Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto.
Cesare Pavese
“E correndo la incontrai lungo le scale…”, verrebbe da dire, ma le scale non sono quelle della vita, dei sentimenti: sono solo quelle di un ospedale. Entrambi con il nostro mazzo di fogli in mano: appena firmati dal radiologo, dall’anestesista, dal chirurgo…ancora caldi di timori repressi, d’ansie ricacciate.
I suoi fogli, però, non sono “suoi” bensì della persona che accudisce: è una delle rare badanti italiane, e cerca di far bene il suo lavoro.
«Anzi» – propone – «perché, quando hai finito con le tue peregrinazioni, non mi telefoni e andiamo a mangiare qualcosa tutti e quattro assieme?»
Sulle prime non capisco: io, mia moglie e lei facciamo tre. No: ci sarà anche il “badato”.
Sono perplesso: che senso ha andare a pranzo con una persona che deve essere “badata”, che magari deve essere imboccata e poi…ci sarà con la testa?
«Fidati» è l’unica risposta: «vedrai che sarà una sorpresa.» Tanto per far defluire le tossine ansiogene, incassate in una mattinata d’ordinaria inquietudine ospedaliera, accettiamo. Ed entriamo nel ristorante.
Fa caldo e c’è tanta gente, ma l’atmosfera è allegra: qualche giovane che mangia in fretta, leggendo il giornale, i soliti crocchi d’operai dell’ENEL e delle Ferrovie che s’accalorano nell’ultima discussione, mentre non perdono di vista l’orologio.
Attraversiamo l’umanità gustante per giungere al tavolo, dove un uomo anziano c’attende. La sorpresa è, da subito, quella dell’abito: l’uomo è vestito in modo sobrio ma elegante, con il tocco di classe di chi potrebbe apparire ad una cena di gala indossando una maglietta. Giacca, camicia e cravatta in tono, capelli bianchi ben pettinati, viso ben rasato ed occhiali con montatura dorata: appena giungono le due signore, si alza in piedi come non vedevo fare da tanto tempo, da quando l’educazione e l’arte della cavalleria sono finiti nella discarica del savoir vivre.
Per rompere il ghiaccio leggo, al contrario, la pagina del giornale che stava leggendo mentre ingannava l’attesa; c’è il dibattito su Craxi: ladro non ladro, grande politico non grande politico, eccetera…
Due occhi azzurri mi fissano, dopo le presentazioni, e ricadono sulla pagina del giornale, poi – con un filo di voce, ma senza incertezze – parla.
«Certo che per me, che sono stato da sempre socialista, è un gran dispiacere leggere ancora oggi queste cose, perché nel socialismo ci ho creduto. Mio padre fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano, amico personale di Turati. Quando penso ai politici d’oggi, a Berlusconi…» Scuote la testa.
Non voglio ribattere anche perché non c’è nulla di sbagliato in quanto afferma, così mi limito a dire che anch’io sono cresciuto in una famiglia socialista, così socialista che perse per due volte la casa – durante il Fascismo – perché non accettavano di togliere dall’anticamera le fotografie di Giacomo Matteotti e di Felice Cavallotti.
Roba d’altri tempi, che mi raccontò una bambina di dodici anni con le rughe al volto: una bambina che, pur di tramandare quelle memorie, accettava di soffrire un’altra volta, come se quello che aveva già sofferto non fosse ancora abbastanza.
Andava così: i fascisti entravano, guardavano le due fotografie, non dicevano nulla e se n’andavano. Pochi giorni dopo, arrivava l’ingiunzione di confisca: il fabbricato veniva rapidamente destinato alle attività ricreative per gli iscritti al Partito Nazionale Fascista, mentre prati e campi diventavano piste da ballo, giochi da bocce, campi da calcio…
Per ben due volte – la voce della bambina si tinge di rabbia – riuscimmo a comprare nuovamente una casa ed un po’ di terreno e, per due volte, ci confiscarono tutto.
Così finì la vita di una famiglia d’agricoltori della “bassa”, gente che di certo non scialava, ma alla quale non mancavano mai il pranzo e la cena: emigrazione. Finirono, in affitto, in un vecchio mulino incassato nel fondo di una valle dove il sole compariva poche ore il giorno. Poi la fabbrica, la guerra, la lotta partigiana, di nuovo la fabbrica: tutto per colpa di un altro “nato” socialista, l’ennesimo traditore di un grande ideale.
A. B. – potrebbe essere X. Y. e sarebbe lo stesso: quel che racconto è assolutamente vero, ma non fornirò nessun elemento per identificare la persona. Non è “privacy”, è soltanto il giusto riserbo di chi ancora interpreta il giornalismo come diffusione d’informazione e basta, e non come arma politica o glorificazione di se stessi – non è meravigliato né scosso: di queste storie, ne avrà sentite raccontare chissà quante.
«Guardi, voglio essere franco. Io, Craxi, lo stimai per due soli eventi: quando non consegnò i palestinesi agli americani – la Achille Lauro era italiana, dunque la giurisdizione era nostra, aveva ragione – e quando ebbe il coraggio di rispondere a Gromyko che, se voleva che noi togliessimo i nostri missili da Comiso, che cominciasse lui a togliere i suoi dalla Polonia. Per il resto…» e scuote la testa, fissandomi con due occhi che sono diventati di ghiaccio, fendenti, limpidi come l’acqua di neve.
Dobbiamo interrompere la conversazione perché una signora è giunta al nostro tavolo: ci alziamo – mi ha contagiato, con gran gioia, a stemperarmi nella cavalleria di un tempo – per salutare la donna, anziana ma ben truccata, elegante. Una bella signora d’altri tempi.
Si dicono qualcosa e, educatamente, chiudo l’audio per discrezione ma – appena la signora se n’è andata – torna a fissarmi con quegli occhi che, adesso, sbocciano di frutti maturi e di calore, d’acqua salsa e di tramonti estivi. Pare quasi volersi confessare, con una persona che ha conosciuto da pochi istanti: «Fu una storia d’amore intenso, che durò parecchio: poi, un giorno, lei mi disse che si sentiva troppo amica di mia moglie per continuare, e così finì… »
Mi volto ed osservo la signora, seduta due tavoli più in là: dev’essere stato veramente difficile staccarsi da quel bocciolo, come doveva apparire qualche decennio prima, altro che le misere storie di veline e di escort…
Indovina i miei pensieri, ed aggiunge: «E’ una donna di rara signorilità: ha lavorato tutta la vita ma, nel tempo libero, si dedicava al teatro. Recitava: sapesse come leggeva, in pubblico, poesie e racconti! Una vera e propria Musa…» La osservo nuovamente, e non ho difficoltà a crederlo.
Mentre c’invitano a spostarci ad un altro tavolo, più grande, e ci portano il menu non posso far altro che sovrapporre la raffinata, solo un po’ sfiorita bellezza che abbiamo appena lasciato, con la Contessa.
Già, la Contessa: sono trascorsi molti anni, ma non ho mai dimenticato quel pomeriggio d’Inverno. L’unica circostanza, fortunatissima, che la vita mi riservò per sentirmi – per poche ore – come nel cenacolo di Madame de Warens.
C’era ancora un po’ di neve, anche quel giorno di fine Inverno del 197…non ricordo l’anno. E nemmeno il luogo, che poteva essere Murazzano, Bossolasco, Cravanzana…uno dei borghi “alti” della Langa, quelli sull’antica Via del Sale, la Pedaggera.
Ero stato recapitato in quel luogo da un ansimante furgone Volkswagen, con il quale – da Torino – portavano in quei dimenticati luoghi noi: studenti, disoccupati…per guadagnare qualche soldo con il “porta a porta”. Fu forse l’ultima volta che tentai la fortuna come venditore: vendere shampoo e saponette non era proprio il mio pane.
Così vagavo, poco convinto, fra un viottolo e l’altro, borsa a tracolla e poca voglia di bussare per ascoltare i soliti rifiuti. Poi, decisi per quella porta di noce scuro, con il batocchio di bronzo antico: almeno, pensai, sarebbe stato un nobile rifiuto!
Invece, apparve un viso dolce, appena accarezzato da qualche ruga, che m’invitò ad entrare: capì in un nonnulla cos’ero lì a fare, e mi fece accomodare in una poltroncina foderata con velluto a coste fini, color vinaccia. Poi, mi chiese chi ero e cosa facevo.
Mi presentai e dissi il poco che avevo da dire: ero studente a Torino e, come altri, ogni tanto tentavo la fortuna di riuscire a vendere qualcosa per raggranellare qualche soldo. A dire il vero – aggiunsi – credendoci poco e con scarso successo. Sorrise.
Mi chiese se gradivo un caffè, e s’allontanò.
Solo allora iniziai a guardarmi intorno, e compresi che non ero finito in una casa qualunque: le litografie alle pareti, le statuine di porcellana o di bronzo su antichi tavolini, testimoniavano che quella era una casa antica, di quelle che la Storia l’avevano vista. E, talvolta, l’avevano fatta.
Tornò dopo qualche istante con il vassoio e le tazzine: mentre sorseggiavo il caffè, cercai di capire chi avevo di fronte. Vestita con dimessa eleganza, qualche capello già grigio che striava appena la capigliatura scura, il portamento altero su un corpo formoso, seppur castigato dagli abiti. Portava alcuni anelli alle dita, ma l’impressione che ne ricavai fu che vivesse – sola – in quella magione d’altri tempi.
Fu lei a rompere il ghiaccio, ricordando qualcosa che avevamo in comune: anch’ella aveva studiato a Torino.
Subito dopo aggiunse «Molti anni fa….», tanto per incassare il minimo di galanteria che potessi esprimere «Beh, proprio tanti…» Passò oltre.
Fu in quel preciso istante che iniziò a parlarmi di Cesare.
Sì, di Cesare e basta, con il quale aveva intessuto per molto tempo una lunga amicizia, interrotta e sempre ripresa negli anni, come quel treno di montagna che ansima nelle valli della Langa, e che s’arresta nelle stazioni a prender fiato. Per poi ripartire sempre, ma con calma, per non patire il mal di cuore.
Capii subito a quale Cesare si riferiva: non ce ne sono tanti, da queste parti, a potersi concedere il nome e basta.
Fu però franca, nel confessare che con Pavese era stata una vita d’inferno la sola amicizia: troppo conflittuale e introverso il suo rapporto con l’universo femminile. Sempre desiderato ma mai accolto: quella sete mai placata, che finì per sopraffarlo in un anonimo albergo di Torino.
Per un attimo pensai che avesse qualcosa da recriminare (o da recriminarsi?) per quel ch’era stato, ma fu lei stessa ad indovinare i miei pensieri ed a fermarli, con un sorriso ed un negare del capo.
Saliva, Cesare, ogni tanto saliva da Santo Stefano e sorseggiava il caffè proprio seduto sulla stessa poltroncina dov’ero io adesso: per un attimo, avvertii che le mie natiche urlavano per il disagio.
«Fu tanto tempo fa», concluse, quasi a prevenire il mio imbarazzo.
Raccontò ancora di quei tempi, dopo la guerra, quando l’ideologia univa, amava, odiava, allontanava, soffriva: ma non era l’ideologia a soffrire, bensì erano uomini e donne, carne e sangue sorti dalla terra. E, i più, alla terra tornati.
Forse per dipanare la cappa del passato che stava straripando nel salotto, mi propose di fare una passeggiata in paese: accettai. Potei solo offrirle il braccio, che accettò.
Passeggiando per le antiche viuzze, m’accorsi solo allora di chi avevo al braccio: «Signora Contessa…» «Buonasera Caterina», rispondeva con misura. Gli uomini si toccavano appena la tesa del cappello «Madama…» e lei rispondeva, allora, con un impercettibile chinar del capo ed un timido sorriso.
Giungemmo così alla piazza, dove ci sarebbe dovuto essere il vecchio furgone Volkswagen ad attendermi, ma la piazza era deserta: dovevo esser stato dichiarato disperso sul fronte del marketing.
Quasi per farsi perdonare l’incomodo nel quale ero occorso – uno dei più piacevoli della mia vita, che avrei pagato oltre qualsiasi prezzo – mi chiese di comprare qualcosa. Mi sentii in imbarazzo, poi compresi.
«C’è la corriera che scende verso Dogliani, Bra…parte fra un quarto d’ora…da lì potrai trovare un treno per Torino.»
Nel pronunciare il nome della lontana metropoli, parve quasi confessare l’inconfessabile desiderio di seguirmi, d’abbandonare la sua dimora del ricordo, sentinella rimasta a presenziare un passato oramai ucciso, molti anni prima, da un colpo di pistola.
Giunse la corriera e ci salutammo. Non erano ancora giunti i tempi nei quali abbracci e baci si sarebbero sprecati per un nonnulla: una stretta di mano ed un fugace incontrarci con gli occhi fu tutto. La sua immagine, però, rimase stampigliata nei miei occhi fin quando il treno, sferragliando, non terminò l’abbrivio a pochi passi dal respingente di Porta Nuova.
Sono ancora imbambolato, mentre cerco di ripescare dalla memoria l’immagine della Contessa quando A. B. riprende, perché quelle poche frasi su Craxi non bastano e – ironia del destino – si torna ancora una volta a Torino. Sì, perché quel congresso del 1978 fu una boa, dalla quale la rotta del PSI mai più si volse[1].
Anch’io ricordo quei giorni di fine Inverno, quando al Jolly Hotel Ambasciatori si tenne il congresso del PSI, perché abitavo poco più avanti, in Borgo San Paolo. Poco oltre l’hotel, c’erano “Le Nuove” – ossia le vecchie carceri di Torino – dove si svolse il famoso processo alle prime BR, quello per il quale non si trovavano giurati popolari. Finché non saltò fuori Adelaide Aglietta e, per risposta, le BR fecero saltar giù dal cielo due colpi di mortaio, sparati da un camioncino tre isolati più in là.
«Lì», sentenzia A. B. «terminò definitivamente la grande avventura del Partito Socialista, la scommessa di un partito proletario ma non massimalista, essenziale nei suoi obiettivi ma deciso a difenderli come Cavallotti faceva con la spada. Il dopo…questa gente che s’imbelletta per esser stata socialista…»
Scuote la testa, è quasi commosso dal ricordo.
Difatti, lo precisa: «Sa, mi fa male parlare di queste cose, ed il mio cuore è oramai poco saldo.»
Non rinuncia però alla frecciata finale: «Quando sento personaggi come Brunetta e Cicchitto gloriarsi…“io ero socialista”…non so se arrabbiarmi o ridere.» Decide di sorridere, e riesce così a stemperare il dolore.
Anch’io vado a rovistare nel baule dei ricordi: quelli di una lontana Estate del 1978 quando, lungo le strade che uniscono le frazioni di Stella – abitavo là da poche settimane – impazzava un vecchio camioncino con gli altoparlanti, e declamava fra valli ed uliveti la più incredibili canzone che quei luoghi avessero mai udito.
«Cittadine, cittadini: il nostro concittadino, il compagno Sandro Pertini, è stato eletto Presidente della Repubblica! Cittadine, cittadini…
Ricordo bene che lo chiamavano proprio il “compagno” Pertini» aggiunsi «il “compagno Presidente”…eppure, solo pochi anni dopo, Pertini fece recapitare, alla segreteria provinciale di Savona del PSI, un messaggio tagliente come le lame di Cavallotti.
Siccome giungeva in visita a Savona, fece sapere che se – ad accoglierlo, all’aeroporto di Genova – ci fosse stato Alberto Teardo, avrebbe fatto dietro front e sarebbe tornato a Roma…»
Annuisce: si vede che conosce bene quella vicenda.
Aggiunge solo: «Il cancro, iniziato al congresso di Torino, aveva già generato metastasi: ovunque, ma le condizioni che resero possibile quel vero e proprio colpo di mano, sul partito più ricco di tradizioni che esistesse, erano già state poste anni prima.
Ricordo bene, sul finire degli anni ’60, che nelle riunioni a livello provinciale e regionale si parlava solo più di posti e non di proposte. Intendiamoci:» per un attimo gli occhi prendono fuoco «la cosa esisteva anche prima, ma con diversi attributi.»
Scorge nei miei occhi un’espressione smarrita, perché non comprendo con chiarezza quel che vuole dirmi, quale sia la discriminante. E capisce che deve andare più a fondo, altrimenti mi deluderà.
«Vede» si avvicina, come a volermi confessare una colpa «io fui contrario, all’epoca, alla nomina di un ciabattino alla presidenza di un Istituto di Risparmio. Fui accusato di classismo, di frappormi all’ascesa, nei posti di potere, di chi proveniva dalle classi subalterne.»
Per un attimo, spontaneamente, mi metto al fianco del ciabattino.
«La mia non era una critica al suo essere un ciabattino, bensì al fatto – inequivocabile – che era un ciabattino ignorante, stupido! Mai, mi sarei permesso la stessa critica se fosse stato un ciabattino intelligente e capace!»
Ecco, la semplice risposta, e non mi sembra il caso di ricordare Cipolla e i suoi divertenti grafici…che la percentuale di stupidi, nella Storia, è una costante. Le popolazioni non sono dunque – sempre che sia possibile tratteggiarle in un singolo universale – “stupide” od “intelligenti”: dipende quale delle due parti ha in mano la leva del comando!
Difatti, A. B. – e, insieme a lui, tanti altri – finì fuori dal PSI: terminò la sua carriera politica presiedendo enti e fondazioni, quelle dove non giravano soldi, ovvio. Faccio però notare che A. B. non fu mai un politico di professione e basta, bensì lavorò normalmente fino alla pensione.
Ecco, allora, che dal racconto di A. B. riesco meglio a spiegare quel che m’accadde tanti anni prima, una sera del 1971.
Ero stato chiamato da un dirigente locale del PSI: siccome entrambi c’interessavamo di musica popolare, ritenevo che quello fosse il motivo dell’invito. Mi sbagliavo.
La proposta giunse quasi subito, dopo la prima grappa: «Saresti disposto a prenderti sul groppone la Federazione Giovanile Socialista?» poi, subito dopo, senza attendere risposta «In cambio, possiamo offrirti un posto di Geometra in Comune.»
La prima risposta, ovvia, fu quella che non ero Geometra. La cosa non parve interessarlo: «Sono cose che si sistemano.»
La seconda, altrettanto ovvia – che lui sapeva benissimo – era che militavo nello PSIUP, il Partito Socialista d’estrema sinistra: un partito, all’epoca, dichiaratamente rivoluzionario. Cosa ci sarei andato a fare, in un partito apertamente riformista?
La cosa finì lì, ma per un caso della vita ebbi modo di conoscere quello che accettò (che non era Geometra): il tizio, finì poi nell’ingranaggio di Mani Pulite per tangenti che riguardavano la Sanità, ma fu un ingranaggio piccolo, insignificante, come può esserlo quello che attende di chi si finge Geometra. E continuò con una carriera politica scipita, saporita come una pasta al burro senza sale.
Siamo giunti al caffè, ma si vede che ha ancora qualcosa in gola, un ricordo del quale vuol farmi partecipe.
Non attende molto.
«Eh, Pertini…»
Aspetto, perché la palla è nel suo campo.
«Con Pertini partecipai ad una campagna elettorale nella Liguria occidentale: Alassio, San Remo, i paesini dell’entroterra…lui era Pertini: io, allora, ero solo un “giovane di studio”.
La mattina c’erano spesso degli incontri con l’associazionismo: il pomeriggio, invece, si concludeva sempre con un comizio in piazza.
A pranzo, un giorno, erano avanzati quattro pesciolini fritti: chiesi, con deferenza, se li voleva.
Mi rispose, in dialetto ligure: mangiali tu, che sei giovane.
Poi, subito, affondò: ma tu, da dove vieni?
Risposi che ero socialista da sempre, sin da quando mio padre m’aveva condotto – ragazzo – in Federazione a Genova…
Ah, ma allora una cosa non l’hai ancora imparata, concluse: che fra compagni ci si dà del tu!»
E’ giunta l’ora di riprendere la via di casa: in quattro sulla Panda, badante e “badato” compresi. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto, e lui assicura che verrà, appena entrambi avremo scapolato le nostre secche sanitarie.
Ed io ci spero, con tutto il cuore.
A questo punto, qualcuno si chiederà qual è il succo di questo racconto. Beh, il primo è che mi è piaciuto scriverlo e, spero, che altri lo abbiano gradito. Per chi ama scrivere, basta ed avanza: è come offrire un bicchiere di vino.
Ma c’è dell’altro.
Nei giorni scorsi avevo letto un articolo di Franco Cardini, comparso originariamente su “Il Giornale” e ripreso da numerosi siti[2], dove poneva il problema dell’appartenenza, del nostro sentirci “parte” di qualcosa.
Premetto che l’articolo m’era parso un poco frettoloso, ma di questo non bisogna farne gran colpa all’autore: nelle redazioni, ti dicono “cinquemila battute”, e devi starci dentro. Si capiva che aveva faticato a starci dentro: purtroppo, duemila battute in più sarebbero state il minimo.
Non potendo avvalersi solidamente del concetto di “Patria” – perché è un valore, per noi italiani, che ha iniziato a perder significato già dalla Prima Guerra Mondiale, con la fine del Risorgimento – Cardini ha cercato “sponda” nel corrispondente in lingua tedesca.
Precisi come sono, però, i tedeschi hanno due termini per definire l’appartenenza: Vaterland (terra dei padri, degli antenati) ed Heimat, che mi piace tradurre con il “posto dell’anima”, felicissimo titolo per un altrettanto radioso e struggente film di Riccardo Milani, dove Michele Placido e Silvio Orlando riescono a dare il meglio di loro stessi.
Ora, le “terre degli antenati” – qui, in Italia – sembrano scarseggiare: “figli d’Annibale”, o di francesi, spagnoli, austriaci…a meno di rifugiarsi nelle mille Vaterland locali: piccolissime, minute, dove basta il soffio dell’immigrazione per mettere a soqquadro un debole modello.
Credo che poche Vaterland siano sopravvissute al Novecento, ed oggi il furore globalizzatore sta sradicando gli ultimi polloni di un’appartenenza legata alla stirpe.
Più interessante, invece, cercare quale sia – per ciascuno di noi – il proprio Heimat, quel luogo al quale ci sentiamo teneramente legati, che può anche non coincidere con una precisa indicazione geografica. Tanto, dal prossimo anno scolastico, aboliranno anche la Geografia ed andremo tutti a spasso con un bel GPS sulla schiena.
La questione non è un dibattere sul sesso degli Angeli, perché dalla propria appartenenza ad un “posto dell’anima” discende, per via diretta, il nostro incontrare l’altro. Se non proprio l’anima gemella, almeno quella che vibra armoniosamente con la nostra.
Così, gli Heimat possono improvvisamente dischiudersi quando meno ce li aspettiamo: dietro ad una porta, dove s’immaginava di vendere qualche saponetta. Oppure nel vociante ristorante appena a tergo di un ospedale.
E, dall’incontrarsi nei misteriosi e forse poco ortodossi Heimat, nasce la consapevolezza del non esser soli a pensare, a sentire, a gioire e soffrire in quel modo.
In quale Heimat vive, oggi, la classe politica?
Ferrando ricorda semplicemente che gli iracheni portano avanti la loro lotta di liberazione, e viene subito cacciato da Rifondazione. Bontempo si alza, alla Camera, e chiede – forse in modo retorico – “lumi” sul signoraggio: Bertinotti gli toglie la parola. Paradossalmente, entrambi colpiti da un “capo” comunista.
Non ci meravigliamo se Berlusconi, D’Alema, Bersani, Matteoli, Casini e, in fin dei conti, anche Di Pietro reagiscono agli stessi stimoli in modo assolutamente paritetico: traggono le loro convinzioni dal medesimo Heimat, un luogo dove si è “al di là del bene e del male”, perché appartenenti all’empireo degli eletti.
Non c’è più nessuna riflessione su quel che vanno facendo: intessono false consultazioni elettorali, oppure si beano del culto di un “capo” che giunge a sfruttare un modesto incidente di piazza per risalire nella hit parade mediatica.
Sono il prodotto di una prassi stralciata dal lessico politico, quella ben descritta da A. B. quando ricorda che, in politica, si devono premiare per prima cosa l’intelligenza e l’etica.
Inorridisco, al pensiero di quali possano essere gli attributi degli Heimat nei quali s’incontrano personaggi come Capezzone o Rutelli.
In fin dei conti – prima che politici, poeti, intellettuali – le generazioni precedenti s’incontrarono nei loro Heimat, quei luoghi dove regnava il rispetto antico per l’avversario, per la donna, per la libertà altrui.
Oggi, sappiamo che tutto ciò è stato calpestato da una marea urlante, da una vucirrìa televisiva che ha veicolato proprio l’opposto: l’avversario è il nemico, la donna una puttana da godere, la propria libertà (o licenza?) è sopra ogni altro valore. Quella degli altri, all’occorrenza, sotto le ruote del SUV.
L’eleganza del gesto è sacrificata alla fretta, la potenza del verso sostituita dai decibel, la galanteria svapora negli inviti a cena che già sanno di noiosa scopata.
Eppure, chiediamo: urliamo, desideriamo un nuovo mondo.
Sapremmo riconoscerlo? Oppure, passando per il proprio Heimat, finiremmo per non vederlo, e magari ci svuoteremmo il portacenere dell’auto?
A monte di qualsiasi aggregazione, di un possibile movimento politico – ma anche di un matrimonio o di un’amicizia – se non c’è, prima, il riconoscersi in un Heimat comune, tutto si stempera nella consuetudine. Che è l’anticamera della nauseante noia: rileggere Sartre – cum grano salis – può servire.
Perciò, il mio invito è quello di non soffermarsi troppo a considerare se il Web può o non può…se è meglio appoggiare questo o quello…
In fin dei conti, solo riconoscere il proprio Heimat conduce a sconfiggere le nebbie della mente, e qualsiasi luogo – reale o virtuale – è atto alla bisogna. Il Web come il bar, la spiaggia come un libro.
Anche rimanere ad ascoltare una contessa che vive oramai fuori del tempo, un anziano che racconta l’avventura politica di una vita, oppure una bambina con le rughe – mia madre – che ancora urla il dolore provato in un tempo lontano.
Solo i “posti delle anime” possono generare i sinceri incontri, i saldi e calorosi abbracci che infondono coraggio e temperamento: il resto, viene dopo.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Cesare Pavese
“E correndo la incontrai lungo le scale…”, verrebbe da dire, ma le scale non sono quelle della vita, dei sentimenti: sono solo quelle di un ospedale. Entrambi con il nostro mazzo di fogli in mano: appena firmati dal radiologo, dall’anestesista, dal chirurgo…ancora caldi di timori repressi, d’ansie ricacciate.
I suoi fogli, però, non sono “suoi” bensì della persona che accudisce: è una delle rare badanti italiane, e cerca di far bene il suo lavoro.
«Anzi» – propone – «perché, quando hai finito con le tue peregrinazioni, non mi telefoni e andiamo a mangiare qualcosa tutti e quattro assieme?»
Sulle prime non capisco: io, mia moglie e lei facciamo tre. No: ci sarà anche il “badato”.
Sono perplesso: che senso ha andare a pranzo con una persona che deve essere “badata”, che magari deve essere imboccata e poi…ci sarà con la testa?
«Fidati» è l’unica risposta: «vedrai che sarà una sorpresa.» Tanto per far defluire le tossine ansiogene, incassate in una mattinata d’ordinaria inquietudine ospedaliera, accettiamo. Ed entriamo nel ristorante.
Fa caldo e c’è tanta gente, ma l’atmosfera è allegra: qualche giovane che mangia in fretta, leggendo il giornale, i soliti crocchi d’operai dell’ENEL e delle Ferrovie che s’accalorano nell’ultima discussione, mentre non perdono di vista l’orologio.
Attraversiamo l’umanità gustante per giungere al tavolo, dove un uomo anziano c’attende. La sorpresa è, da subito, quella dell’abito: l’uomo è vestito in modo sobrio ma elegante, con il tocco di classe di chi potrebbe apparire ad una cena di gala indossando una maglietta. Giacca, camicia e cravatta in tono, capelli bianchi ben pettinati, viso ben rasato ed occhiali con montatura dorata: appena giungono le due signore, si alza in piedi come non vedevo fare da tanto tempo, da quando l’educazione e l’arte della cavalleria sono finiti nella discarica del savoir vivre.
Per rompere il ghiaccio leggo, al contrario, la pagina del giornale che stava leggendo mentre ingannava l’attesa; c’è il dibattito su Craxi: ladro non ladro, grande politico non grande politico, eccetera…
Due occhi azzurri mi fissano, dopo le presentazioni, e ricadono sulla pagina del giornale, poi – con un filo di voce, ma senza incertezze – parla.
«Certo che per me, che sono stato da sempre socialista, è un gran dispiacere leggere ancora oggi queste cose, perché nel socialismo ci ho creduto. Mio padre fu tra i fondatori del Partito Socialista Italiano, amico personale di Turati. Quando penso ai politici d’oggi, a Berlusconi…» Scuote la testa.
Non voglio ribattere anche perché non c’è nulla di sbagliato in quanto afferma, così mi limito a dire che anch’io sono cresciuto in una famiglia socialista, così socialista che perse per due volte la casa – durante il Fascismo – perché non accettavano di togliere dall’anticamera le fotografie di Giacomo Matteotti e di Felice Cavallotti.
Roba d’altri tempi, che mi raccontò una bambina di dodici anni con le rughe al volto: una bambina che, pur di tramandare quelle memorie, accettava di soffrire un’altra volta, come se quello che aveva già sofferto non fosse ancora abbastanza.
Andava così: i fascisti entravano, guardavano le due fotografie, non dicevano nulla e se n’andavano. Pochi giorni dopo, arrivava l’ingiunzione di confisca: il fabbricato veniva rapidamente destinato alle attività ricreative per gli iscritti al Partito Nazionale Fascista, mentre prati e campi diventavano piste da ballo, giochi da bocce, campi da calcio…
Per ben due volte – la voce della bambina si tinge di rabbia – riuscimmo a comprare nuovamente una casa ed un po’ di terreno e, per due volte, ci confiscarono tutto.
Così finì la vita di una famiglia d’agricoltori della “bassa”, gente che di certo non scialava, ma alla quale non mancavano mai il pranzo e la cena: emigrazione. Finirono, in affitto, in un vecchio mulino incassato nel fondo di una valle dove il sole compariva poche ore il giorno. Poi la fabbrica, la guerra, la lotta partigiana, di nuovo la fabbrica: tutto per colpa di un altro “nato” socialista, l’ennesimo traditore di un grande ideale.
A. B. – potrebbe essere X. Y. e sarebbe lo stesso: quel che racconto è assolutamente vero, ma non fornirò nessun elemento per identificare la persona. Non è “privacy”, è soltanto il giusto riserbo di chi ancora interpreta il giornalismo come diffusione d’informazione e basta, e non come arma politica o glorificazione di se stessi – non è meravigliato né scosso: di queste storie, ne avrà sentite raccontare chissà quante.
«Guardi, voglio essere franco. Io, Craxi, lo stimai per due soli eventi: quando non consegnò i palestinesi agli americani – la Achille Lauro era italiana, dunque la giurisdizione era nostra, aveva ragione – e quando ebbe il coraggio di rispondere a Gromyko che, se voleva che noi togliessimo i nostri missili da Comiso, che cominciasse lui a togliere i suoi dalla Polonia. Per il resto…» e scuote la testa, fissandomi con due occhi che sono diventati di ghiaccio, fendenti, limpidi come l’acqua di neve.
Dobbiamo interrompere la conversazione perché una signora è giunta al nostro tavolo: ci alziamo – mi ha contagiato, con gran gioia, a stemperarmi nella cavalleria di un tempo – per salutare la donna, anziana ma ben truccata, elegante. Una bella signora d’altri tempi.
Si dicono qualcosa e, educatamente, chiudo l’audio per discrezione ma – appena la signora se n’è andata – torna a fissarmi con quegli occhi che, adesso, sbocciano di frutti maturi e di calore, d’acqua salsa e di tramonti estivi. Pare quasi volersi confessare, con una persona che ha conosciuto da pochi istanti: «Fu una storia d’amore intenso, che durò parecchio: poi, un giorno, lei mi disse che si sentiva troppo amica di mia moglie per continuare, e così finì… »
Mi volto ed osservo la signora, seduta due tavoli più in là: dev’essere stato veramente difficile staccarsi da quel bocciolo, come doveva apparire qualche decennio prima, altro che le misere storie di veline e di escort…
Indovina i miei pensieri, ed aggiunge: «E’ una donna di rara signorilità: ha lavorato tutta la vita ma, nel tempo libero, si dedicava al teatro. Recitava: sapesse come leggeva, in pubblico, poesie e racconti! Una vera e propria Musa…» La osservo nuovamente, e non ho difficoltà a crederlo.
Mentre c’invitano a spostarci ad un altro tavolo, più grande, e ci portano il menu non posso far altro che sovrapporre la raffinata, solo un po’ sfiorita bellezza che abbiamo appena lasciato, con la Contessa.
Già, la Contessa: sono trascorsi molti anni, ma non ho mai dimenticato quel pomeriggio d’Inverno. L’unica circostanza, fortunatissima, che la vita mi riservò per sentirmi – per poche ore – come nel cenacolo di Madame de Warens.
C’era ancora un po’ di neve, anche quel giorno di fine Inverno del 197…non ricordo l’anno. E nemmeno il luogo, che poteva essere Murazzano, Bossolasco, Cravanzana…uno dei borghi “alti” della Langa, quelli sull’antica Via del Sale, la Pedaggera.
Ero stato recapitato in quel luogo da un ansimante furgone Volkswagen, con il quale – da Torino – portavano in quei dimenticati luoghi noi: studenti, disoccupati…per guadagnare qualche soldo con il “porta a porta”. Fu forse l’ultima volta che tentai la fortuna come venditore: vendere shampoo e saponette non era proprio il mio pane.
Così vagavo, poco convinto, fra un viottolo e l’altro, borsa a tracolla e poca voglia di bussare per ascoltare i soliti rifiuti. Poi, decisi per quella porta di noce scuro, con il batocchio di bronzo antico: almeno, pensai, sarebbe stato un nobile rifiuto!
Invece, apparve un viso dolce, appena accarezzato da qualche ruga, che m’invitò ad entrare: capì in un nonnulla cos’ero lì a fare, e mi fece accomodare in una poltroncina foderata con velluto a coste fini, color vinaccia. Poi, mi chiese chi ero e cosa facevo.
Mi presentai e dissi il poco che avevo da dire: ero studente a Torino e, come altri, ogni tanto tentavo la fortuna di riuscire a vendere qualcosa per raggranellare qualche soldo. A dire il vero – aggiunsi – credendoci poco e con scarso successo. Sorrise.
Mi chiese se gradivo un caffè, e s’allontanò.
Solo allora iniziai a guardarmi intorno, e compresi che non ero finito in una casa qualunque: le litografie alle pareti, le statuine di porcellana o di bronzo su antichi tavolini, testimoniavano che quella era una casa antica, di quelle che la Storia l’avevano vista. E, talvolta, l’avevano fatta.
Tornò dopo qualche istante con il vassoio e le tazzine: mentre sorseggiavo il caffè, cercai di capire chi avevo di fronte. Vestita con dimessa eleganza, qualche capello già grigio che striava appena la capigliatura scura, il portamento altero su un corpo formoso, seppur castigato dagli abiti. Portava alcuni anelli alle dita, ma l’impressione che ne ricavai fu che vivesse – sola – in quella magione d’altri tempi.
Fu lei a rompere il ghiaccio, ricordando qualcosa che avevamo in comune: anch’ella aveva studiato a Torino.
Subito dopo aggiunse «Molti anni fa….», tanto per incassare il minimo di galanteria che potessi esprimere «Beh, proprio tanti…» Passò oltre.
Fu in quel preciso istante che iniziò a parlarmi di Cesare.
Sì, di Cesare e basta, con il quale aveva intessuto per molto tempo una lunga amicizia, interrotta e sempre ripresa negli anni, come quel treno di montagna che ansima nelle valli della Langa, e che s’arresta nelle stazioni a prender fiato. Per poi ripartire sempre, ma con calma, per non patire il mal di cuore.
Capii subito a quale Cesare si riferiva: non ce ne sono tanti, da queste parti, a potersi concedere il nome e basta.
Fu però franca, nel confessare che con Pavese era stata una vita d’inferno la sola amicizia: troppo conflittuale e introverso il suo rapporto con l’universo femminile. Sempre desiderato ma mai accolto: quella sete mai placata, che finì per sopraffarlo in un anonimo albergo di Torino.
Per un attimo pensai che avesse qualcosa da recriminare (o da recriminarsi?) per quel ch’era stato, ma fu lei stessa ad indovinare i miei pensieri ed a fermarli, con un sorriso ed un negare del capo.
Saliva, Cesare, ogni tanto saliva da Santo Stefano e sorseggiava il caffè proprio seduto sulla stessa poltroncina dov’ero io adesso: per un attimo, avvertii che le mie natiche urlavano per il disagio.
«Fu tanto tempo fa», concluse, quasi a prevenire il mio imbarazzo.
Raccontò ancora di quei tempi, dopo la guerra, quando l’ideologia univa, amava, odiava, allontanava, soffriva: ma non era l’ideologia a soffrire, bensì erano uomini e donne, carne e sangue sorti dalla terra. E, i più, alla terra tornati.
Forse per dipanare la cappa del passato che stava straripando nel salotto, mi propose di fare una passeggiata in paese: accettai. Potei solo offrirle il braccio, che accettò.
Passeggiando per le antiche viuzze, m’accorsi solo allora di chi avevo al braccio: «Signora Contessa…» «Buonasera Caterina», rispondeva con misura. Gli uomini si toccavano appena la tesa del cappello «Madama…» e lei rispondeva, allora, con un impercettibile chinar del capo ed un timido sorriso.
Giungemmo così alla piazza, dove ci sarebbe dovuto essere il vecchio furgone Volkswagen ad attendermi, ma la piazza era deserta: dovevo esser stato dichiarato disperso sul fronte del marketing.
Quasi per farsi perdonare l’incomodo nel quale ero occorso – uno dei più piacevoli della mia vita, che avrei pagato oltre qualsiasi prezzo – mi chiese di comprare qualcosa. Mi sentii in imbarazzo, poi compresi.
«C’è la corriera che scende verso Dogliani, Bra…parte fra un quarto d’ora…da lì potrai trovare un treno per Torino.»
Nel pronunciare il nome della lontana metropoli, parve quasi confessare l’inconfessabile desiderio di seguirmi, d’abbandonare la sua dimora del ricordo, sentinella rimasta a presenziare un passato oramai ucciso, molti anni prima, da un colpo di pistola.
Giunse la corriera e ci salutammo. Non erano ancora giunti i tempi nei quali abbracci e baci si sarebbero sprecati per un nonnulla: una stretta di mano ed un fugace incontrarci con gli occhi fu tutto. La sua immagine, però, rimase stampigliata nei miei occhi fin quando il treno, sferragliando, non terminò l’abbrivio a pochi passi dal respingente di Porta Nuova.
Sono ancora imbambolato, mentre cerco di ripescare dalla memoria l’immagine della Contessa quando A. B. riprende, perché quelle poche frasi su Craxi non bastano e – ironia del destino – si torna ancora una volta a Torino. Sì, perché quel congresso del 1978 fu una boa, dalla quale la rotta del PSI mai più si volse[1].
Anch’io ricordo quei giorni di fine Inverno, quando al Jolly Hotel Ambasciatori si tenne il congresso del PSI, perché abitavo poco più avanti, in Borgo San Paolo. Poco oltre l’hotel, c’erano “Le Nuove” – ossia le vecchie carceri di Torino – dove si svolse il famoso processo alle prime BR, quello per il quale non si trovavano giurati popolari. Finché non saltò fuori Adelaide Aglietta e, per risposta, le BR fecero saltar giù dal cielo due colpi di mortaio, sparati da un camioncino tre isolati più in là.
«Lì», sentenzia A. B. «terminò definitivamente la grande avventura del Partito Socialista, la scommessa di un partito proletario ma non massimalista, essenziale nei suoi obiettivi ma deciso a difenderli come Cavallotti faceva con la spada. Il dopo…questa gente che s’imbelletta per esser stata socialista…»
Scuote la testa, è quasi commosso dal ricordo.
Difatti, lo precisa: «Sa, mi fa male parlare di queste cose, ed il mio cuore è oramai poco saldo.»
Non rinuncia però alla frecciata finale: «Quando sento personaggi come Brunetta e Cicchitto gloriarsi…“io ero socialista”…non so se arrabbiarmi o ridere.» Decide di sorridere, e riesce così a stemperare il dolore.
Anch’io vado a rovistare nel baule dei ricordi: quelli di una lontana Estate del 1978 quando, lungo le strade che uniscono le frazioni di Stella – abitavo là da poche settimane – impazzava un vecchio camioncino con gli altoparlanti, e declamava fra valli ed uliveti la più incredibili canzone che quei luoghi avessero mai udito.
«Cittadine, cittadini: il nostro concittadino, il compagno Sandro Pertini, è stato eletto Presidente della Repubblica! Cittadine, cittadini…
Ricordo bene che lo chiamavano proprio il “compagno” Pertini» aggiunsi «il “compagno Presidente”…eppure, solo pochi anni dopo, Pertini fece recapitare, alla segreteria provinciale di Savona del PSI, un messaggio tagliente come le lame di Cavallotti.
Siccome giungeva in visita a Savona, fece sapere che se – ad accoglierlo, all’aeroporto di Genova – ci fosse stato Alberto Teardo, avrebbe fatto dietro front e sarebbe tornato a Roma…»
Annuisce: si vede che conosce bene quella vicenda.
Aggiunge solo: «Il cancro, iniziato al congresso di Torino, aveva già generato metastasi: ovunque, ma le condizioni che resero possibile quel vero e proprio colpo di mano, sul partito più ricco di tradizioni che esistesse, erano già state poste anni prima.
Ricordo bene, sul finire degli anni ’60, che nelle riunioni a livello provinciale e regionale si parlava solo più di posti e non di proposte. Intendiamoci:» per un attimo gli occhi prendono fuoco «la cosa esisteva anche prima, ma con diversi attributi.»
Scorge nei miei occhi un’espressione smarrita, perché non comprendo con chiarezza quel che vuole dirmi, quale sia la discriminante. E capisce che deve andare più a fondo, altrimenti mi deluderà.
«Vede» si avvicina, come a volermi confessare una colpa «io fui contrario, all’epoca, alla nomina di un ciabattino alla presidenza di un Istituto di Risparmio. Fui accusato di classismo, di frappormi all’ascesa, nei posti di potere, di chi proveniva dalle classi subalterne.»
Per un attimo, spontaneamente, mi metto al fianco del ciabattino.
«La mia non era una critica al suo essere un ciabattino, bensì al fatto – inequivocabile – che era un ciabattino ignorante, stupido! Mai, mi sarei permesso la stessa critica se fosse stato un ciabattino intelligente e capace!»
Ecco, la semplice risposta, e non mi sembra il caso di ricordare Cipolla e i suoi divertenti grafici…che la percentuale di stupidi, nella Storia, è una costante. Le popolazioni non sono dunque – sempre che sia possibile tratteggiarle in un singolo universale – “stupide” od “intelligenti”: dipende quale delle due parti ha in mano la leva del comando!
Difatti, A. B. – e, insieme a lui, tanti altri – finì fuori dal PSI: terminò la sua carriera politica presiedendo enti e fondazioni, quelle dove non giravano soldi, ovvio. Faccio però notare che A. B. non fu mai un politico di professione e basta, bensì lavorò normalmente fino alla pensione.
Ecco, allora, che dal racconto di A. B. riesco meglio a spiegare quel che m’accadde tanti anni prima, una sera del 1971.
Ero stato chiamato da un dirigente locale del PSI: siccome entrambi c’interessavamo di musica popolare, ritenevo che quello fosse il motivo dell’invito. Mi sbagliavo.
La proposta giunse quasi subito, dopo la prima grappa: «Saresti disposto a prenderti sul groppone la Federazione Giovanile Socialista?» poi, subito dopo, senza attendere risposta «In cambio, possiamo offrirti un posto di Geometra in Comune.»
La prima risposta, ovvia, fu quella che non ero Geometra. La cosa non parve interessarlo: «Sono cose che si sistemano.»
La seconda, altrettanto ovvia – che lui sapeva benissimo – era che militavo nello PSIUP, il Partito Socialista d’estrema sinistra: un partito, all’epoca, dichiaratamente rivoluzionario. Cosa ci sarei andato a fare, in un partito apertamente riformista?
La cosa finì lì, ma per un caso della vita ebbi modo di conoscere quello che accettò (che non era Geometra): il tizio, finì poi nell’ingranaggio di Mani Pulite per tangenti che riguardavano la Sanità, ma fu un ingranaggio piccolo, insignificante, come può esserlo quello che attende di chi si finge Geometra. E continuò con una carriera politica scipita, saporita come una pasta al burro senza sale.
Siamo giunti al caffè, ma si vede che ha ancora qualcosa in gola, un ricordo del quale vuol farmi partecipe.
Non attende molto.
«Eh, Pertini…»
Aspetto, perché la palla è nel suo campo.
«Con Pertini partecipai ad una campagna elettorale nella Liguria occidentale: Alassio, San Remo, i paesini dell’entroterra…lui era Pertini: io, allora, ero solo un “giovane di studio”.
La mattina c’erano spesso degli incontri con l’associazionismo: il pomeriggio, invece, si concludeva sempre con un comizio in piazza.
A pranzo, un giorno, erano avanzati quattro pesciolini fritti: chiesi, con deferenza, se li voleva.
Mi rispose, in dialetto ligure: mangiali tu, che sei giovane.
Poi, subito, affondò: ma tu, da dove vieni?
Risposi che ero socialista da sempre, sin da quando mio padre m’aveva condotto – ragazzo – in Federazione a Genova…
Ah, ma allora una cosa non l’hai ancora imparata, concluse: che fra compagni ci si dà del tu!»
E’ giunta l’ora di riprendere la via di casa: in quattro sulla Panda, badante e “badato” compresi. Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto, e lui assicura che verrà, appena entrambi avremo scapolato le nostre secche sanitarie.
Ed io ci spero, con tutto il cuore.
A questo punto, qualcuno si chiederà qual è il succo di questo racconto. Beh, il primo è che mi è piaciuto scriverlo e, spero, che altri lo abbiano gradito. Per chi ama scrivere, basta ed avanza: è come offrire un bicchiere di vino.
Ma c’è dell’altro.
Nei giorni scorsi avevo letto un articolo di Franco Cardini, comparso originariamente su “Il Giornale” e ripreso da numerosi siti[2], dove poneva il problema dell’appartenenza, del nostro sentirci “parte” di qualcosa.
Premetto che l’articolo m’era parso un poco frettoloso, ma di questo non bisogna farne gran colpa all’autore: nelle redazioni, ti dicono “cinquemila battute”, e devi starci dentro. Si capiva che aveva faticato a starci dentro: purtroppo, duemila battute in più sarebbero state il minimo.
Non potendo avvalersi solidamente del concetto di “Patria” – perché è un valore, per noi italiani, che ha iniziato a perder significato già dalla Prima Guerra Mondiale, con la fine del Risorgimento – Cardini ha cercato “sponda” nel corrispondente in lingua tedesca.
Precisi come sono, però, i tedeschi hanno due termini per definire l’appartenenza: Vaterland (terra dei padri, degli antenati) ed Heimat, che mi piace tradurre con il “posto dell’anima”, felicissimo titolo per un altrettanto radioso e struggente film di Riccardo Milani, dove Michele Placido e Silvio Orlando riescono a dare il meglio di loro stessi.
Ora, le “terre degli antenati” – qui, in Italia – sembrano scarseggiare: “figli d’Annibale”, o di francesi, spagnoli, austriaci…a meno di rifugiarsi nelle mille Vaterland locali: piccolissime, minute, dove basta il soffio dell’immigrazione per mettere a soqquadro un debole modello.
Credo che poche Vaterland siano sopravvissute al Novecento, ed oggi il furore globalizzatore sta sradicando gli ultimi polloni di un’appartenenza legata alla stirpe.
Più interessante, invece, cercare quale sia – per ciascuno di noi – il proprio Heimat, quel luogo al quale ci sentiamo teneramente legati, che può anche non coincidere con una precisa indicazione geografica. Tanto, dal prossimo anno scolastico, aboliranno anche la Geografia ed andremo tutti a spasso con un bel GPS sulla schiena.
La questione non è un dibattere sul sesso degli Angeli, perché dalla propria appartenenza ad un “posto dell’anima” discende, per via diretta, il nostro incontrare l’altro. Se non proprio l’anima gemella, almeno quella che vibra armoniosamente con la nostra.
Così, gli Heimat possono improvvisamente dischiudersi quando meno ce li aspettiamo: dietro ad una porta, dove s’immaginava di vendere qualche saponetta. Oppure nel vociante ristorante appena a tergo di un ospedale.
E, dall’incontrarsi nei misteriosi e forse poco ortodossi Heimat, nasce la consapevolezza del non esser soli a pensare, a sentire, a gioire e soffrire in quel modo.
In quale Heimat vive, oggi, la classe politica?
Ferrando ricorda semplicemente che gli iracheni portano avanti la loro lotta di liberazione, e viene subito cacciato da Rifondazione. Bontempo si alza, alla Camera, e chiede – forse in modo retorico – “lumi” sul signoraggio: Bertinotti gli toglie la parola. Paradossalmente, entrambi colpiti da un “capo” comunista.
Non ci meravigliamo se Berlusconi, D’Alema, Bersani, Matteoli, Casini e, in fin dei conti, anche Di Pietro reagiscono agli stessi stimoli in modo assolutamente paritetico: traggono le loro convinzioni dal medesimo Heimat, un luogo dove si è “al di là del bene e del male”, perché appartenenti all’empireo degli eletti.
Non c’è più nessuna riflessione su quel che vanno facendo: intessono false consultazioni elettorali, oppure si beano del culto di un “capo” che giunge a sfruttare un modesto incidente di piazza per risalire nella hit parade mediatica.
Sono il prodotto di una prassi stralciata dal lessico politico, quella ben descritta da A. B. quando ricorda che, in politica, si devono premiare per prima cosa l’intelligenza e l’etica.
Inorridisco, al pensiero di quali possano essere gli attributi degli Heimat nei quali s’incontrano personaggi come Capezzone o Rutelli.
In fin dei conti – prima che politici, poeti, intellettuali – le generazioni precedenti s’incontrarono nei loro Heimat, quei luoghi dove regnava il rispetto antico per l’avversario, per la donna, per la libertà altrui.
Oggi, sappiamo che tutto ciò è stato calpestato da una marea urlante, da una vucirrìa televisiva che ha veicolato proprio l’opposto: l’avversario è il nemico, la donna una puttana da godere, la propria libertà (o licenza?) è sopra ogni altro valore. Quella degli altri, all’occorrenza, sotto le ruote del SUV.
L’eleganza del gesto è sacrificata alla fretta, la potenza del verso sostituita dai decibel, la galanteria svapora negli inviti a cena che già sanno di noiosa scopata.
Eppure, chiediamo: urliamo, desideriamo un nuovo mondo.
Sapremmo riconoscerlo? Oppure, passando per il proprio Heimat, finiremmo per non vederlo, e magari ci svuoteremmo il portacenere dell’auto?
A monte di qualsiasi aggregazione, di un possibile movimento politico – ma anche di un matrimonio o di un’amicizia – se non c’è, prima, il riconoscersi in un Heimat comune, tutto si stempera nella consuetudine. Che è l’anticamera della nauseante noia: rileggere Sartre – cum grano salis – può servire.
Perciò, il mio invito è quello di non soffermarsi troppo a considerare se il Web può o non può…se è meglio appoggiare questo o quello…
In fin dei conti, solo riconoscere il proprio Heimat conduce a sconfiggere le nebbie della mente, e qualsiasi luogo – reale o virtuale – è atto alla bisogna. Il Web come il bar, la spiaggia come un libro.
Anche rimanere ad ascoltare una contessa che vive oramai fuori del tempo, un anziano che racconta l’avventura politica di una vita, oppure una bambina con le rughe – mia madre – che ancora urla il dolore provato in un tempo lontano.
Solo i “posti delle anime” possono generare i sinceri incontri, i saldi e calorosi abbracci che infondono coraggio e temperamento: il resto, viene dopo.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
[1] Nel 1976 il PSI aveva subito un forte rovescio elettorale, il segretario De Martino venne messo sotto accusa per la sua subalternità al PCI e andò in minoranza nella famosa riunione all'hotel Midas. Craxi Bettino, capo della corrente autonomista, allievo prediletto di Nenni divenne il nuovo segretario del PSI. De Martino però godeva ancora nel partito di un forte consenso, dell'appoggio di Lombardi e del PCI. Al primo passo falso di Craxi sarebbe potuto tornare facilmente alla segreteria. Era necessario per questo convincerlo a ritirarsi dalla vita politica. Nel 1977, poco prima del congresso di Torino del PSI, un gruppo di malavitosi napoletani legati alla camorra rapì il figlio di De Martino chiedendo un riscatto che, molto probabilmente, fu pagato da Calvi (P2). Oggi sappiamo che la P2 ed il Sismi tenevano legami diretti, tramite Carboni e Pazienza, con la camorra e le bande criminali di Bergamelli, Turatello e Vallanzasca. De Martino, interrogato dalla commissione P2, ha più volte fatto capire che il rilascio di suo figlio ha avuto come contropartita la sua rinuncia a tornare ad assumere il ruolo dirigente nel PSI. Egli ha affermato infatti: “il rapimento di mio figlio ha avuto lo stesso significato politico dell'assassinio dell'onorevole Moro”.
Fonte: Alla conquista del PSI, di Luigi Cipriani. http://www.fondazionecipriani.it/Scritti/allapsi.html
[2] Italiano o terrone d’Europa: quando l’identità è la stessa. Vedi: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6668&mode=thread&order=0&thold=0