Basta, con ‘sta roba che si rompe!
Nel lontano 1978, mia moglie acquistò un frullatore (una “frusta”) elettrica di marca Moulinex. Nel 1981, acquistai (usata) una Lancia Fulvia HF 1300. Nel 1988, stufo d’ascoltare i bambini che recitavano – sull’onda della pubblicità della FIAT Uno – “scomodosa come nessuno”, mi rassegnai a venderla e passai ad una Lancia berlina, la quale mi fece rimpiangere mille volte la Fulvia. Nel 2010, per frullare, mia moglie continua ad utilizzare il frullino Moulinex del 1978.
A dire il vero, accalappiati dalle luci dell’Ipercoop, ci lasciammo andare – lo scorso Natale – all’acquisto di un “robot di cucina” milleusi, di quelli che dovrebbero fare dal frappé al pesto. Risultato: il “robot” è già in soffitta – dopo aver spiaccicato sugo sui muri della cucina – ed il vecchio Moulinex del 1978 continua a non perdere un colpo. E che Dio lo protegga.
La mia vecchia Fulvia, per quel che sono riuscito a sapere, la acquistò un collezionista di Imperia, il quale la rivendette e – mi è stato detto – qualcuno ancora la guida ai raduni delle auto d’epoca.
Una persona di mia conoscenza, oramai più che sessantenne, acquistò una Fulvia dopo la laurea e tuttora è l’unica automobile che ha posseduto, a parte una vecchia “500” per le visite domiciliari in città. «E’ una delle migliori macchine che siano mai state costruite» mi confessò «ed io – ovvio che la manutenzione costa – non intendo separarmene.»
Sarà pur costosa la manutenzione ma, a conti fatti, un’auto che dura 40 anni di soldi te ne fa risparmiare, e parecchi: pensiamo solo ai costi d’immatricolazione, passaggi di proprietà, ecc.
Io stesso, quando ancora ero un “fortunato” che girava in Fulvia, fui avvicinato da un tizio che non smetteva d’osservarla. «Ho una Lancia Delta da rally ma, se trovassi una buona Fulvia 1600 “fanalone", farei cambio senza pensarci un attimo». Osservai il “gioiello” del quale si sarebbe disfatto: sapevo che, all’epoca, costava più di 60 milioni di lire. «Non c’è niente da fare» ripeteva scotendo la testa «la “vecchia” è superiore…»
La mia Fulvia era costata, usata, 1,1 milioni di lire che – considerando lo stipendio dell’epoca – corrispondevano a circa 5.500 euro attuali. Nuova, costava circa 2,7 milioni di lire, vale a dire sette stipendi dell’epoca, facciamo circa 14.000 euro del giorno d’oggi. Considerando l’inflazione (l’auto era del 1974) forse erano 20.000 euro.
E, all’epoca, ero un giovane insegnante che non guadagnava certo cifre da nababbo (come, del resto, oggi), eppure non dovetti fare chissà quali sacrifici per acquistarla e gestirla.
Questi esempi servono per chiarire che – quando parliamo di “beni” – è la globalizzazione a dettare “l’agenda”: per loro, un “bene” è un “bene” e basta, perfettamente intercambiabile con un altro “bene” di eguale natura. Il che, è vero per un c… di niente. E la qualità? La durata? L’affidabilità?
Una delle ultime fregature prese ad un ipermercato – poi, nei limiti del possibile, ho detto “basta” – fu un’affettatrice per salumi: casa nuova…affettatrice nuova…basta con quelle “robe” con la lama seghettata, che sbrindellano tutto…
Detto fatto: acquistata nel 1999 per circa 170.000 lire, rimase imballata per due anni, fino alla trionfale comparsa in cucina, nella nuova casa.
Lama auto-affilante a filo continuo, carrello e tutto il resto in acciaio inox…sembrava il non plus ultra. Finché.
Finché una sera, improvvisamente, il motore continuò a girare e la lama rimase ferma: cos’era successo?
Chiavi e cacciaviti…smontiamo (la garanzia era ormai scaduta).
Il meccanismo era semplice – motore, vite senza fine, riduttore di giri, “cascata” d’ingranaggi…sì…ma, in mezzo agli ingranaggi metallici, ce n’era uno di plastica. Di plastica?!?
Avrò forzato un po’…negozio dei ricambi, ingranaggio nuovo (di plastica, ma al prezzo del Titanio) e via. Dopo qualche settimana, di nuovo rotta: allora, capii. Non poteva essere un sistema di protezione, perché sarebbe stato inserito sulla parte elettrica, come avviene normalmente per i phon.
L’ingegnere che l’aveva progettata, non era per niente stupido e conosceva benissimo la storia dei vasi di ferro e del vaso di coccio, al punto d’applicarla meticolosamente, secondo i dettami ricevuti dalla dirigenza: per la cronaca, l’ho buttata e sopravvivo benissimo con una serie di coltelli giapponesi, pagati un’inezia, che tagliano meglio di una katana.
Sempre in quegli anni – i più giovani non potranno ricordare – ci fu un breve periodo nel quale giunsero in Italia prodotti marcati “made in DDR”, la Repubblica Democratica Tedesca, la Germania Est.
Un giorno, incuriosito da una serie di cianfrusaglie in un piccolo supermercato, fui attratto dal prezzo – addirittura ridicolo – di un pialletto. Avevo già un buon pialletto di marca Bosh ma – riflettendo che aveva già parecchi anni – per poche lire acquistai il pialletto made in DDR.
Fui sorpreso, giunto a casa, nell’osservare che – nella confezione – erano presenti i “carboncini” di ricambio per il motore e, addirittura, la cinghia dentata di trasmissione più altri ammennicoli. Ovviamente, tutte le chiavi necessarie per smontarlo: roba di buona qualità, mica i soliti “plasticoni” che ti lasciano il manico in mano alla prima torsione.
Non posso dare un giudizio sul pialletto made in DDR, perché il vecchio pialletto Bosh ha oramai superato i 20 anni di vita e continua a funzionare, nonostante i chiodi che hanno offeso più volte le lame. E’ là, nuovo, che attende, con tutti i ricambi nella scatola: mi sa che dovrò ricordarlo nel testamento.
E come mai, da anni, io e mia moglie usiamo due telefoni cellulari gemelli, snobbati dai nostri figli?
Caduti innumerevoli volte a terra, cambiate più volte le batterie, i nostri vecchi Nokia 3310 continuano imperterriti a funzionare, al punto che non vediamo proprio la necessità di sostituirli.
Potrei continuare con altri esempi, ma è l’ora di giungere al sodo: perché tutto si rompe? Lessi, anni fa, un libro di uno scrittore americano che si lagnava perché tutto si rompeva. Si chiedeva: com’è possibile che, nei grandi USA, non siamo più in grado di costruire un tostapane che funzioni?
Il fenomeno è dunque planetario: già, “globalizzato”. E, questo, è un argomento imprescindibile se si vuole parlare di decrescita.
PIL o non PIL?
Nel fantasmagorico mondo del capitalismo globalizzato, a nessuno importa un fico secco se il vostro frullatore si rompe, se s’incrina il parabrezza dell’auto, se una gomma nuova di trinca scoppia. L’importante è costruirne altre per incrementare il PIL.
Ma, utilizzare un indicatore come il PIL per discutere sulla decrescita è – a nostro avviso – come pretendere d’usare un foglio di carta per girare la frittata: incongruo, inutile, dannoso. Lo sconosciuto re del Buthan (paese buddista) aveva proposto di sostituirlo con il QFN – Quoziente di Felicità Netta – ma nessuno lo prese sul serio. Figuriamoci, un piccolo re di uno Stato himalayano…’ste favole dei lama e tutto il resto…siamo seri!
Ma, se analizziamo cosa è il PIL, di serietà ne rimane ben poca: viene la voglia di recarsi in Buthan per fare quattro chiacchiere con quel re e passare, al ritorno, a New York per ridere in faccia a Lloyd Blankfein, il “capoccione” di Goldman Sachs.
Anzitutto, coloro i quali s’esaltano “perché il PIL segnerà, probabilmente, un incremento dello 0,2% su base annua…” sono dei mestatori nel torbido o degli idioti. Scusate la franchezza. Ma anche coloro che lo utilizzano per dissertare sulla decrescita non fanno certo una gran figura.
Il PIL è definito[1] “il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno) e destinati ad usi finali”: non dimentichiamo, però, che è soltanto un “indicatore” e non un “parametro”. La differenza non è questione di lana caprina.
Una semplice cartina al tornasole “indicherà” se l’ambiente è basico oppure acido cambiando di colore, ma non ci potrà mai fornire il valore del pH. Per farlo, dovremo usare un pH-metro, ossia un apparecchio di precisione in grado di fornirci un dato preciso: non “pH acido” in generale, bensì pH 3,8. Quel “3,8” è un parametro scientifico, utilizzabile per intervenire e modificare il pH della soluzione, la cartina al tornasole no.
Perché la rozza somma di beni e servizi non serve a niente?
Poiché in quella somma ci sono – solo per citare un esempio – le migliaia di capannoni costruiti, totalmente o parzialmente, con il sistema del “prendi i soldi e scappa” dei finanziamenti europei. Roba comune: basta che un qualsiasi magistrato dia uno sguardo dalla finestra e potrà aprire un fascicolo. Oppure tutte le spese sostenute per tappare la falla nel Golfo del Messico (o cercare di farlo) e così via. Nel PIL troviamo anche la “catena” di schifezze e corruzione che sono il corollario della cosiddetta “emergenza monnezza” in Campania, che sta distruggendo la Regione. E’ una roba seria?
Il PIL – come la cartina al tornasole – potrà evidenziare grandi eventi: ad esempio, se in un Paese il PIL crolla del 50%, significherà che qualcosa è avvenuto ma – sia lo 0,2% sia il 50% – non ci potranno mai far conoscere la natura di quella variazione.
Per saperne di più, dovremo scendere nell’analisi dei fenomeni che hanno prodotto quei mutamenti, ossia utilizzare i metodi scientifici i quali, pur concedendo tutti i limiti della scienza, ci potranno fornire un quadro senz’altro più esaustivo.
Invece, con scienziati prezzolati ed un solo “indicatore” per misurare la validità di un sistema economico, viviamo nella menzogna che si trasforma in farsa: il settore automobilistico ha un surplus produttivo (poniamo) del 30%? Basta ridurre la vita utile dell’automobile di un anno, e – per i chierici del PIL – si torna in pari.
Ecco dove il concetto generico di “bene” o di “servizio” è perfettamente coerente con il liberismo: senza indagare la natura, la fruibilità, la durata, gli esiti di quel bene e di quel servizio, tutto si riduce a mera aritmetica. E, il sistema globalizzato dell’economia liberista, può solo utilizzare quel metodo, giacché è soltanto un rozzo pudding fatto di “risorse umane” (non a caso, “risorse”…), energia, capitali e materie prime.
I manager, poi, sono coloro che devono creare la pozione e – non dimentichiamo – gli stessi manager sono coloro i quali, sulla base dei diktat dei consigli d’amministrazione, intervengono sull’obsolescenza programmata dei beni, sui servizi che devono risolvere sì qualcosa (BigPharma?), ma mai abbastanza per non far calare la domanda.
L’ingranaggio di plastica del mio frullatore ed i tostapane subito scassati dello scrittore americano, sono direttive “express” dell’Amministratore Delegato di turno.
Il cerchio si chiude quando, chi dovrebbe controllare per conto dei cittadini, è a regime paga di questi ignorantissimi “guru”: vuoi campare come un nababbo, fare il fancazzista a vita in Parlamento? Vota e taci.
Anche una bomba è un “bene” destinato ad un “utilizzatore finale”…ma…serve per migliorare le condizioni di vita del “utilizzatore” oppure del costruttore? La cosa non è spicciolo pacifismo: già Bernal[2] – uno dei massimi storici della Scienza – metteva in guardia sul “progresso” della ricerca scientifica.
Intorno al 1935, i fondi destinati alla ricerca militare superarono quelli destinati alla ricerca civile e, da quel momento, non c’è stata inversione di percorso: nel periodo della Guerra Fredda il rapporto fra ricerca militare e civile giunse al valore di 10 : 1. Per giustificare l’obbrobrio, s’inventarono la balla della “ricaduta” delle scoperte in ambito civile.
Dunque, fateci ragionare…sarebbe a dire che, per avere una cestina “tecnologica” per andare a funghi…dovrei recarmi in una fabbrica dove costruiscono involucri per missili e sperare, con un po’ di fortuna, che abbiano scoperto un materiale leggero e resistente, con il quale si possano fare delle cestine in lega d’Alluminio, Magnesio, Litio…oppure, che dalla ricerca sulle armi batteriologice, “salti fuori” un nuovo antibiotico? Che lo stesso chip progettato per lo sgancio di una bomba funzioni anche per avviare la caldaia?
Non sarebbe meglio avviare direttamente la ricerca per le cestine, gli antibiotici e le caldaie?
Ci sembra, tutto sommato, una delle peggiori contorsioni che si possano immaginare. Che merita un capitolo ad hoc.
Storie di guerre e di saggi di profitto
La nuda realtà è che non c’è nulla come la guerra per distruggere in gran copia…per poter ricostruire! Sembra l’Uovo di Colombo, ma penso che pochi abbiano riflettuto sulla quantità di tonnellaggio navale che fu affondato nelle due guerre mondiali. Tenetevi forte.
Cito[3]: Essa (la guerra sottomarina N. d. A.) portò alla distruzione di circa la metà del tonnellaggio mercantile esistente nel 1939. Più di 21.000.000 di tonnellate di stazza lorda perdute dagli Alleati e 12.000.000 dall’Asse, ossia il doppio del tonnellaggio affondato globalmente dal 1914 al 1918.
Dunque…33 milioni di tonnellate nella Seconda, la metà nella Prima…quasi 50 milioni di stazza lorda (calcolate con la tonnellata inglese) riposano sul fondo dei mari! Sono migliaia e migliaia di navi, ciascuna delle quali richiese anni di lavoro nei cantieri – e prima nelle miniere, nella siderurgia, nei trasporti… – per essere, semplicemente…distrutte! E non consideriamo i dati sul tonnellaggio militare! E solo a causa dei sommergibili!
Se aggiungiamo tutto il resto (armi varie, tank, aerei, ecc) si può tranquillamente affermare che due o tre generazioni – nell’intero pianeta! – lavorarono soltanto per vedere le loro opere distrutte!
La guerra è il migliore affare, perché consuma quantità enormi di materiali: un semplice volo d’addestramento, per un velivolo da caccia odierno, significa diverse migliaia di litri di kerosene bruciati!
E prima delle guerre mondiali?
Il capitalismo “accese i fuochi” con l’industria tessile: c’era da colmare un enorme “gap” sul fronte di uno dei bisogni primari, ossia riparare il corpo. Ben presto, però, fu chiaro che la disponibilità era stata raggiunta – ma non per tutti – perché mancavano le risorse per acquistare quei prodotti. Che fare?
Si passò ad un secondo settore – quello che oggi viene chiamato delle “infrastrutture” – ed iniziò la grande avventura ferroviaria. Anche lì c’era un enorme ritardo da colmare: la velocità media nei trasporti era ancora quella delle strade consolari Romane, circa cinque chilometri orari, e con la ferrovia si “balzò” in pochi anni a quaranta.
In circa mezzo secolo – 1830-1880 – non solo l’Europa, ma tante altre parti del pianeta furono dotate di ferrovie: dalle prime linee inglesi del 1830 si passò, al 1880, a decine di migliaia di chilometri di strada ferrata in Europa e negli USA, mentre c’erano oramai ferrovie in Australia ed in Sudafrica. Miracolo?
No, fu l’intervento dei banchieri – soprattutto della banca Rothschild – che con l’avventura ferroviaria diventarono i veri deus ex machina del capitalismo, accantonando utili enormi, giungendo al punto che – mentre i Re Savoia, guerra dopo guerra, cercavano di conquistare i territori austriaci in Italia – emissari austriaci delle banche europee tessevano le trame per collegare Torino a Bologna, passando per i Ducati Emiliani. Insomma, la diplomazia bancaria austriaca se ne faceva beffe della politica di Franz Josef.
Con quel mare di soldi che iniziò a circolare, i banchieri ottennero un secondo, importante risultato.
Una miriade di senza terra lavorarono per decenni nella costruzione delle ferrovie e raggranellarono qualche soldo, con il quale costruirono case, aprirono botteghe, acquistarono poderi. Il capitalismo correva felice, come le sbuffanti vaporiere.
Quando, oggi, i governi affermano di voler “premere” sul settore delle infrastrutture, cercano di recitare un copione desueto, perché – al punto in cui siamo – la costruzione di un misero tratto autostradale non sposta di una virgola il problema. Diverso sarebbe il caso di spostare i traffici sulle vie d’acqua, ma il consumo specifico d’energia per singola tonnellata scenderebbe ad un terzo: sarebbe decrescita! Risparmio, odiosa parola! Giammai!
Intorno al 1880, però, s’iniziò ad avvertire odore di saturazione ed il saggio di profitto cominciò a decrescere: in altre parole, semplificando, non si poteva più sperare domani di guadagnare quel che s’era guadagnato ieri.
Siamo al 1880 e – che caso! – s’iniziano ad avvertire tintinnii di baionette: le due “Triplici” affilano i coltelli in Europa e gli italiani seminano forti per tutto l’arco ligure, perché i francesi arriveranno, oh come arriveranno…proprio come Napoleone…anche costruire fortificazioni genera profitti! Oggi, sono ancora là e nessuno sa cosa farsene: eh, se ci fossero dei soldi per demolirle…di quanto salirebbe il PIL ligure?
Il terzo risultato ottenuto dai banchieri fu quello d’accumulare ricchezze inestimabili, ma le ferrovie languono, le navi stanno passando alla trazione meccanica e consentono risparmi – Dio, quella parola, com’è odiosa! – sui trasporti…dobbiamo trovare delle soluzioni…e se prestassimo quei soldi per costruire armi? Difatti, i Rothschild divennero i gran fornitori di risorse per lo sforzo bellico britannico, che a fine guerra richiesero con gli interessi. Proprio come i loro antenati fiorentini con i Re inglesi della guerra dei Cent’anni.
Di conseguenza, avvengono le due colossali tragedie da milioni di morti, nelle quali possiamo addirittura osservare il ridicolo di un Thyssen che, praticamente, “crea” Hitler per poi fuggire nel 1935 negli USA e, da lì, dirige i suoi “affari di guerra” in Germania con l’appoggio di un personaggio un po’ eccentrico, un tale Prescott Bush. Il quale, diventerà padre e nonno di presidenti USA. Se volete leggere[4] prendetevene “una vista”, ma c’è veramente tanto da leggere su queste faccende, ad iniziare dai libri di Giorgio Galli.
Per fortuna, la guerra ha generato così tante distruzioni da consentire qualche decennio di respiro – il saggio di profitto torna a crescere – e c’è la Guerra Fredda, che consente – con la paura del “terrore rosso” – di foraggiare fabbriche e cantieri, per costruire ferraglia militare. Qui, però, inizia qualche problema.
Il primo è l’incognita di queste maledette armi nucleari: va bene distruggere – di ammazzare chi se ne frega – ma non si sa con l’Atomo dove s’andrà a finire. Le parole di Einstein – “la Quarta Guerra Mondiale sarebbe stata combattuta con pietre e bastoni” – echeggiano, pesano, lasciano intravedere un futuro tenebroso anche per i banchieri. E poi, la Guerra Fredda finisce.
Per capire quanto la Guerra Fredda premesse sull’acceleratore della ferraglia militare, basti riflettere che F-15 ed F-16 – alla comparsa dei Mig-29 e dei Su-27 (anni ’80) – furono considerati obsoleti, senza più margini di superiorità sui velivoli sovietici: furono messi in cantiere i nuovi progetti, F-22 ed F-35. Oggi, dopo 20 anni, F-15 ed F-16 continuano ad essere “l’architrave” dell’aeronautica USA.
Senza guerra, fredda o calda, cosa si può fare? Ci fossero almeno pianeti abitabili ad una distanza accettabile dalla Terra…sì, qualcosa si potrebbe fare…ma non ci sono, maledizione! Certo, si vanno ad accendere le caldaie della Cina, ma il risultato è un’ancor maggiore quantità di beni che vanno ad invadere i mercati. Non si distrugge nulla, maledizione!
L’unica soluzione, allora, è inserire un minuscolo “virus” a tempo in ogni bene – l’ingranaggio di plastica della mia affettatrice – per fare in modo che si auto-distrugga da solo. Poi…qualche piccola guerra qui e là qualcosa renderà…ma sono lontani i tempi delle battaglie dello Jutland e di Midway: eh, scuotono la testa i banchieri: centinaia di navi che solcavano gli oceani, che sparavano, affondavano…migliaia di aerei che bombardavano…eh, bei tempi…
Anche i servizi sociali devono essere messi sotto controllo, perché non bisogna correre il rischio che risolvano qualcosa! Sono zeppi di gente raccomandata, non funzionano, buttano soldi? Bene! Così la farmaceutica internazionale potrà gestire le malattie in modo che non si guarisca mai, che ci sia una pillola da ingoiare per tutti, per l’intera vita!
Istruzione: azzerare! Sanità: azzerare! Previdenza: azzerare! Tutto deve essere privato, cioè fornito da noi, che ci guarderemo bene dal risolvere qualsiasi problema…anzi…cercheremo di moltiplicarli! Vedere, come esempio, la previdenza USA quando fallisce un fondo-pensione.
Ma non basta ancora.
Con l’attuale “crisi finanziaria” – un eufemismo, sia chiaro – si raggiunge il massimo: nonostante la poca affidabilità di tutto quello che si produce – ‘sta merda non si rompe abbastanza in fretta! – iniziano a mancare i soldi per comprarla. E allora? Creiamo un bel giochino di scatole cinesi, con il quale – grazie alla scommessa sulla scommessa della scommessa su una roba che non c’era – facciamo finta che ci siano tanti bei dollaroni. Gente: comprate, indebitatevi!
Poi, si giunge “al paragone”, perché qualcuno deve pur pagare quei debiti: gli Stati, i tanto bistrattati stati nazionali i quali, a loro volta, stramazzano le popolazioni, tassandole e togliendo letteralmente loro il pane di bocca, beni e servizi azzerati, disoccupazione, fame.
Iniziano a fallire banche d’affari nel Gotha della finanza internazionale mentre – a complicare la faccenda – quelle “caldaie” accese in Cina si sono moltiplicate anche in India e Brasile, mentre una Russia fornitrice di energia e tecnologia militare si sfrega le mani. E l’equilibrio geopolitico durato cinque secoli va a puttane, con ‘sti cazzo di talebani che si prendono gioco della grande NATO, quella che doveva sconfiggere l’Orso Sovietico.
La favola del capitalismo, iniziata probabilmente in una Firenze rinascimentale – nella quale qualcuno si chiedeva come fare a tessere una camicia per tutti – è lentamente tracimata prima nel bieco dominio coloniale, quindi nella tragedia bellica. Oggi, con i teatrini delle case a Montecarlo, dei voti in Parlamento per non concedere – non una condanna! non un arresto! – ma la semplice possibilità d’indagare su una persona che nessuno ha eletto se non il suo capo, la farsa è sotto i nostri occhi.
Eppure, il granturco nei campi è pronto per la trebbia, il grano già riposa nei silos, il vento che muove i mulini continua a spirare, il sole a scaldarci, l’acqua a scorrere, l’erba a crescere nella prateria. Ed abbiamo, inoltre, la possibilità di risolvere problemi sanitari con una chirurgia che riesce ad operarti senza squarciarti, abbiamo tecnologie che consentono di creare automobili elettriche quasi eterne, traendo l’energia da quel pozzo senza fondo del vento – da solo, quattro volte l’intero consumo mondiale – più i fiumi d’energia che il sole invia gratuitamente sui deserti ed il consistente contributo dell’acqua.
Abbiamo tutto quel che serve: basta prenderne coscienza, ed iniziare – in tanti – a chiedere un mondo diverso. A risentirci con la terza parte.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Nel lontano 1978, mia moglie acquistò un frullatore (una “frusta”) elettrica di marca Moulinex. Nel 1981, acquistai (usata) una Lancia Fulvia HF 1300. Nel 1988, stufo d’ascoltare i bambini che recitavano – sull’onda della pubblicità della FIAT Uno – “scomodosa come nessuno”, mi rassegnai a venderla e passai ad una Lancia berlina, la quale mi fece rimpiangere mille volte la Fulvia. Nel 2010, per frullare, mia moglie continua ad utilizzare il frullino Moulinex del 1978.
A dire il vero, accalappiati dalle luci dell’Ipercoop, ci lasciammo andare – lo scorso Natale – all’acquisto di un “robot di cucina” milleusi, di quelli che dovrebbero fare dal frappé al pesto. Risultato: il “robot” è già in soffitta – dopo aver spiaccicato sugo sui muri della cucina – ed il vecchio Moulinex del 1978 continua a non perdere un colpo. E che Dio lo protegga.
La mia vecchia Fulvia, per quel che sono riuscito a sapere, la acquistò un collezionista di Imperia, il quale la rivendette e – mi è stato detto – qualcuno ancora la guida ai raduni delle auto d’epoca.
Una persona di mia conoscenza, oramai più che sessantenne, acquistò una Fulvia dopo la laurea e tuttora è l’unica automobile che ha posseduto, a parte una vecchia “500” per le visite domiciliari in città. «E’ una delle migliori macchine che siano mai state costruite» mi confessò «ed io – ovvio che la manutenzione costa – non intendo separarmene.»
Sarà pur costosa la manutenzione ma, a conti fatti, un’auto che dura 40 anni di soldi te ne fa risparmiare, e parecchi: pensiamo solo ai costi d’immatricolazione, passaggi di proprietà, ecc.
Io stesso, quando ancora ero un “fortunato” che girava in Fulvia, fui avvicinato da un tizio che non smetteva d’osservarla. «Ho una Lancia Delta da rally ma, se trovassi una buona Fulvia 1600 “fanalone", farei cambio senza pensarci un attimo». Osservai il “gioiello” del quale si sarebbe disfatto: sapevo che, all’epoca, costava più di 60 milioni di lire. «Non c’è niente da fare» ripeteva scotendo la testa «la “vecchia” è superiore…»
La mia Fulvia era costata, usata, 1,1 milioni di lire che – considerando lo stipendio dell’epoca – corrispondevano a circa 5.500 euro attuali. Nuova, costava circa 2,7 milioni di lire, vale a dire sette stipendi dell’epoca, facciamo circa 14.000 euro del giorno d’oggi. Considerando l’inflazione (l’auto era del 1974) forse erano 20.000 euro.
E, all’epoca, ero un giovane insegnante che non guadagnava certo cifre da nababbo (come, del resto, oggi), eppure non dovetti fare chissà quali sacrifici per acquistarla e gestirla.
Questi esempi servono per chiarire che – quando parliamo di “beni” – è la globalizzazione a dettare “l’agenda”: per loro, un “bene” è un “bene” e basta, perfettamente intercambiabile con un altro “bene” di eguale natura. Il che, è vero per un c… di niente. E la qualità? La durata? L’affidabilità?
Una delle ultime fregature prese ad un ipermercato – poi, nei limiti del possibile, ho detto “basta” – fu un’affettatrice per salumi: casa nuova…affettatrice nuova…basta con quelle “robe” con la lama seghettata, che sbrindellano tutto…
Detto fatto: acquistata nel 1999 per circa 170.000 lire, rimase imballata per due anni, fino alla trionfale comparsa in cucina, nella nuova casa.
Lama auto-affilante a filo continuo, carrello e tutto il resto in acciaio inox…sembrava il non plus ultra. Finché.
Finché una sera, improvvisamente, il motore continuò a girare e la lama rimase ferma: cos’era successo?
Chiavi e cacciaviti…smontiamo (la garanzia era ormai scaduta).
Il meccanismo era semplice – motore, vite senza fine, riduttore di giri, “cascata” d’ingranaggi…sì…ma, in mezzo agli ingranaggi metallici, ce n’era uno di plastica. Di plastica?!?
Avrò forzato un po’…negozio dei ricambi, ingranaggio nuovo (di plastica, ma al prezzo del Titanio) e via. Dopo qualche settimana, di nuovo rotta: allora, capii. Non poteva essere un sistema di protezione, perché sarebbe stato inserito sulla parte elettrica, come avviene normalmente per i phon.
L’ingegnere che l’aveva progettata, non era per niente stupido e conosceva benissimo la storia dei vasi di ferro e del vaso di coccio, al punto d’applicarla meticolosamente, secondo i dettami ricevuti dalla dirigenza: per la cronaca, l’ho buttata e sopravvivo benissimo con una serie di coltelli giapponesi, pagati un’inezia, che tagliano meglio di una katana.
Sempre in quegli anni – i più giovani non potranno ricordare – ci fu un breve periodo nel quale giunsero in Italia prodotti marcati “made in DDR”, la Repubblica Democratica Tedesca, la Germania Est.
Un giorno, incuriosito da una serie di cianfrusaglie in un piccolo supermercato, fui attratto dal prezzo – addirittura ridicolo – di un pialletto. Avevo già un buon pialletto di marca Bosh ma – riflettendo che aveva già parecchi anni – per poche lire acquistai il pialletto made in DDR.
Fui sorpreso, giunto a casa, nell’osservare che – nella confezione – erano presenti i “carboncini” di ricambio per il motore e, addirittura, la cinghia dentata di trasmissione più altri ammennicoli. Ovviamente, tutte le chiavi necessarie per smontarlo: roba di buona qualità, mica i soliti “plasticoni” che ti lasciano il manico in mano alla prima torsione.
Non posso dare un giudizio sul pialletto made in DDR, perché il vecchio pialletto Bosh ha oramai superato i 20 anni di vita e continua a funzionare, nonostante i chiodi che hanno offeso più volte le lame. E’ là, nuovo, che attende, con tutti i ricambi nella scatola: mi sa che dovrò ricordarlo nel testamento.
E come mai, da anni, io e mia moglie usiamo due telefoni cellulari gemelli, snobbati dai nostri figli?
Caduti innumerevoli volte a terra, cambiate più volte le batterie, i nostri vecchi Nokia 3310 continuano imperterriti a funzionare, al punto che non vediamo proprio la necessità di sostituirli.
Potrei continuare con altri esempi, ma è l’ora di giungere al sodo: perché tutto si rompe? Lessi, anni fa, un libro di uno scrittore americano che si lagnava perché tutto si rompeva. Si chiedeva: com’è possibile che, nei grandi USA, non siamo più in grado di costruire un tostapane che funzioni?
Il fenomeno è dunque planetario: già, “globalizzato”. E, questo, è un argomento imprescindibile se si vuole parlare di decrescita.
PIL o non PIL?
Nel fantasmagorico mondo del capitalismo globalizzato, a nessuno importa un fico secco se il vostro frullatore si rompe, se s’incrina il parabrezza dell’auto, se una gomma nuova di trinca scoppia. L’importante è costruirne altre per incrementare il PIL.
Ma, utilizzare un indicatore come il PIL per discutere sulla decrescita è – a nostro avviso – come pretendere d’usare un foglio di carta per girare la frittata: incongruo, inutile, dannoso. Lo sconosciuto re del Buthan (paese buddista) aveva proposto di sostituirlo con il QFN – Quoziente di Felicità Netta – ma nessuno lo prese sul serio. Figuriamoci, un piccolo re di uno Stato himalayano…’ste favole dei lama e tutto il resto…siamo seri!
Ma, se analizziamo cosa è il PIL, di serietà ne rimane ben poca: viene la voglia di recarsi in Buthan per fare quattro chiacchiere con quel re e passare, al ritorno, a New York per ridere in faccia a Lloyd Blankfein, il “capoccione” di Goldman Sachs.
Anzitutto, coloro i quali s’esaltano “perché il PIL segnerà, probabilmente, un incremento dello 0,2% su base annua…” sono dei mestatori nel torbido o degli idioti. Scusate la franchezza. Ma anche coloro che lo utilizzano per dissertare sulla decrescita non fanno certo una gran figura.
Il PIL è definito[1] “il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno) e destinati ad usi finali”: non dimentichiamo, però, che è soltanto un “indicatore” e non un “parametro”. La differenza non è questione di lana caprina.
Una semplice cartina al tornasole “indicherà” se l’ambiente è basico oppure acido cambiando di colore, ma non ci potrà mai fornire il valore del pH. Per farlo, dovremo usare un pH-metro, ossia un apparecchio di precisione in grado di fornirci un dato preciso: non “pH acido” in generale, bensì pH 3,8. Quel “3,8” è un parametro scientifico, utilizzabile per intervenire e modificare il pH della soluzione, la cartina al tornasole no.
Perché la rozza somma di beni e servizi non serve a niente?
Poiché in quella somma ci sono – solo per citare un esempio – le migliaia di capannoni costruiti, totalmente o parzialmente, con il sistema del “prendi i soldi e scappa” dei finanziamenti europei. Roba comune: basta che un qualsiasi magistrato dia uno sguardo dalla finestra e potrà aprire un fascicolo. Oppure tutte le spese sostenute per tappare la falla nel Golfo del Messico (o cercare di farlo) e così via. Nel PIL troviamo anche la “catena” di schifezze e corruzione che sono il corollario della cosiddetta “emergenza monnezza” in Campania, che sta distruggendo la Regione. E’ una roba seria?
Il PIL – come la cartina al tornasole – potrà evidenziare grandi eventi: ad esempio, se in un Paese il PIL crolla del 50%, significherà che qualcosa è avvenuto ma – sia lo 0,2% sia il 50% – non ci potranno mai far conoscere la natura di quella variazione.
Per saperne di più, dovremo scendere nell’analisi dei fenomeni che hanno prodotto quei mutamenti, ossia utilizzare i metodi scientifici i quali, pur concedendo tutti i limiti della scienza, ci potranno fornire un quadro senz’altro più esaustivo.
Invece, con scienziati prezzolati ed un solo “indicatore” per misurare la validità di un sistema economico, viviamo nella menzogna che si trasforma in farsa: il settore automobilistico ha un surplus produttivo (poniamo) del 30%? Basta ridurre la vita utile dell’automobile di un anno, e – per i chierici del PIL – si torna in pari.
Ecco dove il concetto generico di “bene” o di “servizio” è perfettamente coerente con il liberismo: senza indagare la natura, la fruibilità, la durata, gli esiti di quel bene e di quel servizio, tutto si riduce a mera aritmetica. E, il sistema globalizzato dell’economia liberista, può solo utilizzare quel metodo, giacché è soltanto un rozzo pudding fatto di “risorse umane” (non a caso, “risorse”…), energia, capitali e materie prime.
I manager, poi, sono coloro che devono creare la pozione e – non dimentichiamo – gli stessi manager sono coloro i quali, sulla base dei diktat dei consigli d’amministrazione, intervengono sull’obsolescenza programmata dei beni, sui servizi che devono risolvere sì qualcosa (BigPharma?), ma mai abbastanza per non far calare la domanda.
L’ingranaggio di plastica del mio frullatore ed i tostapane subito scassati dello scrittore americano, sono direttive “express” dell’Amministratore Delegato di turno.
Il cerchio si chiude quando, chi dovrebbe controllare per conto dei cittadini, è a regime paga di questi ignorantissimi “guru”: vuoi campare come un nababbo, fare il fancazzista a vita in Parlamento? Vota e taci.
Anche una bomba è un “bene” destinato ad un “utilizzatore finale”…ma…serve per migliorare le condizioni di vita del “utilizzatore” oppure del costruttore? La cosa non è spicciolo pacifismo: già Bernal[2] – uno dei massimi storici della Scienza – metteva in guardia sul “progresso” della ricerca scientifica.
Intorno al 1935, i fondi destinati alla ricerca militare superarono quelli destinati alla ricerca civile e, da quel momento, non c’è stata inversione di percorso: nel periodo della Guerra Fredda il rapporto fra ricerca militare e civile giunse al valore di 10 : 1. Per giustificare l’obbrobrio, s’inventarono la balla della “ricaduta” delle scoperte in ambito civile.
Dunque, fateci ragionare…sarebbe a dire che, per avere una cestina “tecnologica” per andare a funghi…dovrei recarmi in una fabbrica dove costruiscono involucri per missili e sperare, con un po’ di fortuna, che abbiano scoperto un materiale leggero e resistente, con il quale si possano fare delle cestine in lega d’Alluminio, Magnesio, Litio…oppure, che dalla ricerca sulle armi batteriologice, “salti fuori” un nuovo antibiotico? Che lo stesso chip progettato per lo sgancio di una bomba funzioni anche per avviare la caldaia?
Non sarebbe meglio avviare direttamente la ricerca per le cestine, gli antibiotici e le caldaie?
Ci sembra, tutto sommato, una delle peggiori contorsioni che si possano immaginare. Che merita un capitolo ad hoc.
Storie di guerre e di saggi di profitto
La nuda realtà è che non c’è nulla come la guerra per distruggere in gran copia…per poter ricostruire! Sembra l’Uovo di Colombo, ma penso che pochi abbiano riflettuto sulla quantità di tonnellaggio navale che fu affondato nelle due guerre mondiali. Tenetevi forte.
Cito[3]: Essa (la guerra sottomarina N. d. A.) portò alla distruzione di circa la metà del tonnellaggio mercantile esistente nel 1939. Più di 21.000.000 di tonnellate di stazza lorda perdute dagli Alleati e 12.000.000 dall’Asse, ossia il doppio del tonnellaggio affondato globalmente dal 1914 al 1918.
Dunque…33 milioni di tonnellate nella Seconda, la metà nella Prima…quasi 50 milioni di stazza lorda (calcolate con la tonnellata inglese) riposano sul fondo dei mari! Sono migliaia e migliaia di navi, ciascuna delle quali richiese anni di lavoro nei cantieri – e prima nelle miniere, nella siderurgia, nei trasporti… – per essere, semplicemente…distrutte! E non consideriamo i dati sul tonnellaggio militare! E solo a causa dei sommergibili!
Se aggiungiamo tutto il resto (armi varie, tank, aerei, ecc) si può tranquillamente affermare che due o tre generazioni – nell’intero pianeta! – lavorarono soltanto per vedere le loro opere distrutte!
La guerra è il migliore affare, perché consuma quantità enormi di materiali: un semplice volo d’addestramento, per un velivolo da caccia odierno, significa diverse migliaia di litri di kerosene bruciati!
E prima delle guerre mondiali?
Il capitalismo “accese i fuochi” con l’industria tessile: c’era da colmare un enorme “gap” sul fronte di uno dei bisogni primari, ossia riparare il corpo. Ben presto, però, fu chiaro che la disponibilità era stata raggiunta – ma non per tutti – perché mancavano le risorse per acquistare quei prodotti. Che fare?
Si passò ad un secondo settore – quello che oggi viene chiamato delle “infrastrutture” – ed iniziò la grande avventura ferroviaria. Anche lì c’era un enorme ritardo da colmare: la velocità media nei trasporti era ancora quella delle strade consolari Romane, circa cinque chilometri orari, e con la ferrovia si “balzò” in pochi anni a quaranta.
In circa mezzo secolo – 1830-1880 – non solo l’Europa, ma tante altre parti del pianeta furono dotate di ferrovie: dalle prime linee inglesi del 1830 si passò, al 1880, a decine di migliaia di chilometri di strada ferrata in Europa e negli USA, mentre c’erano oramai ferrovie in Australia ed in Sudafrica. Miracolo?
No, fu l’intervento dei banchieri – soprattutto della banca Rothschild – che con l’avventura ferroviaria diventarono i veri deus ex machina del capitalismo, accantonando utili enormi, giungendo al punto che – mentre i Re Savoia, guerra dopo guerra, cercavano di conquistare i territori austriaci in Italia – emissari austriaci delle banche europee tessevano le trame per collegare Torino a Bologna, passando per i Ducati Emiliani. Insomma, la diplomazia bancaria austriaca se ne faceva beffe della politica di Franz Josef.
Con quel mare di soldi che iniziò a circolare, i banchieri ottennero un secondo, importante risultato.
Una miriade di senza terra lavorarono per decenni nella costruzione delle ferrovie e raggranellarono qualche soldo, con il quale costruirono case, aprirono botteghe, acquistarono poderi. Il capitalismo correva felice, come le sbuffanti vaporiere.
Quando, oggi, i governi affermano di voler “premere” sul settore delle infrastrutture, cercano di recitare un copione desueto, perché – al punto in cui siamo – la costruzione di un misero tratto autostradale non sposta di una virgola il problema. Diverso sarebbe il caso di spostare i traffici sulle vie d’acqua, ma il consumo specifico d’energia per singola tonnellata scenderebbe ad un terzo: sarebbe decrescita! Risparmio, odiosa parola! Giammai!
Intorno al 1880, però, s’iniziò ad avvertire odore di saturazione ed il saggio di profitto cominciò a decrescere: in altre parole, semplificando, non si poteva più sperare domani di guadagnare quel che s’era guadagnato ieri.
Siamo al 1880 e – che caso! – s’iniziano ad avvertire tintinnii di baionette: le due “Triplici” affilano i coltelli in Europa e gli italiani seminano forti per tutto l’arco ligure, perché i francesi arriveranno, oh come arriveranno…proprio come Napoleone…anche costruire fortificazioni genera profitti! Oggi, sono ancora là e nessuno sa cosa farsene: eh, se ci fossero dei soldi per demolirle…di quanto salirebbe il PIL ligure?
Il terzo risultato ottenuto dai banchieri fu quello d’accumulare ricchezze inestimabili, ma le ferrovie languono, le navi stanno passando alla trazione meccanica e consentono risparmi – Dio, quella parola, com’è odiosa! – sui trasporti…dobbiamo trovare delle soluzioni…e se prestassimo quei soldi per costruire armi? Difatti, i Rothschild divennero i gran fornitori di risorse per lo sforzo bellico britannico, che a fine guerra richiesero con gli interessi. Proprio come i loro antenati fiorentini con i Re inglesi della guerra dei Cent’anni.
Di conseguenza, avvengono le due colossali tragedie da milioni di morti, nelle quali possiamo addirittura osservare il ridicolo di un Thyssen che, praticamente, “crea” Hitler per poi fuggire nel 1935 negli USA e, da lì, dirige i suoi “affari di guerra” in Germania con l’appoggio di un personaggio un po’ eccentrico, un tale Prescott Bush. Il quale, diventerà padre e nonno di presidenti USA. Se volete leggere[4] prendetevene “una vista”, ma c’è veramente tanto da leggere su queste faccende, ad iniziare dai libri di Giorgio Galli.
Per fortuna, la guerra ha generato così tante distruzioni da consentire qualche decennio di respiro – il saggio di profitto torna a crescere – e c’è la Guerra Fredda, che consente – con la paura del “terrore rosso” – di foraggiare fabbriche e cantieri, per costruire ferraglia militare. Qui, però, inizia qualche problema.
Il primo è l’incognita di queste maledette armi nucleari: va bene distruggere – di ammazzare chi se ne frega – ma non si sa con l’Atomo dove s’andrà a finire. Le parole di Einstein – “la Quarta Guerra Mondiale sarebbe stata combattuta con pietre e bastoni” – echeggiano, pesano, lasciano intravedere un futuro tenebroso anche per i banchieri. E poi, la Guerra Fredda finisce.
Per capire quanto la Guerra Fredda premesse sull’acceleratore della ferraglia militare, basti riflettere che F-15 ed F-16 – alla comparsa dei Mig-29 e dei Su-27 (anni ’80) – furono considerati obsoleti, senza più margini di superiorità sui velivoli sovietici: furono messi in cantiere i nuovi progetti, F-22 ed F-35. Oggi, dopo 20 anni, F-15 ed F-16 continuano ad essere “l’architrave” dell’aeronautica USA.
Senza guerra, fredda o calda, cosa si può fare? Ci fossero almeno pianeti abitabili ad una distanza accettabile dalla Terra…sì, qualcosa si potrebbe fare…ma non ci sono, maledizione! Certo, si vanno ad accendere le caldaie della Cina, ma il risultato è un’ancor maggiore quantità di beni che vanno ad invadere i mercati. Non si distrugge nulla, maledizione!
L’unica soluzione, allora, è inserire un minuscolo “virus” a tempo in ogni bene – l’ingranaggio di plastica della mia affettatrice – per fare in modo che si auto-distrugga da solo. Poi…qualche piccola guerra qui e là qualcosa renderà…ma sono lontani i tempi delle battaglie dello Jutland e di Midway: eh, scuotono la testa i banchieri: centinaia di navi che solcavano gli oceani, che sparavano, affondavano…migliaia di aerei che bombardavano…eh, bei tempi…
Anche i servizi sociali devono essere messi sotto controllo, perché non bisogna correre il rischio che risolvano qualcosa! Sono zeppi di gente raccomandata, non funzionano, buttano soldi? Bene! Così la farmaceutica internazionale potrà gestire le malattie in modo che non si guarisca mai, che ci sia una pillola da ingoiare per tutti, per l’intera vita!
Istruzione: azzerare! Sanità: azzerare! Previdenza: azzerare! Tutto deve essere privato, cioè fornito da noi, che ci guarderemo bene dal risolvere qualsiasi problema…anzi…cercheremo di moltiplicarli! Vedere, come esempio, la previdenza USA quando fallisce un fondo-pensione.
Ma non basta ancora.
Con l’attuale “crisi finanziaria” – un eufemismo, sia chiaro – si raggiunge il massimo: nonostante la poca affidabilità di tutto quello che si produce – ‘sta merda non si rompe abbastanza in fretta! – iniziano a mancare i soldi per comprarla. E allora? Creiamo un bel giochino di scatole cinesi, con il quale – grazie alla scommessa sulla scommessa della scommessa su una roba che non c’era – facciamo finta che ci siano tanti bei dollaroni. Gente: comprate, indebitatevi!
Poi, si giunge “al paragone”, perché qualcuno deve pur pagare quei debiti: gli Stati, i tanto bistrattati stati nazionali i quali, a loro volta, stramazzano le popolazioni, tassandole e togliendo letteralmente loro il pane di bocca, beni e servizi azzerati, disoccupazione, fame.
Iniziano a fallire banche d’affari nel Gotha della finanza internazionale mentre – a complicare la faccenda – quelle “caldaie” accese in Cina si sono moltiplicate anche in India e Brasile, mentre una Russia fornitrice di energia e tecnologia militare si sfrega le mani. E l’equilibrio geopolitico durato cinque secoli va a puttane, con ‘sti cazzo di talebani che si prendono gioco della grande NATO, quella che doveva sconfiggere l’Orso Sovietico.
La favola del capitalismo, iniziata probabilmente in una Firenze rinascimentale – nella quale qualcuno si chiedeva come fare a tessere una camicia per tutti – è lentamente tracimata prima nel bieco dominio coloniale, quindi nella tragedia bellica. Oggi, con i teatrini delle case a Montecarlo, dei voti in Parlamento per non concedere – non una condanna! non un arresto! – ma la semplice possibilità d’indagare su una persona che nessuno ha eletto se non il suo capo, la farsa è sotto i nostri occhi.
Eppure, il granturco nei campi è pronto per la trebbia, il grano già riposa nei silos, il vento che muove i mulini continua a spirare, il sole a scaldarci, l’acqua a scorrere, l’erba a crescere nella prateria. Ed abbiamo, inoltre, la possibilità di risolvere problemi sanitari con una chirurgia che riesce ad operarti senza squarciarti, abbiamo tecnologie che consentono di creare automobili elettriche quasi eterne, traendo l’energia da quel pozzo senza fondo del vento – da solo, quattro volte l’intero consumo mondiale – più i fiumi d’energia che il sole invia gratuitamente sui deserti ed il consistente contributo dell’acqua.
Abbiamo tutto quel che serve: basta prenderne coscienza, ed iniziare – in tanti – a chiedere un mondo diverso. A risentirci con la terza parte.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
[1] Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Prodotto_interno_lordo
[2] Vedi : John Desmond Bernal – Storia della Scienza – Editori Riuniti – 1969.
[3] E. Bagnasco – I sommergibili nella Seconda Guerra Mondiale – Albertelli Editore.
[4] Vedi: http://www.disinformazione.it/prescott_bush.htm