“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia”William Shakespeare –
Amleto – Atto Primo – Scena Quinta.
Continuando di questo passo, siamo certi che Giulio Tremonti scoprirà che le galline fanno le uova e che le rose profumano. Dandogli ancora tempo, arriverà a capire come facciano le mucche e fare il latte e, magari, perché il Sole scalda.
L’uomo del Monte x 3 non la smette mai di stupirci; va là – italiani! – ve lo dico io come si vive meglio: con il posto fisso
[1]! Lo crediamo bene: lui ce l’ha!
Adesso che abbiamo risolto tutto con il posto fisso, forse non ha più senso parlare di reddito di cittadinanza, d’energia rinnovabile, di truffa sulla moneta…non serve più a niente…oppure sarebbe meglio proporre schede gratis per i telefonini e una moratoria per tutte le infrazioni stradali causate dall’alcolismo? Dai, Giulio.
Ma…sbagliamo o questo Giulio Tremonti è la stessa persona che, solo un anno fa, firmò i famosi decreti dei “100 giorni”, quelli che hanno visto nascere, nella scuola, le classi di 30-40 persone e che hanno cacciato sulla strada decine di migliaia d’insegnanti? O abbiamo sognato? Il sospetto che ci siano in giro dei replicanti – signori miei – a questo punto non è più fantasia.
Oppure, nel miglior stile sovietico, Giulio ha fatto autocritica. Comprendiamo.
Non va più di moda sbattere la gente in Siberia…no…però – a questo punto – vorremmo vedere i fatti. Altrimenti, il replicante che parlava al convegno della Banca Popolare di Milano – facendosi credere il Ministro dell’Economia della Repubblica – in una baita sopra Sondrio dovrebbe andarci da solo. E restarci.
Il lavoro non è un argomento “gettonato”, eppure trascorriamo spesso più tempo al lavoro che con i nostri familiari: ora, se a parlare di lavoro è uno scrittore, passi, ma quando a farlo – ed in modo così esplicito! – è un Ministro dell’Economia, dovrebbe trarne le conseguenze. Oppure scegliere la parte d’Amleto e recitarla fino in fondo, sempre che riesca a reggere il ruolo.
Siccome non crediamo una parola delle riflessioni del nostro bel Amleto da Sondrio, proveremo noi a parlare di lavoro: come sappiamo farlo, visto che non siamo ministri economici.
Come si può parlare di lavoro, di quel che è diventato il lavoro, di cosa potrebbe (e dovrebbe) essere il lavoro, sul perché lavoriamo, per quanto tempo, come…
Quante ore fai? Quanto prendi? Ti fai il culo?
Ecco, forse in questo modo tutti capirebbero – come fanno in TV, che la vincono sempre – però il Web è il luogo dove pochi, fra quelli che non sanno leggere un grafico, arrivano: dunque, parlare di lavoro senza le pelli di salame agli occhi, dovrebbe essere ancora possibile. Sempre che s’abbandoni la triplice domanda appena esposta.
Il primo aspetto da valutare, per quanto riguarda la natura del lavoro, è il fabbisogno energetico: più è elevato, meno lavoro manuale esiste. Le immagini dei cinesi che costruivano le strade a forza di braccia sono oramai storia, come le nostre di quasi un secolo fa: difatti, anche il loro fabbisogno energetico è schizzato alle stelle.
La gran parte dell’energia consumata va a sostituire la forza muscolare umana ed animale, mentre una quota certamente minore viene utilizzata per sostituire l’intelligenza umana, dai semplici computer alla miriade di schede elettroniche utilizzate nelle macchine di processo, ossia nell’enorme “cascata” tecnologica che, partendo dalla macchina che vernicia automaticamente le autovetture, giunge alla macchina che ha costruito quella macchina.
Il fenomeno è noto e possiamo analizzarlo meglio partendo da un dato relativo agli ultimi 30-40 anni: l’occupazione nelle grandi imprese è scesa all’incirca di un punto percentuale l’anno, mentre la produttività è cresciuta pressappoco del medesimo valore.
Senza spilluzzicare i decimali, potremmo semplicemente affermare che le macchine fanno le cose più in fretta dell’uomo e costano di meno: perciò, gli uomini dovrebbero lavorare sempre di meno. Non me lo invento io: basta rileggere Marx, invece ci viene chiesto di lavorare sempre di più. E poi manca il lavoro: per forza! Se lo fanno le macchine…
L’equilibrio ha retto fin quando il capitalismo di matrice keynesiana ha vissuto, ossia fino alle grandi ristrutturazioni industriali degli anni ’70, giacché la “spinta” sindacale era sorretta da molti fattori, quali il gran numero di lavoratori sindacalizzati, l’assenza di un’informazione pianificata in modo spietatamente orwelliano, la presenza di 160 divisioni sovietiche di là dell’Oder.
Ciascuno di quei fattori aveva il suo peso e contribuiva a destinare ai lavoratori una quota consistente dell’aumento di produttività, che si trasformò per decenni in diminuzione dell’orario di lavoro ed in aumento reale delle retribuzioni, mentre il trattamento previdenziale ed assistenziale era sicuramente più favorevole rispetto all’oggi ed a quello che il futuro prospetta.
Se vogliamo scendere un attimo fra gli esempi, ricordiamo che la sanità era praticamente gratuita, che in ospedale s’andava anche “per analisi”, ossia per stilare una diagnosi precisa, e non solo per nascere, per morire o per qualche accidente improvviso. Oggi, ti fanno correre come un pazzo fra le varie strutture, e ti paghi praticamente tutto.
Il trattamento previdenziale era diversificato fra il settore pubblico e quello privato, ma in ogni modo molto vantaggioso rispetto all’oggi: nel pubblico, le famose “pensioni baby” erano un espediente della classe politica per salvaguardare la fedeltà dei ceti medi, mentre chi aveva lavorato nel settore privato – ed aveva iniziato a lavorare presto – a circa 50 anni terminava la propria vita lavorativa, giacché bastavano 35 anni di contribuzione.
Da ultimo, la generazione nata negli anni 20-30 del ‘900 riuscì spesso ad acquistare o costruire una casa, a far studiare i figli, a concedersi quello che oggi è considerato quasi un lusso: due o tre settimane di vacanza, magari in tenda o roulotte, ma vacanze erano.
A fronte di quella situazione – idilliaca, se paragonata all’oggi – il debito pubblico era attestato intorno al 60% del PIL: quindi, quando narrano che sono stati lavoratori le “idrovore” del bilancio pubblico, raccontano solo frottole.
Il punto di “viraggio” di quella situazione possiamo allocarlo fra il 1980 ed il 1990: l’elezione di Ronald Reagan non fu la causa scatenante del processo di mutamento, bensì il suo giungere a maturazione.
La “Guerra Fredda” aveva concesso enormi investimenti alla ricerca militare, soprattutto per quanto riguardava la miniaturizzazione dell’elettronica (missili, ecc), la quale fu gran dispensatrice di una nuova gestione del lavoro, nel quale la fatica umana diventava un nemico da sconfiggere non tanto per questioni etiche, quanto perché meno redditizia. Difatti, proprio negli anni ’80, la FIAT assorbì la COMAU (robotica industriale) e, dopo pochissimi anni, segmenti importantissimi delle catene di montaggio (si pensi alla verniciatura, con quel che si trascinava appresso per problemi di nocività) furono completamente automatizzati.
Fin qui l’aspetto tecnologico e produttivo, che toccava ogni ambito del lavoro, dall’agricoltura ai servizi, passando – ovviamente – per l’industria, i trasporti, la sanità, ecc.
Rimaneva il problema di non cedere più i benefici della maggior produttività ai lavoratori, e non era faccenda così semplice da risolvere.
L’aspetto internazionale del problema è stato, a nostro avviso, poco valutato: ricordiamo che Enrico Berlinguer, prima delle elezioni del 1976, candidamente affermò che «
se il PCI avesse vinto le elezioni, l’Italia sarebbe stata naturalmente schierata nel Patto di Varsavia.»
Ovvio che quella frase non può essere presa per oro colato – i mezzi per ovviarla erano molti, il Cile insegna – però la presenza sovietica nel Pianeta richiedeva sempre attenzione sul fronte interno.
Il grande “sogno” di un nemico sconfitto e nella polvere fu realizzato dall’amministrazione Reagan, mentre – precedentemente – la “trappola afgana” di Brezinskji ne aveva creato i prodromi. La fulminea, nuova impostazione americana della difesa – ricordiamo la “Marina delle 600 navi” – condusse l’URSS ad aumentare le spese militari fino al 16,5% del proprio PIL, mandando a catafascio la programmazione sovietica. Zeppi d’armi di tutti i tipi, con l’industria pesante completamente assorbita a costruire “bisonti” di cielo, mare e terra, i russi attendevano per mesi il motore di ricambio per il frigorifero, ed imprecavano.
Terminiamo qui la trattazione dell’aspetto geopolitico del problema – non perché manchino gli argomenti! Le spese militari che giunsero al 7% del PIL statunitense (UE circa 1-2%) con inevitabili ricadute, la “liberazione” al capitalismo selvaggio di tante nazioni prima legate al carro di Mosca, che si rivelò un boomerang proprio per l’industria a stelle e strisce, ecc… – e ci fermiamo qui soltanto perché ci condurrebbe lontano dai nostri obiettivi.
Gli eventi di quegli anni – l’avvento dell’elettronica a basso costo, il crollo dell’URSS, la nuova “informazione libera”, che solo oggi osserviamo nella sua completa acquiescenza al potere – crearono le basi per il passaggio a quello che viene definito “Turbocapitalismo”, “Liberismo selvaggio”, eccetera.
La differenza precipua, rispetto al capitalismo di matrice keynesiana, risiede in un semplice principio: il lavoratore non è più considerato un attore del processo produttivo, non deve accampare diritti, le rappresentanze sindacali possono essere comperate un tanto al chilo od ignorate, nel nome del supremo interesse nazionale. Il che, incrina quella “
repubblica fondata sul lavoro” che recita il primo articolo della Costituzione, giacché i Costituenti pensarono al mondo del lavoro come ad un universo dialettico, non un diktat determinato dal “supremo interesse nazionale”, che sa tanto di Ventennio.
Ovvio che questo “interesse nazionale” è un pio eufemismo: si tratta della somma fra gli interessi delle classi dominanti (finanza, industria, ecc) e di quelli dei loro lacché, la Casta politica. Il che, apre uno scenario che riguarda il debito pubblico.
A metà degli anni ’70, il debito pubblico iniziò a “correre”: ovviamente, la colpa fu addossata ai lavoratori (scala mobile, ecc), mentre sfuggì completamente che l’Italia aveva moltiplicato a dismisura la spesa pubblica non nella fornitura di servizi alla collettività, bensì per creare un vasto elettorato – fedele poiché retribuito – mediante la de-localizzazione.
La riforma regionale del 1970 doveva decretare la fine delle Province – della serie: o l’impianto di stampo napoleonico (Province), oppure quello di matrice tedesca (Regioni), poiché mantenerli entrambi sarebbe stato troppo costoso – ed invece avvenne il miracolo. Le Province furono “salvate” assegnando loro una “quota” del personale scolastico (un vero e proprio non sense) ed altre competenze che riguardavano la caccia e la pesca. Di più: nacquero le comunità montane e le circoscrizioni, altre idrovore di soldi pubblici.
Per citare un solo esempio, prima della polverizzazione delle competenze, sul fiume Po aveva voce in merito un solo ente: il Magistrato del Po. Oggi, sono 28 diverse amministrazioni, con il gran caos che ne consegue.
Infine, poiché ancora non bastava, ecco spuntare una miriade di fondazioni ed enti – alcune già esistenti, altre creati ex novo – per avere una sorta di “cassa di compensazione” per i “trombati” oppure per parenti, amici, mammasantissima di turno. Tutto ciò, lo possiamo osservare ogni anno nel consueto “assalto alla diligenza” che è la Finanziaria: ridotti al lumicino i provvedimenti d’assistenza sociale, si moltiplicano le “fondazioni” che ricevono denaro, la stampa pagata direttamente dalla politica, ecc.
Si tratta del necessario frutto per nutrire un elettorato fasullo, certo della propria sicurezza sociale soltanto grazie al voto ed all’appoggio politico: anche le famose pensioni d’invalidità, di democrista memoria, sono tornate a crescere.
In fin dei conti, solo 30 italiani su 100 si sono recati, alle ultime elezioni europee, a sorreggere i partiti di governo: sommiamo tutta la Casta con i suoi aggregati (fondazioni, enti inutili, consulenze, ecc) famiglie, parenti ed amici e capiremo che una buona fetta di quei voti sono comprati.
E il lavoro? E i lavoratori?
Il primo passo, sconfitto l’orso sovietico, fu quello di fare man bassa per tutto ciò che c’era d’appetibile: la famosa “riunione” sul Britannia è storia nota, meno le condizioni di quello che fu “appetito”.
La Società Autostrade – finanziata per decenni dall’ANAS, soldi pubblici, di noi tutti – era una fiorente società pubblica: basso indebitamento, occupazione in calo dell’1% l’anno (tessere autostradali al posto degli esattori, poi Telepass), bilancio ampiamente in attivo: passata di mano per un piatto di lenticchie.
La barzelletta che hanno raccontato per decenni fu che lo Stato, in economia, era uno sfracello: difatti, si guardarono bene dal privatizzare ciò che non conveniva o doveva mantenere un ruolo sociale. Oggi, tentano nuovamente la stessa carta, con le continue pressioni per privatizzare Italcanieri, un’azienda pubblica, florida ed in espansione. Zeppa di “posti fissi”, quelli che oggi – 19/10/2009, teniamolo a mente, magari domani cambiano replicante… – piacciono tanto a 3Monti.
Dopo quelle belle trovate – siccome lo Stato s’era privato di fonti di reddito, ed i boiardi di Stato reclamavano ampia “libertà d’impresa” – giunsero gli accordi sindacali del 1993, i quali sancirono anch’essi il principio del “supremo interesse nazionale”.
Il recupero salariale dell’inflazione fu affidato alla cosiddetta “inflazione programmata”, la quale fu una presa per i fondelli come mai se n’erano viste: “programmo” un tasso d’inflazione (lo desumo dalle analisi dei “guru” economici, me lo faccio dire dal Mago di Forcella, lo invento di sana pianta…) e la differenza sarà – in seguito (!) – recuperata. Ovvio che, quel “seguito”, assommava altra inflazione ed altre perdite di valore delle retribuzioni le quali, dalla fine della scala mobile, hanno perduto circa il 30%, forse più, del loro valore reale.
Tutti gli attori di quella sciagurata rapina ai danni dei lavoratori furono sontuosamente premiati: l’artefice (Ciampi) con la Presidenza della Repubblica, mentre quelli che facevano il “palo” (i sindacalisti venduti) con le presidenze di “succosi” enti. Ma non bastava ancora.
Si narra che l’appetito vien mangiando: ecco allora – benedetto da tutti: Treu, Maroni, Bassanini, Sacconi, ecc – il grande escamotage per privare i lavoratori dell’ultimo appiglio che rimaneva loro per mettere insieme il pranzo con la cena: il contratto di lavoro. Entra in scena la “flessibilità”: come?
Si prende un accurato studio sul lavoro svolto da un docente universitario (Biagi), si opera un sapiente “taglia ed incolla” per prendere tutto ciò che può essere favorevole agli imprenditori e s’eliminano tutte le garanzie per i lavoratori. Quando, poi, il professore si lamenta che il suo lavoro è stato stravolto, che non era quello il frutto del suo pensiero, lo si abbandona e gli si toglie la scorta. Lui, ancora si lamenta perché ha ricevuto minacce: a quel punto, delle “provvidenziali” Brigate Rosse lo ammazzano e, quello che è oggi Ministro delle Attività Produttive (Scajola), lo definisce un “rompicoglioni”. In qualsiasi Paese europeo, un simile elemento – dopo un’uscita del genere – non sarebbe mai più entrato in un’aula parlamentare, ma siamo in Italia.
Ha così inizio l’odissea di tanti giovani, i quali non hanno più ferie pagate, accantonamenti pensionistici, liquidazioni: il bello della faccenda è che, sulla carta, questi diritti ancora esistono mentre, nella realtà, sono stati completamente depotenziati. Quale sarà la pensione di un lavoratore a progetto? Ha solo da sperare nell’assegno sociale.
A quel punto, il disegno d’appropriarsi totalmente degli incrementi di produttività era quasi completato: mancavano ancora due tasselli.
Il primo è la necessità di un vasto sottoproletariato, qualcuno che sia ancor più ricattabile e sul quale (possibilmente) scaricare la rabbia e la frustrazione: ecco all’orizzonte le barche dei migranti, i nuovi schiavi non si devono più rastrellare nella savana! Basta dar fuoco alla savana: arrivano da soli!
Nell’agro casertano e nel foggiano, in agricoltura, si sono consumate pagine da piantagione dell’Alabama del secolo scorso, con tanto di guardiani armati. La stampa qualcosa ha riportato
[2], ma basta qualche velina, più il solito rumeno delinquente (al pari del delinquente italiano), per saldare tutti i conti. Mica i giornalisti delle testate di regime e delle TV di partito li strapagano per niente.
Una volta trovato qualche milione di capri espiatori, ecco la nuova puntata: bisogna aumentare l’età della pensione! I conti sono in rosso!
In realtà, prima della controriforma Damiano, l’INPS era in attivo per la parte previdenziale di 1 miliardo di euro l’anno, dopo la riforma Damiano (dati 2007) per ben 17 miliardi di euro. Eppure, altre nubi s’addensano sui lavoratori: l’ultima “puntata” del reality pensionistico è stato portare (da oggi al 2018) a 65 anni l’età di pensionamento delle dipendenti pubbliche. Perché solo quelle pubbliche? E’ ovvio che, giuridicamente, non sta in piedi. La risposta di Sacconi (ma…parlerà con Tremonti? Con quale dei replicanti? Boh…) è stata molto interessante e ci apre uno scenario che, per la definizione odierna di “lavoratore”, è quasi un incubo.
«Perché hanno un lavoro sicuro.»
Ora, stabilire che chi ha un lavoro sicuro debba lavorare più di altri ci sembra un poco stiracchiato, giacché – con questa bella uscita – si fa passare il concetto che un lavoro sicuro sia quasi un privilegio. Da oggi, grazie al buon Giulio, sappiamo che è tornato una buona cosa. Ne siamo felici.
Eppure, lavorare semplicemente tutta la vita (se lo si desidera) in un’azienda, non ci sembra chissà quale concessione: milioni d’italiani delle generazioni precedenti l’hanno fatto. Erano anch’essi privilegiati?
Il furbo Sacconi vuole far credere che il lavoro “normale” – quello che tutti dovrebbero avere, perché “giusto”, “coerente” con lo sviluppo infinito della spirale produzione/consumo, utile a mantenere “giovane” il lavoratore perché vive stimoli sempre nuovi, ecc – sia quel claudicare fra un lavoretto di qualche mese ed un “progetto” di settimane. Il tutto, ovviamente, inframmezzato da periodi di disoccupazione: chi non gode di questo trattamento è un privilegiato, e dunque deve pagare dazio. Purtroppo, questa è stata la vulgata imperante fino a ieri, giacché tutti i media e le forze politiche lo sorreggevano, ma da oggi...
La Costituzione Italiana prevede ben altro per il lavoratore, e pare che il buon Giulio – recatosi da Napolitano per altre questioni – ne abbia ricevuto una copia in omaggio e, finalmente, l’abbia letta. Sentitamente, ce ne rallegriamo.
Ecco quel che Tremonti deve aver scoperto:
Art. 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la liberta di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.
Art. 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa e stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Art. 37.
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
Art. 38.
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera.
A leggere questi articoli, c’è da chiedersi in quale Paese viviamo. Signor Presidente della Repubblica: cos’ha da dire al riguardo dei contratti di flessibilità, con l’art. 36 – “
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi” – correlato con gli attuali ritmi del lavoro “flessibile”, nel quale le ferie sono, spesso. semplice disoccupazione?
Signori giudici della Corte Costituzionale, cos’avete da dire riguardo all’art. 38 – “
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” – in special modo per chi rimane disoccupato? E ancora, l’art. 35 – “
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” – dov’è finita la dignità di mantenere la propria famiglia con 800 euro il mese?
Adesso, caro Giulio, affermi che “
la Costituzione non è stata pienamente applicata”: scusa, da una ventina d’anni a questa parte, dove hai vissuto? E le pensioni?
Le riforme pensionistiche italiane (sempre con la scusa del debito pubblico, da loro creato ad hoc, sul quale campano tutti: politici, imprenditori e banchieri) sono peggiori di quelle francesi e tedesche, le quali hanno sì l’età della pensione a 65 anni, ma sono completamente diverse come impianto generale.
In Francia, ad esempio, si può andare in pensione a 60 anni (uomini e donne) scegliendo un minor assegno, mentre in Germania, chi ha avuto periodi di disoccupazione, può andarci a 61 con una riduzione della prestazione. Ovviamente, queste riduzioni sono calcolate sulle loro retribuzioni, ben diverse dalle nostre.
Qualcuno sa, ad esempio, che la maternità in Europa rientra nel calcolo previdenziale, con la riduzione dell’età pensionabile (in genere, un anno per figlio)? Che in Spagna si va in pensione a 61 anni con 30 anni di contributi?
Porre de iure un numero d’anni di lavoro, altrimenti non si potrà andare in pensione – in Italia! – è una barzelletta: quanti anni di lavoro perso, in nero, con truffe d’ogni genere hanno subito gli italiani? Dopo aver chiuso un occhio su tutte le nefandezze del passato, nel 2007, Damiano pose l’asticella a 37 anni di contribuzione per il 2012. Mettere insieme 37 anni non è proprio da tutti, e così si lavora fino a 65: un bel trucco delle tre carte. Se qualcuno, nel frattempo, crepa è tutto grasso che cola per le loro pensioni da nababbi, maturate in 36 mesi, non anni. Compresa quella di Giulio.
Dunque, privare il lavoratore della possibilità di scegliere – almeno nell’arco 55-65 anni, con diverse opzioni sulla fuoruscita: orario ridotto negli ultimi anni, assegno decurtato, ecc – ci porta fuori dal concetto di previdenza e ci fa entrate in quello di “fine pena”, che ha a che fare più con una condanna penale che con il “lavoro” immaginato dai Costituenti.
Senza quasi rendercene conto, per foraggiare i ceti che li sostengono, ci hanno condannati – tutti – a 37 anni: perché? Non avendo mai affrontato, colpevolmente ed in mala fede, la separazione della previdenza (pensioni) dall’assistenza (ad esempio, la cassa integrazione), è ovvio che nei periodi di “vacche magre” si deve allungare la vita lavorativa per far cassa, da destinare ai miseri sussidi che percepiscono i disoccupati.
Quando, poi, tornano periodi di vacche…diciamo “non fameliche”, perché “grasse”…l’appetito del ceto politico reclama la sua parte, e viene immediatamente compensato trasferendo gli aumenti di produttività al gran calderone della spesa pubblica (soprattutto periferica), mediante la quale – con la consueta pratica tangentizia – campano tutti, imprenditori e politici.
Di là degli aspetti morali o delle pruderie, cos’ha mostrato la vicenda di Berlusconi, delle “escort” e di Tarantini? Che, nel “libro paga” sessuale del faccendiere pugliese della sanità, c’erano tutti: assessori di Vendola compresi. E chi ha pagato migliaia di euro alla D’Addario? Noi, con le nostre tasse: per questa ragione tutti devono essere “soddisfatti”, perché una voce fuori del coro farebbe saltare la baracca.
L’ultimo afflato è quello di legare l’età della pensione all’aspettativa di vita, perché qui s’oltrepassa un altro limite.
"
Art. 600 (Riduzione in schiavitù o in servitù):
Chiunque riduce una persona in schiavitù o in servitù è punito con la reclusione da otto a venti anni. Agli effetti della legge penale si intende per schiavitù la condizione di una persona sottoposta, anche solo di fatto, a poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, o vincolata al servizio di una cosa. Agli effetti della legge penale si intende per servitù la condizione di soggezione continuativa di una persona costretta mediante violenza, minaccia o abuso di autorità all'accattonaggio o a rendere prestazioni sessuali o lavorative. La pena è aumentata se i fatti di cui al primo comma sono commessi a danno di minori di anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione".[3]Riflettiamo un attimo sui termini dell’art. 600:
Agli effetti della legge penale si intende per servitù la condizione di soggezione continuativa di una persona costretta mediante…abuso di autorità…a rendere prestazioni…lavorative.
Se in Italia esistesse ancora un sindacato – ossia, se tutte le forze sindacali avessero pari dignità, e non solo la “Triplice” + l’UGL le quali, a parte la CGIL, sono soltanto dei centri servizi e non hanno quasi più seguito sindacale – queste decisioni dovrebbero derivare da accordi stipulati fra le controparti. E non potremmo sostenere quel “
abuso di autorità”.
Se, invece, gli accordi sono una truffa, i referendum confermativi pure – al referendum per l’approvazione della “Riforma Damiano” non riuscii a votare, perché aprirono i seggi solo in luoghi “sicuri” – rimane solo l’imposizione de iure, appena camuffata.
Quando il bel faccione di Bonanni compare in televisione – “segretario della CISL” – nella vulgata imperante quello è un segretario sindacale: nel loro database
[4] indicano gli iscritti alla CISL nel 2008 in un numero spropositato: 4.427.037. Se fosse vero quel dato, un quarto dei lavoratori dipendenti italiani sarebbero tesserati CISL! Ma chi credono di prendere in giro? Per mettere insieme un simile numero, non basta conteggiare i morti: si deve aggiungere anche il cane del morto!
Se, invece, credete che queste siano balle, guardate i collegamenti in nota su Youtube
[5], con una precisazione che riguarda la oramai “nota” imparzialità di questo network: un paio d’anni or sono, erano presenti filmati tratti dalle assemblee interne della FIAT Mirafiori, dove si vedevano i sindacalisti della “Triplice” fuggire dalla presidenza dell’assemblea, incalzati dagli insulti degli operai. Ovviamente, quei filmati sono oggi introvabili, mentre campeggiano decine di filmati “embedded” dei sindacati di regime.
Per il disastro del sindacalismo italiano vale lo stesso discorso fatto per i politici: la grande finanza li ha fatti accomodare nel salotto buono, dove se ne stanno tranquilli e buonini, mentre a prendersi le randellate del liberismo ci vanno altri, quelli che dovrebbero difendere. Stessa cosa per i servizi legali della “Triplice”, che riescono a farti perdere anche le cosiddette “cause vinte in partenza”.
La componente sindacale attiva, oggi in Italia, è rappresentata soltanto da una minoranza della CGIL e, soprattutto, dai COBAS-SdL: l’unica voce che ancora parli il linguaggio dei lavoratori.
Per finire, ricordiamo che Guglielmo Epifani faceva parte della “componente socialista” della CGIL – e lo ha ricordato recentemente Gianni de Michelis “
Alla Cgil c’è Epifani, che nel PSI è sempre stato alla mia destra, prima demartiniano poi craxiano”
[6] – accomunandolo per appartenenza politica ad altri “socialisti” dell’epoca: Brunetta, Sacconi, Cicchitto. C’è bisogno d’aggiungere altro? Con quale spirito il buon Epifani affronterà una trattativa, avendo come controparte gli amici di un tempo?
Per queste ragioni, che sono soltanto la somma di combine economico-politiche del medesimo ceto, si calpestano i diritti del lavoratori e la Costituzione – caro Giulio, che oggi cerchi di fare lo gnorri – precipitando chi lavora nell’incubo di chi è oramai senza diritti e senza nessuno che possa farli valere: un servo.
Legando la vita lavorativa all’aspettativa di vita, non apparteniamo più all’universale dei lavoratori – ossia diritti e doveri, codificati ed accettati dalle parti – bensì a quello dei servi, e gli oligarchi potranno (fosse la prima volta, ricordiamo i falsi dati promulgati da Brunetta sulle assenze nel pubblico impiego, smentiti dall’ISTAT stessa) “inciuciare” per bene i dati per farci lavorare quanto desiderano.
Indicare un numero di anni fisso per accedere alla pensione, non tiene in conto le differenze fra gli italiani: c’è chi preferirebbe andarci prima con un assegno minore, chi dopo con più soldi. Da cosa dipende? Da moltissimi fattori: avere oppure no una casa di proprietà, le condizioni di salute, figlio o non figli e di quale età, problemi personali, desideri personali, ecc. In fin dei conti, si riduce la diversità fra gli esseri ad una tabula rasa, nella quale tutti devono scontare la stessa pena. E, non dimentichiamo, con uno sviluppo tecnologico che tende a ridurre fortemente la forza lavoro.
E, questa, in che altro modo si può chiamare se non servitù?
Dopo aver fatto a pezzi anche la Costituzione, c’è stato qualche risultato positivo? Il debito pubblico è tornato a correre (andiamo verso il 120% del PIL), l’industria italiana è a pezzi, manca totalmente la capacità di promuovere la ricerca e l’innovazione – che, ricordiamo, era in gran parte patrimonio delle grandi aziende pubbliche (nomi come Ansaldo e tanti altri non dicono nulla?) – mentre, un Paese di vecchietti al lavoro e di giovani disoccupati, affonda.
La totale acquiescenza ai desideri dei poteri industriali e finanziari, non produce migliorie: sicuri di poter ottenere sempre una “revisione” al peggio degli accordi, gli imprenditori italiani guardano più all’accordo con la Casta politico-sindacale che a cercare nuove vie. In altre parole, invece di percorrere la via dell’innovazione – la quale è praticabile solo con personale di qualità, e dunque ben trattato
[7] – scivolano a far concorrenza alla Cina od all’India. Il che, è una battaglia persa dall’inizio: difatti, Francia, Germania, e oggi anche la Spagna, non si curano troppo della concorrenza sui beni di scarso contenuto tecnologico od artistico, bensì cercano nuove vie, ossia vendere bene il primato tecnologico, proprio ai Paesi che producono beni di largo consumo.
La cosiddetta opposizione, poi, sul lavoro – che, ricordiamo, è uno degli aspetti più importanti della vita – ha partorito tanti topolini da riempire una fogna. Nessuno degli “oppositori” si pone il problema di fondo: è possibile pensare ad uno sviluppo sempre in crescita, nei secoli dei secoli? Gli infiniti sono soltanto astratti concetti matematici: nella realtà, le Scienze non ammettono processi infinitamente in crescita, giacché il primo fattore limitante (energia, popolazione, cibo, ecc) fa crollare il castello di carte.
Il problema concettuale che gli eredi del PCI si trovano ad affrontare è la revisione del loro pensiero, che da dogmatico non è mai riuscito a diventare dialettico, aperto alla critica: crollata l’URSS, la “chiesa” sovietica, tutto quello che riguardava quel mondo era da dimenticare. Bisognava, ovviamente, trovare una nuova “chiesa” alla quale appartenere: la trovarono nelle ricette liberiste, che tutti sposano da Vendola a D’Alema, da Ferrero a Bersani.
E, per concludere, vorrei proporre una riflessione ai “sancta sanctorum” del signoraggio come unico male: spero di non scatenare un dogmatismo pari a quello dei sostenitori della “crescita infinita”.
Nessuno nega la truffa sulla moneta e, se qualcuno non la conosce, troverà molti siti
[8] che la spiegano (meglio sarebbe leggere ciò che scrisse il prof. Auriti): il problema è un altro.
Stabilito che l’emissione monetaria concede un privilegio, oggi goduto dai banchieri, qualora l’emissione tornasse totalmente allo Stato, esso sarebbe goduto da Berlusconi, Fini, Casini, D’Alema, ecc. Contenti così?
Si porta ad esempio Hitler, che effettivamente riportò la potestà monetaria allo Stato, ma come usò quelle risorse? Qualcuno ricorda, per caso, che condusse la Germania al peggior disastro della sua Storia?
Se il debito pubblico, schizzato alle stelle dopo la riforma regionale, il Britannia, la cessione della Banca d’Italia alle banche private, gli accordi sindacali del 1993, ecc, fosse soltanto un dato economico, potremmo chiederci come risolvere il problema del debito per uscirne definitivamente. In realtà, il debito è stato artatamente creato come una spada di Damocle da presentare, ogni giorno, nel piatto degli italiani. In altre parole, se non ci fosse, lo inventerebbero: l’hanno fatto. E’ un dato politico, non economico.
Nel nome del debito, l’oligarchia riesce a far passare ogni bruttura: possiamo credere che la sanità gratuita degli anni ’70, le pensioni d’anzianità con 35 anni di contributi, l’età pensionabile a 55-60 anni (donne e uomini) dipendessero dall’assenza del debito? E se così fosse, chi ha creato quel debito? Perché?
Qui, bisogna intendersi: nessuno nega che l’espropriazione dell’emissione di moneta abbia creato una voragine, ma la ragione di quella scelta è anzitutto l’arma di ricatto che, nelle generazioni, potranno esercitare sui lavoratori. Perché, ad esempio, non si toccano mai le succose “consulenze”, le missioni di guerra all’estero, gli stanziamenti per le “fondazioni”…e si finisce sempre per limitare il potere d’acquisto dei lavoratori e per togliere loro dei diritti?
Perciò – pur concordando che il problema della moneta esiste, e che deve essere sempre più conosciuto – qualsiasi rivoluzione che ci liberi da questa cappa d’oligarchi non potrà che partire dalla ribellione su due temi convergenti: riportare il lavoro alla sua dignità, sancita dalla Costituzione, e ricondurre i lavoratori alla loro, che significa tornare a sedersi intorno ad un tavolo per avere un rapporto dialettico fra esseri umani, non fra feudatari e servi della gleba. L’alternativa?
Andarsene. Oppure, credere all’ennesimo affabulatore: San Giulio da Sondrio.
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