gli sprechi, le tangenti, ecc),
riescono a comprare abbastanza voti.
Quando leggiamo di un finanziamento di qualche milione di
euro dato alla fondazione del notabile di turno, oppure di una equivalente
tangente, sono soldi che servono a comprare voti grazie alle “ricerche”, agli
“studi”, alle “ricognizioni” e quant’altro (i “festival”! (3)), compiute da
gente insipiente che non ha nulla da dire, che ha soltanto un voto da dare,
ecco quello che conta e perché finisce per contare. Ma, ribadiamo, soltanto per
sancire gli equilibri interni.
A noi, lasciano la protesta: c’imbizzarriamo come cavalli
selvaggi contro l’euro, la finanza, le banche e tutto il resto – che sono
soltanto strumenti del potere! – e non vediamo, ciechi come siamo diventati,
che l’unica soluzione è non ascoltarli, non guardarli in Tv, non votarli,
coprirli di silenzio.
Possiamo forse sgominare la massoneria internazionale che ci
tiene a bacchetta, la finanza europea che ride di noi ed impone sempre nuove
gabelle, il Bilderberg che, ogni anno, decide un pezzo del nostro futuro?
Gli unici che ci stanno tentando – e c’era chi credeva che
Tsipras potesse risolvere tutto con un colpo di bacchetta magica...e voilà!
Tutto a posto! Però, la patrimoniale sugli alti redditi l’ha messa...e da noi?
– sono, appunto, i greci e gli spagnoli di Podemos, ai quali dovremmo unirci,
non ai conservatori inglesi come Grillo in UE.
Non esistono altre soluzioni, credetemi, altrimenti
resteremo solo dei miseri cani alla catena, che abbaiano ad una luna distante e
indifferente.