26 settembre 2010

Per decrescere…bisogna semplicemente crescere! (Parte Seconda)



Basta, con ‘sta roba che si rompe!

Nel lontano 1978, mia moglie acquistò un frullatore (una “frusta”) elettrica di marca Moulinex. Nel 1981, acquistai (usata) una Lancia Fulvia HF 1300. Nel 1988, stufo d’ascoltare i bambini che recitavano – sull’onda della pubblicità della FIAT Uno – “scomodosa come nessuno”, mi rassegnai a venderla e passai ad una Lancia berlina, la quale mi fece rimpiangere mille volte la Fulvia. Nel 2010, per frullare, mia moglie continua ad utilizzare il frullino Moulinex del 1978.
A dire il vero, accalappiati dalle luci dell’Ipercoop, ci lasciammo andare – lo scorso Natale – all’acquisto di un “robot di cucina” milleusi, di quelli che dovrebbero fare dal frappé al pesto. Risultato: il “robot” è già in soffitta – dopo aver spiaccicato sugo sui muri della cucina – ed il vecchio Moulinex del 1978 continua a non perdere un colpo. E che Dio lo protegga.
La mia vecchia Fulvia, per quel che sono riuscito a sapere, la acquistò un collezionista di Imperia, il quale la rivendette e – mi è stato detto – qualcuno ancora la guida ai raduni delle auto d’epoca.

Una persona di mia conoscenza, oramai più che sessantenne, acquistò una Fulvia dopo la laurea e tuttora è l’unica automobile che ha posseduto, a parte una vecchia “500” per le visite domiciliari in città. «E’ una delle migliori macchine che siano mai state costruite» mi confessò «ed io – ovvio che la manutenzione costa – non intendo separarmene.»
Sarà pur costosa la manutenzione ma, a conti fatti, un’auto che dura 40 anni di soldi te ne fa risparmiare, e parecchi: pensiamo solo ai costi d’immatricolazione, passaggi di proprietà, ecc.
Io stesso, quando ancora ero un “fortunato” che girava in Fulvia, fui avvicinato da un tizio che non smetteva d’osservarla. «Ho una Lancia Delta da rally ma, se trovassi una buona Fulvia 1600 “fanalone", farei cambio senza pensarci un attimo». Osservai il “gioiello” del quale si sarebbe disfatto: sapevo che, all’epoca, costava più di 60 milioni di lire. «Non c’è niente da fare» ripeteva scotendo la testa «la “vecchia” è superiore…»
La mia Fulvia era costata, usata, 1,1 milioni di lire che – considerando lo stipendio dell’epoca – corrispondevano a circa 5.500 euro attuali. Nuova, costava circa 2,7 milioni di lire, vale a dire sette stipendi dell’epoca, facciamo circa 14.000 euro del giorno d’oggi. Considerando l’inflazione (l’auto era del 1974) forse erano 20.000 euro.
E, all’epoca, ero un giovane insegnante che non guadagnava certo cifre da nababbo (come, del resto, oggi), eppure non dovetti fare chissà quali sacrifici per acquistarla e gestirla.

Questi esempi servono per chiarire che – quando parliamo di “beni” – è la globalizzazione a dettare “l’agenda”: per loro, un “bene” è un “bene” e basta, perfettamente intercambiabile con un altro “bene” di eguale natura. Il che, è vero per un c… di niente. E la qualità? La durata? L’affidabilità?
Una delle ultime fregature prese ad un ipermercato – poi, nei limiti del possibile, ho detto “basta” – fu un’affettatrice per salumi: casa nuova…affettatrice nuova…basta con quelle “robe” con la lama seghettata, che sbrindellano tutto…
Detto fatto: acquistata nel 1999 per circa 170.000 lire, rimase imballata per due anni, fino alla trionfale comparsa in cucina, nella nuova casa.
Lama auto-affilante a filo continuo, carrello e tutto il resto in acciaio inox…sembrava il non plus ultra. Finché.
Finché una sera, improvvisamente, il motore continuò a girare e la lama rimase ferma: cos’era successo?
Chiavi e cacciaviti…smontiamo (la garanzia era ormai scaduta).
Il meccanismo era semplice – motore, vite senza fine, riduttore di giri, “cascata” d’ingranaggi…sì…ma, in mezzo agli ingranaggi metallici, ce n’era uno di plastica. Di plastica?!?

Avrò forzato un po’…negozio dei ricambi, ingranaggio nuovo (di plastica, ma al prezzo del Titanio) e via. Dopo qualche settimana, di nuovo rotta: allora, capii. Non poteva essere un sistema di protezione, perché sarebbe stato inserito sulla parte elettrica, come avviene normalmente per i phon.
L’ingegnere che l’aveva progettata, non era per niente stupido e conosceva benissimo la storia dei vasi di ferro e del vaso di coccio, al punto d’applicarla meticolosamente, secondo i dettami ricevuti dalla dirigenza: per la cronaca, l’ho buttata e sopravvivo benissimo con una serie di coltelli giapponesi, pagati un’inezia, che tagliano meglio di una katana.

Sempre in quegli anni – i più giovani non potranno ricordare – ci fu un breve periodo nel quale giunsero in Italia prodotti marcati “made in DDR”, la Repubblica Democratica Tedesca, la Germania Est.
Un giorno, incuriosito da una serie di cianfrusaglie in un piccolo supermercato, fui attratto dal prezzo – addirittura ridicolo – di un pialletto. Avevo già un buon pialletto di marca Bosh ma – riflettendo che aveva già parecchi anni – per poche lire acquistai il pialletto made in DDR.
Fui sorpreso, giunto a casa, nell’osservare che – nella confezione – erano presenti i “carboncini” di ricambio per il motore e, addirittura, la cinghia dentata di trasmissione più altri ammennicoli. Ovviamente, tutte le chiavi necessarie per smontarlo: roba di buona qualità, mica i soliti “plasticoni” che ti lasciano il manico in mano alla prima torsione.
Non posso dare un giudizio sul pialletto made in DDR, perché il vecchio pialletto Bosh ha oramai superato i 20 anni di vita e continua a funzionare, nonostante i chiodi che hanno offeso più volte le lame. E’ là, nuovo, che attende, con tutti i ricambi nella scatola: mi sa che dovrò ricordarlo nel testamento.
E come mai, da anni, io e mia moglie usiamo due telefoni cellulari gemelli, snobbati dai nostri figli?

Caduti innumerevoli volte a terra, cambiate più volte le batterie, i nostri vecchi Nokia 3310 continuano imperterriti a funzionare, al punto che non vediamo proprio la necessità di sostituirli.
Potrei continuare con altri esempi, ma è l’ora di giungere al sodo: perché tutto si rompe? Lessi, anni fa, un libro di uno scrittore americano che si lagnava perché tutto si rompeva. Si chiedeva: com’è possibile che, nei grandi USA, non siamo più in grado di costruire un tostapane che funzioni?
Il fenomeno è dunque planetario: già, “globalizzato”. E, questo, è un argomento imprescindibile se si vuole parlare di decrescita.

PIL o non PIL?

Nel fantasmagorico mondo del capitalismo globalizzato, a nessuno importa un fico secco se il vostro frullatore si rompe, se s’incrina il parabrezza dell’auto, se una gomma nuova di trinca scoppia. L’importante è costruirne altre per incrementare il PIL.
Ma, utilizzare un indicatore come il PIL per discutere sulla decrescita è – a nostro avviso – come pretendere d’usare un foglio di carta per girare la frittata: incongruo, inutile, dannoso. Lo sconosciuto re del Buthan (paese buddista) aveva proposto di sostituirlo con il QFN – Quoziente di Felicità Netta – ma nessuno lo prese sul serio. Figuriamoci, un piccolo re di uno Stato himalayano…’ste favole dei lama e tutto il resto…siamo seri!
Ma, se analizziamo cosa è il PIL, di serietà ne rimane ben poca: viene la voglia di recarsi in Buthan per fare quattro chiacchiere con quel re e passare, al ritorno, a New York per ridere in faccia a Lloyd Blankfein, il “capoccione” di Goldman Sachs.

Anzitutto, coloro i quali s’esaltano “perché il PIL segnerà, probabilmente, un incremento dello 0,2% su base annua…” sono dei mestatori nel torbido o degli idioti. Scusate la franchezza. Ma anche coloro che lo utilizzano per dissertare sulla decrescita non fanno certo una gran figura.
Il PIL è definito[1]il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno) e destinati ad usi finali”: non dimentichiamo, però, che è soltanto un “indicatore” e non un “parametro”. La differenza non è questione di lana caprina.

Una semplice cartina al tornasole “indicherà” se l’ambiente è basico oppure acido cambiando di colore, ma non ci potrà mai fornire il valore del pH. Per farlo, dovremo usare un pH-metro, ossia un apparecchio di precisione in grado di fornirci un dato preciso: non “pH acido” in generale, bensì pH 3,8. Quel “3,8” è un parametro scientifico, utilizzabile per intervenire e modificare il pH della soluzione, la cartina al tornasole no.
Perché la rozza somma di beni e servizi non serve a niente?

Poiché in quella somma ci sono – solo per citare un esempio – le migliaia di capannoni costruiti, totalmente o parzialmente, con il sistema del “prendi i soldi e scappa” dei finanziamenti europei. Roba comune: basta che un qualsiasi magistrato dia uno sguardo dalla finestra e potrà aprire un fascicolo. Oppure tutte le spese sostenute per tappare la falla nel Golfo del Messico (o cercare di farlo) e così via. Nel PIL troviamo anche la “catena” di schifezze e corruzione che sono il corollario della cosiddetta “emergenza monnezza” in Campania, che sta distruggendo la Regione. E’ una roba seria?

Il PIL – come la cartina al tornasole – potrà evidenziare grandi eventi: ad esempio, se in un Paese il PIL crolla del 50%, significherà che qualcosa è avvenuto ma – sia lo 0,2% sia il 50% – non ci potranno mai far conoscere la natura di quella variazione.
Per saperne di più, dovremo scendere nell’analisi dei fenomeni che hanno prodotto quei mutamenti, ossia utilizzare i metodi scientifici i quali, pur concedendo tutti i limiti della scienza, ci potranno fornire un quadro senz’altro più esaustivo.
Invece, con scienziati prezzolati ed un solo “indicatore” per misurare la validità di un sistema economico, viviamo nella menzogna che si trasforma in farsa: il settore automobilistico ha un surplus produttivo (poniamo) del 30%? Basta ridurre la vita utile dell’automobile di un anno, e – per i chierici del PIL – si torna in pari.

Ecco dove il concetto generico di “bene” o di “servizio” è perfettamente coerente con il liberismo: senza indagare la natura, la fruibilità, la durata, gli esiti di quel bene e di quel servizio, tutto si riduce a mera aritmetica. E, il sistema globalizzato dell’economia liberista, può solo utilizzare quel metodo, giacché è soltanto un rozzo pudding fatto di “risorse umane” (non a caso, “risorse”…), energia, capitali e materie prime.
I manager, poi, sono coloro che devono creare la pozione e – non dimentichiamo – gli stessi manager sono coloro i quali, sulla base dei diktat dei consigli d’amministrazione, intervengono sull’obsolescenza programmata dei beni, sui servizi che devono risolvere sì qualcosa (BigPharma?), ma mai abbastanza per non far calare la domanda.
L’ingranaggio di plastica del mio frullatore ed i tostapane subito scassati dello scrittore americano, sono direttive “express” dell’Amministratore Delegato di turno.
Il cerchio si chiude quando, chi dovrebbe controllare per conto dei cittadini, è a regime paga di questi ignorantissimi “guru”: vuoi campare come un nababbo, fare il fancazzista a vita in Parlamento? Vota e taci.

Anche una bomba è un “bene” destinato ad un “utilizzatore finale”…ma…serve per migliorare le condizioni di vita del “utilizzatore” oppure del costruttore? La cosa non è spicciolo pacifismo: già Bernal[2] – uno dei massimi storici della Scienza – metteva in guardia sul “progresso” della ricerca scientifica.
Intorno al 1935, i fondi destinati alla ricerca militare superarono quelli destinati alla ricerca civile e, da quel momento, non c’è stata inversione di percorso: nel periodo della Guerra Fredda il rapporto fra ricerca militare e civile giunse al valore di 10 : 1. Per giustificare l’obbrobrio, s’inventarono la balla della “ricaduta” delle scoperte in ambito civile.
Dunque, fateci ragionare…sarebbe a dire che, per avere una cestina “tecnologica” per andare a funghi…dovrei recarmi in una fabbrica dove costruiscono involucri per missili e sperare, con un po’ di fortuna, che abbiano scoperto un materiale leggero e resistente, con il quale si possano fare delle cestine in lega d’Alluminio, Magnesio, Litio…oppure, che dalla ricerca sulle armi batteriologice, “salti fuori” un nuovo antibiotico? Che lo stesso chip progettato per lo sgancio di una bomba funzioni anche per avviare la caldaia?
Non sarebbe meglio avviare direttamente la ricerca per le cestine, gli antibiotici e le caldaie?
Ci sembra, tutto sommato, una delle peggiori contorsioni che si possano immaginare. Che merita un capitolo ad hoc.

Storie di guerre e di saggi di profitto

La nuda realtà è che non c’è nulla come la guerra per distruggere in gran copia…per poter ricostruire! Sembra l’Uovo di Colombo, ma penso che pochi abbiano riflettuto sulla quantità di tonnellaggio navale che fu affondato nelle due guerre mondiali. Tenetevi forte.

Cito[3]: Essa (la guerra sottomarina N. d. A.) portò alla distruzione di circa la metà del tonnellaggio mercantile esistente nel 1939. Più di 21.000.000 di tonnellate di stazza lorda perdute dagli Alleati e 12.000.000 dall’Asse, ossia il doppio del tonnellaggio affondato globalmente dal 1914 al 1918.

Dunque…33 milioni di tonnellate nella Seconda, la metà nella Prima…quasi 50 milioni di stazza lorda (calcolate con la tonnellata inglese) riposano sul fondo dei mari! Sono migliaia e migliaia di navi, ciascuna delle quali richiese anni di lavoro nei cantieri – e prima nelle miniere, nella siderurgia, nei trasporti… – per essere, semplicemente…distrutte! E non consideriamo i dati sul tonnellaggio militare! E solo a causa dei sommergibili!
Se aggiungiamo tutto il resto (armi varie, tank, aerei, ecc) si può tranquillamente affermare che due o tre generazioni – nell’intero pianeta! – lavorarono soltanto per vedere le loro opere distrutte!
La guerra è il migliore affare, perché consuma quantità enormi di materiali: un semplice volo d’addestramento, per un velivolo da caccia odierno, significa diverse migliaia di litri di kerosene bruciati!
E prima delle guerre mondiali?

Il capitalismo “accese i fuochi” con l’industria tessile: c’era da colmare un enorme “gap” sul fronte di uno dei bisogni primari, ossia riparare il corpo. Ben presto, però, fu chiaro che la disponibilità era stata raggiunta – ma non per tutti – perché mancavano le risorse per acquistare quei prodotti. Che fare?
Si passò ad un secondo settore – quello che oggi viene chiamato delle “infrastrutture” – ed iniziò la grande avventura ferroviaria. Anche lì c’era un enorme ritardo da colmare: la velocità media nei trasporti era ancora quella delle strade consolari Romane, circa cinque chilometri orari, e con la ferrovia si “balzò” in pochi anni a quaranta.
In circa mezzo secolo – 1830-1880 – non solo l’Europa, ma tante altre parti del pianeta furono dotate di ferrovie: dalle prime linee inglesi del 1830 si passò, al 1880, a decine di migliaia di chilometri di strada ferrata in Europa e negli USA, mentre c’erano oramai ferrovie in Australia ed in Sudafrica. Miracolo?

No, fu l’intervento dei banchieri – soprattutto della banca Rothschild – che con l’avventura ferroviaria diventarono i veri deus ex machina del capitalismo, accantonando utili enormi, giungendo al punto che – mentre i Re Savoia, guerra dopo guerra, cercavano di conquistare i territori austriaci in Italia – emissari austriaci delle banche europee tessevano le trame per collegare Torino a Bologna, passando per i Ducati Emiliani. Insomma, la diplomazia bancaria austriaca se ne faceva beffe della politica di Franz Josef.

Con quel mare di soldi che iniziò a circolare, i banchieri ottennero un secondo, importante risultato.
Una miriade di senza terra lavorarono per decenni nella costruzione delle ferrovie e raggranellarono qualche soldo, con il quale costruirono case, aprirono botteghe, acquistarono poderi. Il capitalismo correva felice, come le sbuffanti vaporiere.
Quando, oggi, i governi affermano di voler “premere” sul settore delle infrastrutture, cercano di recitare un copione desueto, perché – al punto in cui siamo – la costruzione di un misero tratto autostradale non sposta di una virgola il problema. Diverso sarebbe il caso di spostare i traffici sulle vie d’acqua, ma il consumo specifico d’energia per singola tonnellata scenderebbe ad un terzo: sarebbe decrescita! Risparmio, odiosa parola! Giammai!

Intorno al 1880, però, s’iniziò ad avvertire odore di saturazione ed il saggio di profitto cominciò a decrescere: in altre parole, semplificando, non si poteva più sperare domani di guadagnare quel che s’era guadagnato ieri.
Siamo al 1880 e – che caso! – s’iniziano ad avvertire tintinnii di baionette: le due “Triplici” affilano i coltelli in Europa e gli italiani seminano forti per tutto l’arco ligure, perché i francesi arriveranno, oh come arriveranno…proprio come Napoleone…anche costruire fortificazioni genera profitti! Oggi, sono ancora là e nessuno sa cosa farsene: eh, se ci fossero dei soldi per demolirle…di quanto salirebbe il PIL ligure?

Il terzo risultato ottenuto dai banchieri fu quello d’accumulare ricchezze inestimabili, ma le ferrovie languono, le navi stanno passando alla trazione meccanica e consentono risparmi – Dio, quella parola, com’è odiosa! – sui trasporti…dobbiamo trovare delle soluzioni…e se prestassimo quei soldi per costruire armi? Difatti, i Rothschild divennero i gran fornitori di risorse per lo sforzo bellico britannico, che a fine guerra richiesero con gli interessi. Proprio come i loro antenati fiorentini con i Re inglesi della guerra dei Cent’anni.
Di conseguenza, avvengono le due colossali tragedie da milioni di morti, nelle quali possiamo addirittura osservare il ridicolo di un Thyssen che, praticamente, “crea” Hitler per poi fuggire nel 1935 negli USA e, da lì, dirige i suoi “affari di guerra” in Germania con l’appoggio di un personaggio un po’ eccentrico, un tale Prescott Bush. Il quale, diventerà padre e nonno di presidenti USA. Se volete leggere[4] prendetevene “una vista”, ma c’è veramente tanto da leggere su queste faccende, ad iniziare dai libri di Giorgio Galli.
Per fortuna, la guerra ha generato così tante distruzioni da consentire qualche decennio di respiro – il saggio di profitto torna a crescere – e c’è la Guerra Fredda, che consente – con la paura del “terrore rosso” – di foraggiare fabbriche e cantieri, per costruire ferraglia militare. Qui, però, inizia qualche problema.

Il primo è l’incognita di queste maledette armi nucleari: va bene distruggere – di ammazzare chi se ne frega – ma non si sa con l’Atomo dove s’andrà a finire. Le parole di Einstein – “la Quarta Guerra Mondiale sarebbe stata combattuta con pietre e bastoni” – echeggiano, pesano, lasciano intravedere un futuro tenebroso anche per i banchieri. E poi, la Guerra Fredda finisce.
Per capire quanto la Guerra Fredda premesse sull’acceleratore della ferraglia militare, basti riflettere che F-15 ed F-16 – alla comparsa dei Mig-29 e dei Su-27 (anni ’80) – furono considerati obsoleti, senza più margini di superiorità sui velivoli sovietici: furono messi in cantiere i nuovi progetti, F-22 ed F-35. Oggi, dopo 20 anni, F-15 ed F-16 continuano ad essere “l’architrave” dell’aeronautica USA.
Senza guerra, fredda o calda, cosa si può fare? Ci fossero almeno pianeti abitabili ad una distanza accettabile dalla Terra…sì, qualcosa si potrebbe fare…ma non ci sono, maledizione! Certo, si vanno ad accendere le caldaie della Cina, ma il risultato è un’ancor maggiore quantità di beni che vanno ad invadere i mercati. Non si distrugge nulla, maledizione!

L’unica soluzione, allora, è inserire un minuscolo “virus” a tempo in ogni bene – l’ingranaggio di plastica della mia affettatrice – per fare in modo che si auto-distrugga da solo. Poi…qualche piccola guerra qui e là qualcosa renderà…ma sono lontani i tempi delle battaglie dello Jutland e di Midway: eh, scuotono la testa i banchieri: centinaia di navi che solcavano gli oceani, che sparavano, affondavano…migliaia di aerei che bombardavano…eh, bei tempi…

Anche i servizi sociali devono essere messi sotto controllo, perché non bisogna correre il rischio che risolvano qualcosa! Sono zeppi di gente raccomandata, non funzionano, buttano soldi? Bene! Così la farmaceutica internazionale potrà gestire le malattie in modo che non si guarisca mai, che ci sia una pillola da ingoiare per tutti, per l’intera vita!
Istruzione: azzerare! Sanità: azzerare! Previdenza: azzerare! Tutto deve essere privato, cioè fornito da noi, che ci guarderemo bene dal risolvere qualsiasi problema…anzi…cercheremo di moltiplicarli! Vedere, come esempio, la previdenza USA quando fallisce un fondo-pensione.
Ma non basta ancora.

Con l’attuale “crisi finanziaria” – un eufemismo, sia chiaro – si raggiunge il massimo: nonostante la poca affidabilità di tutto quello che si produce – ‘sta merda non si rompe abbastanza in fretta! – iniziano a mancare i soldi per comprarla. E allora? Creiamo un bel giochino di scatole cinesi, con il quale – grazie alla scommessa sulla scommessa della scommessa su una roba che non c’era – facciamo finta che ci siano tanti bei dollaroni. Gente: comprate, indebitatevi!
Poi, si giunge “al paragone”, perché qualcuno deve pur pagare quei debiti: gli Stati, i tanto bistrattati stati nazionali i quali, a loro volta, stramazzano le popolazioni, tassandole e togliendo letteralmente loro il pane di bocca, beni e servizi azzerati, disoccupazione, fame.
Iniziano a fallire banche d’affari nel Gotha della finanza internazionale mentre – a complicare la faccenda – quelle “caldaie” accese in Cina si sono moltiplicate anche in India e Brasile, mentre una Russia fornitrice di energia e tecnologia militare si sfrega le mani. E l’equilibrio geopolitico durato cinque secoli va a puttane, con ‘sti cazzo di talebani che si prendono gioco della grande NATO, quella che doveva sconfiggere l’Orso Sovietico.

La favola del capitalismo, iniziata probabilmente in una Firenze rinascimentale – nella quale qualcuno si chiedeva come fare a tessere una camicia per tutti – è lentamente tracimata prima nel bieco dominio coloniale, quindi nella tragedia bellica. Oggi, con i teatrini delle case a Montecarlo, dei voti in Parlamento per non concedere – non una condanna! non un arresto! – ma la semplice possibilità d’indagare su una persona che nessuno ha eletto se non il suo capo, la farsa è sotto i nostri occhi.

Eppure, il granturco nei campi è pronto per la trebbia, il grano già riposa nei silos, il vento che muove i mulini continua a spirare, il sole a scaldarci, l’acqua a scorrere, l’erba a crescere nella prateria. Ed abbiamo, inoltre, la possibilità di risolvere problemi sanitari con una chirurgia che riesce ad operarti senza squarciarti, abbiamo tecnologie che consentono di creare automobili elettriche quasi eterne, traendo l’energia da quel pozzo senza fondo del vento – da solo, quattro volte l’intero consumo mondiale – più i fiumi d’energia che il sole invia gratuitamente sui deserti ed il consistente contributo dell’acqua.
Abbiamo tutto quel che serve: basta prenderne coscienza, ed iniziare – in tanti – a chiedere un mondo diverso. A risentirci con la terza parte.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.


[1] Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Prodotto_interno_lordo
[2] Vedi : John Desmond Bernal – Storia della Scienza – Editori Riuniti – 1969.
[3] E. Bagnasco – I sommergibili nella Seconda Guerra Mondiale – Albertelli Editore.
[4] Vedi: http://www.disinformazione.it/prescott_bush.htm

20 settembre 2010

Per decrescere…bisogna semplicemente crescere! (Parte Prima)



Premessa

Gira e rigira, quando si parla di decrescita, si finisce sempre per litigare.
Sembra quasi una “spesa pazza” al supermercato, nella quale ciascuno osserva il carrello dell’altro e si chiede se sia il vicino alla cassa il maggior consumista, il responsabile dei mucchi di rifiuti che debordano. Poi, c’è chi ritiene di non avere abbastanza e si chiede: perché dovrei avere di meno?
La faccenda assume toni planetari quando, qualche giornalista, politico, scrittore…statunitense, pone principi “planetari” per decrescere. Apriti cielo! Proprio lui – cittadino della nazione idrovora delle risorse mondiali – chiede agli altri di fare sacrifici?!? Un bailamme senza fine.
Ma, decrescere, significa avere di meno? Vuol dire tornare indietro, vivere peggio?

Forse, prima di parlare di decrescita, bisognerebbe aver chiaro cosa significa “crescere” poiché, mai come in questo caso, la lingua è una sequenza di tranelli.
Liquidando la faccenda in modo moooolto semplicistico, si potrebbe affermare che a crescere è la quantità di beni e servizi a disposizione dell’essere umano. Già, ma di quale essere umano? Del filippino o del francese? Del grande proprietario terriero filippino o dell’operaio francese della banlieue? E poi: quale deve essere la qualità, la durata e l’effettiva fruibilità di quei beni e di quei servizi?
Infine: di quale tipo di “beni e servizi”? Gli afgani, oggi, sono forse la popolazione che può osservare scorrere dalle finestre di casa il miglior “campionario” di beni e servizi tecnologici. Forse se la giocano con i palestinesi, che hanno il record d’esser già oggi bersagli del primo videogioco-reality del pianeta[1].
Entrambi, non sono molto soddisfatti per la “quantità e la qualità di beni e servizi” che si “prendono cura” delle loro vite. Anche se la loro realtà sembra molto distante dalla nostra, vedremo che – concettualmente – non siamo poi così lontani come parrebbe.

Un serio discorso sulla decrescita è inseparabile da un’analisi sulla produzione di beni e servizi, sulla qualità degli stessi, sulla loro durata (od obsolescenza programmata), sugli attori del processo di produzione, sui loro diritti e doveri, sui compiti della classe politica. Infine, sulle proposte attuabili per invertire il senso di marcia di un’umanità impazzita.
Un serio discorso sulla decrescita non può essere proposto in poche righe: perciò, ho deciso di suddividere un lungo articolo tre parti. In realtà, si tratta di un saggio: una prima parte centrata sugli attori dei processi produttivi, una seconda sui beni e sui servizi ed una terza che sarà la sintesi, dove proveremo a tracciare qualche proposta operativa.

Ho preferito, per le due prime parti, mantenere un’esposizione più didascalica, proprio – com’è nel mio stile – per mettere in sintonia esperienze comuni, dalle quali nascono riflessioni condivise, senza le quali ogni sintesi risulta monca poiché perfetta sotto l’aspetto razionale, ma scipita per scarsa consapevolezza.
Nella terza parte, invece, dovremo “raccogliere” ciò che avremo “seminato” nelle prime due. Attualmente, la seconda parte è quasi conclusa mentre della terza non ho ancora scritto una parola, proprio perché attendo riscontri, critiche, suggerimenti, ecc.
Signori: in carrozza.

Parte Prima

Decrescita “oggettiva” in salsa capitalista

E’ strano tornare, dopo tanti anni, a varcare le porte delle piccole imprese, quelle con qualche decina di dipendenti, al massimo cento, duecento persone. Lo faccio perché, talvolta, mi serve qualche pezzo od intervento specialistico per sistemare la mia barca.
Così, in queste limpide mattine d’Estate, torno a vedere quel mondo che ben ricordo: d’Estate, un tempo, gli studenti andavano a lavorare in fabbrica per raggranellare qualche soldo, ed io non ero un’eccezione.
E poi: mio padre e mio suocero, entrambi orgogliosi d’aver lavorato per decenni nelle industrie che “facevano qualcosa”…“qualcosa” che era destinato alla gente, per vivere meglio, per avere di più.
Oggi, calcando quelle sale d’attesa nuovissime, quegli arredamenti lindi in fibra sintetica ed acciaio, si respira la medesima aria: quella del “voler fare”. Certo, anche per arricchirsi oppure per mantenere il posto di lavoro.
Grattata la vernice, però, qualche defaillance viene a galla.

Sto cercando chi possa cromare due bocchettoni.
«Vada a C…là fanno le cromature.»
«Ma…c’è ancora quella fabbrica?»
L’uomo allarga le braccia: «C’era…oppure provi a telefonare a questo numero…»
«Questi…cromano?»
«No, però sanno chi croma…»
L’impressione che si ricava “a pelle” è che un mondo il quale, per semplicità, potremmo indicare come intriso “d’etica del lavoro” sopravviva nei suoi valori, mentre nella realtà perda colpi, si stia squagliando. Spieghiamo meglio con un esempio.

I grandi investimenti della prima metà del Novecento, nell’entroterra savonese, erano centrati sulla produzione di coke metallurgico (Fornicoke), prodotti chimici per l’industria (ACNA) e per l’agricoltura (Montedison). Completavano il quadro il settore fotografico (Ferrania, poi 3M) ed una miriade di piccole aziende di supporto, dal legno al metallo, dalla plastica all’elettricità…il cosiddetto “indotto”, il quale, però, non viveva solo di grandi commesse da parte delle grandi aziende, perché svolgevano reciproci compiti di manutenzione ed operava anche per l’utenza privata.
C’era, inoltre, una gestione dei sottoprodotti più intelligente: scarti dell’industria del carbone diventavano materia prima per i cementifici, i gas prodotti dall’arrostimento del carbone vergine erano utilizzati dalle industrie dei fertilizzanti, e così via. Si trattava, in sintesi, di un sistema industriale complesso ed interdipendente, pianificato nei minimi dettagli.

Oggi, di quel mondo rimane soltanto la Fornicoke, solamente perché i cinesi hanno deciso di non esportare più coke metallurgico (non ne hanno abbastanza per le loro industrie!), mentre la Ferrania – colpita forse più dall’ingordigia delle banche e dalle mire sulle sue aree – non ha resistito all’impatto del digitale e procede in un’agonia senza fine. Gli altri, sono defunti da tempo.
Questa è già una forma di “decrescita”, poiché anche l’indotto viene trascinato nella polvere dal crollo dei grandi gruppi i quali, apriamo una brevissima parentesi, sono gli unici a potersi permettere la ricerca che potrebbe invertire il percorso. Parentesi chiusa.
Ho preferito portare un solo esempio, giacché so perfettamente che tutti noi abbiamo avuto sotto gli occhi quelle situazioni: dal settore laniero biellese quasi completamente azzerato al triste spettacolo della Olivetti di Ivrea, vetri rotti che testimoniano la fine del “sogno” di Adriano Olivetti, la fabbrica integrata con il territorio e le necessità della popolazione.

In definitiva, senza ombra di dubbio, la quantità di beni e servizi che veniva prodotta mezzo secolo fa era superiore all’attuale: all’epoca, l’Italia era un Paese che costruiva infrastrutture, aziende…la popolazione cresceva e si edificavano case, automobili per spostarsi…s’esportava in Oriente invece d’esportare…
Cresceva l’apparato produttivo ed aumentava la produttività – grazie all’automazione – e quel mondo sembrava correre sereno verso auto sempre più grandi, stipendi più alti, maggiori diritti, centri siderurgici da costruire, porti da ampliare…
Poi, giunse la saturazione.
Non è un fenomeno assurdo ed incomprensibile: nasce, semplicemente, dalla testardaggine di persone che non hanno compreso la ciclicità d’ogni evento. Mentre la natura ci mostra percorsi ciclici da miliardi di anni, l’Uomo s’intestardisce nel pianificare la propria immagine come una retta, un vettore puntato – tanto per creare una meta – verso le stelle, il firmamento.
“Crescita” e “decrescita” – in questo universo fuorviato – sono dunque fenomeni naturali? Avvengono, semplicemente, per il ciclico morire e rinascere dell’Araba Fenice capitalista? L’Uomo, può solo interpretare – al meglio che può – un copione, oppure dovrebbe essere il regista della rappresentazione?
Andiamo avanti.

Capitalismo a senso unico?

Una seconda riflessione ci porta nel “Gotha” industriale italiano: a casa Agnelli, ma non dalle parti dell’Avvocato, bensì nelle stanze del figlio Edoardo, scomparso in tragiche (e, a dir poco, misteriose) circostanze.
L’iconografia ufficiale ci ha sempre mostrato il figlio dell’Avvocato come uno scherzo del destino, ossia una sorta di “hippie” nato, per contrappasso, nella più potente famiglia industriale italiana. Niente di più falso.
Edoardo Agnelli parlò di un suo “futuro” nell’industria ed in economia, in parecchie interviste[2], solo che fece comodo ignorarle. Come, ad esempio, l’intervista ad “Epoca” del 1987 (che non sono riuscito a ritrovare in elettronico: se qualcuno la trova…), che lessi e rilessi – all’epoca – perché la considerai di grande importanza.
Riporto un passo di uno dei tanti articoli[3] comparsi dopo la sua morte, perché qui ritornano – nei ricordi di Marco Bava[4] – gli stessi concetti che Edoardo espresse ad “Epoca”.

Bava conferma l’approccio pesantemente critico del suo giovane amico nei confronti del capitalismo selvaggio che stava assorbendo anche la FIAT, laddove avrebbe voluto creare un’azienda attenta alle esigenze del Paese e protagonista del suo sviluppo non solo economico ma anche e soprattutto sociale: a fronte delle possibilità economiche che gli si prospettavano, avrebbe voluto investirle affinché la FIAT non fosse più un parassita dello Stato tramite incentivi alla rottamazione e sussidi vari, bensì un attore attivo e attento anche alle scelte strategiche globali all’estero.”

Ricordo che fui così colpito dalla lucidità di questo giovane Agnelli – considerato, nella vulgata, una sorta di “parassita di famiglia” – tanto che lo ricordai in un precedente articolo “Lo strano caso del dottor Fiat e di Mr. Luke[5]”, del quale faccio più in fretta a riportare un estratto:

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Insomma, ben lontano dall’icona del giovane debosciato che è passata alla storia (che dire, allora, del nipote Lapo e del suo amore per le “piste”?), Edoardo Agnelli spiegava (nell’intervista ad “Epoca” del 1987) qual era il suo pensiero, la sua visione della più grande azienda italiana. E c’è da stupirsi.
Erano anni nei quali si discuteva sul futuro dei trasporti – mica come oggi, che si decide soltanto per il diktat di questo o quel gruppo finanziario, per le vicinanze o per le divergenze con la burocrazia europea – e la FIAT , ovviamente, era il fulcro della discussione.
Il pensiero di Edoardo Agnelli, sinteticamente, era questo: ritengo la FIAT una grande opportunità per l’Italia. Il futuro tecnologico del Paese, ovviamente, dovrà essere deciso dalla classe politica: il compito della FIAT sarà quello di farsi trovare preparata all’appuntamento.

Il giovane Agnelli portava anche degli esempi: se la classe politica deciderà di dotarsi di centrali nucleari (tema molto sentito in quegli anni), la FIAT dovrà esser in grado d’entrare in quel mercato. Se, invece, si sceglierà la ferrovia, l’azienda produrrà locomotori. Oppure navi, aerei: insomma, la visione di Edoardo Agnelli era quella di un’azienda che era al servizio del Paese, mica quella di un gruppo che piegava il Paese ai suoi desideri.

Aprendo una parentesi, notiamo che questa impostazione fu quella dei grandi gruppi industriali tedeschi (Krupp, Blohm & Voss, Thyssen, ossia il “capitalismo renano”) che – nel bene e nel male – seguirono le vicende politiche della nazione, nazismo compreso, compiendo la loro funzione di produttori di beni e sopravvivendo a mille rovesci.

Anche il cugino Giovanni Alberto, che diresse per pochi anni la Piaggio, confermava quel modo d’intendere il futuro industriale del paese: il sindaco comunista di Pontedera dell’epoca lo ricorda come una persona con la quale si riusciva sempre a ragionare ed a trovare una soluzione soddisfacente per tutti, un vero capitano d’industria, ma anche un sereno e pacato mediatore fra interessi non sempre convergenti.
Non sapremo mai se le riflessioni di Edoardo Agnelli ed il comportamento del cugino avrebbero aperto una nuova stagione nei rapporti fra il potere politico e gli imprenditori, fra chi deve decidere cosa fare e chi deve attuarlo: un destino tragico si frappone fra noi e quelle risposte.
Un destino che non sappiamo (e mai lo sapremo?) se fu opera del Fato (per entrambi?) oppure degli uomini: non dimentichiamo che “altri” ebbero enormi vantaggi dalla “scomparsa” dei due eredi Agnelli. Ma non è questa la sede per aprire questo, ennesimo vaso di Pandora italiano: altri lo stanno facendo e noi continueremo con la nostra analisi.

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Le parole di Edoardo Agnelli risultano, oggi, quasi profetiche a dimostrare che quel “ragazzo” d’idee ne aveva, ed erano idee adamantine, poiché tornavano a legare, in qualche modo, il mondo dell’industria alla sua funzione primitiva: fornire beni e servizi per migliorare la vita delle persone. Un umanista? Certo. L’umanesimo è forse da aborrire nel mondo dell’impresa? Se la risposta è sì, allora ben venga la cosiddetta globalizzazione, ossia quel nome gentile ed accattivante che cela la cruda realtà: il mercato planetario dei lavoratori, i nuovi schiavi senza diritti.
Oggi, possiamo seguire – passo dopo passo – le scelte FIAT che ignorarono con un’alzata di spalle le impostazioni “renane” di Edoardo Agnelli: il duopolio Giovanni Agnelli/Cesare Romiti i quali, per anni, continuarono a calcare la politica della produzione a basso costo e di basso livello.
Ricordiamo, a latere, che Edoardo Agnelli giunse a rivolgersi – in piena Tangentopoli – a suo padre dandogli del “lei”, per ricordargli che lo statuto della FIAT non comprendeva l’uso della corruzione per gestire gli affari della famiglia. Già, ma era soltanto un visionario.

Intanto, le auto FIAT arrugginivano da sole, distrutte dal “cancro” interno che derivava dalla cattiva qualità dell’acciaio utilizzato, mentre i settori di qualità – come la Lancia – erano abbandonati: la gloriosa casa che un tempo produceva i gioielli che il mondo c’invidiava, i quali vincevano i rally internazionali, fu abbandonata come se fosse un sub-contraente. Ed il gruppo perdeva fette di mercato.
Per contrappeso, fu imposto lo specchietto per le allodole: il marchio Ferrari. Visibilità e clamore mediatico, al posto della qualità nella produzione diretta al vasto pubblico.
L’uomo della Ferrari – Luca di Montezemolo – fu poi “l’esecutore testamentario” di casa Agnelli e ne rappresentò la continuità: mentre, a livello mondiale, l’industria automobilistica iniziava a proporre modelli sperimentali con nuovi propulsori elettrici, celle a combustibile e l’Idrogeno nel serbatoio al posto della benzina la FIAT continuava, imperterrita, nel credere solo nei macinini a petrolio. Ciò che ha condotto, oggi, Marchionne a migrare in Serbia: domani sarà la Mongolia o l’Ecuador, nella continua ricerca del salario più basso.

Oggi, le auto elettriche di nuova concezione non circolano soltanto perché i colossi petroliferi non consentono che parta la distribuzione dell’Idrogeno oppure – come nel caso della Toyota RAV4-EV – perché, semplicemente, i gruppi petroliferi acquistano le case produttrici degli accumulatori (batterie) e poi, con il sorriso sulle labbra, le chiudono[6].
Ma, avere già oggi “in casa” prototipi perfettamente funzionanti e competitivi, sarà domani la “marcia in più” di Toyota e BMW (solo per citarne due), mentre la FIAT continuerà a cercare qualche posto dove la gente lavora per un pezzo di pane.

Ecco dove si divise il destino industriale del maggior gruppo italiano: il pragmatismo del profitto immediato ebbe la meglio sulla programmazione a lungo termine, l’impresa considerata come un “a sé stante” ebbe la meglio su quella che prevedeva anche una sua destinazione sociale.
E, i risultati, non sono certo esaltanti: se non ci sarà la chiusura degli storici stabilimenti di Mirafiori, a Torino, sarà solo perché sarebbe una débacle mediatica ma le produzioni, oramai, sono migrate altrove.

Potremmo allora dividere il pensiero del capitalismo (italiano e non) in due filoni: quello degli Edoardo Agnelli e degli Adriano Olivetti – la fabbrica come luogo di produzione che è, allo stesso tempo, fonte di risorse sufficienti per chi ci lavora (per acquistare, ad esempio, gli stessi prodotti) ed “incastonata” in un quadro di programmazione economica generale – e quello dei Marchionne e delle Marcegaglia: il luogo fisico della creazione del profitto e basta, a qualsiasi costo, senza regole, più soldi per noi e morta lì.
Abbiamo preferito trattare con dovizia l’aspetto industriale della decrescita, perché salta subito agli occhi un dato: una politica di decrescita è possibile solo nel primo caso, mentre nel secondo è addirittura inutile parlarne. Come si può discutere di decrescita (che, ricordiamo, coinvolge la gestione delle risorse disponibili nel Pianeta, oggi scellerata) con chi sostiene unicamente questa assurda ed infinita “moltiplicazione dei pani e dei pesci”?
Non crediamo che le figure sopra citate di “capitalisti illuminati” fossero delle mosche bianche: nel panorama della piccola e media impresa del dopoguerra, erano più frequenti di quel che si pensi.

C’è una terza via, che fu quella battuta dai sistemi di governo che misero sotto il rigido controllo della parte politica l’economia: i paesi del socialismo reale, oppure la compartecipazione (Mitbestimmung, “codecisione”) alla gestione strategica dell’impresa (il dibattito sulla partecipazione agli utili è altra cosa, non prevista dalla normativa – di rango costituzionale – tedesca) che fu talvolta proposta anche dalle destre.
Qui, il dibattito è aperto, poiché i sistemi del socialismo reale dovettero creare di sana pianta una sorta di borghesia interna al partito, la quale doveva svolgere i compiti di coordinamento che sono, invece, appannaggio delle borghesie nel capitalismo. Una borghesia di burocrati che funzionò poco e male, al punto che la piccola corruzione interna – quella del “conosco la sorella del magazziniere nella fabbrica di…” – era il sistema distributivo più efficiente.

I regimi di destra del ‘900 sono invece non-accomunabili perché sostanzialmente diversi: appiattito sulla borghesia capitalista il Fascismo, chiuso in un’autarchia prevalentemente contadina il Franchismo, solo il Nazionalsocialismo ebbe un vivido rapporto (in tutti i sensi) con il capitalismo tedesco, che fu però piegato alle esigenze di programmazione bellica del regime.
E, sia il Fascismo e sia il Nazionalsocialismo, durarono troppo poco per trarne valide conclusioni.
La “codecisione” tedesca è invece argomento più interessante, poiché la decrescita deve per forza essere un percorso deciso in sede politica, e l’industria è attore di questi processi, come del resto gli altri settori economici.

Posto che con l’attuale classe imprenditoriale è impossibile tracciare dei profili di decrescita, e che la stessa classe imprenditoriale italiana attuò una sorta di “notte dei lunghi coltelli” nei confronti dei “capitalisti illuminati”, è solo facendo leva sulla politica – ossia in quel quadro decisionale collettivo che dovrebbe essere il “faro” per la Nazione – che si potranno ottenere dei risultati.
In altre parole, siamo così assordati dal clamore afono di Confindustria – afono perché ripetitivo, privo di spunti di proposta, noioso persino nelle forme – che non rimane altra scelta che smettere d’ascoltarli.
Talvolta, imprenditori e politici accennano a forme di compartecipazione, ma lo fanno in modo strumentale, per avere visibilità momentanea sui media: se veramente desiderassero aprire un dibattito in tal senso, avrebbero tutti i “canali” per farlo.
Un serio dibattito sulla compartecipazione alla gestione delle imprese è invece una proposta che può smuovere intelligenze sopite, far tornare nell’agone della discussione e del confronto le menti, ed annichilire le stupide, sterili e perfettamente allineate al pensiero dominante contrapposizioni destra/sinistra. Che oseremmo oramai ridefinire, per una seconda volta, come “storiche”.

La grande silenziosa: la parte politica

Chiusa in un alveo dorato, la classe politica non viene nemmeno più definita con quel termine bensì, sbrigativamente ed incisivamente, come “Casta”. E, con tutte le ragioni del caso.
Il mutamento della classe dirigente italiana in Casta iniziò negli anni ’80 del secolo scorso: fu un mutamento che, di là degli evidenti fatti storici – pensiamo a Tangentopoli – fu preparata per tempo, con astuzia e chirurgica precisione.
Siccome questo lavoro, per la sua ampiezza, è già più un saggio che un articolo, propongo la lettura del mio “Storia di lucidatori di sedie[7]” per chi desiderasse approfondire le metodologie che furono attuate per giungere all’obiettivo di staccare il ceto politico da qualsiasi legame o controllo da parte degli elettori e, nel contempo, per garantire la fedeltà assoluta degli eletti al sistema bipartisan decisionale.

Se volessimo segnalare qualche data puramente indicativa, il “sistema” prese vigore con la fine delle presidenza Pertini (1985).
Subito dopo, s’insediò alla presidenza uno dei più astuti gestori di grandi interessi, Francesco Cossiga: proprio in quegli anni, i lavoratori persero definitivamente uno degli istituti più importanti per salvaguardare il potere d’acquisto (la cosiddetta “scala mobile”) e l’Italia partecipò, finalmente, ad una vera guerra, la Prima Guerra del Golfo.
Il processo d’espropriazione della legittimità costituzionale, nel voto e nella partecipazione alle decisioni, terminò con la promulgazione della legge elettorale del 2006 (Legge Calderoli, o “porcata”).
E’ fin troppo facile individuare, in questo processo, l’ingombrante opera delle società segrete, la P2 in primis, ma anche il “lavoro” del Partito Socialista dell’epoca, partito nel quale si sono formati personaggi come Cicchitto, Brunetta e Sacconi, coloro che reggono le trame economico/sociali nell’impostazione berlusconiana.
La “scala mobile” – aborrita come il demonio dal capitalismo liberista – era in realtà il legame che univa la produzione dei beni con la disponibilità su larga scala degli stessi. La sua eliminazione consentì al capitalismo d’incamerare ingenti risorse, le quali furono successivamente utilizzate – ricordiamo lo “storico” viaggio di Craxi in Cina – per accelerare quel percorso. Fornendo capitali a Nazioni allora in via di sviluppo, si crearono le basi per la successiva fase di globalizzazione dei mercati.

Prima di questo processo, era già iniziata l’epurazione silente nella sinistra: tutti gli iscritti al PCI che propendevano per una gestione “sociale” dell’economia furono esautorati da posizioni importanti nel partito – pensiamo a Spaventa, Giolitti, Preve e tanti altri, l’espulsione del gruppo del “Manifesto” (la “bolla” d’espulsione fu scritta da D’Alema), ecc – ma il fenomeno più importante fu la cernita nelle piccole amministrazioni, per scalzare i futuri dirigenti di domani ed il grande “bestione metaforico” (come lo definisce Preve), s’avviò verso l’ultimo girone del suo destino, quello dei Veltroni, dei D’Alema, dei Bersani. Il fondo del barile, dopo la raschiatura.
Anche la destra non volle essere da meno: riflettiamo che cacciarono senza il minimo pudore la migliore mente che avevano, ossia Marco Tarchi, pure lui scomodo per quelli (leggi: Fini) che oggi si propongono come i defensor fidei.
Alcuni finirono nella trappola della lotta armata, altri caddero nella droga: i più, si ritirarono semplicemente da ogni velleità di partecipare alla vita democratica del Paese, con la bocca amara ed il fegato marcio.

Nella galassia centrista fu la morte di Moro a sentenziare il de profundis per un’interpretazione del cattolicesimo che si differenziasse da quella sancita nelle stanze vaticane: se mons. Romero – un martire nei fatti, senza ombre – non è ancora Beato, qualcosa vorrà pur dire. Soprattutto, alla luce di un “Renatino” della Magliana sepolto nella basilica di S. Apollinare, regno dell’Opus Dei.
Così, i tanti movimenti di rinnovamento – nel cattolicesimo – finirono per occupare una posizione a latere della dottrina e della prassi: dei due relatori al Concilio Vaticano II – Hans Kung e Joseph Ratzinger – sappiamo che il primo, voce critica, è tuttora solo un professore di teologia. Il secondo…
Perciò, i cattolici che scorgevano e praticavano una profonda motivazione sociale nel loro credo, oggi li ritroviamo su posizioni chiaramente anti-liberiste, nelle lotte per la gestione pubblica dell’acqua, contro la guerra, le mille mistificazioni, ecc…oppure (pochi) nel PD. Auguri per quest’ultimi.

Non possiamo, quindi, rivolgerci a questa classe politica per attuare politiche di decrescita – sono tutti sfegatati liberisti! – ma possiamo parlare ai loro elettori, e lo facciamo più spesso di quel che si creda: il forte astensionismo alle ultime elezioni, qualcosa mostra.
Nei confronti della classe politica, l’unica richiesta che possiamo fare – e sarebbe opportuno battere spesso questo chiodo – è quella di una riforma della legge elettorale. Bersani l’ha chiesta, ma non crediamo che il nostro intendimento collimi con il suo.

L’unica legge elettorale che può far “saltare il tappo” – ossia rimescolare le carte e far giungere sui banchi del Parlamento una nuova classe politica – deve, forzatamente, essere perfettamente proporzionale e senza sbarramenti: altrimenti, tornerebbero i soliti trucchi di sempre.
Inoltre, si dovrebbe chiedere a gran voce una legge elettorale che consenta di presentare liste come in Germania: 50 firme vidimate dal segretario comunale.

Se qualcuno ancora crede che le leggi elettorali siano una garanzia di “governabilità”, s’accomodi all’edicola, acquisti un giornale, oppure apra il sito Web di un quotidiano…e s’abbeveri di tanta “governabilità”. “Governare” significa saper trarre la sintesi delle istanze che giungono dalla società, non appoggiare una fazione a scapito dell’altra finché dura: per le lotte fratricide fra Guelfi e Ghibellini, basta rileggere Dante.
Da circa 20-25 anni, l’Italia non ha più governo che non sia una quasi paradossale applicazione della dottrina marxista da parte della borghesia, la quale – con la caduta dell’URSS – pensò semplicemente d’aver arraffato un Paese al Lotto. L’attività “di governo” è ridotta semplicemente alla ripartizione delle sfere di potere, che si regge a sua volta sulla lotta fra gruppi per interessi convergenti/divergenti: anche all’estero il fenomeno è attuale ma, nel Belpaese – per una serie di ragioni che sarebbe qui inutile riproporre – il fenomeno è più “avanzato” e marcato. Da noi, Bossi e Berlusconi – per il loro modo di concepire i rapporti politici – se la giocano con Beria e Stalin
L’unico modo, per giungere ad attuare nuove modalità economiche, è quello di far saltare questo ingombrante “tappo” della Casta e, l’unica prassi da seguire (per ora), è continuare come stiamo facendo, coinvolgendo sempre di più gli italiani – stufi dei soliti teatrini – con proposte serie.

Qualcuno obietterà che il trastullarsi fra le tastiere è tempo perso ma, a ben vedere, questo “trastullo” è l’unica, vera novità del panorama politico italiano.
Ci sono, ovviamente, molti modi di passare il tempo al PC: c’è il pessimismo di chi non crede più ad altre proposte che non siano un mutamento profondo – oseremmo affermare “esistenziale” – dell’essere umano e chi, invece, ritiene che su precise proposte si potrebbe trovare unità d’intenti, anche per la decrescita. Ci sono poi quelli che, mascherati con fantasiosi nick, postano i loro commenti dalle sedi dei partiti: ce ne potesse fregar di meno.
Nella seconda parte scenderemo quindi con maggior precisione ad analizzare i meccanismi insiti nel processo di produzione dei beni e dell’organizzazione dei servizi. Per concludere, nella terza parte, con la sintesi e qualche proposta politica operativa.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

15 settembre 2010

L’ultima vittima di Beatrice



Quando è venuta la pioggia a bagnarmi
e il vento a farmi batter le mascelle,
quando il tuono non volle stare zitto
al mio comando, allora li ho scoperti,
ho sentito chi erano, all’odore.
Va’, che non sono gente di parola:
mi dicevano ch’ero tutto io.
È una menzogna: io non so resistere
ad un attacco di febbre quartana…

William Shakespeare – Re Lear – Atto Quarto – Scena VI

Dio com’è noioso, di questi tempi, leggere i giornali: la telenovela del Governo in crisi, dei governicchi incombenti, delle elezioni per dopodomani, anzi no…fra tre anni, anzi forse, in Primavera…no, prima di Natale, no...ad Ottobre, forse, giammai, potrebbe, sarebbe, farebbe…saranno, potranno…
I giuramenti di fedeltà si sprecano quasi quanto gli spergiuri fra gli ubriachi di prima mattina, quelli che aspettano che apra il bar della stazione per il primo “bianco”.

Ci sarà il federalismo, anzi c’è, è roba per dopodomani: vegliate, prodi camicie verdi, all’erta, all’erta!
Il Governo è decotto, frantumato, non gli resta altro che portare i libri in Tribunale: state accorte ex camicie rosse, che il guardo sia vigile, dalle sedi alle sacrestie. All’erta, all’erta!

Si racconta che, nelle stanze di Palazzo Grazioli, siano svanite le escort ed i festini: solo più pallottolieri. Ovunque: sparati sulle pareti affrescate, aggrappati agli stipiti neoclassici, incombenti dai megaschermi.
Il Gran Dottore de Numeri s’alza all’alba e ripete la nenia: se sposto quel tale e lo porto di qua, gli darò un posticino ed il voto darà. Se il Tizio – malanno! – s’en va giù di là, lo prendo pel collo e lo stringo al mio petto, mostrando “veline” che il fresco giornale del mio fratelluccio doman scriverà.
Poi riceve gli ambasciatori: gente che fino al giorno prima contava meno del due di coppe sotto il tavolo, diventa quasi importante come il Ponte sullo Stretto. Così, siamo venuti a sapere che ancora esiste il Partito Repubblicano. Ma va là, che c’è ancora! E se esistessero ancora – ben nascosti – i socialdemocratici? Mah…

A parte questi miseri risvolti di costume, roba più per un film di Totò che per le stanze del Quirinale, la noia incombe: ad Agosto raccontavano che l’8 Settembre (arguzia per le date!) il Parlamento avrebbe riaperto i battenti e si sarebbero fatti i conti. Senza l’oste, per Dio!
La data dell’armistizio è svanita, stanno per iniziare le annuali kermesse per la scoperta dell’America e ancora nulla si scorge all’orizzonte: nebbia, solo nebbia herr Kapitän Leutnant, i jerry staranno senz’altro bevendo tè bollente appena oltre quei banchi di nebbia, ma nulla si scorge, nulla s’ode, nulla s’appressa.
Pare che il 28 Settembre un convoglio fortemente scortato condurrà l’Admiral Berluskaiser a passare per i banchi di Montecitorio, ma la rotta è incerta, lo scarroccio ignoto, spie ovunque, silenzio radio.
Noi, che abbiamo il privilegio di leggere gli eventi sul libro di Storia Universale Futura e Futuribile, siamo già in grado di fornirvi tutte le coordinate del caso, gli agguati ed i falsi agguati, persino agli embrassons nous che verranno fino al giorno del giudizio elettorale. Basta un po’ di calma: poche righe.

Il dragamine Italia non può interrompere la navigazione e rientrare in porto: Supermarina ha ordinato di proseguire sulla rotta stabilita, lanciano al più falsi segnali e cambiando spesso posizione. La ragione?
Nei prossimi tre mesi scadranno 160 miliardi di titoli di Stato, che dovranno essere ricollocati sui mercati finanziari contando sul classico “io speriamo che me la cavo”. Ogni misero punticino in più che gli speculatori riusciranno a cavare rappresenterà, per noi sans culotte, più di un miliardo e mezzo da pagare nella prossima Finanziaria.
E, questo, fa paura a tutti: destri e sinistri, alti e bassi. Non per i nostri destini – ovvio, di noi non gliene frega nulla – soltanto che soldi in più da pagare saranno mazzette più difficili da spartire.
Perciò, ragazzi, restate calmi e state al vento con poca randa ed una tormentina a prua, nell’attesa che dal comando giunga il segnale dello scampato pericolo. Se mai giungerà.

Fino a Natale nulla – pensano i nostri politici – poi scarteremo i doni, gli inutili cloni e ci prepareremo per la grande Battaglia di Primavera, perché a nessuno salta per la testa d’andare a votare in Autunno avanzato. Magari gli italiani sono più depressi del solito e chissà come va a finire.
Nemmeno c’è la voglia di cambiare la legge elettorale: a parole son tutti lì pronti ma, nei fatti, nessuno vuole una legge elettorale che garantirà un punticino in più all’avversario od all’alleato.
A parte un sistema elettorale perfettamente proporzionale e senza sbarramenti, tutti gli altri già fanno parte degli equilibri politici che s’intendono attuare. La coalizione che governa, dipende più dal sistema di conteggio che dalla volontà degli elettori: la Matematica è veramente solo più un’opinione.
Se passa il sistema tedesco, che ne faremo dell’arcipelago rosso che pare esistere di là delle Colonne Dipietriche? Casini gongola, Bersani s’acciglia. Se passa il doppio turno risolviamo il problema dell’ammassare tutti, catturiamo il cacciatorpediniere Vendola e lo spediamo a fare la scorta convogli in Antartide, ma Casini non ci sta. E Fini, che sistema vorrà? Mah…
Perciò, mettetevi ai remi perché dalla cambusa non salterà fuori nessun porcellino ma la solita porcata, con la quale si voterà a Primavera, dopo che in cinquecentoquarantadue passaggi parlamentari il Governo andrà sotto per trecentoventitre. Nonostante le “pattuglie”, gli “ascari”, i gruppi parlamentari “cuscinetto”, le offerte di Ministeri con asilo nido sotto casa e l’auto blu per il figliolo sedicenne.

Ma, ma, ma…se il 28 Settembre non sarà presentata la legge sul processo breve (i finiani non la voterebbero, meglio non presentarla e non correre rischi) quando, a Dicembre, la Consulta si dovrà pronunciare sul legittimo impedimento, potrebbero esserci delle sorprese.
Va per la maggiore che la Corte Costituzionale boccerà quel provvedimento, ma la Corte – talvolta – stupisce anche l’uditorio politico/giuridico più scafato: nemmeno i bookmaker inglesi s’azzardano.
Se la Corte dovesse bocciarlo, saremmo alle solite: la battaglia contro mister B. continuerebbe come sempre. Ma senza più protezione. Neppure si può pensare ad approvare leggi del genere partendo da “meno qualcosa” o con un solo deputato in più: Prodi docet.
Uno scenario più avvincente sarebbe l’approvazione di quella norma: perché?
Poiché starebbe a significare che c’è stata trattativa, ossia che B. è disposto a lasciare: come andrebbe il teatrino?

Nuove elezioni, l’alleanza PdL+Lega vince ma, al Senato, non ha la maggioranza: situazione più che probabile con l’attuale legge elettorale. Berlusconi viene incaricato, fallisce nel creare un nuovo governo e l’incarico passa ad altri…Casini? Potrebbe essere.
A quel punto, nascerebbe il grande embrassons nous per mettere fuori il Cavaliere che già saprebbe di dover andarsene, perché avrebbe stilato precisi accordi sottobanco: tolgo il disturbo, sto all’opposizione, non mi ricandiderò e voi togliete di mezzo tutta la ferraglia giudiziaria.
Anche perché gli italiani così hanno già deciso: è stato pubblicato da DEMOS un buon sondaggio[1], che non è “buono” perché racconta le difficoltà dell’uno o dell’altro, bensì perché cerca di spiegarle.

A parte le solite rilevazioni sul voto, ciò che è interessante è osservare quale sia il gradimento – forse inteso più come “affidamento” – ai vari politici.
In testa, con circa il 45% ciascuno, troviamo Tremonti, Vendola e Chiamparino.
Un secondo terzetto “viaggia” intorno al 40% ed è composto da Fini, Casini e Bersani.
C’è quindi una coppia pari merito al 37%: Berlusconi e Veltroni.
Chiude un terzetto intorno al 30%: Di Pietro, Grillo e Bossi.

La “triade” al comando, per opposte ragioni, ha scarse possibilità di vedersi candidare alla poltrona più prestigiosa, a palazzo Chigi.
Tremonti, di primo acchito, parrebbe la soluzione: nella vulgata imperante, l’uomo che mette “in salvo” i conti pubblici, serio, posato, ecc…
Giulio Tremonti, però, è un outsider nato: non ha la stoffa del leader. Potremmo ascoltarlo in qualche protetto think tank, in un’aula universitaria, ad un convegno, ma mai e poi mai potrebbe lottare all’arma bianca nei confronti televisivi. Mostra – e, sottolineo, “mostra” e basta – pacatezza e buon senso, ma nei posti dove volano le lame finisce per tacere, per dire “Ecco, dunque, torniamo da capo…” ed è belle che fritto.

Chiamparino e Vendola, invece, sono antitetici come lo sono – per opposti versi ma identiche posizioni – Bossi e Fini. Chiamparino è il politico che più è disposto a cedere sul fronte leghista pur d’incidere in un Nord che non ha quasi più punti di riferimento, Lega a parte per chi ci crede.
Vendola è invece un vulcano in continua ebollizione, meridionalista, aggrappato ad un’idea di sinistra che garantisce i diritti, costruisce alleanze sulla base di programmi innovativi.
Il primo strizza l’occhio al liberismo, il secondo vorrebbe più Stato e meno mercato. Impossibile che uno dei due s’imponga sull’altro, perché il PD è il partito degli ossimori danzanti e trasfiguranti. E infiniti.

Più probabile, quindi, un’affermazione – che siano primarie o semplice scelta delle segreterie – della seconda “triplice” alle loro spalle: a ben vedere, Fini, Casini e Bersani – pur sapendo che un’alleanza elettorale fra gli ultimi due è impossibile – sono quelli che più condividono scelte politiche. Tutti liberisti, in un quadro dove lo Stato fissa appena le regole essenziali, senza entrare in economia. Tutti molto vicini a Confindustria, con discreti o buoni rapporti con le gerarchie vaticane, grandi estimatori del deus di Banca d’Italia Draghi, pronti a concedere molto, se non tutto, a Washington e ad Israele.
E, insieme, magari con qualche “strale” ogni tanto, potrebbero anche stare. Ma dopo il voto, sia chiaro: un’alleanza alla quale, probabilmente, qualcuno che sta più in alto già sta riflettendo.

Ciò che stupisce è il declino di Berlusconi, giunto oramai al livello dell’archetipo degli sconfitti politici: quel Walter Veltroni per il quale, all’indomani della sconfitta elettorale e della perdita del sindaco di Roma, la destra romana chiese di farlo “santo subito”. In effetti, sbagliarne una serie come è riuscito a fare Veltroni, è difficile, ci vuole tanto impegno.
Per comprendere la chiave del crollo di popolarità di Berlusconi, bisogna avere il coraggio di confutare niente di meno che Giulio Andreotti. Può essere vero che “il potere logora chi non ce l’ha”, ma molto dipende da come il potere viene gestito.

Silvio Berlusconi s’è sempre affidato ad un’immagine mediatica piuttosto che a delle serie argomentazioni politiche: chiunque ricordi le “lavagnette” zeppe di opere pubbliche sbandierate dall’Insetto, i contratti firmati in diretta, le battute, le barzellette, i “cucù”…potrà riconoscere in quei comportamenti l’atteggiamento dell’uomo di spettacolo. Non importa se quelle opere pubbliche saranno realizzate, ciò che conta è stare sulla scena da mattatore, apparire come l’unico in grado di farlo.
L’Aquila, da evento tragico e traumatico, diventa l’occasione per apparire come il venditore della porta accanto, quello che non ti vende – ti regala! – la casa.
Ma ogni cosa termina, perde smalto, s’offusca: perché?

Per due motivi: perché la realtà è dotata di una sua, specifica forza propulsiva, la quale – a fronte di un licenziamento, di uno sfratto, di un mutuo che non si riesce più a pagare – conta di più di tante sbandierate promesse.
In seconda battuta, qualcuno un po’ più intelligente ha iniziato ad utilizzare le sue armi. Chi? Bersani? Casini? No…
La piccola Sabina Guzzanti, con un film come Draquila, ha destrutturato tutto l’ambaradan berlusconiano sul terremoto: la scelta di rendere disponibile sui circuiti peer to peer il film è stata più politica che di cassetta, ma ha raggiunto lo scopo.
Precedentemente, Berlusconi s’era dato da fare – sua sponte – per demolire l’immagine del “governo del fare”, passato oramai al governo del fare tangenti, leggi ad personam e completo disinteresse per le vicende che gli italiani hanno a cuore. Diciamo che la Guzzanti ha offerto la miglior esegesi del potere berlusconiano, stigmatizzata proprio con lo stile del Biscione. E, dunque, ha colpito. Come colpisce Grillo – solo colpi bassi – utilizzando la stessa tecnica che usava il Cavaliere.
Il quale, oggi, non può più invocare la “persecuzione” giudiziaria quando un Ministro ammette di non sapere chi gli ha comprato casa di fronte al Colosseo. E la frana continua: Bertolaso, Verdini…nell’immaginario di molti italiani, l’imprenditore capace e volitivo si trasforma, di mese in mese, nel grullo che si fa portar via l’argenteria dagli ospiti a cena. Quasi quasi, glielo manda a dire anche la Marcegaglia.
Poi, è arrivata la “tegola” Fini.

Qui, Silvio Berlusconi ha commesso due errori: uno all’inizio, quando fondò insieme a Fini il PdL, l’altro conseguente al primo.
Se Berlusconi desiderava veramente mantenere la “barra” del partito equidistante fra Nord e Sud, fra imprenditoria e pubblico impiego, mai avrebbe dovuto “parcheggiare” Fini nella posizione che fu di Bertinotti. Perché Fini, più che altro per età, non è Bertinotti: il primo ha figli piccoli, il secondo è nonno.

Poteva, Berlusconi, pensare che il presidente di un partito che aveva il 13% dei consensi su scala nazionale non chiedesse nulla in cambio? L’investitura di Delfino, come minimo, era scontata. Ma c’era la Lega.
Qui, Berlusconi e Bossi, insieme, nelle “cene” ad Arcore, hanno commesso un altro errore: sottovalutare non tanto Fini come persona, bensì lasciare mano libera a tre ministri – Tremonti, Brunetta, Gelmini – i quali, in termini oggettivi, hanno tutti colpito – insieme a quello avversario – il potenziale elettorato di Fini.
Ovvio che un Presidente della Camera ancora relativamente giovane, privato della possibilità di succedere al sovrano, il quale si vede sottratto il proprio elettorato dalle manovre di bilancio orchestrate dall’asse “nordista”, non ci sta. E Berlusconi commette un altro errore.

Non contento, sottovaluta la portata della fronda: minimizza, esclude, espelle.
Non cerchiamo dietrologie inesistenti e fughe dalla realtà, per una situazione che si è creata in Italia e basta: Berlusconi ha puntato troppo sul suo potere carismatico, credendo che l’assenza dell’opposizione “ufficiale” lo garantisse dai rischi. Un po’ di scuola democristiana gli avrebbe giovato: che dagli amici mi guardi Iddio…
Quando appare in tutta la sua evidenza la portata della scissione – oramai nei fatti, le forme poco contano – Berlusconi non cerca un accordo, non viene a patti, non scende a compromessi: attacca.
Ostenta sicurezza, minaccia elezioni, fonda le sue certezze su una pattuglia di “ascari” raccogliticci che dovrebbero garantirgli una maggioranza risicata: quasi non si rende conto d’esser finito nella parte di Prodi.
Quando anche le truppe cammellate tanto promesse ed ostentate non giungono mai a Sidi el Barrani, non sa più a che santo votarsi. Contratta impossibili “lodi” costituzionali in cambio di promesse al vento su future leggi elettorali, oggi minaccia e domani blandisce, si rifugia in castelli presi in affitto dove riunisce le parlamentari del PdL, convinto che lo salveranno. Ma sono troppo poche – madri? mogli? immaginarie amanti? Madonne salvifiche? – per sottrarlo all’urlo della pugna.

L’immagine del “cavaliere” senza macchia e senza paura s’offusca, inizia a parlare di “ridotte della Valtellina” – senza rendersi nemmeno conto che si tratta del peggior richiamo storico per il suo elettorato – si ritira in Sardegna con i nipoti, giunge a dire che “i camposanti sono zeppi di tombe di persone che si credevano insostituibili”.
Dove inizia la parabola calante di quest’uomo il quale, umanamente, oggi suscita più pena che avversione?

Silvio Berlusconi sta per compiere 74 anni: nonostante le premure del lifting, le miracolose pozioni dei suoi medici, è un vecchio. Pare quasi il pietoso Capitan Uncino di Spielberg.
E’ un vecchio solo, senza famiglia, perché a quell’età la famiglia è in primis la moglie. Ci sono i figli, certo, i nipoti…ma c’è anche una guerra sotterranea per spartirsi l’impero economico. Re Lear non sa se lasciare e seguire le orme del disgraziato sovrano shakespeariano, oppure mantenere il timone senza più rotta da seguire.
Così, un vecchio abbandonato dai suoi veri affetti e circondato soltanto da femmine prezzolate, continua a recitare un copione che non incanta più: un tempo spendeva poco ed il Milan vinceva, oggi spende delle fortune e la sua squadra perde. “Colpa degli arbitri di sinistra”: siamo alla follia.

La ragione della débacle è da cercare nella psiche dell’uomo Berlusconi, un uomo nato in un’altra epoca, quando si nasceva figli della Lupa per poi diventare Balilla. Quando le donne erano tutte sante se erano madri, mogli e sorelle ed erano tutte puttane le altre.
L’uomo “forte” dell’epoca era in realtà estremamente debole: si poteva permettere di millantare “maratone” sessuali nelle case chiuse ma ad una sola condizione, quella di mantenere limpida ed intonsa la figura della Beatrice/madre/moglie/sorella, il sicuro “rifugio” dopo tanto ardire.
Perso quel punto di riferimento, l’uomo di quell’epoca non diventa un single – magari un uomo un poco ansioso, alla continua ricerca dell’anima gemella – perché il concetto di “single” non è parte del suo corredo culturale: lo sarà solo per i nati nel dopoguerra, e non per tutti. Quel tipo d’uomo, persi i punti di riferimento, si squaglia come un gelato abbandonato su una panchina.
Per noi, nati anni dopo, è difficile comprendere la psiche di quella generazione: forse più difficile che, per loro, comprendere noi.

Privato del “cardine” sul quale basava le sue certezze – il cavaliere errante che mille ne lascia ai piedi, il tombeur de femmes senza smagliature che, però, sempre torna all’ovile – Silvio Berlusconi diventa un individuo sperduto fra saloni sfarzosi e ville da Mille ed Una Notte, senza più porto nel quale ormeggiare: non basta qualche ancoraggio volante per soddisfare le poche certezze che ancora si hanno a quell’età.
Senza, ovviamente, comprendere a fondo il percorso del “uomo Berlusconi”, gli italiani hanno intuito – a pelle – che la figura dominante si stava squagliando e lo hanno accomunato all’altro grande incompiuto (benché diverso per storia personale), ossia Veltroni.
Sia chiaro che, mentre per l’uomo politico Berlusconi provo profonda avversione, per il signor Berlusconi è la pena a prevalere: in fin dei conti, la ex moglie aveva ragione, ossia che il delirio d’onnipotenza gli aveva fatto perdere i limiti della sua avventura umana. Umana, non dimentichiamo.

Perciò, di là delle alchimie che potranno ancora tentare – visto che il suo partito è stato forgiato a sua immagine – la parabola politica di Berlusconi è terminata, e con essa sparirà un modo di concepire la politica che dura da tre lustri.
L’emorragia della Lega Nord (già in calo) seguirà la parabola calante di Berlusconi, perché un Bossi esausto e malato ha commesso l’errore più grave: appiattirsi troppo sul Cavaliere da Arcore. Unire con vincoli troppo saldi i loro destini li condurrà, inevitabilmente, ad una fine comune: il “partito di lotta e di governo” non reggerà all’affondamento della corazzata berlusconiana. Al più, vivacchierà nell’impotenza: non ne avessimo già visti di questi copioni.

Ovvio che, dopo tanta ubriacatura, il prossimo governo sarà di transizione e non potrà che tentare una minima “ripulitura” del periodo berlusconiano: sarà un governo debole, preda di mille paure e ricatti, che navigherà a vista. Speriamo, almeno, con maggior rispetto per la legalità: sarebbe un misero, piccolissimo passo in avanti.
Per formazioni politiche di “respiro” europeo, per reciproche legittimazioni, per sotterrare l’ascia di guerra fra Nord e Sud, fra pubblico e privato, fra capitale e lavoratori, ne dovrà passare d’acqua sotto i ponti.

Possiamo ringraziare che, a differenza delle generazioni precedenti, a noi sarà evitato il bagno di sangue: i fucili a tappi della Lega non fanno paura a nessuno.
Non per questo, però, la ricostruzione di questo Paese sarà meno dolorosa e faticosa: si fa presto a scendere, risalire è dura.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

12 settembre 2010

Ottimi pulpiti per pessime prediche

Lo “sport” della “festa di qualcosa” o, se preferite, il turismo “politico” (ah, ah, ah…) delle feste di fine Estate non c’ha mai strufugliato i chirillaccheri.
Perché?
Poiché lo riteniamo un inutile parterre che sorregge i potentati di qualsivoglia colore, ardore, motore, candore o torpore: si va dalle “festosissime” feste del PD alle “apocalittiche” – anzi, verrebbe da dire, apodittiche – feste del Guardarbuono, alias Mirabello. Passando, ovviamente, per quelle più “cult” (o “cool”, o “cul”, mah…) come il Meeting di Comunione e Liberazione o quello di Cernobbio, per finire alla Sagra della Trippa di Cincischiatico Inferiore.
In mezzo a tanto bailamme, trippame e govername, un bel dì – direbbero i Fratelli Grimm – qualcuno si presenta ad una Festa come le altre e si mette ad urlare “basta con ‘ste ca..ate!”. E lo sottolinea con un fumogeno.

A parlare era un sindacaloste, ovvero un personaggio che gestisce un’osteria consortile con ambizioni in divenire di Società di Mutuo Soccorso. Soccorso per chi dovrà soccorrerlo, alla bisogna con un concorso od un ricorso, quando l’osteria iniziasse a far acqua e, dalle sentine, qualcuno iniziasse ad urlare “si salvi chi può”. Gia, dalle sentine, forse troppo tardi.
Ma così va il mondo e, due signorotti – del Senaldacato – s’appressano al medesimo scranno per udir medesimi fischi, conditi con frizzi e motteggi un po’ oltre le righe, come fuor di spartito son le sere d’Estate nelle quali un Governo, un po’ tronfio che perde nei viottoli pezzi e sentenze, lazzi e giacenze, s’appressa nel dire che tutto va oltre che bene: va meglio.
Siam tutti felici, con crisi dapprima sbiadite poi poco annunciate, infine calate con saggia sapienza di video-dipendenza, ma subito annuite per il poco che basta, appena un tratteggio con gaio volteggio, per dire con calma che tutto è passato e anzi, a ben dire… non c’è manco stato!

Lì ad ascoltare – passavan per caso, fra trancio ad un euro di pizza scaldata e birra stantia sol buona pe’ rutti – de’ giovani ignari, che tutte le avean provate per farsi ascoltare da tanto consesso. Lì giunti altre volte, per aprir lo dibattito con Grande Bersano, con Fiero Fassino, Nocchiero D’Alema, ma mai ascoltati.
Sì giunge la sera di tanto Bonanno, col quale si deve sentir raccontare che mai più inimicizia! Neppure mestizia! Mai più contrattacco! Neppure contratto!
Si deve ascoltar, meditare e tacere, sondando nel fondo di tanta sapienza il succo d’estratto che tanto arrovella – se lasci incantar da si tanta novella chi regge il timone in cupa procella… – e poi ritornare, sbattendo lattine di birra già vuote cercando quel centro che mai s’approfitta di piede un po’ brillo, per gioir di giustizia.

Ma ecco che uno, qualcuno o nessuno, s’approssima al palco e stufo di nenie cantate con barboso spartito, ribella lo spirito e giunge con gaudio ad urlar con prontezza: “Ma quale schifezza!”
Oddio, non l’avesse mai fatto!
Neppur fumanti pistole d’anarchico truce scatenan si tanta veemenza!

Dai colli e poi giù, fin al piano, già squillan le trombe che chiaman lo popolo a strippar sulle cotiche…pardon, scribacchiar sulle pagine…di tanti giornali fra tutti diversi che magistralmente, per divino volere, per una giornata canticchiano in coro: giammai lo Bonanno sgrappato allo scranno! Giammai la schifezza di Schifano oltraggiato! Sia fatta giustizia, si muovan gli aedi, che ruttino in faccia a si tanta vergogna d’aver oltraggiato lo signor Senalcato!
Già, ma non si puote chiamar alle armi chi già sta in trincea a difender le buone, rutilanti ragioni di chi sta al potere per regger le schiere che debbon vegliare…e quando la calma sia troppo corrotta…scatenar nella notte le tumide fiere! Neppur più s’ascolta messer Minchiolini, straripante Costante, trombon Lernerone.

Ci vuole del nuovo, un Parsifal domo, che tante ne disse per esser ammesso a desco perenne, laddove l’asceta si fonde nel grasso di manzo che cola a bizzeffe…che sia una Canossa, urlaron dai quattro cantoni che reggono il moccolo al sior dé ladroni!
Trovarono un giovine…a dire pel vero un poco azzimato, ma tanto passava il convento assetato di furor di vendetta…scovaron così messer De La Sierra, de nome Michaele[1].

Di focosa baldanza, con buon pedigree di lupo ammansito a costate di manzo, lo fecero scrivere su buon canovaccio, creato con straccio intriso di lacrime di buon sindacato, signorile Senato, condito con sangue di buon comunista sbattuto con vin di sapiente sacrista.
E il giovane prono si mise al lavoro, sentenziando con forza che mai si dovrebbe scatenar la procella nell’Agora bella, laddove con tanti chinanti contanti si mutan le idee e si forgian le schiere! Qualcun ha canzon da cantare? Diversa nel ruolo, nel tempo e sonata con semplice ardore in un bel Mi minore?
Che vada – perdio! – a dirlo per bene, con tanto di schiene che urlan sudore, prostrato con garbo, attendendo lo tempo che tutto acconsente. Col tempo occorrente.
Se poi saran anni…o lustri o decenni…che volete che sia: il tempo è un’arpia! Non fateci dunque colpa o misfatto, se tutte le buone che avete tentato mai furon congiunte a timido afflato! Provato con il…sindacato?
Ma il tempo è memoria, e nulla cancella.

Così ci ritorna, alla mente ed al Cuore, un tempo lontano, nel quale messer De La Sierra urlava lontano – ancor più potente di stazion di Coltano! – che tutte ignominie, arrovelli e dolori che provan le genti sottengon un sale che sa di mestizia: la colpa è di chi non conosce giustizia, avvelena le piazze con sudor di menzogna, commina ingiustizie con sapor di rettezza!
Già, ma di tempi lontani parliamo, quando un giovin Michele scriveva da Cuori a Dolori, da Speranza a Mestizia. Passati lo sono quei tempi – sappiamo – e mai torneranno come rondine al nido.
Così, senza Cuori né Mali che traggano almeno l’umor di risata, quei giovini (arguti?) han tentato sortita, coronata da effetto. Di sera d’Estate.

Che dici Michele: si torna a far Cuori…o sono dolori?

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

08 settembre 2010

Le facili verità conclamate

“La verità è raramente pura, e mai semplice.”
Oscar Wilde

Una vecchia regola del giornalismo recita che il giornalista non deve soltanto descrivere il “davanti” della notizia, bensì farci tre giri attorno ed osservare bene cosa c’è sopra e cosa c’è sotto. E, per come viene descritta e spiegata, la morte di Angelo Vassallo – sindaco di Pollica/Acciaroli – poco ci convince.
Vengono proposte diverse spiegazioni – dal “comune” (purtroppo) omicidio di camorra alla contrarietà per l’espansione delle tecnologie energetiche rinnovabili nel comprensorio, fino alla collusione di uomini delle Forze dell’Ordine con la criminalità – ma un motivo “vero” stenta a saltar fuori.

Se è vero che la criminalità non esita ad uccidere quando un amministratore si mette di traverso, è altrettanto vero che le cosche non sprecano proiettili: l’omicidio di un sindaco, come quello di un magistrato, di un giornalista, di un poliziotto…viene attentamente soppesato.
Se la morte di un qualsiasi pregiudicato non fa più notizia, quella di un servitore dello Stato suscita indignazione: gli apparati sono sollecitati – soprattutto grazie alla stampa che si fa portavoce dell’opinione pubblica – ad indagare, e in fretta. Perciò, “uccidere per uccidere”, per le mafie, non è mai un buon affare.

Ergo, ci deve essere stato un motivo importante per uccidere Angelo Vassallo, qualcosa che ha fatto muovere un gruppo di fuoco per abbattere un simbolo. Ora, nel suo comprensorio, il sindaco di Pollica/Acciaroli era senz’altro un simbolo, ma a livello nazionale non lo era: pochi ne conoscevano l’esistenza.
Il “simbolo” Vassallo – non nascondiamoci dietro ad un dito – sarà presto dimenticato: chi, a cento chilometri da Palermo, ancora ricorda don Puglisi?
Vassallo come simbolo, era forse in grado – lui solo – di capovolgere il coacervo d’interessi politico/affaristico/mafiosi che regolano la vita del Sud? Per quanto ci piacerebbe crederlo, così non è. C’erano segnali di una forte coesione d’intenti intorno alla sua persona? No, era isolato.
Dopo la sua uccisione, le cosche potranno sperare d’ottenere finalmente quei presunti affari, appalti…che il sindaco negava loro? Con quel morto ammazzato – pesante – che le obbligherà a defilarsi? Chi raccoglierà la sua eredità, potrà impunemente “vendersi” alle cosche?

Ci sono una serie d’interrogativi e di dubbi, di fronte a questa morte, che potrebbero rivelarsi un boomerang per le cosche stesse: visti gli appoggi politici che le mafie hanno in vasti apparati dello Stato, sarebbe stata più coerente una campagna di delegittimazione, oppure la strategia del “soffocamento” economico, del blocco dei finanziamenti, ecc. A ben vedere, le strade erano tante: non solo quella “obbligata” dei killer.
Dunque, di là di una fumosa opposizione alle cosche, nulla è saltato fuori e non siamo gli unici ad affermarlo.

Nel coro subito accorso per sostenere la spiegazione più semplice – Carfagna, Bersani, Veltroni, Chiamparino, Maroni, De Magistris, ecc – una voce ha inserito un dubbio, una semplice perplessità. Ed è la voce di una persona esperta, che ha vissuto per molto tempo i problemi di quelle terre[1]:

Il Cilento è terra civilissima e tranquilla ed è davvero difficile immaginare che, in un contesto simile, sia stato perpetrato un atto di tale, inaudita gravità.”

Rosa Russo Iervolino, dall’alto dei suoi molti anni trascorsi in politica e come Sindaco di Napoli, trova “difficile immaginare” un omicidio siffatto, in quei luoghi, con quella ferocia. E non è la sola.

Ci sono le affermazioni “pesanti” del vice sindaco di Pollica/Acciaroli, Stefano Pisani[2]:

Smettetela di parlare di camorra, qui non è mai arrivata, questa non è terra di camorra, la criminalità qui non ha mai avviato i suoi affari. Certo eravamo preoccupati che questo potesse accadere. Ma diciamo a tutti che anche senza Angelo combatteremo il malaffare a Pollica più di prima.

Pisani ammette che c’erano state delle pressioni, da parte di Vassallo, sulle Forze dell’Ordine per un più accurato controllo antidroga nell’Estate appena trascorsa, ma precisa anche (smentendo, ad esempio, il fratello della vittima) che mai il Sindaco gli parlò di collusioni fra malaffare e Forze dell’Ordine. Possibile che Vassallo non ne avesse mai fatto parola, proprio con il suo più diretto collaboratore?

Rincara la dose Domenico Palladino, consigliere comunale:

Stamattina, leggendo i giornali, ho avuto il dubbio che non fossimo a Pollica ma a Casal di Principe. Siamo certi che la camorra non c'entri e che sia stato il gesto di un folle mosso da motivi di rancore personale. Il nostro è un paese che non genera interessi economici tali da far gola alla camorra.

Rancore personale”? Qualcuno sa e tace?

Per commentare fatti di sangue bisogna allontanare da se stessi ogni pulsione – empatia ed antipatia devono lasciare spazio all’analisi – per osservare con freddezza i fatti. Per scendere quindi nel terreno delle ipotesi.
Dalla ricostruzione dell’omicidio[3] – nove colpi d’arma da fuoco calibro 9/21 – s’evince che Vassallo stava tornando a casa: qualcuno lo attendeva a poca distanza dalla sua abitazione.

Anche il Magistrato Alfredo Greco, pur accogliendo la tesi ufficiale, ossia che Vassallo era un simbolo di legalità (e, quindi, un possibile “obiettivo”), ammette che qualcosa stride:

L’omicidio è stato eseguito con “modalità brutte e pesanti, un'esecuzione cattiva con troppi colpi sparati per un omicidio…Un'uccisione feroce, fatta per colpire chi, forse, aveva scoperto qualcosa che non doveva scoprire…

Greco ricorda d’esser stato, negli ultimi tempi, in stretto contatto con il Sindaco, ossia d’averne più volte raccolto le perplessità e (forse) le paure. Perché, allora, introduce elementi “tecnici” (troppi colpi…) ed altri ipotetici (scoperto qualcosa che…) nella vicenda?

Altro fatto che fa pensare è che l’auto del Sindaco è stata ritrovata, con l’uomo oramai cadavere all’interno, con il freno a mano tirato.
La strada dell’omicidio è sì in salita, non molto larga, ma prendiamo in esame due ipotesi:

a) il Sindaco è stato affiancato da un’auto che proveniva in senso opposto all’improvviso, dalla quale sono partiti i colpi: perché tirare il freno a mano?
b) L’auto degli assassini (o dell’assassino) mostra subito un atteggiamento violento – si pone al centro della strada, di traverso, ecc – ed il Sindaco, presumibilmente, si spaventa. Perché tirare il freno a mano?

C’è una debole probabilità che Vassallo intendesse compiere una partenza in salita – dopo l’improvviso incontro con l’altra auto – e che i colpi subito esplosi abbiano arrestato gli eventi proprio in quell’istante.
C’è, però, un’altra ipotesi più pregnante da soppesare: che Vassallo conoscesse il suo (i suoi) assassino/i.
In quel caso, il freno a mano tirato mostrerebbe un ben diverso scenario e diverrebbe importante sapere se il motore era acceso o spento, altro indizio da valutare. Ma, l’assassino, potrebbe averlo spento o riacceso, secondo le sue mire.

L’agguato è avvenuto a poca distanza dall’abitazione del Sindaco. Nove colpi sparati trapassando i finestrini dell’auto: nessuno ha sentito nulla? Una sequenza di spari e rumori mica da poco. L’assassino ha usato un silenziatore?

Come si può notare, gli elementi d’ombra sembrano prevalere sulle semplici conclusioni tratte da larga parte della stampa, ma c’è dell’altro.

Lo stesso Magistrato Alfredo Greco comunica che:

Gli esposti contro il sindaco di Pollica sono stati tutti archiviati.”

Cosa è stato archiviato?

Non sappiamo di quali accuse fosse fatto oggetto Angelo Vassallo, però di una vicenda che non lo vide proprio nella “luce” del gran difensore della legalità fummo testimoni lo scorso anno, quando ci toccò (amaramente) scrivere della terribile morte di Francesco Mastrogiovanni – “Il miglio verde italiano”[4] – del quale consigliamo caldamente la lettura o la rilettura.

Venerdì 9 Aprile 2010 Rai3 dedicò alla terribile odissea di Mastrogiovanni una serata, nel programma “Mi manda Rai 3”: collegamento in nota[5].

La difesa del Sindaco Vassallo per quel Trattamento Sanitario Obbligatorio – una misura estrema, comminata per il semplice fatto che Mastrogiovanni era, a suo dire, una persona che “dava fastidio alle persone, percorreva le strade a forte velocità e suonando il clacson[6] – fa acqua da tutte le parti.
Afferma d’essere stato sollecitato dalla famiglia per quel ricovero, ma nessuno conferma e – anzi – la famiglia Mastrogiovanni lo smentisce apertamente[7].

Ma non finisce qui.
Vassallo – forse in buona fede, forse per poca dimestichezza con la normativa, mescolando termini giuridici con la comune “vox populi, vox dei” – non s’accorge d’infrangerla lui stesso, quella legge alla quale s’aggrappa.

Giuseppe Tarallo, ex presidente del parco nazionale Cilento e Vallo di Diano ed ex sindaco di Montecorice – amico di Mastrogiovanni – così risponde a Vassallo[8]:

Nello stesso luogo sono successi altri tafferugli più gravi da parte di giovani ultras a danno di malcapitati vacanzieri ma senza provvedimenti restrittivi della libertà personale (il sindaco avrebbe minacciato il foglio di via). Perché questa disparità? Come potrebbe spiegare agli alunni di Mastrogiovanni la sua ordinanza di ricovero coatto? E chi ha attivato il ricovero? il sindaco stesso o un ignaro medico? Il sindaco sa che il TSO è una misura estrema quando non ci sono altre alternative? Chi o che cosa l’ha convinto ad adottare in provvedimento così radicale ed estremo, perché non ha valutato altre misure sicuramente possibili? Ha informato il giudice tutelare e l’ordinanza è stata convalidata come previsto dalla legge che disciplina un atto così straordinario? Ha informato il sindaco del comune di residenza di Franco, peraltro medico in quell’ospedale e amico di Vassallo? Come ha potuto ordinare l’esecuzione della cattura in altro comune senza informarne, sembra, il sindaco - anch’egli amico di Vassallo ma, credo anche di Francesco?
In assenza di questi requisiti il ricovero coatto diventa sequestro di persona, tanto più che è stato eseguito con vergognose modalità da caccia all’uomo. Questo provvedimento così abnorme e sicuramente illegittimo ha aperto le porte del reparto neuropsichiatrico dove, senza che ciò risulti in cartella clinica, è stato legato in un letto di contenzione per 4 giorni continuati, portando alla morte Francesco per edema polmonare, dovuto sia alla posizione allettata che allo strazio prolungato della tortura cui è stato sottoposto
.”

Il giudizio di Tarallo è pesante:

In assenza di questi requisiti il ricovero coatto diventa sequestro di persona, tanto più che è stato eseguito con vergognose modalità da caccia all’uomo.
Sequestro di persona: sono questi gli “Gli esposti contro il sindaco di Pollica (che) sono stati tutti archiviati.”?
Come afferma il Magistrato Alfredo Greco?

Lungi da noi voler diffamare la memoria di una persona barbaramente uccisa, e per la quale proviamo rispetto e dolore: lo scopo è altro, ossia non accettare la prima verità pre-confezionata in svendita all’hard discount dei media.
Neppure, si può immaginare ad una vendetta per Mastrogiovanni: le persone che hanno chiesto giustizia per il suo caso si sono sempre espresse in termini civili, nonostante il gran dolore dei familiari.

Per chi ha letto il mio articolo che prima segnalavo, la vicenda di Mastrogiovanni conduce lontano: inizia, a ben vedere, nel 1970 con la morte per “incidente stradale” di cinque giovani anarchici nei pressi della tenuta del Principe Junio Valerio Borghese. “Incidente” che avvenne a circa 60 km da Roma: i primi ad accorrere furono gli uomini della squadra politica della Questura di Roma (!).
Prosegue con il tentativo d’uccidere Marini – il quale cerca di ricostruire la vicenda dei cinque anarchici ammazzati – e finisce con la morte di Favella, per la quale paga anche Mastrogiovanni, poi riconosciuto innocente con tanto di scuse.

Qualcuno – a questo punto, se la Giustizia ha ancora valore – dovrebbe raccontarci non le ragioni di un omicidio, bensì di due omicidi. Perché non si può passare sotto silenzio la vicenda di Mastrogiovanni.
Una lettura superficiale potrebbe condurre a considerare Vassallo come il vero colpevole di quella morte: e se così non fosse?
E se qualcuno, approfittando della “semplicità” del personaggio – prima di fare il sindaco era pescatore – lo avesse convinto a firmare quel TSO, sapendo che “al resto” ci avrebbero pensato all’Ospedale di Vallo di Lucania? Perché Mastrogiovanni, appena “catturato” in mare – manco fosse lui un pericoloso boss, e non un maestro elementare – urla di non portarlo a Vallo di Lucania, perché da lì non “sarebbe uscito vivo”?
Cosa intende il Magistrato Greco quando afferma che Vassallo “forse, aveva scoperto qualcosa che non doveva scoprire…”? C’è forse qualcuno che, a margine di questa vicenda, con la morte del Sindaco Vassallo e l’archiviazione di quelle indagini tira un sospiro di sollievo?

Tutto deve filare via liscio: Mastrogiovanni muore perché ha un edema polmonare dopo 4 giorni di letto di contenzione e Vassallo perché la camorra così ha deciso.

Com’è semplice tracciare subito delle verità consacrate, nel Paese dove un vero boss – Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana – viene seppellito, in barba alle vigenti norme del Diritto Canonico, in una basilica, al pari di un cardinale[9]. La stessa banda che, in pieno sequestro Moro, si “dilettava” a stilare falsi comunicati delle Brigate Rosse[10].

Ancora una volta, questo “Paese senza memoria e senza verità” – per dirla con Sciascia – finirà per avvitarsi su se stesso, senza mai riuscire a scalfire la superficie degli eventi. Rimarranno la morte di un anarchico un po’ eccentrico e quella di un sindaco che lottava contro il crimine.
Non abbiamo la presunzione d’aver indicato una possibile traccia – chi fa lo scrittore scrive, chi fa il magistrato indaghi – ma sono le dichiarazioni degli stessi inquirenti e dei vari attori della vicenda a mostrarci un panorama con mille dubbi, perplessità, contraddizioni. Perché la verità è una sola, e non la sommatoria di una montagna d’ipotesi.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

[1] Fonte: http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/06/news/morte_vassallo_carfagna_colpo_alle_istituzioni_iervolino_omicidio_desta_sgomento_e_preoccupazione-6799392/
[2] Fonte: http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/07/news/sindaco_ucciso_parla_il_fratello-6825723/
[3] Fonte: http://www.repubblica.it/cronaca/2010/09/06/news/acciaroli_sindaco-6790097/
[4] Vedi: http://carlobertani.blogspot.com/2009/10/il-miglio-verde-italiano.html
[5] Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=9_PSXYyRJgI&feature=player_embedded
[6] Fonte: http://www.giustiziaperfranco.it/firmerei_sindaco.pdf
[7] Fonte: http://www.giornaledelcilento.it/it/caso_mastrogiovannila_famiglia_del_maestro_smentisce_il_sindaco_vassallo.html
[8] Fonte: http://contrariamente.altervista.org/riceviamo_pubblichiamo/francesco_mastrogiovanni_morto_in_tso.pdf
[9] Fonte : http://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_De_Pedis
[10] Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Banda_della_Magliana