“Se mi accusassero di avere rubato la Torre di Pisa, mi darei alla latitanza.”
Piero Calamandrei
Non si comprende bene chi stia giocando e, soprattutto, cosa si stia giocando sulla vita di Cesare Battisti, perché di segnali contradditori ce ne sono molti. Anzi, troppi.
Nella vulgata imperante Battisti è considerato colpevole (poiché condannato con sentenze passate in giudicato) per ben quattro omicidi ma, se si va un poco a spulciare quelle vicende giudiziarie, subito salta agli occhi che si trattò di processi indiziari nei quali la parola definitiva – la vera “giuria” – fu quella dei cosiddetti “pentiti”.
Prima di passare all’analisi, invito a leggere la ricostruzione presente su Carmilla on line – collegamento in nota[1] – per capire come la vicenda processuale di Battisti – vista dall’estero, dalla Francia al Brasile – puzzi di bruciato al punto da non concedere l’estradizione.
Per contrappasso, potrete leggere le “parallele” vicende di Marco Barbone[2] e di Delfo Zorzi[3], che ci aiutano a capire come la logica giuridica di quegli anni fu un pudding fra i classici “due pesi e due misure”, amicizie influenti, interessi di bottega e servizi segreti a gogò, più il classico “caso”, che attiene a fortune e sfortune personali.
Se ancora non basta, ricordiamo che Piazza Fontana e Piazza della Loggia, Ustica ed il Moby Prince, Giuseppe Pinelli e Carlo Giuliani (e tanti altri) ancora aspettano che qualcuno racconti cosa veramente successe. Per contrappasso, gli “assassini del Circeo” ebbero vita facile con ridicole evasioni e quant’altro, al punto che uno di essi riuscì addirittura a farsi assegnare un lavoro fuori del carcere, cosicché riuscì ad uccidere altre due donne, madre e figlia.
In anni più vicini a noi, tutti si fecero un baffo della vicenda del Cermis, laddove i colpevoli – che potevano essere trattenuti e processati in Italia – furono estradati negli USA, dove ricevettero il solito rimbrotto e basta.
Questo Paese, dove non s’affronta mai nulla, cade nell’ennesima buca quando deve analizzare le metodologie attuate nella fase investigativa, che sono carenti a dir poco: tutto inizia e finisce sempre con qualcuno che “canta”. Se, poi, cantava una canzone stonata, falsa, bugiarda…per convenienza, ricatto, denaro…poco importa. Tutto deve essere pronto per il processo, affinché possa essere scritta una sentenza che acquieti i parenti delle vittime e, parallelamente, non disgusti troppo gli avvocati della difesa. Altrimenti, questi, come campano?
Il fenomeno del “pentitismo” è stato un vulnus giuridico che ha causato ancor più danni del male che doveva curare: basti pensare alle “intromissioni” nei processi di falsi pentiti da parte delle mafie, per continuare nelle aule giudiziarie le faide con le opposte fazioni.
Il danno più grave, però, è di natura “strutturale” nel Diritto: senza scomodare Cesare Beccaria, i “delitti e le pene” non hanno più correlazione, poiché lo sconto di pena garantito al “pentito” inficia tutto. Si finisce così con un “pentito” assassino che si fa tre anni di carcere, ed un non-pentito od un dissociato che se ne fa venti senza aver ammazzato nessuno.
Durante il sequestro Moro, la partita in gioco era il riconoscimento delle BR come “attore politico” sulla scena italiana: Moro sarebbe stato liberato con la semplice scarcerazione di una terrorista gravemente malata. Lo Stato decise di non cedere – posizione di DC e PCI – mentre il Partito Socialista era per la trattativa.
Il timore di riconoscere nelle BR un soggetto politico ebbe il sopravvento ma, la scelta del “pentitismo”, fu meno grave?
La delazione è uno degli strumenti principali della guerra: per soldi o per sesso, per amore o per ideologia, la cosa importante è sapere cosa farà il nemico.
Per questa ragione, si passa spesso oltre le responsabilità personali dei “traditori”: basti pensare a quanti ex nazisti passarono direttamente nelle file dei servizi occidentali in funzione antisovietica, oppure concordarono la ritirata con i sovietici a guerra ancora in corso o, ancora, preferirono vendere ponti e strade agli Alleati piuttosto che difenderli. Stupirà sapere che le fucilazioni degli ufficiali, durante la ritirata dalla Francia, erano all’ordine del giorno nella Wehrmacht.
Cosa c’entra tutto ciò con Battisti?
Se si ammette che la delazione sia valido strumento anche nell’attività investigativa, s’assegna la qualifica di “nemico” anche a chi si ribella, seppur con le armi: ricordiamo che, per la Legge, un rapinatore non è un “nemico dello Stato”, bensì un criminale da arrestare ed imprigionare non solo per criteri punitivi, bensì di rieducazione. Un concetto un po’ distante dal “nemico”, che viene ucciso oppure catturato per essere scambiato.
In fin dei conti, quel “riconoscimento” negato politicamente alle BR, finì addirittura per qualificarle come una sorta di “nemico”, che è ancor peggio, anche sotto il profilo del riconoscimento politico.
Questa perversa modalità investigativa, cosa produsse?
Che i capi delle organizzazioni terroristiche – spesso colpevoli d’efferati delitti – avevano molti elementi da fornire agli inquirenti: ogni arresto, meno anni da scontare.
La “lista”, però, finisce e termina soprattutto – troppo presto! – per le seconde e le terze linee, che si trovano in situazioni drammatiche: con le solo imputazioni di banda armata e porto d’arma da guerra – ad esempio – già avevano sul groppone circa 18 anni da scontare e, questo, anche se non avevano partecipato ad azioni violente!
Sull’altro versante, chi accusare?
I magistrati ponevano l’aut aut senza condizioni: o parli, o quei 18 anni te li fai tutti.
Nella fase terminale del terrorismo, s’ebbero delle situazioni aberranti con gente – conosciuta personalmente – che scontò 5 anni e mezzo di una condanna a 9 anni per aver bruciato, di notte, la porta di una banca. Per contro, i tre anni di carcere che ha effettivamente scontato Barbone, colui che diede il colpo di grazia a Walter Tobagi.
Tutto dipendeva da quanti nomi riuscivi a fare: persone immediatamente catturate che si trovavano a fare i conti con reati assurdi che (spesso) non avevano commesso, solo accusati da qualcuno per avere lo “sconto”. Quelle vite sfortunate entrarono nel gran supermercato della giustizia (minuscolo) e passarono anni d’ansie e carte bollate: riflettiamo sull’aberrazione massima, quella che condusse in carcere il presentatore televisivo Tortora, forse perché d’altra “tortora” si trattava.
L’ex Presidente Cossiga provò a suggerire alle forze politiche una sorta di “chiusura” di quel periodo, proprio perché si rendeva conto che non fu giustizia, ma vendetta, nella maggior parte delle vicende giunta a casaccio, ma non fu ascoltato. Perché?
Poiché, ancora oggi, personaggi importanti come Gianni Alemanno proteggono ex criminali, assegnano addirittura loro posti pubblici dai quali i “beneficiati” si permettono di sbeffeggiare il movimento degli studenti e gli ebrei. E Marco Barbone? Che oggi fa il giornalista (scrive su “Il Giornale”) ed è Responsabile per la Comunicazione della Compagnia delle Opere (CL)?
Il processo Sofri? Terminato 4-3 (4 condanne, 3 assoluzioni) come Italia-Germania del 1970: si può esser certi di una verità processuale dopo un simile percorso?
Come sempre, nella misera giustizia italiana, non è importante che “il” colpevole paghi, bensì che “qualcuno” paghi: in questo senso, Cesare Battisti – un borderline, criminale comune, non ricco, senza amicizie altolocate – è perfetto per essere sbattuto sulla forca ad uso e consumo dell’opinione pubblica assetata di sangue, la stessa gente ammaestrata a cercare i colpevoli ed a condannarli nei processi televisivi imbastiti dai maggiordomi della politica come Vespa & company.
Non sono dunque le condanne comminate a Battisti ad essere contestate dalla Francia prima e dal Brasile oggi, bensì la giustizia italiana nel suo complesso, incapace di dirimere una causa civile prima dei vent’anni e solo pronta a sparare nel mucchio nei processi penali, tanto per acquietare le statistiche.
La vicenda, poi, s’intreccia con le commesse e le transazioni economiche fra i due Paesi: volendo pensar male, al Brasile fa comodo un’arma come Battisti per spuntare migliori condizioni nel settore della difesa e delle telecomunicazioni, ed al Governo Italiano conviene minimizzare la vicenda, poiché Brasilia potrebbe rivolgersi altrove.
Così come, alla cosiddetta opposizione, può convenire soffiare sul fuoco non per la questione in sé, ma per misere questioni di bagarre interne e di compravendita di “spazi” all’interno della politica “champagne” italiana.
Così, all’apparenza, sembrerebbe una vicenda zeppa di valori “etici” – chi sbaglia paga, ecc… – mentre, in realtà, è una fogna d’interessi contrapposti: c’è solo da sperare che la “soluzione” non sia del tipo Stammheim.
Già che vogliamo incarcerare in Italia Battisti, non sarebbe una buona occasione per aprire gli archivi di Stato e conoscere finalmente i nomi di coloro che cambiarono la nostra Storia a suon di bombe? Esecutori e mandanti?
Già, meglio che Battisti resti in Brasile.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Piero Calamandrei
Non si comprende bene chi stia giocando e, soprattutto, cosa si stia giocando sulla vita di Cesare Battisti, perché di segnali contradditori ce ne sono molti. Anzi, troppi.
Nella vulgata imperante Battisti è considerato colpevole (poiché condannato con sentenze passate in giudicato) per ben quattro omicidi ma, se si va un poco a spulciare quelle vicende giudiziarie, subito salta agli occhi che si trattò di processi indiziari nei quali la parola definitiva – la vera “giuria” – fu quella dei cosiddetti “pentiti”.
Prima di passare all’analisi, invito a leggere la ricostruzione presente su Carmilla on line – collegamento in nota[1] – per capire come la vicenda processuale di Battisti – vista dall’estero, dalla Francia al Brasile – puzzi di bruciato al punto da non concedere l’estradizione.
Per contrappasso, potrete leggere le “parallele” vicende di Marco Barbone[2] e di Delfo Zorzi[3], che ci aiutano a capire come la logica giuridica di quegli anni fu un pudding fra i classici “due pesi e due misure”, amicizie influenti, interessi di bottega e servizi segreti a gogò, più il classico “caso”, che attiene a fortune e sfortune personali.
Se ancora non basta, ricordiamo che Piazza Fontana e Piazza della Loggia, Ustica ed il Moby Prince, Giuseppe Pinelli e Carlo Giuliani (e tanti altri) ancora aspettano che qualcuno racconti cosa veramente successe. Per contrappasso, gli “assassini del Circeo” ebbero vita facile con ridicole evasioni e quant’altro, al punto che uno di essi riuscì addirittura a farsi assegnare un lavoro fuori del carcere, cosicché riuscì ad uccidere altre due donne, madre e figlia.
In anni più vicini a noi, tutti si fecero un baffo della vicenda del Cermis, laddove i colpevoli – che potevano essere trattenuti e processati in Italia – furono estradati negli USA, dove ricevettero il solito rimbrotto e basta.
Questo Paese, dove non s’affronta mai nulla, cade nell’ennesima buca quando deve analizzare le metodologie attuate nella fase investigativa, che sono carenti a dir poco: tutto inizia e finisce sempre con qualcuno che “canta”. Se, poi, cantava una canzone stonata, falsa, bugiarda…per convenienza, ricatto, denaro…poco importa. Tutto deve essere pronto per il processo, affinché possa essere scritta una sentenza che acquieti i parenti delle vittime e, parallelamente, non disgusti troppo gli avvocati della difesa. Altrimenti, questi, come campano?
Il fenomeno del “pentitismo” è stato un vulnus giuridico che ha causato ancor più danni del male che doveva curare: basti pensare alle “intromissioni” nei processi di falsi pentiti da parte delle mafie, per continuare nelle aule giudiziarie le faide con le opposte fazioni.
Il danno più grave, però, è di natura “strutturale” nel Diritto: senza scomodare Cesare Beccaria, i “delitti e le pene” non hanno più correlazione, poiché lo sconto di pena garantito al “pentito” inficia tutto. Si finisce così con un “pentito” assassino che si fa tre anni di carcere, ed un non-pentito od un dissociato che se ne fa venti senza aver ammazzato nessuno.
Durante il sequestro Moro, la partita in gioco era il riconoscimento delle BR come “attore politico” sulla scena italiana: Moro sarebbe stato liberato con la semplice scarcerazione di una terrorista gravemente malata. Lo Stato decise di non cedere – posizione di DC e PCI – mentre il Partito Socialista era per la trattativa.
Il timore di riconoscere nelle BR un soggetto politico ebbe il sopravvento ma, la scelta del “pentitismo”, fu meno grave?
La delazione è uno degli strumenti principali della guerra: per soldi o per sesso, per amore o per ideologia, la cosa importante è sapere cosa farà il nemico.
Per questa ragione, si passa spesso oltre le responsabilità personali dei “traditori”: basti pensare a quanti ex nazisti passarono direttamente nelle file dei servizi occidentali in funzione antisovietica, oppure concordarono la ritirata con i sovietici a guerra ancora in corso o, ancora, preferirono vendere ponti e strade agli Alleati piuttosto che difenderli. Stupirà sapere che le fucilazioni degli ufficiali, durante la ritirata dalla Francia, erano all’ordine del giorno nella Wehrmacht.
Cosa c’entra tutto ciò con Battisti?
Se si ammette che la delazione sia valido strumento anche nell’attività investigativa, s’assegna la qualifica di “nemico” anche a chi si ribella, seppur con le armi: ricordiamo che, per la Legge, un rapinatore non è un “nemico dello Stato”, bensì un criminale da arrestare ed imprigionare non solo per criteri punitivi, bensì di rieducazione. Un concetto un po’ distante dal “nemico”, che viene ucciso oppure catturato per essere scambiato.
In fin dei conti, quel “riconoscimento” negato politicamente alle BR, finì addirittura per qualificarle come una sorta di “nemico”, che è ancor peggio, anche sotto il profilo del riconoscimento politico.
Questa perversa modalità investigativa, cosa produsse?
Che i capi delle organizzazioni terroristiche – spesso colpevoli d’efferati delitti – avevano molti elementi da fornire agli inquirenti: ogni arresto, meno anni da scontare.
La “lista”, però, finisce e termina soprattutto – troppo presto! – per le seconde e le terze linee, che si trovano in situazioni drammatiche: con le solo imputazioni di banda armata e porto d’arma da guerra – ad esempio – già avevano sul groppone circa 18 anni da scontare e, questo, anche se non avevano partecipato ad azioni violente!
Sull’altro versante, chi accusare?
I magistrati ponevano l’aut aut senza condizioni: o parli, o quei 18 anni te li fai tutti.
Nella fase terminale del terrorismo, s’ebbero delle situazioni aberranti con gente – conosciuta personalmente – che scontò 5 anni e mezzo di una condanna a 9 anni per aver bruciato, di notte, la porta di una banca. Per contro, i tre anni di carcere che ha effettivamente scontato Barbone, colui che diede il colpo di grazia a Walter Tobagi.
Tutto dipendeva da quanti nomi riuscivi a fare: persone immediatamente catturate che si trovavano a fare i conti con reati assurdi che (spesso) non avevano commesso, solo accusati da qualcuno per avere lo “sconto”. Quelle vite sfortunate entrarono nel gran supermercato della giustizia (minuscolo) e passarono anni d’ansie e carte bollate: riflettiamo sull’aberrazione massima, quella che condusse in carcere il presentatore televisivo Tortora, forse perché d’altra “tortora” si trattava.
L’ex Presidente Cossiga provò a suggerire alle forze politiche una sorta di “chiusura” di quel periodo, proprio perché si rendeva conto che non fu giustizia, ma vendetta, nella maggior parte delle vicende giunta a casaccio, ma non fu ascoltato. Perché?
Poiché, ancora oggi, personaggi importanti come Gianni Alemanno proteggono ex criminali, assegnano addirittura loro posti pubblici dai quali i “beneficiati” si permettono di sbeffeggiare il movimento degli studenti e gli ebrei. E Marco Barbone? Che oggi fa il giornalista (scrive su “Il Giornale”) ed è Responsabile per la Comunicazione della Compagnia delle Opere (CL)?
Il processo Sofri? Terminato 4-3 (4 condanne, 3 assoluzioni) come Italia-Germania del 1970: si può esser certi di una verità processuale dopo un simile percorso?
Come sempre, nella misera giustizia italiana, non è importante che “il” colpevole paghi, bensì che “qualcuno” paghi: in questo senso, Cesare Battisti – un borderline, criminale comune, non ricco, senza amicizie altolocate – è perfetto per essere sbattuto sulla forca ad uso e consumo dell’opinione pubblica assetata di sangue, la stessa gente ammaestrata a cercare i colpevoli ed a condannarli nei processi televisivi imbastiti dai maggiordomi della politica come Vespa & company.
Non sono dunque le condanne comminate a Battisti ad essere contestate dalla Francia prima e dal Brasile oggi, bensì la giustizia italiana nel suo complesso, incapace di dirimere una causa civile prima dei vent’anni e solo pronta a sparare nel mucchio nei processi penali, tanto per acquietare le statistiche.
La vicenda, poi, s’intreccia con le commesse e le transazioni economiche fra i due Paesi: volendo pensar male, al Brasile fa comodo un’arma come Battisti per spuntare migliori condizioni nel settore della difesa e delle telecomunicazioni, ed al Governo Italiano conviene minimizzare la vicenda, poiché Brasilia potrebbe rivolgersi altrove.
Così come, alla cosiddetta opposizione, può convenire soffiare sul fuoco non per la questione in sé, ma per misere questioni di bagarre interne e di compravendita di “spazi” all’interno della politica “champagne” italiana.
Così, all’apparenza, sembrerebbe una vicenda zeppa di valori “etici” – chi sbaglia paga, ecc… – mentre, in realtà, è una fogna d’interessi contrapposti: c’è solo da sperare che la “soluzione” non sia del tipo Stammheim.
Già che vogliamo incarcerare in Italia Battisti, non sarebbe una buona occasione per aprire gli archivi di Stato e conoscere finalmente i nomi di coloro che cambiarono la nostra Storia a suon di bombe? Esecutori e mandanti?
Già, meglio che Battisti resti in Brasile.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.