30 gennaio 2011

Apparentemente



“ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia, sabbu e de lûnedi.”
“le dicono quello che non possono dire
di Giovedì, Sabato e Lunedì.”
Fabrizio de André – A dumenega – dall’album Creuza de ma – (1984).

Oggi è Domenica. E’ una Domenica di neve e di noia, nell’attesa dell’appuntamento serale con l’autostrada, i caselli, le macchinette che domandano sempre e solo soldi e, infine, l’Ospedale.
Ma è anche una Domenica nella quale sembrano intessersi i destini della terra dei Faraoni, del centro del mondo arabo sunnita: di Al-Azhar, della Fratellanza Musulmana, dei musei, delle piramidi di Gizah, fino al Luna Park per occidentali di Sharm.

Nel corso della settimana oramai trascorsa, solerti cantori di regime si sono sperticati nell’acclamare le rivolte di Tunisi e del Cairo come il “voltar pagina” del mondo arabo, del nuovo – in questo caso è d’obbligo, “Islam” – che avanza. Eppure.
Eppure, non possiamo dimenticare gli avvenimenti d’appena due anni or sono: Piombo Fuso.

Regnava George Bush II il Giovane, ancora per poco: da lì a poco, si sarebbe insediato alla Casa Bianca un nero, che in gioventù – in Indonesia – aveva ricevuto insegnamenti nelle madrasse musulmane del luogo, un tizio dal nome sinistro. Barack Hussein Obama.
Già…Obama assomiglia troppo ad Osama, ma non è questo il punto: gli altri, due nomi sono entrambi d’origine medio-orientale.
E fa paura.
Tzahal, diligentemente, prende nota del “termine ultimo” fino al quale si può impunemente ammazzare, bruciare, distruggere e annichilire la gente di Gaza e lo fa con precisione: il 18 Gennaio 2009, poco prima che Obama faccia il suo ingresso al 1600 di Pennsylvania Avenue, tutto si placa. Sul campo.

La battaglia riprende, ma questa volta il premier israeliano Benjamin Netanyahu capisce che l’opzione militare è oramai “off limits”, e si deve agire in altro modo. Ci sono, negli USA, altri personaggi più affidabili per la politica israeliana: non si tratta forse della sola Sarah Palin – la tizia che va in giro a sparare ai caribù – e nemmeno dell’oramai “bruciato” senatore Mc Cain. Altri giungeranno, altri riprenderanno in mano e faranno garrire al vento lo stendardo degli USA perennemente a fianco di Tel Aviv, senza se e senza ma.
Questo, perché di “se” e di “ma” con Israele Obama aveva lastricato la strada fra Damasco e la Galilea, il Cairo e la striscia di Gaza ma, soprattutto, la via che porta a Teheran.

Troppo accondiscendente, troppo “morbido” con il regime iraniano che ha intenzione di dotarsi (?) d’armi nucleari: veramente, per ora, sta cercando di realizzare una centrale nucleare civile, per il resto mancano come minimo altri 10 anni, forse più.
Purtroppo, non si può raccontare ai coloni che vigilano negli avamposti del West Bank che la tigre nucleare iraniana, per molti anni ancora, sarà una tigre di carta: devono rimanere convinti che i missili iraniani siano lì per ghermirli, che l’assalto sia imminente. Soprattutto, non dovranno mai far mancare al Likud il loro appoggio.
E, negli USA, che si può fare?

La “novità” Obama è troppo forte, mediaticamente, per essere contrastata con mezzi usuali: non pratica il bunga-bunga, non sporca di sperma il reggiseno delle stagiste…niente…niente…niente…persino Signorini, Frattini, Minzolini, Belpietro…dovrebbero gettare la spugna.
Mumble, mumble…l’idea nasce col contrastare “dal basso” la presidenza Obama mentre, “dall’alto”, s’inizia a fare il vuoto, “consigliando” ai collaboratori di Obama di fede ebraica di lasciarlo[1].
Sul primo fronte, quello “popolare”, ecco spuntare nuovi “fenomeni” della politica statunitense, che s’accasano subito sotto la gonna di Sarah Palin nel movimento dei “Tea Party”, come il senatore Rubio[2], il quale va subito a rendere omaggio a Yad Yashem.
La frittata è servita, ed Obama perde alla grande le elezioni di medio termine.

Questa volta…mumble, mumble…il pensatoio s’insedia alla Casa Bianca: lo “scherzetto” di Netanyahu non viene gradito, anche perchè non c’è nessun “dolcetto” nella sconfitta elettorale del Presidente.
Allora, allora…
Cominciamo dal “piccolo”: c’è un dittatore da strapazzo in Tunisia. Che dite, lo togliamo di mezzo? Tanto, per quel che conta…
Però, però…se vogliamo rendere la pariglia a Tel Aviv, bisognerebbe far loro capire che le loro ingerenze non ci sono gradite…che potrebbero trovare insediato al Cairo una persona a noi più fedele, meno legata alle stanze del Mossad e dello Shin-Bet…

Torna alla mente, allora, niente di meno che un Nobel per la Pace: è lui, Mohamed El Baradei, l’uomo che ha saputo mediare per la faccenda iraniana sotto Bush, e bene lo ha fatto.
Perché, se l’Iran non è e non sarà per tanto tempo una potenza nucleare, per quanto riguarda l’eventuale blocco del Golfo Persico per le petroliere che riforniscono il Pianeta – dagli USA alla Cina, che non sappiamo cos’abbia detto al riguardo nel recente incontro a Washington con Obama – è un fatto assodato: sottomarini, motovedette, aerei e missili sono in grado di mandare a fondo migliaia di tonnellate di naviglio mercantile.
Forse non abbastanza per reggere ad un attacco in forze USA, ma abbastanza per far schizzare il prezzo del greggio a 200$ il barile e mandare a fondo l’economia mondiale.
E poi: sono forse in grado, gli USA che non riescono nemmeno a controllare l’Iraq e l’Afghanistan, d’intraprendere un’avventura “da paura” come un confronto bellico con l’Iran?

Allora, allora…El Baradei è attualmente “disoccupato”…mandiamolo al Cairo, a pretendere le dimissioni di quel bacucco di Mubarak, che prendono addirittura in giro affibbiandogli delle “nipoti” – un poco troie, eh, scusate… – per i sollazzi dei bunga-bunga italioti.
Il vegliardo pensa di salvare la ghirba nominando vicepresidente il capo dei servizi segreti egiziani – Suleiman – ma la cosa non sembra molto gradita al Segretario di Stato USA: la Clinton, afferma che si deve dare ascolto “al popolo”. Insomma…sarebbe come se, Berlusconi, nominasse suo successore Manganelli, De Gennaro o uno del genere: no, fuori tempo massimo.
E, il “popolo” – ma che caso – si ritrova unito sotto gli stendardi di El Baradei – dai movimenti di piazza ai Fratelli Musulmani – per dare il benservito a Mubarak.

Ci piacerebbe raccontare – come fanno tanti – una speranza per i popoli, dalla Tunisia all’Albania, passando per l’Egitto, ma non scorgiamo altro che gran movimenti di servizi segreti e di diplomazie “nell’ombra”.

Non si tratta, ovviamente, di una “rottura” diplomatica con Israele…giammai…è una cosa così…uno “scherzetto” per Netanyahu: anche questa volta, senza dolcetto.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.


Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.

26 gennaio 2011

Benvenuti nel Neofeudalesimo



La filmografia degli ultimi anni sembra voler giocherellare col tempo, accelerarlo per mostrare agli spettatori il futuro: come se il futuro fosse possibile identificarlo dal parallelismo bieco fra universali, impilati l’uno sull’altro come i piatti sporchi di un ristorante, e dunque utilizzare la medesima tecnica di matrice archeologica senza, però, nessun tentativo di correlazione e di coerenza.
Si sprecano le pellicole – alcune di buon gusto, altre meno – dove gli scenari quasi mai raccontano la genesi di quelle situazioni, bensì si concentrano sugli effetti: lo spettatore viene prelevato e condotto nelle polverose strade americane, dove bande di malfattori/guerriglieri/terroristi s’affrontano e s’ammazzano. Insomma, il saloon del dopo catastrofe, la catarsi decisiva, parossisticamente liberatoria: quasi il seguito, elevato a potenza, di “Un giorno d’ordinaria follia”.

Si scorge un mondo popolato da individui che riconoscono come unici legami il clan, oppure contemplano l’esistenza dal loro pulpito di cinico individualismo: su tutto, i rapporti umani sempre delegati e regolati con la forza. Dal provvisorio bilanciamento della potenza nasce una momentanea pace, subito ribaltata dal giungere di un nuovo individuo, dalla discesa in campo del nuovo clan.
Parrebbe, a prima vista, un futuribile Medio Evo: lo è soltanto per chi, dell’Evo di Mezzo, conosce soltanto (e male) alcune manifestazioni esteriori, poco approfondite nelle loro basi storiche e, soprattutto, mal presentate da una storiografia cinematografica assai carente.

Non è questa la sede per distinguere le pellicole migliori dalle peggiori, ma per tracciare un limite: i rapporti sociali non possono essere valutati, misurati e compresi soltanto dall’analisi comportamentale, dagli apparenti parallelismi delle situazioni, poiché solo l’analisi sociologica può identificare un processo sociale e collocarlo all’interno di un percorso storico.
Non è nemmeno il caso di giungere all’esegesi di testi o di film importantissimi – Carlo Maria Cipolla, Johan Huizinga, Ermanno Olmi, ecc – per giungere ad alcune, importanti precisazioni: a differenza della vulgata imperante, il Medio Evo fu un’era di straordinario progresso tecnologico che il Mondo Antico – proprio per la sua immobilità sociale – era destinato a non recepire.

I primi mulini ad acqua, ad esempio, comparvero sotto Ottaviano Augusto ed iniziarono a moltiplicarsi man mano che l’Impero Romano accelerava la sua necrosi. I mulini a vento, invece, dovettero attendere che si creasse una “classe” di “marinai di terra”, abili a manovrare le vele dei mulini quanto quelle delle navi.
Tutto l’Evo di Mezzo fu una scoperta dietro l’altra: la bardatura dei cavalli mutò radicalmente – spostando il punto di forza all’indietro, alle spalle dell’animale – consentendo così l’aumento della forza di trazione.

Anche se per gli Arabi il Medio Evo non fu tale, fu negli stessi anni che la medicina, l’astronomia, la matematica…presso i maggiori Califfati raggiunsero gran fulgore, al punto che i testi medici della Baghdad dell’anno Mille furono in uso nelle università europee fino al Settecento.
Insomma – semplificando – dalle difficoltà nacquero le virtù.
Perché “difficoltà”?

Poiché tutto l’arco medievale fu attraversato dall’incertezza politica, dovuta al continuo mutare dei rapporti di forza fra le grandi casate, ma anche fra i vassalli minori.
Il vero Medio Evo terminò con l’infrangersi dei limiti geografici e con la nascita degli Stati nazionali, ma l’assolutismo gerarchico che lo permeava continuò a perpetrare frutti ben oltre: fino a quando?

Ci perdonerà Tocqueville, ma solo la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica – dapprima con forme di suffragio molto ridotto, poi universale – sancì il definitivo abbandono del diritto del sangue, della posizione per censo. Almeno, così parrebbe essere in molti Paesi. Oggi.
Se torniamo per un attimo alle rappresentazioni cinematografiche, non scorgiamo nel mondo d’oggi l’intrico di violenza manifesta, allo stato primordiale, che le ammantano, anche se alcune aree cittadine – oggi “off limits”, soprattutto per le donne e dopo una certa ora la sera – qualcosa significano. Ma, ripetiamo, non abbastanza per definire l’abbandono alla violenza di qualche area come un cedimento a fumose, futuribili ere di violenza e di potere gestito in modo gerarchico.

Le organizzazioni mafiose usano un coacervo di regole che le fanno apparire simili – soprattutto la gerarchia che s’evolve mediante i rapporti di forza e che s’esprime con la violenza – alla struttura gerarchica del potere medievale ma, senza perderci troppo in analogie e differenze, le organizzazioni mafiose sono considerate come un cancro della società civile.

Ciò che desta, invece, preoccupazione per un’involuzione che ha tutti i connotati del sistema medievale è la politica, intesa come partecipazione alla vita pubblica e controllo delle scelte da parte della popolazione. Qui, si notano evidenti segni di una “medievalizzazione” della società.
Se ci riferiamo all’Italia, possiamo affermare che la democrazia fu compiuta soltanto con la nascita della Repubblica: se il Fascismo negò la partecipazione democratica bistrattando il Parlamento e riducendolo all’insignificanza, il Regno d’Italia “accettava” obtorto collo che i cittadini partecipassero alla vita pubblica. Il Senato era di nomina reale, mentre il suffragio non fu mai universale: le donne, nel Regno d’Italia, mai votarono.

Con la nascita della Repubblica, fu scelta una legge elettorale di tipo proporzionale senza sbarramenti: dopo un ventennio di negazione della partecipazione democratica, l’antidoto fu individuato nel concetto “una testa, un voto”, considerando che la partita sarebbe stata giocata da pochi partiti.
Anche quando i piccoli partiti di centro insidiarono il “monolite” democristiano, la legge elettorale rimase quella, salvo modesti aggiustamenti sui collegi e poco altro di significativo.
Eppure – riflettiamo sul marasma odierno – all’epoca si ridacchiava per la “governabilità mancata” e per i “governi balneari” sempre retti da Giovanni Leone. Oggi, con sistemi smaccatamente maggioritari e nomina dei parlamentari da parte dei capataz di turno, siamo finalmente “governati” (sic!)!

La “governabilità” non è dunque la semplice somma dei voti parlamentari, bensì la corrispondenza di quei nomi, volti e voti con la realtà del Paese, altrimenti si tratta soltanto di un cenacolo di faccendieri, di una società segreta, di un clan di potere.
Torniamo, per un attimo, all’ordine medievale.

La società era gerarchica, ordinata per sangue e per nascita, rigidamente strutturata, territorialmente, in unità governate da un rappresentante della nobiltà, il quale doveva rispondere del suo operato non verso il basso – chi se ne fregava del popolino – bensì verso l’alto, presso il grande vassallo, il duca, fino al sovrano.
La rigida struttura gerarchica era considerata l’unica soluzione “salvifica” per l’incertezza politica: la gerarchia “seguiva” il mutamento, spostando in blocco (o quasi) la sua influenza secondo il mutare dei gran reggenti.

Cerchiamo di “leggere” allora – in questa chiave – il mutamento della legge elettorale dal proporzionale fino al “porcellum”, passando per il “mattarellum”.
Il passaggio al sistema maggioritario fu giustificato – Mario Segni fu il promotore dell’iniziativa – con l’impossibilità, mancando le preferenze, di controllare il voto con il noto sistema delle “quaterne”.
In pratica, all’epoca, si potevano segnalare le preferenze utilizzando il cognome, il numero di lista od entrambi.
Nascevano così, in ogni seggio, migliaia di possibilità: “Rossi, Bianchi, Verdi, Neri”, “Rossi, 2, Verdi, Neri”, “1, 2, Verdi, Neri”…eccetera. Per ogni partito, si poteva controllare facilmente se la persona alla quale era stato assegnato un codice l’aveva rispettato.

Questo fu il sistema, per inciso, che consentì alla DC di prosperare, gestendo quei 7 milioni di pensioni d’invalidità che, in seguito, i notabili democristiani giustificarono con il principio “qualcosa si doveva pur dare”.
Concetto, in sé, condivisibile (se lo leggiamo come una sorta di reddito di cittadinanza), salvo che il vero reddito di cittadinanza non può e non deve essere associato ad una rendita elettorale nominale. Ovvio che, se una coalizione di governo lo applica, riesce a gestirlo a bilancio e l’elettorato è soddisfatto, il corpo elettorale si esprimerà di conseguenza, ma questa situazione non può essere paragonata ad un sistema di controllo del voto.

A margine, notiamo come Roberto Saviano abbia spiegato dettagliatamente come le organizzazioni criminali controllino il voto, partendo da una prima scheda vergine: nei giorni successivi alle elezioni del 2006 (forse le più “dubbie” della storia repubblicana) furono persino ritrovati, a Roma, pacchi di schede vergini nei cassonetti della spazzatura.

In ultima analisi, a nessuno passò per la testa che sarebbe bastato – mantenendo la preferenza – consentire d’esprimerla col solo numero di lista, rigorosamente espresso in modo crescente: ad esempio, 2,4,6,12 – oppure – 1,3,5,18.
Gli italiani sono meno fessi di quel che creda e, se fosse stato spiegato come esprimere la preferenza, le schede annullate non sarebbero state molte, anche considerando che il voto al singolo partito sarebbe rimasto valido: in questo modo, il controllo del singolo voto sarebbe stato impossibile.
Invece, si preferì abolirla del tutto.
Si potrà obiettare che le combinazioni così espresse ancora consentirebbero molte combinazioni, ma utilizzando più candidati, cosa che – nei partiti – non è molto agevole da gestire, giacché i candidati appartengono ad aree diverse interne ad ogni formazione ed in competizione all’interno dello stesso partito.

Sia come sia, si preferì – con il passaggio intermedio della legge Mattarella – abolire la possibilità, da parte dei cittadini, di scegliere i loro rappresentanti, suscitando anche qualche “mal di pancia” da parte dei costituzionalisti.
A cose fatte, osserviamo oggi cos’è diventata la consultazione elettorale.

Un “capo” – definiamolo semplicemente così – decide chi deve essere eletto e dove: ha molti mezzi per farlo, sfruttando le candidature plurime e le liste bloccate.
Ad elezioni avvenute, grazie al premio di maggioranza alla Camera, sa d’avere una maggioranza a lui fedele, che non è minimamente correlata con l’elettorato che ha votato.
Sul territorio, poi, ci sono altre persone a lui fedeli che – per ottenere la rielezione – sanno che dovranno battere cassa dal “capo” e dal suo entourage mentre, i tramiti, saranno ancora una volta gli eletti dal “capo” in Parlamento: lo dimostrano chiaramente le “querelle” della Carfagna e della Prestigiacomo – non a caso entrambe donne e quindi “minus” nella vulgata berlusconiana – entrambe scatenate dalla necessità di poter gestire maggiori risorse, elargite a livello nazionale, sui loro territori.
Per contro, un gran plenipotenziario di regime – Giulio Tremonti – conserva le risorse affinché un altro gran papavero di regime – Umberto Bossi – possa realizzare una secessione mascherata con un pateracchio chiamato “federalismo”.
E’ un perfetto copione medievale.

Il Sovrano, forte dell’autorità concessagli da Dio (l’Unto del Signore), si circonda di una corte ristretta di Duchi – Letta, Alfano, Tremonti, Verdini, Bondi – alcuni tenuti in gran conto per capacità, altri per semplice convenienza o necessità.
Già nella cerchia ristretta c’è chi s’appresta a tradire, chi tratta col nemico, chi – strabico – mostra sguardi di sottomissione mentre prepara tranelli.
I nobili di secondo grado, i Conti, siedono in Parlamento o nelle particole di governo non ritenute essenziali, mentre emissari di fiducia, figure nell’ombra, siedono nei gangli più importanti del sistema di potere: energia, banche, pubblica amministrazione, esercito, forze di polizia.
La nobiltà di terzo grado, Marchesi e Baroni, come da tradizione occupa il territorio e lo controlla: l’autorità discende loro dal legame con il gradino superiore della nobiltà: talvolta, occupano due scranni di diverso livello contemporaneamente, Sindaco di Metropolis e Deputato eletto. Conte d’Alessandria e Marchese del Monferrato.

Manca un attributo essenziale, rispetto al vero Medio Evo: la figura pregnante ed omnipervasiva della religione. Poco male: la nuova religione sulla quale fondare un plafond di valori condivisi, e in grado di penetrare ovunque, è lo schermo televisivo, mediante il quale le sexy infermiere vagano, dagli studi di Italia1 allo scantinato del bunga-bunga.
Qualcuno – seriamente – pone il problema di buttare nel cesso le leggi elettorali maggioritarie e tornare al proporzionale? No, tutti cercano disperatamente – roboanti affermazioni a parte – di mantenere lo status quo, perché oltre questo sistema c’è il nulla.

Le elezioni del 2008 hanno consegnato una maggioranza stabile alla Camera ed al Senato, ma già si sa che il fenomeno sarà irripetibile[1]: il Senato – creato da Calderoli in quel modo per detronizzare Prodi – non potrà più avere una maggioranza, a meno di non trattare con Fini e Casini.
Questo è il dilemma che si consuma nelle stanze di Palazzo Chigi, nelle Presidenze delle Camere, fino ai soffitti affrescati del Quirinale. La domanda è una sola: e dopo?
Cosa si potrà inventare, quando un premio di maggioranza sancirà (chiunque sia) la vittoria alla Camera ad uno schieramento, il quale metterà probabilmente insieme i voti di un quarto degli italiani, mentre il Senato sarà ingovernabile, e solo Fini e Casini saranno gli arbitri della situazione?

Potrebbe essere “la” soluzione, ma qualora l’inossidabile Cavaliere avesse la maggioranza alla Camera, il blocco sarebbe totale, perché giammai accetterebbe una maggioranza di governo che non sia da lui stesso guidata.
Peggio ancora se alla Camera dovesse prevalere il centro-sinistra (alcuni sondaggi mostrano una sostanziale parità fra il PdL-Lega ed il centro-sinistra dal PD a Vendola), poiché si dovrebbe configurare un’alleanza innaturale, fra Vendola e Fini.
Perché ci hanno condotti in un simile budello? Cos’era cambiato?
Sostanzialmente, due cose.

Per prima cosa l’Europa, dopo cinque secoli, ha perso il primato della produzione industriale: tutti sanno che, nell’arco di qualche decennio, la Cina ed i Paesi del BRIC avranno in mano le “chiavi” del futuro tecnologico ed economico del Pianeta.
Una situazione di crisi e di difficoltà, un mutamento epocale, qualcosa d’assimilabile alla spaventosa crisi del Mondo Antico che fu dovuta a cause interne, non alla calata dei barbari, altrimenti la domanda sarebbe d’obbligo: perché, prima, i barbari non scendevano?
Ciò sta conducendo l’Europa a concentrarsi (unione, spesso azzardata e troppo veloce) e ad arroccarsi su posizioni isolazioniste: anche la partecipazione alle nuove guerre neocoloniali è in crisi, e la sconfitta è lampante.

In un Paese come l’Italia – tributario d’energia per l’80% e con un’economia basata sulla trasformazione e sulle esportazioni – il problema mette probabilmente in crisi il sistema più che in altri Paesi: da qui, la tentazione “neomedievale”.
La seconda è invece interna all’Unione Europea.

Rammentiamo quella che fu definita la grande “svista” di Giulio Andreotti, quando affermò di non credere che la riunificazione tedesca sarebbe mai stata possibile[2]?
Eppure, Andreotti non è proprio l’ultimo arrivato in politica estera: perché non voleva crederci? Solo timore per il sempre temuto pangermanesimo?
A nostro avviso, Andreotti vide nella riunificazione tedesca un elemento di polarizzazione troppo smaccato dell’Europa: pochi anni dopo si creò “l’asse” Parigi-Berlino e tutta la gestione dell’Unione Europea fu nelle mani delle due nazioni, lasciando marginali spazi ad altri. Si pensi al “forzoso” allargamento verso Est, che porta vantaggi quasi soltanto all’economia tedesca, e briciole e problemi agli altri.
Addirittura, il sotterraneo conflitto fra la BCE e la Commissione Europea (Francoforte vorrebbe avere un controllo “tecnico” sull’economia) sembra quasi un parallelismo fra il secolare conflitto fra l’Imperatore ed il Papato: questi conflitti, esulano completamente da qualsiasi controllo democratico, giacché avvengono fra enti nominati da cerchie oligarchiche.

Si prospetta, nuovamente, una riedizione del Sacro Romano Impero, con una elemento centrale – la Germania – che controlla economicamente una serie di Paesi tradizionalmente a lei vicina: il resto dell’UE è sotto scacco e non può far altro che accettare, via via, tutti i diktat di Berlino.
Regge l’alleanza con Parigi, ma la Francia ha altre possibilità?
La situazione è questa.

Ora, di fronte alle novità di portata storica che avanzano, quale può essere l’atteggiamento delle classi politiche? Soltanto due: l’elaborazione del “lutto” oppure l’arroccamento e la rimozione.
La classe politica italiana non è stata in grado e non è capace d’elaborare il “lutto” conseguente alla perdita dei primati industriali: ciò significherebbe, anzitutto, puntare sui settori che ancora possono creare ricchezza.
Energia, turismo, agricoltura di qualità, ricerca.
Per attuare queste politiche, bisognerebbe – alla base – riportare il prelievo fiscale su schemi di maggiore equità: semplicemente, adeguando le aliquote IRPEF e gli sgravi fiscali al nuovo scenario. Non è possibile pensare ad un qualsivoglia futuro, se il 10% degli italiani possiede il 45% della ricchezza nazionale.

Eppure, gran reggenti, gran commis e chierici di regime – dall’inossidabile Cavaliere a Confindustria, passando per Marchionne o per Casini – si muovono costantemente nella vecchia ottica, quando l’Italia era un Paese che produceva ed esportava.
Le differenze che appaiono, fra questi pessimi attori, non sono di merito (ossia sulle politiche da attuare per ottenere un diverso risultato), bensì di prassi: come mantenere l’esistente cambiando semplicemente gli attributi.
In questo quadro, si collocano vicende come quella della FIAT oppure la querelle nucleare: mantenere il quadro esistente, arroccando sempre di più il potere in un’aristocrazia economica. Al più, si scatenano modeste battaglie fra un gruppo e l’altro, fra un gestore e l’altro del sistema di potere.

A differenza del Mondo Antico, però, oggi esistono mezzi d’analisi più accurati, vi sono maggiori potenzialità tecnologiche e produttive, più cultura diffusa: perciò, l’arroccamento nelle nuove fortezze del potere è strumentale, non inevitabile.

Qualcosa si sta muovendo nel Mondo Arabo: pletore di nuovi diseredati, che non chiedono soltanto la soluzione dell’antico dilemma – l’equilibrio fra l’Islam e la modernità – bensì domandano, a suon di violenza, d’essere considerati attori dei processi economici e culturali, non servi della gleba del Sud del mondo: Andalù, non c’è più.
Anche perché, al Nord del Sud – oramai – la situazione non sembra essere molto diversa: c’è ancora ricchezza, ci sono maggiori possibilità…ma per quanto?

La straordinaria velocità dell’informazione, potrebbe condurre il Neofeudalesimo alla crisi ancor prima che s’assesti, che riesca ad esprimersi nella società in modo compiuto: è l’unica speranza che ancora rimane per un processo evolutivo, per non cadere nella mummificazione del potere ingessato e calcificato delle oligarchie gerarchiche.
Se la scomparsa dei limiti geografici fu determinante per il crollo del mondo medievale, un’altra scoperta comparve negli stessi decenni: la stampa.
La moltiplicazione della cultura stampata, la sua più rapida diffusione, fu determinante per strappare i privilegi della conoscenza agli oligopoli dell’epoca: ricordiamo che, dopo la sottomissione al Papato e l’abiura delle sue scoperte, Galileo inviò ad Amsterdam – “De Zeven Provincien”, le Province Libere – le sue opere affinché fossero diffuse.

Oggi, il mondo di Internet mette in contatto il bloggher tunisino con il suo omologo belga, danese, neozelandese…ci sono ancora barriere linguistiche, ma grazie al lavoro dei molti traduttori volontari gli ostacoli si frangono.
Di là delle miserie umane dell’oligarchia italiota, questa è la nostra unica, vera speranza.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.


Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza fini di lucro.

23 gennaio 2011

Il settimo tranello



Il Cavaliere: «Allora la vita non è che un vuoto senza fine! Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo in un nulla senza speranza
La Morte: «Molta gente non pensa né alla Morte né alla vanità delle cose

Più volte, ci siamo chiesti la ragione intima che conduce Silvio Berlusconi ad essere quel che è, perché siamo intimamente convinti che l’uomo sia migliore di quel che appare: spesso, abbiamo ricordato come la sua età anagrafica sia importante per capire il suo operato.

In questi mesi, assistiamo ad una pièce teatrale che si colloca nella tradizione del teatro dell’assurdo, poiché è a tutti evidente che c’è un governo che non ha più consistenza parlamentare per reggere l’attività di governo, che il Paese necessiterebbe di scelte di largo respiro e di lungo periodo, che non esiste un’opposizione in grado di proporre qualcosa di credibile e che, all’interno delle opposizioni, regna un marasma allucinante.
Per contro, anche nella coalizione di governo serpeggia la medesima inquietudine: tutti i parlamentari del PdL sanno benissimo che, la loro vita politica, dipende soltanto dalla sopravvivenza politica di un uomo, Berlusconi, oltre il quale – per loro – c’è il vuoto.
Eppure, mai nella storia della Repubblica s’è visto tanto pathos per delle vicende politiche le quali, in definitiva, non sono poi così importanti: se un governo cade, le istituzioni della Repubblica hanno una prassi consolidata per scegliere un nuovo governo, sia passando per le elezioni, sia per trattativa parlamentare.

Non vorremmo toccare, in questa sede, argomenti “tecnici” quali la legge elettorale, poiché desideriamo approfondire meglio il tema in un prossimo articolo: è l’uomo Berlusconi che ci colpisce, nel suo dramma umano.
In fin dei conti, Silvio Berlusconi potrebbe compiere un gesto signorile ed onorevole, lasciando ad altri il giudizio sul suo operato (come, del resto, prima o dopo sarà) ed affidando ad altre persone le responsabilità che – si nota chiaramente – non è più in grado di reggere.
Ma non ci riesce: perché?

L’ex moglie, Veronica Lario, aveva avvertito per tempo che il comportamento del marito stava prendendo una brutta piega – “le vergini che si offrono al Drago” – ma era pur sempre una moglie tradita, sulle dichiarazioni della quale bisognava caricare anche i suoi vissuti, di certo non felici.
Eppure, la signora Lario (al secolo Raffaella Bartolini), ha molto probabilmente amato il marito: il loro matrimonio è durato molti anni e sono nati tre figli.

Quando, nel 1994, Silvio Berlusconi divenne per la prima volta Primo Ministro, la signora chiarì che non avrebbe ricoperto ufficialmente il ruolo di “first lady”, ed anche questa non è una novità: Carla Voltolina, moglie di Sandro Pertini, non volle mai ricoprire il ruolo.
Se le dichiarazioni della Lario possono essere considerate un evanescente tratteggio psicologico – la signora è molto riservata nelle sue dichiarazioni, quando lo fece fu perché aveva, probabilmente, “fatto il pieno” – le successive “avventure” di Berlusconi hanno confermato, almeno in alcuni tratti, la rappresentazione che fornì la moglie.
Qual è, dunque, il “male oscuro” che opprime Berlusconi?
La paura.

Le mosse politiche di Silvio Berlusconi nascono tutte da un quadro di fobie: paura che gli “rubino” l’impero mediatico, paura di finire nella polvere, paura d’essere dimenticato, paura di non essere più al centro dell’attenzione.
Se le ricostruzioni del “Rubygate” sono vere, mostrano un penoso gruppo di vecchietti che palpeggiano le ragazzine, con l’eunuco Lele Mora a ricoprire il ruolo dei suoi pari negli harem: un quadro agghiacciante non soltanto sotto l’aspetto della morale, perché più importante è valutare quale ancora sia l’equilibrio psicologico dell’uomo che dirige la Nazione.

In definitiva, l’uomo Berlusconi è una persona che non sa vivere con se stesso, che ha risolto il suo dramma esistenziale creando più avatar, più ectoplasmi di se stesso ai quali ha finito per credere: nelle intercettazioni, le serate (che, sinceramente, non sapremmo se definire poi “così divertenti”) erano definite confidenzialmente “programmi”, con una con-fusione terrificante fra la realtà e l’apparenza.
L’uomo che ha creato la “vita nel format” ha finito per diventare un semplice attore – seppur “il” protagonista – del reality che aveva creato oppure, come suggeriva sempre la Lario, della vita “spericolata” che qualcuno ha diligentemente orchestrato intorno alla sua persona.
A monte, soprattutto per un uomo di quell’età, c’è sempre e solo una paura, e tutti sappiamo quale essa sia.

Forse è già troppo tardi per consigliare a Silvio Berlusconi un’attenta analisi delle opere di Ingmar Bergman, tanto meno possiamo sperare che riesca a ritrovare la flemma di Max von Sidow ne “Il Settimo Sigillo”: non si calcano le scene come il cavaliere Antonius Block se, prima, si è trascorso tutto il tempo nell’esaltazione della vanità.

Perciò, siccome riteniamo che prendere coscienza del suo fallimento esistenziale sia oltre le sue possibilità culturali, ci rivolgiamo agli Dei affinché concedano, come s’usava supplicare nel Mondo Antico, il celeste dono dell’Oblio.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dell'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento alla Legge 22 Maggio 2004, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza fini di lucro.

18 gennaio 2011

Mistifica oggi, raccontala domani…


Nel paese della menzogna, la verità è una malattia.”
Gianni Rodari

E’ facile fare il giornalista o lo scrittore in Italia, perché tutto ciò che deve fare chi scrive è trovare uno dei tanti bandoli della matassa: dopo, appiccicati con colla petrolifera, salteranno fuori tutte le figurine Panini della politica e dell’economia. Si può partire da qualsiasi bandolo: gli altri, diligentemente incollati, seguiranno.
Toh, c’è un bandolo chiamato “FIAT”: proviamo da quello?
Ma sì.

La vicenda della FIAT, per come appare, lascia intravedere il problema di fondo, ossia quello del futuro industriale italiano.
Da più parti si ricorda l’impetuoso irrompere sulla scena delle economie emergenti – ed è senz’altro vero ed importante – si dimentica, però, che le altre nazioni europee hanno subito anch’esse l’impatto con la globalizzazione, ma non sembrano esserne uscite con le ossa rotte quanto l’Italia.
C’è, in questo ennesimo tormentone italiota, una catena di mistificazioni che è meglio affrontare e chiarire: la prima riguarda il reale impatto della crisi finanziaria internazionale sull’Italia.

E’ certamente vero che la crisi dei mutui subprime ha colpito l’Italia in modo meno violento rispetto ai Paesi anglosassoni: il capitalismo italiano presenta ancora molti aspetti di conduzione familiare, oppure s’affida al credito in modi più tradizionali. Sotto il puro aspetto capitalista, questa è una specificità che può diventare un freno – meno “elastica” è la mentalità nel far debiti, meno le merci circolano velocemente, ecc – difatti, le famiglie italiane sono meno indebitate rispetto a molti Paesi.
Un po’ di “carta straccia” è circolata anche qui, addirittura alcuni grandi comuni (Milano, ad esempio) sono finiti nella trappola, ma i “numeri” non erano certo quelli delle banche estere nazionalizzate “di brutto”, per non farle finire sul lastrico dalla sera alla mattina.

Sull’altro versante, la crisi dei subprime ha creato una voragine di debito che è stata scaricata sui bilanci statali (il famoso “piano Paulson”), con i conseguenti ed inevitabili aggravi per la popolazioni, derivanti da aumenti – più o meno mascherati – della fiscalità.
Il “raffreddarsi” dell’economia planetaria, il “vorticar lento” del processo materie prime/merci/rifiuti che è alla base di questo scellerato sistema economico, ha inevitabilmente colpito anche l’Italia, in modo diretto – diminuzione delle commesse e delle esportazioni – ed indiretto, ossia per quell’atteggiamento “attendista” che tuttora dura, poiché nessuno avverte come passato il pericolo.
La situazione, qual è?

Il sistema industriale naviga “a vista”, galleggia appena con esportazioni discontinue, mentre il “volano” della spesa per le infrastrutture non può avviarsi, poiché la crisi ha drenato risorse per il misero welfare nazionale.
Grandi opere come il Ponte sullo Stretto od il programma nucleare continuano a procedere sulla carta, ma nella realtà è difficile ipotizzare una loro partenza effettiva, poiché il debito pubblico continua a salire e la speculazione non aspetta altro che di poter colpire l’euro in un Paese più significativo, non la Grecia od il Portogallo. C’è da dire che, una crisi italiana sul modello greco, significherebbe probabilmente l’abbandono della moneta unica da parte della Germania e la fine dell’esperimento monetario europeo.
Il che, non sarebbe scevro di rivolgimenti politici e probabilmente di separazioni – più o meno “consensuali”, più o meno pacifiche, più o meno definitive – proprio perché il crollo della moneta unica non sarebbe, come molti ritengono, un semplice ritorno alla possibilità di svalutazione della Lira. Potrebbe essere un altro incubo, con i grandi fondi internazionale lanciati al ricatto della moneta italiana (o spagnola, o belga, ecc).

Per evitare simili scenari – questo è il “merito” che Tremonti, unilateralmente, si attribuisce – è stata varata la strategia del “congelamento”, ossia del puro e semplice mantenimento dello status quo. In quest’ottica, si può capire l’assenza di un ministro per le Attività Produttive lunga un semestre – impensabile in altri Paesi – perché, tanto, c’era poco da programmare e da decidere.
Silenziosamente, dalle dimissioni di Scajola, Tremonti ha provveduto a “drenare” le risorse di quel ministero, a dirottare fondi, per mantenere adamantina la visione dell’uomo che “mantiene i conti in ordine”.
Certo, avere a che fare con un Presidente del Consiglio più dedito al bunga-bunga che alla cura della nazione non aiuta, al punto che la nomina del successore di Scajola cade su un ex dipendente Mediaset, Paolo Romani. Come a dire: mettiamo su quella poltrona un uomo simile al famoso detersivo “che non graffia”.

Da qui, discendono “accordi” come quello raggiunto alla FIAT, che sono principalmente diretti a conseguire due obiettivi: mostrare la determinazione liberticida del Governo allo “zoccolo duro” dei ricconi che sicuramente lo voteranno sempre, il 20% della popolazione, ed a mostrare i muscoli nei confronti delle organizzazioni sindacali che s’oppongono.
Sull’altro versante – siccome il costo del lavoro nella produzione di un’automobile partecipa per un misero 7%, e dunque lo spostamento di qualche pausa o quota di straordinario od altro ancora non potranno mai compensare le deficienza organizzativa e la pochezza, in termini di know how, del gruppo – la mancanza di un piano industriale, d’innovazione, di ricerca (sommato al gap “storico” che la FIAT sconta nei confronti dei competitori nel mercato) è un occhio strizzato alla futura speculazione immobiliare sulla “città dismessa” che diventerà Mirafiori. Con, non dimentichiamolo, gli Agnelli che affilano le lame e gli Elkann che fanno altrettanto: Margherita Agnelli è già in causa con i figli!
Cosa si può fare, oggi?

In questo scenario, con questi attori politici, con questa impostazione dell’economia, con questi poteri forti che la controllano, è presto detto: nulla. All’Italia servirebbe probabilmente una rivoluzione “bolivariana” o qualcosa di simile, perché ci sono troppi paradigmi che dovrebbero essere cancellati tout court per risollevarla.
Voglio, però, ricordare che questa situazione non è figlia dell’oggi, e che qualcuno già ci rifletteva parecchi anni or sono.

Nel 2004, quando uscì il mio Energia, Natura e Civiltà: un futuro possibile? (Giunti Editore), per una caso della vita una persona mi propose d’inviare una copia a Romano Prodi, fornendomi il suo indirizzo privato. A margine, voglio ricordare che – con una simile procedura – ne inviai una copia anche all’allora parlamentare dei Verdi Grazia Francescato: il libro fu rifiutato ed il pacco ritornò a me intonso. Tanto per dire come s’informano, al modico stipendio di 19.000 euro il mese.

Prodi, invece (all’epoca, era Presidente della Commissione Europea), gentilmente rispose sottoponendomi alcune critiche e proposte, che non svelerò perché non è educato rivelare la corrispondenza altrui.
Cosa proponevo nel 2004?
Le stesse cose che continuo a ripetere da anni: l’unica via per mutare la situazione dell’asfittica economia italiana è attingere, finalmente, alle decine di miliardi di euro che l’Italia ogni anno spende per l’approvvigionamento energetico. Siamo in una “forbice” fra i 30 ed i 60 miliardi l’anno, secondo i consumi, il variare dei prezzi ed i rapporti di cambio fra le monete: in ogni modo, una montagna di soldi.

Nel dettaglio, prospettavo un forte balzo in avanti dell’eolico e due settori di ricerca che, nel medio periodo, sarebbero potuti diventare dapprima dei progetti pilota, quindi delle fonti alle quali attingere: le caldere dei vulcani a magma basico e le correnti sottomarine.
La programmazione del piano energetico sarebbe dovuta rimanere in mano pubblica, mentre la realizzazione delle varie fasi poteva essere affidata ad una holding composta dai “fiori all’occhiello” della tecnologia e dell’imprenditoria italiana: FIAT, OTO Melara, Italcantieri, Ansaldo, ecc.
Agendo in questo modo, ci sarebbero state importanti “ricadute” sull’industria nazionale in termini di know how e di realizzazioni d’impianti anche all’estero, come un tempo avveniva per molte aziende italiane oltre, ovviamente, alle realizzazioni per l’Italia, Paese tributario dall’estero, ricordiamo, per più dell’80% del proprio fabbisogno energetico.
Vorrei precisare che, all’epoca, la situazione era diversa rispetto all’oggi: solo per citare un esempio, il solare termodinamico di Rubbia era solo alle prime fasi di sperimentazione, non una realtà come oggi. Dunque, un piano energetico dei nostri giorni potrebbe assommare più settori ed essere diverso rispetto a quello del 2004.

Ricordo che conclusi la lettera con un avvertimento – già si sapeva che Prodi sarebbe tornato in Italia, per sfidare Berlusconi alle elezioni del 2006 – che suonava pressappoco così “gli esami di riparazione sono stati aboliti (all’epoca, così era), perciò il centro-sinistra deve stare molto attento alle proposte che farà e, se eletto, a cosa realizzerà: gli elettori potrebbero bocciarlo senza possibilità d’appello.”
Fui facile profeta.

Aprendo una breve parentesi, qualcuno addossò quel fallimento al fragile equilibrio al Senato, frutto della “porcata” di Calderoli, dei vari tradimenti (sempre IDV, De Gregorio) e della solita campagna acquisti di Berlusconi con il consueto corollario d’attricette e roba del genere. E’ in parte vero, ma solo in parte.
Quello che mancava era una proposta politica chiara, e non solo sull’energia: la querelle dei PACS e del mancato adeguamento alla tassazione europea (20%) dei redditi da capitale (fermo, in Italia, al 12,5%), racconta due diverse vicende, nelle quali furono sempre le stesse persone a bloccare tutto, le stesse che oggi tengono sotto scacco il PD.

Come tutti sanno, il PD nasce dalla fusione fra parti di ex democristiani e di ex comunisti: un aborto spontaneo o procurato? E’ l’unico dilemma.
Oggi, non si parla più di “volar alto”, bensì di riuscire almeno ad avere una posizione comune sulle vicende politiche ma quei “veti”, che affossarono i provvedimenti necessari per riequilibrare la tassazione a favore dei redditi più bassi e da lavoro, sono gli stessi.
Personaggi come Fioroni si capisce fin troppo bene cosa stiano a fare nel PD: lavorano per l’amico Casini, per bloccare qualsiasi iniziativa non piaccia al Vaticano od alle classi di reddito medio alte, come un tempo bloccarono i PACS (un simbolo) o, più prosaicamente, il tentativo di riequilibrare la tassazione fra capitale e lavoro.
Oggi, cosa blocca un percorso che potrebbe portare ad una maggior indipendenza energetica e ad un maggior reddito per gli italiani, derivante dagli investimenti nel settore?

Sempre le stesse persone, che solo apparentemente stanno nell’opposto schieramento: difatti, Casini è un fervente nuclearista come la solita, stessa fazione nel PD. Fazione che, se trasmigrasse da Casini, non comporterebbe nessun crollo elettorale per il PD: per questo restano, e solo gli sciocchi come Rutelli emigrano.
Dopo aver compreso perché il centro-sinistra non può avere una posizione chiara sulle scelte strategiche, torniamo all’energia.

In questi mesi, parecchie volte sono stati menzionati gli accordi fra Berlusconi e Putin in chiave energetica: South Stream, gas metano, ecc, giungendo a supporre l’interesse personale di Berlusconi in quegli affari.
La cosa, conoscendo il personaggio, non stupirebbe più di tanto: è spesso consuetudine che si “ungano” gli ingranaggi politici con puro grasso di petrolio, e non si capisce proprio perché Berlusconi dovrebbe essere l’eccezione.
La cosa grave è che, tutti questi aspetti – senz’altro veri, in toto od in parte – nascondono una grossa variabile, forse la parte più significativa della questione.
Chi è l’ENI?
Perché all’Italia, nazione sconfitta nella 2° G.M., fu consentito d’avere una compagnia petrolifera nazionale?

Sarebbe inutile, in questa sede, approfondire temi ancora oggi controversi: bisogna però riconoscere che – senza l’assenso americano a De Gasperi – la vecchia AGIP di fascista memoria sarebbe stata liquidata e l’ENI non sarebbe mai nata.
Le cause della nascita dell’ENI furono molteplici: la presenza di giacimenti in Paesi africani precedentemente colonizzati dall’Italia, che poteva dunque favorire le compagnie americane per le molte conoscenze “in loco” degli italiani, ed una probabile contropartita per la cobelligeranza.
Il successivo tentativo “indipendentista” di Mattei fu fermato come ben sappiamo: Mattei interpretò il copione in modo troppo personale, credendo che l’Italia fosse effettivamente un Paese indipendente. E le sette sorelle rimisero a posto gli equilibri petroliferi del Mediterraneo: costò pochi chilogrammi d’esplosivo.
Oggi, l’ENI, quale posizione ha nei confronti delle energie rinnovabili?

Per bocca di Paolo Scaroni, suo Amministratore Delegato, afferma[1]:

Noi pensiamo che a breve, con le tecnologie esistenti e con quello che sappiamo fare, le rinnovabili, sostanzialmente eolico e solare, rappresenteranno forzatamente una cosa piccola. Proprio per questo noi, come Eni, investiamo in ricerca, in particolare sul solare, e siamo convinti che solo una scoperta tecnologica rivoluzionaria può far sì che le rinnovabili diano un contributo importante al nostro fabbisogno energetico.”

Letto fra le righe, sembra una campana a morto e, se si riflette sui tempi “biblici” per la realizzazione della centrale termodinamica di Priolo Gargallo, così è: l’ENI, chiacchiere a parte, non ha nessun interesse ad incrementare la quota delle rinnovabili.
Anche quel richiamo sulla “scoperta tecnologica rivoluzionaria” sa un po’ di “raggio della morte” di fascista memoria oppure di Nikola Tesla dimenticando, però, che gli studi più interessanti di Tesla sull’energia, se esistono, sono stati secretati dagli USA e tuttora lo sono. Perciò, chi ne parla può anche far bene a ricordarlo, ma sono soltanto illazioni: Tesla fu senz’altro un genio ed un pioniere dell’elettrotecnica, ma gli studi sulla captazione e sulla trasmissione dell’energia che (probabilmente) compì sono, a noi, ignoti.
La vicenda fa probabilmente il paio con i paritetici studi di Einstein sulla teoria dell’unificazione dei campi, carteggio risalente agli anni intorno al 1925, del quale Einstein stesso ordinò la distruzione pochi giorni prima di morire.
Di conseguenza, chi cerca di deviare l’interesse verso fumose “fonti” che non si sa nemmeno se esistono realmente, finisce per fare il gioco di Scaroni: non si capisce perché non si possa attuare ciò che abbiamo e che già conosciamo, più che sufficiente per il fabbisogno planetario. Vorrei ricordare che la sola fonte eolica potrebbe fornire 4 volte l’attuale fabbisogno mondiale: fonte? L’ENEL, che riporta uno studio dell’Università di Standford. E il sole? L’acqua? Non raccontiamo balle.
Allora, se l’ENI le racconta “soavi”, andiamo a vedere perché lo fa.

Strutturalmente, l’ENI è una società quotata in borsa e, dunque, parrebbe un’azienda privata ma, ma…lo Stato, ossia il Ministero dell’Economia, controlla una quota superiore al 30% del pacchetto azionario, suddivisa fra il Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti. Per inciso, la Cassa Depositi e Prestiti fa capo principalmente al risparmio postale.
Ma, ma…oltre alla consistente quota azionaria, l’ENI conserva la cosiddetta golden share[2] (letteralmente, “quota dorata”) che consegna, praticamente, nelle mani dei Governi i destini delle aziende “privatizzate”, poiché consente ai Governi di nominare nei Consigli d’Amministrazione membri aggiuntivi con ampi poteri.
Che la golden share sia il solito pateracchio fra liberalismo (di facciata) ed interesse politico e lobbistico (reale), si vide con la cosiddetta “tassa sul tubo” di qualche anno fa, trasformata poi in un semplice prelievo di denaro, da parte del Tesoro, dalle casse di ENI ed ENEL.
Prelievi, è bene ricordarlo, che non sono finalizzati a precise voci di bilancio, a specifici progetti verificabili, bensì (come il prelievo di 3,5 miliardi dal fondo TFR dell’INPS) sono inseriti indistintamente come attivi di bilancio.
A quel punto, si scatena la lotta fra i vari dicasteri per acchiappare tutto quel che si può: con quei soldi, si finanziano i mille rivoli del sottogoverno e della marcescente finanza locale. Esempi?

I circa 900, fra parenti e sodali, inseriti dal sindaco di Roma Alemanno nelle varie società controllate dal Comune di Roma, rappresentano proprio la personificazione, la tangibilità del perverso “giro” petrolio>prelievo pubblico>voci di spesa sui bilanci pubblici>ritorno sotto forma di voti. In quel caso, fu usata come tramite la legge per “Roma capitale”.
Il medesimo percorso fu quello che condusse allo scontro fra il Ministro Carfagna e il Coordinatore campano del PdL, Cosentino, sulla destinazione dei “fondi speciali” per la “soluzione” (ah! ah! ah!) del problema dei rifiuti in Campania: in realtà, quei soldi serviranno nella prossima campagna elettorale per il Sindaco di Napoli, e chi riceverà più soldi nominerà i suoi sodali nei posti chiave, dai quali partirà la “raccolta” elettorale.
Ciò che fa sorridere, è che tutte queste operazioni portano l’imprimatur (anche) dei “controllori padani”. Bossi? Prrrr…

Vogliamo un ulteriore esempio di contraddizione fra il benessere della popolazione e gli interessi dell’oligarchia?
Tu, cittadino, fai pure tutte le attività virtuose che ritieni giuste per limitare la quantità di rifiuti: raccolta differenziata, separazione della frazione umida, ecc.
Noi, Stato, variamo una legge che consente ai comuni di calcolare la tassa sulla spazzatura sui soli metri quadrati della tua casa, che tu li abiti tutti oppure in parte, che tu faccia un quintale di spazzatura il giorno oppure mezzo chilo.
Perché, vedi, se tu produci poca spazzatura, si riduce il “giro” dei camion e delle discariche, dal quale ricaviamo voti e tangenti. Hai capito che, per noi, che tu produca sempre più spazzatura è una necessità ineludibile, vero?
Poi, faremo tutte le campagne di stampa e gli spot che vorrai… – se li faremo sulle reti del nostro Capo meglio ancora, così ci guadagnerà qualcosa per i suoi bunga-bunga – insomma…faremo tutto quello che ci farà apparire belli e puliti ma tu, ci raccomandiamo, getta più che puoi e paga. Questo è ciò che conta: soprattutto, paga.

Riassumendo, la classe politica può rischiare di privarsi di un sicuro cespite di reddito – destinato principalmente al binomio sottogoverno/voti – per approvare piani di sviluppo industriali (energie rinnovabili) i quali, pur diventando – nel medio-lungo periodo – delle fonti di reddito per gli italiani più sicure, finirebbero per rendere più indipendenti gli italiani stessi dalle anticamere dei notabili politici?
Ossia, il voto sarebbe più per scelta ed “appartenenza” che per convenienza?

Una simile, scellerata gestione dell’economia e della cosa pubblica può avvenire soltanto perché, a differenza d’altri Paesi, le famiglie italiane sono meno indebitate e, anzi, conservano al loro interno sufficienti risorse per sopperire al lavoro “a singhiozzo” e/o sottopagato dei giovani. Già, fino a quando?
Per ora, la tendenza sembra ancora quella scellerata di voler “mobilizzare” le risorse interne alle famiglie: da un lato con la vera e propria rapina che rappresenta l’aumento iperbolico di gabelle, che si moltiplicano per tutte le amministrazioni. Con l’eventuale approvazione del cosiddetto “federalismo”, si stima – per i redditi medi – un aggravio di spesa di 900 euro l’anno.

Su un altro versante, si prospetta il “mattone” come unica soluzione sicura per chi ancora conserva i frutti delle passate stagioni industriali, quando – a fronte delle produzione diffusa e con sindacati che non erano proprio scesi all’ultimo scalino – qualcosa si riusciva ancora a risparmiare.

Nella nostra follia, consumiamo territorio[3] a ritmi apocalittici:

“…l'equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005.”

Perché lo facciamo?
Avevo chiarito questo aspetto in un altro articolo – La guerra di Cementland[4] – ma, sinteticamente, riassumiamo per due motivi: mantenere altro il “sacro” PIL e far credere agli italiani che quelle case siano, in realtà, “ricchezza”.
In realtà, continuando a costruire cubature pari a 10 volte l’aumento della popolazione (considerando gli immigrati, perché il saldo dei soli italiani è negativo o prossimo allo zero), prima o dopo la legge della domanda e dell’offerta comincerà a far sentire la sua inesorabile tagliola. Già oggi, il puro mantenimento dei caseggiati e degli appartamenti ne consiglia la vendita: e, qualora, il fenomeno si generalizzasse? Assisteremmo, di botto, al crollo dei valori immobiliari: decenni passati ad ammassare cemento per nulla.

Concludendo, impegniamo risorse, tempo ed energie per costruire “cose” che non servono a niente mentre, per un perverso “giro” contabile che deve consentire la sopravvivenza dell’attuale classe politica, ci guardiamo bene dal programmare ed investire in settori quali l’energia, l’agricoltura di qualità ed il turismo, che potrebbero realmente migliorare le nostre vite.
Non a caso, proprio nei settori indicati, ci sono stati “ignavi immobiliari” (Scajola) – non so chi mi ha comprato casa! – poi sostituito, dopo molti mesi, da un ex dipendente Mediaset che ne sa di attività produttive quanto io conosco il cinese. L’Agricoltura è una “poltrona a rotazione”, con risultato finale sempre identico: zero, mentre al Turismo c’è una ragazza che, come palmares, può presentare la sua attività di “giornalista” (ah! ah! ah!) nei locali notturni di dubbio gusto. A coronamento del tutto, due veri “professionisti”: Bondi (mai passato per un’esperienza amministrativa di teatri, gallerie et similia) e la Gelmini, che non ha insegnato un sol giorno. Andem ben.

Su tutto, a regnare su questo panorama da incubo, le prime pagine dei giornali che si strusciano un giorno dopo l’altro sotto le lenzuola della villa di Arcore, per scoprire se Ruby Rubacuori, quando e se la dava, aveva oppure no 18 anni.

I tunisini hanno dimostrato d’essere maggiorenni: noi, più che minorenni, sembriamo minorati.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

13 gennaio 2011

Una storia già scritta



Non ho la minima idea su chi vincerà il referendum di Torino: a naso, mi verrebbe da dire che vincerà il sì, soprattutto perché il polpettone sindacale è stato ben cucinato, con tutti di attributi del caso, politici, economici, di comunicazione.
La vittoria del sì o del no, però, non ha nessuna importanza perché il destino di Torino è già segnato da tempo, dalla constatazione che l'industria automobilistica mondiale ha un surplus di produzione pari a circa un terzo. Un'automobile su tre è di troppo, e la quota di mercato della FIAT diminuisce di anno in anno.
Ciascuno dovrà sacrificare qualche pezzo, affinché il “sistema automobile” possa almeno sopravvivere, ed è sin troppo evidente – dopo la “difesa nazionale” germanica di Opel – che sarà l’Italia a pagare: anche con l’azzeramento di tutti i diritti, la cosa non sta in piedi perché manca totalmente un piano industriale credibile.

Ad ascoltare il fabulatore Marchionne, non s’ha l’impressione d’avere di fronte un manager di levatura internazionale, bensì uno spacciatore rionale d’auto usate: vestito con camicia a quadri azzurri, cravatta gialla, calzini cremisi e mocassini di pelle marrone, sarebbe perfetto per illustrare le “meraviglie dell’usato” presenti da Autocannata, concessionaria FIAT di Corso Orbassano o di Corso Allamano. Finanziamenti, leasing, ritiro dell’usato e garanzia sul venduto. Auto aziendali, chilometri zero, vi offriamo anche un caffè ed un viaggio in pullman a Borghetto Santo Spirito, con pasta allo scoglio compresa.
Il nostro bravo pusher di scatole di sardine sa benissimo che, nemmeno pagando la gente 800 euro il mese e facendola lavorare in turni di 10 ore, potrà mai compensare il “gap” con la Serbia o con il Brasile.

Tutto il teatrino, messo in scena a Torino, è dunque solo una farsa: sono altri i termini della contesa.
Ciò che deve andare in porto è l’ennesimo salasso, questa volta ai danni dei lavoratori dipendenti privati: la prossima sarà di nuovo per quelli pubblici, e via a giro, oggi a me e domani a te.
Il nuovo “metodo FIAT” sarà esportato rapidamente in tutte le fabbriche italiane, soprattutto in quelle che ancora reggono sul mercato: la robotica, le macchine di processo, ecc. Il compito dell’accordo FIAT è solo quello di fare da apripista: poi, Mirafiori finirà nel cesso ugualmente.

“Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.”

Questo lo raccontava Reinhold Würth, imprenditore tedesco che costruì, partendo da una ferramenta dopo la 2° G.M., un’azienda di levatura internazionale, che attualmente occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari. Uno che d’aziende che funzionano se n’intende.

I tedeschi, pur con qualche aggiustamento – la possibilità di rimandare le ferie se il momento è favorevole per produrre, ed altro – non sono venuti meno al loro stile, ossia non hanno permesso al modello statunitense d’approdare sulle loro coste: ricordiamo che il “modello tedesco” ha alla sua base ben altri salari ed un ben diverso stato sociale.
Hanno subito riconosciuto la polpetta avvelenata, che finisce per depotenziare e demotivare tutti: dal manager all’operaio.
Noi, invece, per bocca del Capo del Governo, accettiamo qualsiasi boccone avvelenato che ci venga proposto, basta accontentare chiunque sia il padrone del momento.

Per questa ragione, non ha nessun senso ragionare sui termini dell’accordo di Mirafiori, perché alle spalle manca totalmente una visione d’insieme: cosa produrre? perché? quando? come?
Solo fuffa, spacciata ai quattro venti dai parvenu del sindacato che anela a qualche posto nel sottogoverno berlusconiano e – purtroppo – mal compreso dal sindacato che spera sempre in qualche posticino nel minuscolo apparatino del poterino bersanianino.

Oramai, le lotte si vincono e si perdono soltanto sul modello greco o tunisino, non con l’aria fritta sindacale.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

10 gennaio 2011

In morte di Devid



La normalità è spesso citata come un attributo, minore, della sorella maggiore: la modernità. Entrambe dovrebbero, in simbiosi, significare per tutti la garanzia dei diritti fondamentali primari, quali acqua, cibo, indumenti ed un riparo. In seconda battuta protezione sanitaria ed istruzione.
Dovrebbero.

La modernità, concetto assai spinoso da definire, dovrebbe identificare un compendio di diritti e di doveri garantiti dai cardini dell’accezione moderna della civiltà: la Carta fondante dell’ONU, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, l’Habeas Corpus.
Nelle singole nazioni, poi, vi sono ulteriori diritti e doveri codificati nelle costituzioni: le nazioni che non intendono garantire nulla, non perdono tempo a scrivere testi costituzionali.
Anche la normalità, dunque, può avere un’accezione positiva, e dunque non è soltanto l’anticamera della noia o del mal di vivere.
Oggi, viene spesso citata l’efficienza come necessario complemento alla moderna normalità: concludendo, la vita moderna si nutre di prassi normali, le quali hanno successo soltanto se sono efficienti.
Bene.

Di questi tempi – come tantissimi italiani – sto correndo fra un ospedale all’altro, per mia madre e per mia suocera.
Nel reparto d’ortopedia e traumatologia del grande ospedale dov’è ricoverata mia suocera, al completo degli effettivi ci sono quattro infermieri/e ed un/una caposala.
Due infermieri/e si occupano della pulizia dei pazienti (molti anziani) mentre gli/le altri/e due sovrintendono alle terapie. Il/la caposala, invece, s’occupa della burocrazia del reparto: accettazioni, dimissioni, cartelle cliniche, ecc. Se ne occupa fra una chiamata e l’altra dei pazienti: chi ha male, chi si lamenta, chi chiede un calmante, chi vorrebbe telefonare, ecc.
L’impressione generale – mutuata dal gergo popolare – è quella di cinque persone che corrono con lo scopino nel sedere.
Nei giorni festivi, invece, il reparto è praticamente dimezzato ed il medico di guardia, se qualcuno ne ha bisogno, è praticamente una chimera.
Questa è la situazione che tutti abbiamo constatato negli ospedali, dove il livello delle prestazioni è calibrato al minimo indispensabile: basta il minimo intoppo – un paziente che sta molto male, ad esempio, che rischia la vita – e tutto s’inceppa.
Il livello della spesa sanitaria, invece, cresce: perché?

Poiché, nonostante le piante organiche non prevedano ampliamenti, vengono messi in cantiere progetti per ospedali faraonici, sui quali sarà facile lucrare altrettanto regali tangenti: business is usual.
La protezione sociale diffusa, invece, è garantita da: Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Provinciale e Polizia Municipale.

Con un simile spiegamento di forze, dunque, nulla dovrebbe sfuggire nelle nostre vie e nelle nostre piazze: scommetto che, se un giovane magrebino se ne va a zonzo con qualcosa di lungo ed ingombrante in tasca – poniamo uno spazzolino da cesso appena acquistato, oppure un cucchiaio di legno per girare la minestra – sarà, successivamente, fermato e perquisito da Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Provinciale e Polizia Municipale.
Ci sono, poi, le “ronde” garantite dall’Esercito nelle piazze delle principali città e dovrebbero esistere anche le ronde dei volontari, che hanno tenuto banco per mesi nel dibattito politico – uniformi? armi? simboli politici? – per poi scivolare nel nulla. Ad oggi, pare che l’unica città in Italia ad aver organizzato qualcosa sia Varazze.
Eppure, Devid Berghi è morto.

E’ morto in Piazza Maggiore a Bologna, è morto mentre la sua famiglia bivaccava nell’atrio della Borsa, del simbolo della ricchezza, dell’opulenza, della moltiplicazione della ricchezza e dell’opulenza.
Tanti si chiedono il perché.
La risposta è semplice.
La minaccia è sempre esterna, è sempre fuori da noi, è sempre diversa da noi. Si fa riconoscere con chiarezza come il magrebino con lo scopino da cesso in tasca, che viene scambiato per una bomba atomica. “Sporca”, ovviamente.

Tutti gli assassini italiani vengono difesi a spada tratta da amici, parenti e conoscenti: “è un bravo ragazzo”. Quante volte l’abbiamo sentito?
Eppure, che Devid – un italiano, figlio d’italiani – sia morto per il freddo in Piazza Maggiore a Bologna è una “notizia” perché disturba quel sano, quieto e giusto vivere degli italiani protetti da Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Provinciale e Polizia Municipale.
Sorvegliati, qualora ne avessero bisogno, dai loro sind…ah, scusate: Bologna non ha un sindaco perché s’è fatto acchiappare con le mani nel sacco, una vicenda di soldi e sesso, sesso e posti in Comune o nelle controllate…come il suo collega Alemanno a Roma. Anche qui, business is usual.

La Commissaria Prefettizia però ci tiene a dire la sua[1] e racconta che la famiglia era stata contattata per ricevere un aiuto. Messaggio lanciato agli italiani: sono sporchi, scopatori folli ed ingrati, che rifiutano anche l’aiuto – disinteressatooooooo! – del Comune.
Già, salvo che – lo stesso Comune – il giorno dopo avrebbe inviato le prodi assistenti sociali, le quali avrebbero informato il giudice minorile, il quale avrebbe sentenziato che no, che quei bambini non potevano rimanere in custodia a dei genitori scellerati, incapaci di provvedere alla prole.
Ecco perché la famiglia si guardava bene dall’accettare la polpetta avvelenata. Ma, chiediamoci, quale reato ha commesso la famiglia Berghi?

Non ha sufficienti mezzi per provvedere alla prole.
Ma se sprechiamo ogni anno un miliardo e passa di euro per ammazzare la prole altrui – prima in Iraq, oggi in Afghanistan, ieri nei Balcani – sarà proprio vero che non troviamo qualche migliaio di euro per salvare una famiglia? Forse hanno problemi relazionali, addirittura psichici: e allora? Rupe Tarpea?
Non si trovano proprio le poche migliaia di euro per salvare una famiglia?
E si trovano senza problemi 4 miliardi l’anno[2] per mantenere l’esercito delle auto blu, al quale nemmeno il nanerottolo della disfunzione pubblica è riuscito a metter freno?
Le auto non sono molto importanti, così come per quelli che li mandano contano poco le morti dei nostri soldati inviati all’estero in missioni “di pace”, alle quali non credono più nemmeno Cappuccetto Rosso, la nonnina e persino il lupo.
Ciò che contano sono i volani.

Con il volano delle guerre si mette in moto la colossale macchina delle forniture militari – quante inchieste aperte? – mentre con quello delle auto blu s’acchiappano 60.000 voti sicuri, quelli degli autisti, con la monnezza quelli dei camionisti controllati dalla camorra, con i “risparmi” sulla Sanità s’ottengono ottimi “rivoli” di tangenti, utili per rimpinguare le casse dei partiti, comprare voti pagando mutui e quant’altro e fornire, all’occorrenza, ottimo umor di vulva utile ad ingentilire ed ammaliare concupiscenti funzionari, ministri e presidenti.
Poi, i soldi per il welfare mancano – eh, che ci volete fare…colpa della congiuntura economica, della crisi, del petrolio, del dollaro, dello spread… – e noi li stiamo pure a sentire, in quel loro vaneggiare sul sesso degli angeli.

Oggi, di Angelo, n’è rimasto uno solo: si chiama Devid, e tutti voi che sedete su quegli scranni dovreste coprirvi i capelli di sterco.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

08 gennaio 2011

Ci tocca



Nonostante la nostra non sia proprio una vita dorata: non abbiamo auto blu che c’accompagnano da un ospedale all’altro per cercare, almeno, di garantire delle condizioni di vita accettabili per i nostri cari, non abbiamo autisti che accompagnano a scuola i nostri figli su auto blu e nemmeno 19.000 euro il mese per fare il fancazzista in Parlamento…eppure, ci tocca occuparci di Chicco Testa, delle sue follie nucleari, delle sue menzogne, delle sue poi nemmeno troppo velate minacce[1] per chi lo contrasta.
Del suo compare Franco Battaglia c’eravamo già occupati anni fa, chiamati dal gestore del sito Progettomeg, dove Battaglia spadroneggiava falsando cifre e comunicando dati inenarrabili, per convenienza e disinformazione: bastarono un paio d’interventi, una sequela di dati e di fonti autorevoli per tacitarlo.

Veniamo allora al nostro “nuclearista di sinistra”, ex ENEL, ex un sacco di cose dove s’acchiappano soldi a palate, che adesso – doverosamente – si presta a fare la sua parte per sostenere il progetto nucleare di Sua Emittenza il Cavaliere, il quale ha perduto – purtroppo – il suo miglior scudiero: Scajola da Imperia, il quale fu scomunicato e privato dell’atomic Excalibur per aver conquistato senza gloria un castello da 900.000 euro.
Non faremo pubblicità a Chicco Testa, al suo sito ed al blog, che ha ignominiosamente aperto per mostrare quanto siano ingenui la maggior parte dei commentatori: un gioco arguto, al termine del quale il nostro Chiccolino cerca di dimostrare quanto siano ignoranti gli altri ed intelligente lui.
Provi ad incrociare la sua lama con i samurai, invece di prendersela con i contadini.

La solfa è sempre la medesima: com’è bello il nucleare, quanto costa poco e non inquina, le scorie non sono un problema, tanta energia a basso costo, risparmieremo tanta CO2 e così via. Una partita a scacchi, finanziata (da chi? ENEL ed EDF) che sembra così soft…così “democratica”…e nasconde la protervia della peggior campagna televisiva marca Biscione.
Lasciamo perdere le nequizie di Testa di ENEL/EDF, e sottoponiamo alcuni semplici dati.

Prendiamo come esempio la centrale finlandese di Olkiluoto (la più moderna, ancora in costruzione): i due reattori che la comporranno (?) forniranno una potenza di picco pari a 1.600 MW. Al costo?
Il costo finale (?) è oggi stimato in 5,7 miliardi di euro, ma c’è da attendersi che saliranno ancora, perché ad ogni passo c’è una nuova difficoltà, una rottura, un malfunzionamento[2].
Al termine (?) della fatica, cosa fornirà Olkiluoto?
Ammettendo in pura via teorica che la centrale funzioni per un anno alla massima potenza – non è vero, ma prendiamolo per buono – Olkiluoto fornirà in un anno 14.016 GWh.

Lo stesso investimento, nell’eolico, quanto fornirebbe?
Considerando aerogeneratori da 5 MW sistemati in mare su piattaforma, con 3.500 ore/anno alla massima potenza (dati CESI, basso Adriatico), ad un costo di 1,250 milioni di euro a MW installato – +25% rispetto alle installazioni a terra, ma senza considerare gli ovvi risparmi per la costruzione in larga scala – si potrebbe installare un “campo” d’aerogeneratori con una potenza di 4.560 MW.
Un simile campo d’aerogeneratori fornirebbe, in un anno, 15.960 GWh, più della tanto strombazzata centrale finlandese.

Uno dei “punti forti” che Testa strombazza è la bassa incidenza dei costi del combustibile, ossia dell’Uranio. Noi, abbiamo fatto più in fretta: manco li abbiamo considerati!
Se vogliamo però essere precisi, aumentiamo i costi del nucleare, rispetto all’eolico, del 6%.

Una centrale nucleare, dopo circa 25 anni, necessita di aggiornamenti che sono, praticamente, una ricostruzione: non lo dicono mai, perché quei costi li scaricano sulla fiscalità generale oppure, in Francia, pagano i militari.
I moderni aerogeneratori (non i primissimi tipi) non si sa nemmeno quanto durano, perché continuano a funzionare per decenni e la manutenzione è minima. Dopo decenni, al più, si sostituisce il rotore, mentre quello vecchio può essere ricondizionato e riutilizzato.
Altra balla: l’eolico è discontinuo.

Se parliamo di un singolo campo eolico è vero ma, nel caso di tre campi eolici – Adriatico, Sardegna, Canale di Sicilia, ad esempio – le condizioni di vento possono essere le stesse? Qualsiasi velista lo sa.
E la centrale nucleare? La notte, un sistema così complesso, può ridurre la produzione per “seguire” la richiesta? Falso.

Se vogliamo parlare seriamente d’energia, affrontiamo il problema della discontinuità, che può essere risolto con il pompaggio in quota dell’acqua nei bacini idroelettrici, in alternativa producendo Idrogeno per autotrazione, oppure come riserva ad uso elettrico sulla rete (celle a combustibile).
Soprattutto, non cerchiamo con mezzi e mezzucci di truffare ancora una volta gli italiani per meri scopi di “bottega nucleare.”

Se i dati che ho citato sono considerati falsi o faziosi, si portino argomentazioni serie e si discuterà: se, invece, Chicco Testa preferisce usare gli stessi metodi con i quali minacciò Mario Tozzi, si accomodi.
Basta un “chiamo” e sono da lui: wakarimasu, Testa-San?

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

04 gennaio 2011

Possibile? No, probabile



Suscita quasi l’ilarità ascoltare le dichiarazioni di Sergio Marchionne[1] – no, possibile Serge Marchionnì no, probabile Sergy Marchionny – perché sono lo scivolamento sul nulla: solida lastra d’acciaio? Possibile. Sottile strato di ghiaccio sull’abisso? Probabile.
C’è un piano industriale della FIAT per il futuro? Possibile. Non si deve saperne nulla? Probabile.

“Un leone usa tutta la sua forza per uccidere un coniglio” – sentenziava nel Medio Evo nipponico Mijamoto Musashi – ma l’assegnazione delle parti non è ancora decisa. Sembra probabile una FIOM in versione coniglio ed un Marchionnone con gli artigli pronti – “senza il sì, si chiude Mirafiori” – ma tutto sta nella capacità di reazione della FIOM, che potrebbe ribaltare il canone. Possibile?
La posta in gioco non è soltanto la questione FIAT, bensì la grande “questione lavoro” italiana iniziata con la legge Treu, proseguita con la legge 30/Biagi: oggi si presenta il conto con il tandem Marchionne/Sacconi, appoggiato dalle seconde linee Bonanni/Angeletti.
Sono a confronto due linee di pensiero completamente antitetiche: la versione “savana selvaggia” dei quattro compari approdati alle chimere del berlusconismo rampante (in fase di ristrutturazione centro/destra/sinistra con o senza Berlusconi), in contrapposizione al modello europeo del mercato del lavoro.

Per mandare a quel paese tutte le fesserie di Marchionne, basterebbe rispondere ad una domanda: da quando è stata inaugurata (da Treu in poi) la nuova “stagione” nel mercato del lavoro, le cose – per gli italiani (sottratti Marchionne e i quattro scalzacani che lo seguono) – sono andate meglio? Raffiniamo la domanda: sottraendo gli azionisti e gli attacché al governo, gli italiani hanno ricevuto benefici?
Basterebbe ricordare che, il direttore dell’INPS, non osa pubblicizzare i futuri piani previdenziali dei giovani perché ci sarebbe da attendersi una rivolta (parole sue): tutto finirebbe lì!
L’obiezione dei Marchionnini è che, senza quelle riforme, le cose sarebbero potute andare anche peggio: ci sembra, tutto sommato, un sillogismo da osteria.
Potremmo obiettare – fra un bicchiere di bianco ed un caffé – che il se ed il ma (in Toscana) sono il pane dei grulli, e dunque un vaso dei fiori poteva cadere sulla mia testa, su quella di Marchionne o su quella del tandem “riformista” sindacale. In quel caso, data la pochezza della materia grigia presente, un solo vaso sarebbe già stato letale.

Marchionne, poco elegantemente, si sottrae all’obiezione che la FIAT, in pratica, con i soldi che ha preso dallo Stato dovrebbe essere una public company come la Régie Renault. Dice “perché non li ha chiesti lui”. Beh, però se li è ritrovati. Possibile? No, probabile.
Lamenta la fatica di correre per il mondo a “cercar soldi”, ma non spiaccica una parola sui futuri piani industriali del Lingotto: perché?
Poiché tutta l’operazione sembra centrata sull’ennesimo “prendi i soldi e scappa”, in questo caso negli USA.

Chrysler non è di proprietà FIAT: gli stabilimenti Chrysler sono di proprietà del fondo pensione dei lavoratori. Dunque, anche Chrysler è assimilabile a qualcosa che non è frutto di quel capitalismo “puro e duro” che Sergino vuol far credere: in buona sostanza, gli americani – forti dei capitali dei fondi pensione – sono inattaccabili, mentre per l’Italia è pronta la parte della Corea di turno. Anzi, Malesia? Possibile. Zimbabwe? Probabile.
Il topolino, scaturito dalla montagna dei quattro moschettieri da strapazzo, è semplice: ricattare l’Italia al punto da farla lavorare per un tozzo di pane gettato sotto il tavolo dei potenti.
Per questa ragione non ci sono progetti per auto di nuova generazione – saputo, Serge, che è già pronto il Kangoo elettrico? – e nemmeno la FIAT mostra interesse per un fenomeno che sarà senz’altro in crescita: le piccole auto elettriche per il car sharing urbano.

Su “Repubblica”[2] – visto che il neo pretendente alla poltrona di sindaco di Torino è Fassino, il quale ovviamente concorda con Marchionne al 100% – si sperticano nel giudicare una “buona speranza” il fatto che, dunque…la quota di mercato FIAT di Dicembre 2010 è “solo” in calo dell’1,9%, mentre quella annua è del 2,7%...dunque…c’è da ben sperare. Come un tizio al quale diagnosticano: lei non ha la broncopolmonite, solo la polmonite. Orsù: gioisca.
Sempre Repubblica[3], si dichiara “soddisfatta” per la buona accoglienza che ha ricevuto il titolo FIAT all’apertura dei mercati: un “balzo” da 15,43 a 16 euro. Ammette che gli analisti s’aspettavano una quotazione a 16,80 ma, tanto per dare una mano alla coppia Marchionne/Fassino, va bene così.
Questo si chiama giornalismo finanziario “de no antri”, poiché i listini – in un solo giorno – non raccontano nulla sul piano delle scelte strategiche di un’azienda! Vediamo almeno la prima trimestrale?
Probabilmente, la difesa dei valori costituzionali è una “lotta ad ore” per il giornalismo radical-chic di sinistra: la difesa dei principi sul lavoro, esposti nella Costituzione – pare di capire – succede sempre nei giorni “no”.

Niente da fare: quando sono in gioco gli interessi della borghesia, nazionale ed internazionale, possiamo leggere gli stessi articoli sugli stessi giornali che si fanno la guerra per questo o per quello, per Berlusconi o contro Berlusconi. E’ quella che già Marx definì “la sostanziale unitarietà delle borghesie”, e non possiamo che riconoscerla come tale.

Sacconi rincara la dose[4], con una serie di sofismi che lo qualificano come l’ultimo giapponese dell’atollo berlusconiano (al quale è stato tolto il tappo): il grande male – secondo il nostro Jaruzelski da strapazzo – sarebbero gli accordi sindacali del 1993: aboliti – oh, finalmente! – sembra tirare un respiro di sollievo, dimenticando che su ogni accordo manca la firma, da mesi e mesi, del principale sindacato italiano. E che, alla sinistra della CGIL, sono sempre più forti i COBAS e la FIOM.

Sacconelski s’ostina a definire “modernità” il “superamento” di quegli accordi, come fossero rottami dell’ancien régime: vorremmo ricordargli che la stagione dei grandi “entusiasmi”, susseguenti il Congresso di Vienna del 1815, durò pochissimo. Di lì a poco, fu tutto un fiorire di costituzioni, concesse od estorte con la forza.
Se tutto va bene, madama la marchesa, non si capisce proprio perché il centro di Roma sia stato messo a ferro e fuoco dai dimostranti un pomeriggio qualunque, oppure perché cresca ogni giorno la parte d’italiani che si dicono schifati al pensiero di votare. O ancora, che un partito quasi nato dal nulla – piaccia o non piaccia Vendola – giunga ad incassare proiezioni di voto vicine all’8%: sono tutti sintomi che il sistema sta traballando.
Qualcuno dirà: governeranno lo stesso. Risposta: la citazione di Jaruzelski non è stata casuale.

Tirando le somme, Marchionne aspetta il momento giusto per trasformare la FIAT nella “bad company” di Chrysler – altrimenti non si capisce perché s’ostini a non pubblicizzare il piano industriale dell’azienda – mentre Sacconi aspetta che qualcuno gli dica come si farà a tirare avanti con un paio di voti di maggioranza – altrimenti non si capisce come mai la Lega mandi sempre più evidenti segni d’insofferenza – ed entrambi sperano d’avere abbastanza tempo per portare a termine i loro fini. Che, non dimentichiamo, sono semplicemente quelli di continuare ad impoverire la gran parte degli italiani per arricchirne pochi.
Possibile? No, probabile.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.