Premessa
Gira e rigira, quando si parla di decrescita, si finisce sempre per litigare.
Sembra quasi una “spesa pazza” al supermercato, nella quale ciascuno osserva il carrello dell’altro e si chiede se sia il vicino alla cassa il maggior consumista, il responsabile dei mucchi di rifiuti che debordano. Poi, c’è chi ritiene di non avere abbastanza e si chiede: perché dovrei avere di meno?
La faccenda assume toni planetari quando, qualche giornalista, politico, scrittore…statunitense, pone principi “planetari” per decrescere. Apriti cielo! Proprio lui – cittadino della nazione idrovora delle risorse mondiali – chiede agli altri di fare sacrifici?!? Un bailamme senza fine.
Ma, decrescere, significa avere di meno? Vuol dire tornare indietro, vivere peggio?
Forse, prima di parlare di decrescita, bisognerebbe aver chiaro cosa significa “crescere” poiché, mai come in questo caso, la lingua è una sequenza di tranelli.
Liquidando la faccenda in modo moooolto semplicistico, si potrebbe affermare che a crescere è la quantità di beni e servizi a disposizione dell’essere umano. Già, ma di quale essere umano? Del filippino o del francese? Del grande proprietario terriero filippino o dell’operaio francese della banlieue? E poi: quale deve essere la qualità, la durata e l’effettiva fruibilità di quei beni e di quei servizi?
Infine: di quale tipo di “beni e servizi”? Gli afgani, oggi, sono forse la popolazione che può osservare scorrere dalle finestre di casa il miglior “campionario” di beni e servizi tecnologici. Forse se la giocano con i palestinesi, che hanno il record d’esser già oggi bersagli del primo videogioco-reality del pianeta[1].
Entrambi, non sono molto soddisfatti per la “quantità e la qualità di beni e servizi” che si “prendono cura” delle loro vite. Anche se la loro realtà sembra molto distante dalla nostra, vedremo che – concettualmente – non siamo poi così lontani come parrebbe.
Un serio discorso sulla decrescita è inseparabile da un’analisi sulla produzione di beni e servizi, sulla qualità degli stessi, sulla loro durata (od obsolescenza programmata), sugli attori del processo di produzione, sui loro diritti e doveri, sui compiti della classe politica. Infine, sulle proposte attuabili per invertire il senso di marcia di un’umanità impazzita.
Un serio discorso sulla decrescita non può essere proposto in poche righe: perciò, ho deciso di suddividere un lungo articolo tre parti. In realtà, si tratta di un saggio: una prima parte centrata sugli attori dei processi produttivi, una seconda sui beni e sui servizi ed una terza che sarà la sintesi, dove proveremo a tracciare qualche proposta operativa.
Ho preferito, per le due prime parti, mantenere un’esposizione più didascalica, proprio – com’è nel mio stile – per mettere in sintonia esperienze comuni, dalle quali nascono riflessioni condivise, senza le quali ogni sintesi risulta monca poiché perfetta sotto l’aspetto razionale, ma scipita per scarsa consapevolezza.
Nella terza parte, invece, dovremo “raccogliere” ciò che avremo “seminato” nelle prime due. Attualmente, la seconda parte è quasi conclusa mentre della terza non ho ancora scritto una parola, proprio perché attendo riscontri, critiche, suggerimenti, ecc.
Signori: in carrozza.
Parte Prima
Decrescita “oggettiva” in salsa capitalista
E’ strano tornare, dopo tanti anni, a varcare le porte delle piccole imprese, quelle con qualche decina di dipendenti, al massimo cento, duecento persone. Lo faccio perché, talvolta, mi serve qualche pezzo od intervento specialistico per sistemare la mia barca.
Così, in queste limpide mattine d’Estate, torno a vedere quel mondo che ben ricordo: d’Estate, un tempo, gli studenti andavano a lavorare in fabbrica per raggranellare qualche soldo, ed io non ero un’eccezione.
E poi: mio padre e mio suocero, entrambi orgogliosi d’aver lavorato per decenni nelle industrie che “facevano qualcosa”…“qualcosa” che era destinato alla gente, per vivere meglio, per avere di più.
Oggi, calcando quelle sale d’attesa nuovissime, quegli arredamenti lindi in fibra sintetica ed acciaio, si respira la medesima aria: quella del “voler fare”. Certo, anche per arricchirsi oppure per mantenere il posto di lavoro.
Grattata la vernice, però, qualche defaillance viene a galla.
Sto cercando chi possa cromare due bocchettoni.
«Vada a C…là fanno le cromature.»
«Ma…c’è ancora quella fabbrica?»
L’uomo allarga le braccia: «C’era…oppure provi a telefonare a questo numero…»
«Questi…cromano?»
«No, però sanno chi croma…»
L’impressione che si ricava “a pelle” è che un mondo il quale, per semplicità, potremmo indicare come intriso “d’etica del lavoro” sopravviva nei suoi valori, mentre nella realtà perda colpi, si stia squagliando. Spieghiamo meglio con un esempio.
I grandi investimenti della prima metà del Novecento, nell’entroterra savonese, erano centrati sulla produzione di coke metallurgico (Fornicoke), prodotti chimici per l’industria (ACNA) e per l’agricoltura (Montedison). Completavano il quadro il settore fotografico (Ferrania, poi 3M) ed una miriade di piccole aziende di supporto, dal legno al metallo, dalla plastica all’elettricità…il cosiddetto “indotto”, il quale, però, non viveva solo di grandi commesse da parte delle grandi aziende, perché svolgevano reciproci compiti di manutenzione ed operava anche per l’utenza privata.
C’era, inoltre, una gestione dei sottoprodotti più intelligente: scarti dell’industria del carbone diventavano materia prima per i cementifici, i gas prodotti dall’arrostimento del carbone vergine erano utilizzati dalle industrie dei fertilizzanti, e così via. Si trattava, in sintesi, di un sistema industriale complesso ed interdipendente, pianificato nei minimi dettagli.
Oggi, di quel mondo rimane soltanto la Fornicoke, solamente perché i cinesi hanno deciso di non esportare più coke metallurgico (non ne hanno abbastanza per le loro industrie!), mentre la Ferrania – colpita forse più dall’ingordigia delle banche e dalle mire sulle sue aree – non ha resistito all’impatto del digitale e procede in un’agonia senza fine. Gli altri, sono defunti da tempo.
Questa è già una forma di “decrescita”, poiché anche l’indotto viene trascinato nella polvere dal crollo dei grandi gruppi i quali, apriamo una brevissima parentesi, sono gli unici a potersi permettere la ricerca che potrebbe invertire il percorso. Parentesi chiusa.
Ho preferito portare un solo esempio, giacché so perfettamente che tutti noi abbiamo avuto sotto gli occhi quelle situazioni: dal settore laniero biellese quasi completamente azzerato al triste spettacolo della Olivetti di Ivrea, vetri rotti che testimoniano la fine del “sogno” di Adriano Olivetti, la fabbrica integrata con il territorio e le necessità della popolazione.
In definitiva, senza ombra di dubbio, la quantità di beni e servizi che veniva prodotta mezzo secolo fa era superiore all’attuale: all’epoca, l’Italia era un Paese che costruiva infrastrutture, aziende…la popolazione cresceva e si edificavano case, automobili per spostarsi…s’esportava in Oriente invece d’esportare…
Cresceva l’apparato produttivo ed aumentava la produttività – grazie all’automazione – e quel mondo sembrava correre sereno verso auto sempre più grandi, stipendi più alti, maggiori diritti, centri siderurgici da costruire, porti da ampliare…
Poi, giunse la saturazione.
Non è un fenomeno assurdo ed incomprensibile: nasce, semplicemente, dalla testardaggine di persone che non hanno compreso la ciclicità d’ogni evento. Mentre la natura ci mostra percorsi ciclici da miliardi di anni, l’Uomo s’intestardisce nel pianificare la propria immagine come una retta, un vettore puntato – tanto per creare una meta – verso le stelle, il firmamento.
“Crescita” e “decrescita” – in questo universo fuorviato – sono dunque fenomeni naturali? Avvengono, semplicemente, per il ciclico morire e rinascere dell’Araba Fenice capitalista? L’Uomo, può solo interpretare – al meglio che può – un copione, oppure dovrebbe essere il regista della rappresentazione?
Andiamo avanti.
Capitalismo a senso unico?
Una seconda riflessione ci porta nel “Gotha” industriale italiano: a casa Agnelli, ma non dalle parti dell’Avvocato, bensì nelle stanze del figlio Edoardo, scomparso in tragiche (e, a dir poco, misteriose) circostanze.
L’iconografia ufficiale ci ha sempre mostrato il figlio dell’Avvocato come uno scherzo del destino, ossia una sorta di “hippie” nato, per contrappasso, nella più potente famiglia industriale italiana. Niente di più falso.
Edoardo Agnelli parlò di un suo “futuro” nell’industria ed in economia, in parecchie interviste[2], solo che fece comodo ignorarle. Come, ad esempio, l’intervista ad “Epoca” del 1987 (che non sono riuscito a ritrovare in elettronico: se qualcuno la trova…), che lessi e rilessi – all’epoca – perché la considerai di grande importanza.
Riporto un passo di uno dei tanti articoli[3] comparsi dopo la sua morte, perché qui ritornano – nei ricordi di Marco Bava[4] – gli stessi concetti che Edoardo espresse ad “Epoca”.
“Bava conferma l’approccio pesantemente critico del suo giovane amico nei confronti del capitalismo selvaggio che stava assorbendo anche la FIAT, laddove avrebbe voluto creare un’azienda attenta alle esigenze del Paese e protagonista del suo sviluppo non solo economico ma anche e soprattutto sociale: a fronte delle possibilità economiche che gli si prospettavano, avrebbe voluto investirle affinché la FIAT non fosse più un parassita dello Stato tramite incentivi alla rottamazione e sussidi vari, bensì un attore attivo e attento anche alle scelte strategiche globali all’estero.”
Ricordo che fui così colpito dalla lucidità di questo giovane Agnelli – considerato, nella vulgata, una sorta di “parassita di famiglia” – tanto che lo ricordai in un precedente articolo “Lo strano caso del dottor Fiat e di Mr. Luke[5]”, del quale faccio più in fretta a riportare un estratto:
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Insomma, ben lontano dall’icona del giovane debosciato che è passata alla storia (che dire, allora, del nipote Lapo e del suo amore per le “piste”?), Edoardo Agnelli spiegava (nell’intervista ad “Epoca” del 1987) qual era il suo pensiero, la sua visione della più grande azienda italiana. E c’è da stupirsi.
Erano anni nei quali si discuteva sul futuro dei trasporti – mica come oggi, che si decide soltanto per il diktat di questo o quel gruppo finanziario, per le vicinanze o per le divergenze con la burocrazia europea – e la FIAT , ovviamente, era il fulcro della discussione.
Il pensiero di Edoardo Agnelli, sinteticamente, era questo: ritengo la FIAT una grande opportunità per l’Italia. Il futuro tecnologico del Paese, ovviamente, dovrà essere deciso dalla classe politica: il compito della FIAT sarà quello di farsi trovare preparata all’appuntamento.
Il giovane Agnelli portava anche degli esempi: se la classe politica deciderà di dotarsi di centrali nucleari (tema molto sentito in quegli anni), la FIAT dovrà esser in grado d’entrare in quel mercato. Se, invece, si sceglierà la ferrovia, l’azienda produrrà locomotori. Oppure navi, aerei: insomma, la visione di Edoardo Agnelli era quella di un’azienda che era al servizio del Paese, mica quella di un gruppo che piegava il Paese ai suoi desideri.
Aprendo una parentesi, notiamo che questa impostazione fu quella dei grandi gruppi industriali tedeschi (Krupp, Blohm & Voss, Thyssen, ossia il “capitalismo renano”) che – nel bene e nel male – seguirono le vicende politiche della nazione, nazismo compreso, compiendo la loro funzione di produttori di beni e sopravvivendo a mille rovesci.
Anche il cugino Giovanni Alberto, che diresse per pochi anni la Piaggio, confermava quel modo d’intendere il futuro industriale del paese: il sindaco comunista di Pontedera dell’epoca lo ricorda come una persona con la quale si riusciva sempre a ragionare ed a trovare una soluzione soddisfacente per tutti, un vero capitano d’industria, ma anche un sereno e pacato mediatore fra interessi non sempre convergenti.
Non sapremo mai se le riflessioni di Edoardo Agnelli ed il comportamento del cugino avrebbero aperto una nuova stagione nei rapporti fra il potere politico e gli imprenditori, fra chi deve decidere cosa fare e chi deve attuarlo: un destino tragico si frappone fra noi e quelle risposte.
Un destino che non sappiamo (e mai lo sapremo?) se fu opera del Fato (per entrambi?) oppure degli uomini: non dimentichiamo che “altri” ebbero enormi vantaggi dalla “scomparsa” dei due eredi Agnelli. Ma non è questa la sede per aprire questo, ennesimo vaso di Pandora italiano: altri lo stanno facendo e noi continueremo con la nostra analisi.
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Le parole di Edoardo Agnelli risultano, oggi, quasi profetiche a dimostrare che quel “ragazzo” d’idee ne aveva, ed erano idee adamantine, poiché tornavano a legare, in qualche modo, il mondo dell’industria alla sua funzione primitiva: fornire beni e servizi per migliorare la vita delle persone. Un umanista? Certo. L’umanesimo è forse da aborrire nel mondo dell’impresa? Se la risposta è sì, allora ben venga la cosiddetta globalizzazione, ossia quel nome gentile ed accattivante che cela la cruda realtà: il mercato planetario dei lavoratori, i nuovi schiavi senza diritti.
Oggi, possiamo seguire – passo dopo passo – le scelte FIAT che ignorarono con un’alzata di spalle le impostazioni “renane” di Edoardo Agnelli: il duopolio Giovanni Agnelli/Cesare Romiti i quali, per anni, continuarono a calcare la politica della produzione a basso costo e di basso livello.
Ricordiamo, a latere, che Edoardo Agnelli giunse a rivolgersi – in piena Tangentopoli – a suo padre dandogli del “lei”, per ricordargli che lo statuto della FIAT non comprendeva l’uso della corruzione per gestire gli affari della famiglia. Già, ma era soltanto un visionario.
Intanto, le auto FIAT arrugginivano da sole, distrutte dal “cancro” interno che derivava dalla cattiva qualità dell’acciaio utilizzato, mentre i settori di qualità – come la Lancia – erano abbandonati: la gloriosa casa che un tempo produceva i gioielli che il mondo c’invidiava, i quali vincevano i rally internazionali, fu abbandonata come se fosse un sub-contraente. Ed il gruppo perdeva fette di mercato.
Per contrappeso, fu imposto lo specchietto per le allodole: il marchio Ferrari. Visibilità e clamore mediatico, al posto della qualità nella produzione diretta al vasto pubblico.
L’uomo della Ferrari – Luca di Montezemolo – fu poi “l’esecutore testamentario” di casa Agnelli e ne rappresentò la continuità: mentre, a livello mondiale, l’industria automobilistica iniziava a proporre modelli sperimentali con nuovi propulsori elettrici, celle a combustibile e l’Idrogeno nel serbatoio al posto della benzina la FIAT continuava, imperterrita, nel credere solo nei macinini a petrolio. Ciò che ha condotto, oggi, Marchionne a migrare in Serbia: domani sarà la Mongolia o l’Ecuador, nella continua ricerca del salario più basso.
Oggi, le auto elettriche di nuova concezione non circolano soltanto perché i colossi petroliferi non consentono che parta la distribuzione dell’Idrogeno oppure – come nel caso della Toyota RAV4-EV – perché, semplicemente, i gruppi petroliferi acquistano le case produttrici degli accumulatori (batterie) e poi, con il sorriso sulle labbra, le chiudono[6].
Ma, avere già oggi “in casa” prototipi perfettamente funzionanti e competitivi, sarà domani la “marcia in più” di Toyota e BMW (solo per citarne due), mentre la FIAT continuerà a cercare qualche posto dove la gente lavora per un pezzo di pane.
Ecco dove si divise il destino industriale del maggior gruppo italiano: il pragmatismo del profitto immediato ebbe la meglio sulla programmazione a lungo termine, l’impresa considerata come un “a sé stante” ebbe la meglio su quella che prevedeva anche una sua destinazione sociale.
E, i risultati, non sono certo esaltanti: se non ci sarà la chiusura degli storici stabilimenti di Mirafiori, a Torino, sarà solo perché sarebbe una débacle mediatica ma le produzioni, oramai, sono migrate altrove.
Potremmo allora dividere il pensiero del capitalismo (italiano e non) in due filoni: quello degli Edoardo Agnelli e degli Adriano Olivetti – la fabbrica come luogo di produzione che è, allo stesso tempo, fonte di risorse sufficienti per chi ci lavora (per acquistare, ad esempio, gli stessi prodotti) ed “incastonata” in un quadro di programmazione economica generale – e quello dei Marchionne e delle Marcegaglia: il luogo fisico della creazione del profitto e basta, a qualsiasi costo, senza regole, più soldi per noi e morta lì.
Abbiamo preferito trattare con dovizia l’aspetto industriale della decrescita, perché salta subito agli occhi un dato: una politica di decrescita è possibile solo nel primo caso, mentre nel secondo è addirittura inutile parlarne. Come si può discutere di decrescita (che, ricordiamo, coinvolge la gestione delle risorse disponibili nel Pianeta, oggi scellerata) con chi sostiene unicamente questa assurda ed infinita “moltiplicazione dei pani e dei pesci”?
Non crediamo che le figure sopra citate di “capitalisti illuminati” fossero delle mosche bianche: nel panorama della piccola e media impresa del dopoguerra, erano più frequenti di quel che si pensi.
C’è una terza via, che fu quella battuta dai sistemi di governo che misero sotto il rigido controllo della parte politica l’economia: i paesi del socialismo reale, oppure la compartecipazione (Mitbestimmung, “codecisione”) alla gestione strategica dell’impresa (il dibattito sulla partecipazione agli utili è altra cosa, non prevista dalla normativa – di rango costituzionale – tedesca) che fu talvolta proposta anche dalle destre.
Qui, il dibattito è aperto, poiché i sistemi del socialismo reale dovettero creare di sana pianta una sorta di borghesia interna al partito, la quale doveva svolgere i compiti di coordinamento che sono, invece, appannaggio delle borghesie nel capitalismo. Una borghesia di burocrati che funzionò poco e male, al punto che la piccola corruzione interna – quella del “conosco la sorella del magazziniere nella fabbrica di…” – era il sistema distributivo più efficiente.
I regimi di destra del ‘900 sono invece non-accomunabili perché sostanzialmente diversi: appiattito sulla borghesia capitalista il Fascismo, chiuso in un’autarchia prevalentemente contadina il Franchismo, solo il Nazionalsocialismo ebbe un vivido rapporto (in tutti i sensi) con il capitalismo tedesco, che fu però piegato alle esigenze di programmazione bellica del regime.
E, sia il Fascismo e sia il Nazionalsocialismo, durarono troppo poco per trarne valide conclusioni.
La “codecisione” tedesca è invece argomento più interessante, poiché la decrescita deve per forza essere un percorso deciso in sede politica, e l’industria è attore di questi processi, come del resto gli altri settori economici.
Posto che con l’attuale classe imprenditoriale è impossibile tracciare dei profili di decrescita, e che la stessa classe imprenditoriale italiana attuò una sorta di “notte dei lunghi coltelli” nei confronti dei “capitalisti illuminati”, è solo facendo leva sulla politica – ossia in quel quadro decisionale collettivo che dovrebbe essere il “faro” per la Nazione – che si potranno ottenere dei risultati.
In altre parole, siamo così assordati dal clamore afono di Confindustria – afono perché ripetitivo, privo di spunti di proposta, noioso persino nelle forme – che non rimane altra scelta che smettere d’ascoltarli.
Talvolta, imprenditori e politici accennano a forme di compartecipazione, ma lo fanno in modo strumentale, per avere visibilità momentanea sui media: se veramente desiderassero aprire un dibattito in tal senso, avrebbero tutti i “canali” per farlo.
Un serio dibattito sulla compartecipazione alla gestione delle imprese è invece una proposta che può smuovere intelligenze sopite, far tornare nell’agone della discussione e del confronto le menti, ed annichilire le stupide, sterili e perfettamente allineate al pensiero dominante contrapposizioni destra/sinistra. Che oseremmo oramai ridefinire, per una seconda volta, come “storiche”.
La grande silenziosa: la parte politica
Chiusa in un alveo dorato, la classe politica non viene nemmeno più definita con quel termine bensì, sbrigativamente ed incisivamente, come “Casta”. E, con tutte le ragioni del caso.
Il mutamento della classe dirigente italiana in Casta iniziò negli anni ’80 del secolo scorso: fu un mutamento che, di là degli evidenti fatti storici – pensiamo a Tangentopoli – fu preparata per tempo, con astuzia e chirurgica precisione.
Siccome questo lavoro, per la sua ampiezza, è già più un saggio che un articolo, propongo la lettura del mio “Storia di lucidatori di sedie[7]” per chi desiderasse approfondire le metodologie che furono attuate per giungere all’obiettivo di staccare il ceto politico da qualsiasi legame o controllo da parte degli elettori e, nel contempo, per garantire la fedeltà assoluta degli eletti al sistema bipartisan decisionale.
Se volessimo segnalare qualche data puramente indicativa, il “sistema” prese vigore con la fine delle presidenza Pertini (1985).
Subito dopo, s’insediò alla presidenza uno dei più astuti gestori di grandi interessi, Francesco Cossiga: proprio in quegli anni, i lavoratori persero definitivamente uno degli istituti più importanti per salvaguardare il potere d’acquisto (la cosiddetta “scala mobile”) e l’Italia partecipò, finalmente, ad una vera guerra, la Prima Guerra del Golfo.
Il processo d’espropriazione della legittimità costituzionale, nel voto e nella partecipazione alle decisioni, terminò con la promulgazione della legge elettorale del 2006 (Legge Calderoli, o “porcata”).
E’ fin troppo facile individuare, in questo processo, l’ingombrante opera delle società segrete, la P2 in primis, ma anche il “lavoro” del Partito Socialista dell’epoca, partito nel quale si sono formati personaggi come Cicchitto, Brunetta e Sacconi, coloro che reggono le trame economico/sociali nell’impostazione berlusconiana.
La “scala mobile” – aborrita come il demonio dal capitalismo liberista – era in realtà il legame che univa la produzione dei beni con la disponibilità su larga scala degli stessi. La sua eliminazione consentì al capitalismo d’incamerare ingenti risorse, le quali furono successivamente utilizzate – ricordiamo lo “storico” viaggio di Craxi in Cina – per accelerare quel percorso. Fornendo capitali a Nazioni allora in via di sviluppo, si crearono le basi per la successiva fase di globalizzazione dei mercati.
Prima di questo processo, era già iniziata l’epurazione silente nella sinistra: tutti gli iscritti al PCI che propendevano per una gestione “sociale” dell’economia furono esautorati da posizioni importanti nel partito – pensiamo a Spaventa, Giolitti, Preve e tanti altri, l’espulsione del gruppo del “Manifesto” (la “bolla” d’espulsione fu scritta da D’Alema), ecc – ma il fenomeno più importante fu la cernita nelle piccole amministrazioni, per scalzare i futuri dirigenti di domani ed il grande “bestione metaforico” (come lo definisce Preve), s’avviò verso l’ultimo girone del suo destino, quello dei Veltroni, dei D’Alema, dei Bersani. Il fondo del barile, dopo la raschiatura.
Anche la destra non volle essere da meno: riflettiamo che cacciarono senza il minimo pudore la migliore mente che avevano, ossia Marco Tarchi, pure lui scomodo per quelli (leggi: Fini) che oggi si propongono come i defensor fidei.
Alcuni finirono nella trappola della lotta armata, altri caddero nella droga: i più, si ritirarono semplicemente da ogni velleità di partecipare alla vita democratica del Paese, con la bocca amara ed il fegato marcio.
Nella galassia centrista fu la morte di Moro a sentenziare il de profundis per un’interpretazione del cattolicesimo che si differenziasse da quella sancita nelle stanze vaticane: se mons. Romero – un martire nei fatti, senza ombre – non è ancora Beato, qualcosa vorrà pur dire. Soprattutto, alla luce di un “Renatino” della Magliana sepolto nella basilica di S. Apollinare, regno dell’Opus Dei.
Così, i tanti movimenti di rinnovamento – nel cattolicesimo – finirono per occupare una posizione a latere della dottrina e della prassi: dei due relatori al Concilio Vaticano II – Hans Kung e Joseph Ratzinger – sappiamo che il primo, voce critica, è tuttora solo un professore di teologia. Il secondo…
Perciò, i cattolici che scorgevano e praticavano una profonda motivazione sociale nel loro credo, oggi li ritroviamo su posizioni chiaramente anti-liberiste, nelle lotte per la gestione pubblica dell’acqua, contro la guerra, le mille mistificazioni, ecc…oppure (pochi) nel PD. Auguri per quest’ultimi.
Non possiamo, quindi, rivolgerci a questa classe politica per attuare politiche di decrescita – sono tutti sfegatati liberisti! – ma possiamo parlare ai loro elettori, e lo facciamo più spesso di quel che si creda: il forte astensionismo alle ultime elezioni, qualcosa mostra.
Nei confronti della classe politica, l’unica richiesta che possiamo fare – e sarebbe opportuno battere spesso questo chiodo – è quella di una riforma della legge elettorale. Bersani l’ha chiesta, ma non crediamo che il nostro intendimento collimi con il suo.
L’unica legge elettorale che può far “saltare il tappo” – ossia rimescolare le carte e far giungere sui banchi del Parlamento una nuova classe politica – deve, forzatamente, essere perfettamente proporzionale e senza sbarramenti: altrimenti, tornerebbero i soliti trucchi di sempre.
Inoltre, si dovrebbe chiedere a gran voce una legge elettorale che consenta di presentare liste come in Germania: 50 firme vidimate dal segretario comunale.
Se qualcuno ancora crede che le leggi elettorali siano una garanzia di “governabilità”, s’accomodi all’edicola, acquisti un giornale, oppure apra il sito Web di un quotidiano…e s’abbeveri di tanta “governabilità”. “Governare” significa saper trarre la sintesi delle istanze che giungono dalla società, non appoggiare una fazione a scapito dell’altra finché dura: per le lotte fratricide fra Guelfi e Ghibellini, basta rileggere Dante.
Da circa 20-25 anni, l’Italia non ha più governo che non sia una quasi paradossale applicazione della dottrina marxista da parte della borghesia, la quale – con la caduta dell’URSS – pensò semplicemente d’aver arraffato un Paese al Lotto. L’attività “di governo” è ridotta semplicemente alla ripartizione delle sfere di potere, che si regge a sua volta sulla lotta fra gruppi per interessi convergenti/divergenti: anche all’estero il fenomeno è attuale ma, nel Belpaese – per una serie di ragioni che sarebbe qui inutile riproporre – il fenomeno è più “avanzato” e marcato. Da noi, Bossi e Berlusconi – per il loro modo di concepire i rapporti politici – se la giocano con Beria e Stalin
L’unico modo, per giungere ad attuare nuove modalità economiche, è quello di far saltare questo ingombrante “tappo” della Casta e, l’unica prassi da seguire (per ora), è continuare come stiamo facendo, coinvolgendo sempre di più gli italiani – stufi dei soliti teatrini – con proposte serie.
Qualcuno obietterà che il trastullarsi fra le tastiere è tempo perso ma, a ben vedere, questo “trastullo” è l’unica, vera novità del panorama politico italiano.
Ci sono, ovviamente, molti modi di passare il tempo al PC: c’è il pessimismo di chi non crede più ad altre proposte che non siano un mutamento profondo – oseremmo affermare “esistenziale” – dell’essere umano e chi, invece, ritiene che su precise proposte si potrebbe trovare unità d’intenti, anche per la decrescita. Ci sono poi quelli che, mascherati con fantasiosi nick, postano i loro commenti dalle sedi dei partiti: ce ne potesse fregar di meno.
Nella seconda parte scenderemo quindi con maggior precisione ad analizzare i meccanismi insiti nel processo di produzione dei beni e dell’organizzazione dei servizi. Per concludere, nella terza parte, con la sintesi e qualche proposta politica operativa.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Gira e rigira, quando si parla di decrescita, si finisce sempre per litigare.
Sembra quasi una “spesa pazza” al supermercato, nella quale ciascuno osserva il carrello dell’altro e si chiede se sia il vicino alla cassa il maggior consumista, il responsabile dei mucchi di rifiuti che debordano. Poi, c’è chi ritiene di non avere abbastanza e si chiede: perché dovrei avere di meno?
La faccenda assume toni planetari quando, qualche giornalista, politico, scrittore…statunitense, pone principi “planetari” per decrescere. Apriti cielo! Proprio lui – cittadino della nazione idrovora delle risorse mondiali – chiede agli altri di fare sacrifici?!? Un bailamme senza fine.
Ma, decrescere, significa avere di meno? Vuol dire tornare indietro, vivere peggio?
Forse, prima di parlare di decrescita, bisognerebbe aver chiaro cosa significa “crescere” poiché, mai come in questo caso, la lingua è una sequenza di tranelli.
Liquidando la faccenda in modo moooolto semplicistico, si potrebbe affermare che a crescere è la quantità di beni e servizi a disposizione dell’essere umano. Già, ma di quale essere umano? Del filippino o del francese? Del grande proprietario terriero filippino o dell’operaio francese della banlieue? E poi: quale deve essere la qualità, la durata e l’effettiva fruibilità di quei beni e di quei servizi?
Infine: di quale tipo di “beni e servizi”? Gli afgani, oggi, sono forse la popolazione che può osservare scorrere dalle finestre di casa il miglior “campionario” di beni e servizi tecnologici. Forse se la giocano con i palestinesi, che hanno il record d’esser già oggi bersagli del primo videogioco-reality del pianeta[1].
Entrambi, non sono molto soddisfatti per la “quantità e la qualità di beni e servizi” che si “prendono cura” delle loro vite. Anche se la loro realtà sembra molto distante dalla nostra, vedremo che – concettualmente – non siamo poi così lontani come parrebbe.
Un serio discorso sulla decrescita è inseparabile da un’analisi sulla produzione di beni e servizi, sulla qualità degli stessi, sulla loro durata (od obsolescenza programmata), sugli attori del processo di produzione, sui loro diritti e doveri, sui compiti della classe politica. Infine, sulle proposte attuabili per invertire il senso di marcia di un’umanità impazzita.
Un serio discorso sulla decrescita non può essere proposto in poche righe: perciò, ho deciso di suddividere un lungo articolo tre parti. In realtà, si tratta di un saggio: una prima parte centrata sugli attori dei processi produttivi, una seconda sui beni e sui servizi ed una terza che sarà la sintesi, dove proveremo a tracciare qualche proposta operativa.
Ho preferito, per le due prime parti, mantenere un’esposizione più didascalica, proprio – com’è nel mio stile – per mettere in sintonia esperienze comuni, dalle quali nascono riflessioni condivise, senza le quali ogni sintesi risulta monca poiché perfetta sotto l’aspetto razionale, ma scipita per scarsa consapevolezza.
Nella terza parte, invece, dovremo “raccogliere” ciò che avremo “seminato” nelle prime due. Attualmente, la seconda parte è quasi conclusa mentre della terza non ho ancora scritto una parola, proprio perché attendo riscontri, critiche, suggerimenti, ecc.
Signori: in carrozza.
Parte Prima
Decrescita “oggettiva” in salsa capitalista
E’ strano tornare, dopo tanti anni, a varcare le porte delle piccole imprese, quelle con qualche decina di dipendenti, al massimo cento, duecento persone. Lo faccio perché, talvolta, mi serve qualche pezzo od intervento specialistico per sistemare la mia barca.
Così, in queste limpide mattine d’Estate, torno a vedere quel mondo che ben ricordo: d’Estate, un tempo, gli studenti andavano a lavorare in fabbrica per raggranellare qualche soldo, ed io non ero un’eccezione.
E poi: mio padre e mio suocero, entrambi orgogliosi d’aver lavorato per decenni nelle industrie che “facevano qualcosa”…“qualcosa” che era destinato alla gente, per vivere meglio, per avere di più.
Oggi, calcando quelle sale d’attesa nuovissime, quegli arredamenti lindi in fibra sintetica ed acciaio, si respira la medesima aria: quella del “voler fare”. Certo, anche per arricchirsi oppure per mantenere il posto di lavoro.
Grattata la vernice, però, qualche defaillance viene a galla.
Sto cercando chi possa cromare due bocchettoni.
«Vada a C…là fanno le cromature.»
«Ma…c’è ancora quella fabbrica?»
L’uomo allarga le braccia: «C’era…oppure provi a telefonare a questo numero…»
«Questi…cromano?»
«No, però sanno chi croma…»
L’impressione che si ricava “a pelle” è che un mondo il quale, per semplicità, potremmo indicare come intriso “d’etica del lavoro” sopravviva nei suoi valori, mentre nella realtà perda colpi, si stia squagliando. Spieghiamo meglio con un esempio.
I grandi investimenti della prima metà del Novecento, nell’entroterra savonese, erano centrati sulla produzione di coke metallurgico (Fornicoke), prodotti chimici per l’industria (ACNA) e per l’agricoltura (Montedison). Completavano il quadro il settore fotografico (Ferrania, poi 3M) ed una miriade di piccole aziende di supporto, dal legno al metallo, dalla plastica all’elettricità…il cosiddetto “indotto”, il quale, però, non viveva solo di grandi commesse da parte delle grandi aziende, perché svolgevano reciproci compiti di manutenzione ed operava anche per l’utenza privata.
C’era, inoltre, una gestione dei sottoprodotti più intelligente: scarti dell’industria del carbone diventavano materia prima per i cementifici, i gas prodotti dall’arrostimento del carbone vergine erano utilizzati dalle industrie dei fertilizzanti, e così via. Si trattava, in sintesi, di un sistema industriale complesso ed interdipendente, pianificato nei minimi dettagli.
Oggi, di quel mondo rimane soltanto la Fornicoke, solamente perché i cinesi hanno deciso di non esportare più coke metallurgico (non ne hanno abbastanza per le loro industrie!), mentre la Ferrania – colpita forse più dall’ingordigia delle banche e dalle mire sulle sue aree – non ha resistito all’impatto del digitale e procede in un’agonia senza fine. Gli altri, sono defunti da tempo.
Questa è già una forma di “decrescita”, poiché anche l’indotto viene trascinato nella polvere dal crollo dei grandi gruppi i quali, apriamo una brevissima parentesi, sono gli unici a potersi permettere la ricerca che potrebbe invertire il percorso. Parentesi chiusa.
Ho preferito portare un solo esempio, giacché so perfettamente che tutti noi abbiamo avuto sotto gli occhi quelle situazioni: dal settore laniero biellese quasi completamente azzerato al triste spettacolo della Olivetti di Ivrea, vetri rotti che testimoniano la fine del “sogno” di Adriano Olivetti, la fabbrica integrata con il territorio e le necessità della popolazione.
In definitiva, senza ombra di dubbio, la quantità di beni e servizi che veniva prodotta mezzo secolo fa era superiore all’attuale: all’epoca, l’Italia era un Paese che costruiva infrastrutture, aziende…la popolazione cresceva e si edificavano case, automobili per spostarsi…s’esportava in Oriente invece d’esportare…
Cresceva l’apparato produttivo ed aumentava la produttività – grazie all’automazione – e quel mondo sembrava correre sereno verso auto sempre più grandi, stipendi più alti, maggiori diritti, centri siderurgici da costruire, porti da ampliare…
Poi, giunse la saturazione.
Non è un fenomeno assurdo ed incomprensibile: nasce, semplicemente, dalla testardaggine di persone che non hanno compreso la ciclicità d’ogni evento. Mentre la natura ci mostra percorsi ciclici da miliardi di anni, l’Uomo s’intestardisce nel pianificare la propria immagine come una retta, un vettore puntato – tanto per creare una meta – verso le stelle, il firmamento.
“Crescita” e “decrescita” – in questo universo fuorviato – sono dunque fenomeni naturali? Avvengono, semplicemente, per il ciclico morire e rinascere dell’Araba Fenice capitalista? L’Uomo, può solo interpretare – al meglio che può – un copione, oppure dovrebbe essere il regista della rappresentazione?
Andiamo avanti.
Capitalismo a senso unico?
Una seconda riflessione ci porta nel “Gotha” industriale italiano: a casa Agnelli, ma non dalle parti dell’Avvocato, bensì nelle stanze del figlio Edoardo, scomparso in tragiche (e, a dir poco, misteriose) circostanze.
L’iconografia ufficiale ci ha sempre mostrato il figlio dell’Avvocato come uno scherzo del destino, ossia una sorta di “hippie” nato, per contrappasso, nella più potente famiglia industriale italiana. Niente di più falso.
Edoardo Agnelli parlò di un suo “futuro” nell’industria ed in economia, in parecchie interviste[2], solo che fece comodo ignorarle. Come, ad esempio, l’intervista ad “Epoca” del 1987 (che non sono riuscito a ritrovare in elettronico: se qualcuno la trova…), che lessi e rilessi – all’epoca – perché la considerai di grande importanza.
Riporto un passo di uno dei tanti articoli[3] comparsi dopo la sua morte, perché qui ritornano – nei ricordi di Marco Bava[4] – gli stessi concetti che Edoardo espresse ad “Epoca”.
“Bava conferma l’approccio pesantemente critico del suo giovane amico nei confronti del capitalismo selvaggio che stava assorbendo anche la FIAT, laddove avrebbe voluto creare un’azienda attenta alle esigenze del Paese e protagonista del suo sviluppo non solo economico ma anche e soprattutto sociale: a fronte delle possibilità economiche che gli si prospettavano, avrebbe voluto investirle affinché la FIAT non fosse più un parassita dello Stato tramite incentivi alla rottamazione e sussidi vari, bensì un attore attivo e attento anche alle scelte strategiche globali all’estero.”
Ricordo che fui così colpito dalla lucidità di questo giovane Agnelli – considerato, nella vulgata, una sorta di “parassita di famiglia” – tanto che lo ricordai in un precedente articolo “Lo strano caso del dottor Fiat e di Mr. Luke[5]”, del quale faccio più in fretta a riportare un estratto:
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Insomma, ben lontano dall’icona del giovane debosciato che è passata alla storia (che dire, allora, del nipote Lapo e del suo amore per le “piste”?), Edoardo Agnelli spiegava (nell’intervista ad “Epoca” del 1987) qual era il suo pensiero, la sua visione della più grande azienda italiana. E c’è da stupirsi.
Erano anni nei quali si discuteva sul futuro dei trasporti – mica come oggi, che si decide soltanto per il diktat di questo o quel gruppo finanziario, per le vicinanze o per le divergenze con la burocrazia europea – e la FIAT , ovviamente, era il fulcro della discussione.
Il pensiero di Edoardo Agnelli, sinteticamente, era questo: ritengo la FIAT una grande opportunità per l’Italia. Il futuro tecnologico del Paese, ovviamente, dovrà essere deciso dalla classe politica: il compito della FIAT sarà quello di farsi trovare preparata all’appuntamento.
Il giovane Agnelli portava anche degli esempi: se la classe politica deciderà di dotarsi di centrali nucleari (tema molto sentito in quegli anni), la FIAT dovrà esser in grado d’entrare in quel mercato. Se, invece, si sceglierà la ferrovia, l’azienda produrrà locomotori. Oppure navi, aerei: insomma, la visione di Edoardo Agnelli era quella di un’azienda che era al servizio del Paese, mica quella di un gruppo che piegava il Paese ai suoi desideri.
Aprendo una parentesi, notiamo che questa impostazione fu quella dei grandi gruppi industriali tedeschi (Krupp, Blohm & Voss, Thyssen, ossia il “capitalismo renano”) che – nel bene e nel male – seguirono le vicende politiche della nazione, nazismo compreso, compiendo la loro funzione di produttori di beni e sopravvivendo a mille rovesci.
Anche il cugino Giovanni Alberto, che diresse per pochi anni la Piaggio, confermava quel modo d’intendere il futuro industriale del paese: il sindaco comunista di Pontedera dell’epoca lo ricorda come una persona con la quale si riusciva sempre a ragionare ed a trovare una soluzione soddisfacente per tutti, un vero capitano d’industria, ma anche un sereno e pacato mediatore fra interessi non sempre convergenti.
Non sapremo mai se le riflessioni di Edoardo Agnelli ed il comportamento del cugino avrebbero aperto una nuova stagione nei rapporti fra il potere politico e gli imprenditori, fra chi deve decidere cosa fare e chi deve attuarlo: un destino tragico si frappone fra noi e quelle risposte.
Un destino che non sappiamo (e mai lo sapremo?) se fu opera del Fato (per entrambi?) oppure degli uomini: non dimentichiamo che “altri” ebbero enormi vantaggi dalla “scomparsa” dei due eredi Agnelli. Ma non è questa la sede per aprire questo, ennesimo vaso di Pandora italiano: altri lo stanno facendo e noi continueremo con la nostra analisi.
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Le parole di Edoardo Agnelli risultano, oggi, quasi profetiche a dimostrare che quel “ragazzo” d’idee ne aveva, ed erano idee adamantine, poiché tornavano a legare, in qualche modo, il mondo dell’industria alla sua funzione primitiva: fornire beni e servizi per migliorare la vita delle persone. Un umanista? Certo. L’umanesimo è forse da aborrire nel mondo dell’impresa? Se la risposta è sì, allora ben venga la cosiddetta globalizzazione, ossia quel nome gentile ed accattivante che cela la cruda realtà: il mercato planetario dei lavoratori, i nuovi schiavi senza diritti.
Oggi, possiamo seguire – passo dopo passo – le scelte FIAT che ignorarono con un’alzata di spalle le impostazioni “renane” di Edoardo Agnelli: il duopolio Giovanni Agnelli/Cesare Romiti i quali, per anni, continuarono a calcare la politica della produzione a basso costo e di basso livello.
Ricordiamo, a latere, che Edoardo Agnelli giunse a rivolgersi – in piena Tangentopoli – a suo padre dandogli del “lei”, per ricordargli che lo statuto della FIAT non comprendeva l’uso della corruzione per gestire gli affari della famiglia. Già, ma era soltanto un visionario.
Intanto, le auto FIAT arrugginivano da sole, distrutte dal “cancro” interno che derivava dalla cattiva qualità dell’acciaio utilizzato, mentre i settori di qualità – come la Lancia – erano abbandonati: la gloriosa casa che un tempo produceva i gioielli che il mondo c’invidiava, i quali vincevano i rally internazionali, fu abbandonata come se fosse un sub-contraente. Ed il gruppo perdeva fette di mercato.
Per contrappeso, fu imposto lo specchietto per le allodole: il marchio Ferrari. Visibilità e clamore mediatico, al posto della qualità nella produzione diretta al vasto pubblico.
L’uomo della Ferrari – Luca di Montezemolo – fu poi “l’esecutore testamentario” di casa Agnelli e ne rappresentò la continuità: mentre, a livello mondiale, l’industria automobilistica iniziava a proporre modelli sperimentali con nuovi propulsori elettrici, celle a combustibile e l’Idrogeno nel serbatoio al posto della benzina la FIAT continuava, imperterrita, nel credere solo nei macinini a petrolio. Ciò che ha condotto, oggi, Marchionne a migrare in Serbia: domani sarà la Mongolia o l’Ecuador, nella continua ricerca del salario più basso.
Oggi, le auto elettriche di nuova concezione non circolano soltanto perché i colossi petroliferi non consentono che parta la distribuzione dell’Idrogeno oppure – come nel caso della Toyota RAV4-EV – perché, semplicemente, i gruppi petroliferi acquistano le case produttrici degli accumulatori (batterie) e poi, con il sorriso sulle labbra, le chiudono[6].
Ma, avere già oggi “in casa” prototipi perfettamente funzionanti e competitivi, sarà domani la “marcia in più” di Toyota e BMW (solo per citarne due), mentre la FIAT continuerà a cercare qualche posto dove la gente lavora per un pezzo di pane.
Ecco dove si divise il destino industriale del maggior gruppo italiano: il pragmatismo del profitto immediato ebbe la meglio sulla programmazione a lungo termine, l’impresa considerata come un “a sé stante” ebbe la meglio su quella che prevedeva anche una sua destinazione sociale.
E, i risultati, non sono certo esaltanti: se non ci sarà la chiusura degli storici stabilimenti di Mirafiori, a Torino, sarà solo perché sarebbe una débacle mediatica ma le produzioni, oramai, sono migrate altrove.
Potremmo allora dividere il pensiero del capitalismo (italiano e non) in due filoni: quello degli Edoardo Agnelli e degli Adriano Olivetti – la fabbrica come luogo di produzione che è, allo stesso tempo, fonte di risorse sufficienti per chi ci lavora (per acquistare, ad esempio, gli stessi prodotti) ed “incastonata” in un quadro di programmazione economica generale – e quello dei Marchionne e delle Marcegaglia: il luogo fisico della creazione del profitto e basta, a qualsiasi costo, senza regole, più soldi per noi e morta lì.
Abbiamo preferito trattare con dovizia l’aspetto industriale della decrescita, perché salta subito agli occhi un dato: una politica di decrescita è possibile solo nel primo caso, mentre nel secondo è addirittura inutile parlarne. Come si può discutere di decrescita (che, ricordiamo, coinvolge la gestione delle risorse disponibili nel Pianeta, oggi scellerata) con chi sostiene unicamente questa assurda ed infinita “moltiplicazione dei pani e dei pesci”?
Non crediamo che le figure sopra citate di “capitalisti illuminati” fossero delle mosche bianche: nel panorama della piccola e media impresa del dopoguerra, erano più frequenti di quel che si pensi.
C’è una terza via, che fu quella battuta dai sistemi di governo che misero sotto il rigido controllo della parte politica l’economia: i paesi del socialismo reale, oppure la compartecipazione (Mitbestimmung, “codecisione”) alla gestione strategica dell’impresa (il dibattito sulla partecipazione agli utili è altra cosa, non prevista dalla normativa – di rango costituzionale – tedesca) che fu talvolta proposta anche dalle destre.
Qui, il dibattito è aperto, poiché i sistemi del socialismo reale dovettero creare di sana pianta una sorta di borghesia interna al partito, la quale doveva svolgere i compiti di coordinamento che sono, invece, appannaggio delle borghesie nel capitalismo. Una borghesia di burocrati che funzionò poco e male, al punto che la piccola corruzione interna – quella del “conosco la sorella del magazziniere nella fabbrica di…” – era il sistema distributivo più efficiente.
I regimi di destra del ‘900 sono invece non-accomunabili perché sostanzialmente diversi: appiattito sulla borghesia capitalista il Fascismo, chiuso in un’autarchia prevalentemente contadina il Franchismo, solo il Nazionalsocialismo ebbe un vivido rapporto (in tutti i sensi) con il capitalismo tedesco, che fu però piegato alle esigenze di programmazione bellica del regime.
E, sia il Fascismo e sia il Nazionalsocialismo, durarono troppo poco per trarne valide conclusioni.
La “codecisione” tedesca è invece argomento più interessante, poiché la decrescita deve per forza essere un percorso deciso in sede politica, e l’industria è attore di questi processi, come del resto gli altri settori economici.
Posto che con l’attuale classe imprenditoriale è impossibile tracciare dei profili di decrescita, e che la stessa classe imprenditoriale italiana attuò una sorta di “notte dei lunghi coltelli” nei confronti dei “capitalisti illuminati”, è solo facendo leva sulla politica – ossia in quel quadro decisionale collettivo che dovrebbe essere il “faro” per la Nazione – che si potranno ottenere dei risultati.
In altre parole, siamo così assordati dal clamore afono di Confindustria – afono perché ripetitivo, privo di spunti di proposta, noioso persino nelle forme – che non rimane altra scelta che smettere d’ascoltarli.
Talvolta, imprenditori e politici accennano a forme di compartecipazione, ma lo fanno in modo strumentale, per avere visibilità momentanea sui media: se veramente desiderassero aprire un dibattito in tal senso, avrebbero tutti i “canali” per farlo.
Un serio dibattito sulla compartecipazione alla gestione delle imprese è invece una proposta che può smuovere intelligenze sopite, far tornare nell’agone della discussione e del confronto le menti, ed annichilire le stupide, sterili e perfettamente allineate al pensiero dominante contrapposizioni destra/sinistra. Che oseremmo oramai ridefinire, per una seconda volta, come “storiche”.
La grande silenziosa: la parte politica
Chiusa in un alveo dorato, la classe politica non viene nemmeno più definita con quel termine bensì, sbrigativamente ed incisivamente, come “Casta”. E, con tutte le ragioni del caso.
Il mutamento della classe dirigente italiana in Casta iniziò negli anni ’80 del secolo scorso: fu un mutamento che, di là degli evidenti fatti storici – pensiamo a Tangentopoli – fu preparata per tempo, con astuzia e chirurgica precisione.
Siccome questo lavoro, per la sua ampiezza, è già più un saggio che un articolo, propongo la lettura del mio “Storia di lucidatori di sedie[7]” per chi desiderasse approfondire le metodologie che furono attuate per giungere all’obiettivo di staccare il ceto politico da qualsiasi legame o controllo da parte degli elettori e, nel contempo, per garantire la fedeltà assoluta degli eletti al sistema bipartisan decisionale.
Se volessimo segnalare qualche data puramente indicativa, il “sistema” prese vigore con la fine delle presidenza Pertini (1985).
Subito dopo, s’insediò alla presidenza uno dei più astuti gestori di grandi interessi, Francesco Cossiga: proprio in quegli anni, i lavoratori persero definitivamente uno degli istituti più importanti per salvaguardare il potere d’acquisto (la cosiddetta “scala mobile”) e l’Italia partecipò, finalmente, ad una vera guerra, la Prima Guerra del Golfo.
Il processo d’espropriazione della legittimità costituzionale, nel voto e nella partecipazione alle decisioni, terminò con la promulgazione della legge elettorale del 2006 (Legge Calderoli, o “porcata”).
E’ fin troppo facile individuare, in questo processo, l’ingombrante opera delle società segrete, la P2 in primis, ma anche il “lavoro” del Partito Socialista dell’epoca, partito nel quale si sono formati personaggi come Cicchitto, Brunetta e Sacconi, coloro che reggono le trame economico/sociali nell’impostazione berlusconiana.
La “scala mobile” – aborrita come il demonio dal capitalismo liberista – era in realtà il legame che univa la produzione dei beni con la disponibilità su larga scala degli stessi. La sua eliminazione consentì al capitalismo d’incamerare ingenti risorse, le quali furono successivamente utilizzate – ricordiamo lo “storico” viaggio di Craxi in Cina – per accelerare quel percorso. Fornendo capitali a Nazioni allora in via di sviluppo, si crearono le basi per la successiva fase di globalizzazione dei mercati.
Prima di questo processo, era già iniziata l’epurazione silente nella sinistra: tutti gli iscritti al PCI che propendevano per una gestione “sociale” dell’economia furono esautorati da posizioni importanti nel partito – pensiamo a Spaventa, Giolitti, Preve e tanti altri, l’espulsione del gruppo del “Manifesto” (la “bolla” d’espulsione fu scritta da D’Alema), ecc – ma il fenomeno più importante fu la cernita nelle piccole amministrazioni, per scalzare i futuri dirigenti di domani ed il grande “bestione metaforico” (come lo definisce Preve), s’avviò verso l’ultimo girone del suo destino, quello dei Veltroni, dei D’Alema, dei Bersani. Il fondo del barile, dopo la raschiatura.
Anche la destra non volle essere da meno: riflettiamo che cacciarono senza il minimo pudore la migliore mente che avevano, ossia Marco Tarchi, pure lui scomodo per quelli (leggi: Fini) che oggi si propongono come i defensor fidei.
Alcuni finirono nella trappola della lotta armata, altri caddero nella droga: i più, si ritirarono semplicemente da ogni velleità di partecipare alla vita democratica del Paese, con la bocca amara ed il fegato marcio.
Nella galassia centrista fu la morte di Moro a sentenziare il de profundis per un’interpretazione del cattolicesimo che si differenziasse da quella sancita nelle stanze vaticane: se mons. Romero – un martire nei fatti, senza ombre – non è ancora Beato, qualcosa vorrà pur dire. Soprattutto, alla luce di un “Renatino” della Magliana sepolto nella basilica di S. Apollinare, regno dell’Opus Dei.
Così, i tanti movimenti di rinnovamento – nel cattolicesimo – finirono per occupare una posizione a latere della dottrina e della prassi: dei due relatori al Concilio Vaticano II – Hans Kung e Joseph Ratzinger – sappiamo che il primo, voce critica, è tuttora solo un professore di teologia. Il secondo…
Perciò, i cattolici che scorgevano e praticavano una profonda motivazione sociale nel loro credo, oggi li ritroviamo su posizioni chiaramente anti-liberiste, nelle lotte per la gestione pubblica dell’acqua, contro la guerra, le mille mistificazioni, ecc…oppure (pochi) nel PD. Auguri per quest’ultimi.
Non possiamo, quindi, rivolgerci a questa classe politica per attuare politiche di decrescita – sono tutti sfegatati liberisti! – ma possiamo parlare ai loro elettori, e lo facciamo più spesso di quel che si creda: il forte astensionismo alle ultime elezioni, qualcosa mostra.
Nei confronti della classe politica, l’unica richiesta che possiamo fare – e sarebbe opportuno battere spesso questo chiodo – è quella di una riforma della legge elettorale. Bersani l’ha chiesta, ma non crediamo che il nostro intendimento collimi con il suo.
L’unica legge elettorale che può far “saltare il tappo” – ossia rimescolare le carte e far giungere sui banchi del Parlamento una nuova classe politica – deve, forzatamente, essere perfettamente proporzionale e senza sbarramenti: altrimenti, tornerebbero i soliti trucchi di sempre.
Inoltre, si dovrebbe chiedere a gran voce una legge elettorale che consenta di presentare liste come in Germania: 50 firme vidimate dal segretario comunale.
Se qualcuno ancora crede che le leggi elettorali siano una garanzia di “governabilità”, s’accomodi all’edicola, acquisti un giornale, oppure apra il sito Web di un quotidiano…e s’abbeveri di tanta “governabilità”. “Governare” significa saper trarre la sintesi delle istanze che giungono dalla società, non appoggiare una fazione a scapito dell’altra finché dura: per le lotte fratricide fra Guelfi e Ghibellini, basta rileggere Dante.
Da circa 20-25 anni, l’Italia non ha più governo che non sia una quasi paradossale applicazione della dottrina marxista da parte della borghesia, la quale – con la caduta dell’URSS – pensò semplicemente d’aver arraffato un Paese al Lotto. L’attività “di governo” è ridotta semplicemente alla ripartizione delle sfere di potere, che si regge a sua volta sulla lotta fra gruppi per interessi convergenti/divergenti: anche all’estero il fenomeno è attuale ma, nel Belpaese – per una serie di ragioni che sarebbe qui inutile riproporre – il fenomeno è più “avanzato” e marcato. Da noi, Bossi e Berlusconi – per il loro modo di concepire i rapporti politici – se la giocano con Beria e Stalin
L’unico modo, per giungere ad attuare nuove modalità economiche, è quello di far saltare questo ingombrante “tappo” della Casta e, l’unica prassi da seguire (per ora), è continuare come stiamo facendo, coinvolgendo sempre di più gli italiani – stufi dei soliti teatrini – con proposte serie.
Qualcuno obietterà che il trastullarsi fra le tastiere è tempo perso ma, a ben vedere, questo “trastullo” è l’unica, vera novità del panorama politico italiano.
Ci sono, ovviamente, molti modi di passare il tempo al PC: c’è il pessimismo di chi non crede più ad altre proposte che non siano un mutamento profondo – oseremmo affermare “esistenziale” – dell’essere umano e chi, invece, ritiene che su precise proposte si potrebbe trovare unità d’intenti, anche per la decrescita. Ci sono poi quelli che, mascherati con fantasiosi nick, postano i loro commenti dalle sedi dei partiti: ce ne potesse fregar di meno.
Nella seconda parte scenderemo quindi con maggior precisione ad analizzare i meccanismi insiti nel processo di produzione dei beni e dell’organizzazione dei servizi. Per concludere, nella terza parte, con la sintesi e qualche proposta politica operativa.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
[1] Vedi: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=7269
[2] Vedi: http://www.namir.it/AGNELLI/ilfiglio.htm
[3] Vedi: http://www.eurasia-rivista.org/2851/la-morte-di-edoardo-agnelli
[4] Marco Bava, consulente finanziario ed amico di Edoardo.
[5] Vedi: http://www.disinformazione.it/dottor_fiat.htm
[6] Vedi: http://auto-elettriche.blogspot.com/2009/04/auto-elettriche-toyota-rav4ev.html
[7] Vedi: http://carlobertani.blogspot.com/2008/01/storia-di-lucidatori-di-sedie.html
Ho letto il tuo saggio con attenzione e sono sostanzialmente d'accordo con quello che affermi.
RispondiEliminaDovremmo capire quali beni e servizi devono crescere; ad esempio attraverso finanziamenti o sgravi all'agricoltura (biologica, biodinamica, permacoltura) per cercare di raggiungere la sovranità alimentare, oppure il risparmio energetico e le fonti rinnovabili (finanziando soprattutto i piccoli impianti per evitare di arricchire la solita cricca clientelare-massonico-mafiosa), attuare politiche di bonifica ambientale, si dovrebbe puntare sul trasporto leggero e sostenibile quali biciclette, tram e treni (son stato nei paesi bassi qualche settimana fa ed era impressionante il numero di treni disponibili ogni ora all'incirca 7-8 per ogni tratta).
Dovrebbero decresce innanzitutto le spese militari, i finanziamenti alle grande infrastrutture inutili ed inquinanti (tav e ponte sullo stretto), si dovrebbero tassare i materiali non riciclabili ed usa e getta (le cosiddette ecotasse), tagliare le province ed i vari emolumenti della cricca politica (nazionale e regionale) portando i loro stipendi ad un salario massimo di 2000 euro al mese ed eliminare il meccanismo secondo cui si prende la pensione dopo 2 anni e mezzo di legislatura.
Continuerei però rischierei di scrivere un saggio anchio.
Ps: ti seguo sempre anche se è la prima volta che ti scrivo.
Saluti
Par di capire che in un certo periodo storico, 30 anni fa (qualcosa più, qualcosa meno) ci fu uno scontro tra due modi di intendere il capitalismo. Uno più lungimirante che accettava di guadagnare un po' meno e con più fatica nell'immediato ma che si costruiva un futuro, o la possibilità di un futuro, ed uno più simile a un'orda di cavallette: mangia, devasta, spostati. Uno si può applicare ad un sistema in cui le risorse sono limitate e può trovare in sè stesso le vie di uscita da eventuali crisi, l'altro funziona solo finché c'è roba da devastare; a rigore, potrebbe essere applicato con successo e senza conseguene nefaste solo ad un sistema infinito... A trovarne uno...
RispondiEliminaPurtroppo ha vinto il modello a sciame di cavallette. Dovrà mutare o estinguersi, perché tanto per stare nell'esempio FIAT, oggi va a produrre in Serbia, domani in Mongolia o in Ecuador... Sì, ma a chi vende? In Italia/Europa non più, perché se gli Italiani non guadagnano più, avendo perso il lavoro, non possono più comprare. In Mongolia o in Ecuador venderanno quando il prodotto sarà alla portata delle tasche di un Mongolo o di un Ecuadoriano. Ma questi non sono problemi loro, a loro basta far profitti nei prossimi cinque anni, poi si vedrà.
La classe politica che dovrebbe dirigerli (non parlo di comunismo, ma solo di provvedimenti che stabiliscano regole certe per tutti e che, senza obbligare nessuno, rendano convenienti certe scelte e non convenienti altre) d'altra parte ha prospettive ancora più limitate nel tempo, tipo finire mezza legislatura così da poter godersi una lauta pensione. Oppure, se politici di più alta importanza, facilmente sono fedeli servitori dei potentati economici (si dirà così? Mah...).
Un esempio di classe politica. Va bene che pesco nella peggiore del pianeta, ossia quella italiana... Roba dell'altro ieri o giù di lì.
http://www.corriere.it/economia/10_settembre_18/tremonti-eolico-corruzione_f2d85cd0-c34e-11df-824c-00144f02aabe.shtml
MILANO - «Il business dell'eolico è uno degli affari di corruzione più grandi e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi». Lo ha detto il ministro dell'Economia Giulio Tremonti palando di energia, nell'ambito della kermesse organizzata dal Pdl a Cortina d'Ampezzo. «Con Berlusconi abbiamo già stilato un documento fatto di otto punti - ha spiegato Tremonti - che poi magari diventeranno cinque. Un punto che ci penalizza è quello del nucleare: noi importiamo energia. Mentre tutti gli altri paesi stanno investendo sul nucleare noi facciamo come quelli che si nutrono mangiando caviale, non è possibile. Non dobbiamo credere a quelli che raccontano le balle dei mulini a vento, le balle dell'eolico, vi siete mai chiesti perchè in Italia non ci sono i mulini a vento? Quello dell'eolico è un business ideato da organizzazioni corrotte che vogliono speculare e di cui noi non abbiamo certo la quota di maggioranza».
Carlo, sapevi di essere un ballista? Io no, però potevo sospettarlo. Però consoliamoci, siamo in buona compagnia.
Aspetto il secondo e il terzo tempo.
I due Agnelli-entrambi scomparsi stranamente-avevano evidentemente posto le radici del loro modo di voler essere imprenditori rispettando i principi riguardanti l'impresa contenuti nella Costituzione Italiana che, giustamente assegna all'impresa una funzione di utilità sociale.
RispondiEliminaSpecie Edoardo, anche se da adolescente, aveva potuto toccare con mano la miserevole politica della Fiat il cui scopo pratico è stato di assumere - con l'evidente complicità della politica- una posizione dominante, quasi esclusivista, del mercato interno.
Uno degli ultimi prodotti targati Lancia è - se nn ricordo male, del 1971 (un marchio prestigioso, proprietario di oltre 2000 brevetti), poi fu Fiat; di qualche hanno prima era stata l'acquisizione dell'autobianchi, altro marchio storico Italiano; per l'alfa ci sono voluti altri anni per assorbirla.
Nel 1971 la 127 costava meno di 1 milione (920mila) e lo stipendio di un insegnante - che era nella media degli stipendi dei dipendenti pubblici- era di appena sopra i 500mila mensili: due mesi bastavano a comprarla, mentre quando e' stata posta fuori produzione (fine anni 80) ci voleva oltre 1 anno di vita economica di un insegnante.
I modelli che la Fiat faceva per il mercato , ad esempio quello tedesco, erano qualitativamente quasi alla pari con i nuovi modelli introdotti dalla Wolkswagen che dopo il fenomeno maggiolino aveva investito in nuovi modelli fascia medio-bassa, ma puntando sulla qualità.
La fiat produsse invece degli obbrobri automobilistici: la lada russa , insieme alla duna ne sono esempi eclatanti.
Sebbene la fiat da sempre avesse prodotto motori diesel per l'agricoltura, trascuro' il settore diesel-auto, arrivando impreparata al boom del diesel della fine degli anni 70 , dopo la pesante crisi petrolifera.
Ma già da tempo la politica aveva smesso di elaborare una politica industriale di largo respiro - non che quella dei poli di sviluppo fosse accettabile.
La sconfitta dell'autunno 69 aveva dato radici all'espansione del potere dei partiti che sfociò necessariamente nella corruzione e nella concussione: la questione morale in effetti parte da quegli anni ed esplode a livello generale per merito di E.Berlinguer.
Ma la sua morte improvvisa apri le porte ai piccoli uomini...
E iniziarono - alla fine del 1984 - le grandi manovre dei complementaristi...
Doc
In questa prima parte, forse la Storia ha avuto il sopravvento. Certo, Dylan dog e Davide1969 colgono alcuni dei punti "critici" - l'energia, la tecnologia, l'agricoltura, ecc - che dovranno essere attentamente soppesati.
RispondiEliminaDoc - lo capisco, più vicino a me come età - ha segnato con la matita rossa le pecche, le occasioni che ci sono state scippate.
Tutti insieme, però - di là delle generazioni - abbiamo compreso che questo sistema sta correndo sul binario morto.
Spero che questo lavoro - se vogliamo possiamo anche aggiungere una quarta parte, chi ce lo proibisce? - diventi più collettivo.
In altre parole, io cercherò d'essere la sintesi: v'invito perciò alla critica, anche serrata, affinché ne esca qualcosa di fruibile, per tutti.
Grazie
Carlo
Resistere, resistere, resistere
RispondiEliminaL'argomento trattato mi sta molto a cuore.
La tua analisi, caro Carlo, la trovo molto interessante poiché mette a fuoco la recente storia italiana inserendola nel più ampio contesto delle vicende mondiali.
Negli ultimi trent'anni il mondo ha preso una certa direzione, quella della globalizzazione del capitalismo e del suo “libero mercato”.
Man mano tutti i paesi più importanti sono stati coinvolti da tale processo e ciascuno ha subito dei mutamenti modulati dalla propria storia, cultura e tradizione.
Anche l'Italia è cambiata, e la sua metamorfosi (che, come ogni mutamento affonda le sue radici nel passato) ha portato al paese che vediamo oggi, e che non ci piace granché.
A proposito di storia d'Italia, per comprendere meglio come veniva e viene interpretato ed applicato il capitalismo nel nostro paese, è opportuno leggere protocollo d'intesa tra il Governo (Amato, mi pare) e le parti sociali avvenuta nel luglio del 1993 (http://www.camera.it/temiap/Protocollo_23_07_1993_Concertazione.pdf). Con quest'accordo veniva abolita definitivamente la scala mobile, ma in cambio si prevedevano tante “belle cose” tra le quali soprattutto, come ricorda Vladimiro Giacché nel suo blog (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/20/due-o-tre-cose-su-ricerca-e-innovazione/62449/), quella di portare la spesa complessiva per il sistema della ricerca e dello sviluppo nazionale dall' 1,4 % del pil al 2% del pil in un solo triennio!! Per raggiungere tale obiettivo si riteneva fondamentale ed indispensabile l'apporto dell'industria privata: cara impresa (leggi confindustria) io stato ti elimino la scala mobile consentendoti così di aumentare i profitti, ma tu in cambio mi investi parte di questi profitti in ricerca e innovazione.
Sulla carta in bellissimo accordo, oserei direi “illuminato”. Oggi sappiamo come è andata a finire e dunque vediamo con angoscia (e, ahimè, sempre più spesso, con rassegnazione) qual'è la vera natura del modello di capitalismo che si è andato delineando nel nostro paese: anno 2007, investiti in ricerca e sviluppo l'1,18% del pil.
Torniamo a noi.
Innanzi tutto io proporrei di parlare acrescita e non di decrescita, Quest'ultimo termine, infatti, ha delle “connotazioni” troppo negative, evocando scenari di arretramento, recessione, contrazione. Non viene ben accolto dagli interlocutori.
Il termine acrescita è invece più “neutro” poiché indica una sospensione: “intanto fermiamoci un momento”, e poi, nel frattempo, cerchiamo di capire quale sia il modo migliore per proseguire. Parlare di acrescita crea meno reazioni di rifiuto “aprioristico”.
Per quanto riguarda le definizioni, acrescere, in estrema sintesi, significa adottare tecnologie e fare scelte politiche ed economiche, tali da determinare un consumo di risorse ed una produzione di rifiuti compatibili con la biocapacità della terra, ovvero con la capacità dell’ecosistema terrestre di produrre risorse naturali e di assorbire il materiale di scarto generato da noi umani.
Tutto qui... Sembra poco, eh.... Ma è molto molto complicato da realizzare.... Del resto siamo qui proprio per parlare di queste cose, e, come ben evidenzia il titolo del post, per poter avere successo nel conseguire l'acrescita dobbiamo crescere culturalmente e sviluppare dei nuovi modelli di società in grado di affrontare la sfida difficile (oserei dire, tremenda)che ci troviamo davanti: slavaguardare il nostro pianeta per garantire la sopravvivenza delle generazioni future.
Saluti,
Alex
Acrescere, acrescere, acrescere
Anche se è ancora la prima parte, provo ad accennare una piccola idea, da sviluppare. Penso che, oltre al sistema produttivo, anche il sistema amministrativo sia da rinnovare profondamente. Ad esempio, io proporrei l'abolizione delle Regioni come enti autonomi con potere legislativo, e vero buco nero finanziario. Si potrebbe dare più potere alle provincie, ma solo amministrativo, distribuendo le risorse finanziarie in base alla popolazione e ad altri coefficienti da stabilire, come ad esempio le caratteristiche territoriali. Tutto ciò perchè penso che negli ultimi anni si sia creata una fortissima disomogeneità a livello burocratico sul territorio nazionale. e questo vuol dire meno mobilità e meno facilità d'impresa, intesa nel senso lato del termine. Naturalmente, è un tema molto ampio da discutere, e non pretendo di esaurirlo in poche righe.
RispondiEliminaSaluti
Dove si parla di cultura per uno sviluppo innovativo e sostenibile -per alcuni si chiamerà decrescita e per altri acrescita- un posto importante spetterebbe alla difficile psicologia dell’umanità, perché cultura e sviluppo sono nelle sue mani. Anche le migliori idee non possono avere successo se non trovano condivisione e le minacce di catastrofi incombenti non sono di grande aiuto per slegarsi da un modo di vivere inadeguato, da cui è difficile liberarsi con la sola buona volontà. Si ribadisce spesso l’importanza del dialogo e della corretta informazione ma, come si faccia a trovare una soluzione efficace, è un enigma senza soluzione per chi non sia culturalmente dotato in questo senso. Nell'argomentare le varie fasi della decrescita si dovrebbe anche parlare di come favorire, con metodi non violenti e laici, tolleranza e rispetto per le persone e per l'ambiente.
RispondiEliminaLa comunicazione fra esseri umani è una delle imprese più difficili della vita, anche a causa della quasi totale ignoranza sul suo funzionamento. Appena si tocca un argomento che abbia un poco di complessità, nella maggior parte delle persone si trova resistenza non solo a capirlo, ma addirittura a volerlo conoscere. Si alzano barriere di difesa che vengono dalla parte più antica del cervello: quella degli istinti che diffidano di ogni novità in quanto possibile pericolo. Solo nella misura in cui c’è consapevolezza, coraggio e libertà avviene il contrario: la diversità e la complessità vengono allora percepite come maggiore possibilità di successo. La consapevolezza dipende, oltre che dalla predisposizione, da un lungo allenamento all’ascolto e all’osservazione, dalla conquista dell'autonomia e dalla pratica della generosità. Presuppone la conoscenza di sé e degli altri, nel sapere riconoscere e distinguere. Raramente la gente si rende conto di agire in modo istintivo, anziché razionale e di rispondere a dinamiche di gruppo, invece di fare scelte individuali. E’ grazie a questo che si diventa vittime di truffe e inganni di ogni tipo, si commettono ingiustizie e violenze anche senza averne l’intenzione.
La strada verso il reale benessere collettivo è ancora lunga. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare...
Cari saluti.
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RispondiEliminaSapevo che Alex avrebbe posto il problema del "a" o "de". E lo ringrazio per averlo fatto.
RispondiEliminaCi sono due motivi che mi spingono ad usare il termine "decrescita".
Il primo, che non sarebbe un grosso problema, è che il termine è "passato" nel mondo del Web ed in quello viene dibattuto.
Il secondo è invece più importante: a-crescere significa astenersi dalla crescita, ossia mantenere i parametri di crescita all'attuale livello."De-crescere" diminuirli.
Ora, se riflettiamo sull'attuale livello di consumo di risorse, possiamo accontentarci di fermare il processo? Saremmo fritti ugualmente. Aspetto, comunque, le tue contro-riflessioni.
Bene ha fatto Alex a sottolineare la fregatura del 1993 (me l'ero scordata): promesse in cambio di vento. Su 3morti non rispondo nemmeno: il "ragiunatt" non lo merita.
Emilio pone il problema della riforma dello Stato: io stesso l'avevo proposta in un articolo che potrete ritrovare "Ite, pargoli, ite".
La proposta è semplice: azzerare gli attuali livelli - tutti - per sostituirli con una sola amministrazione periferica che dovrebbe avere le dimensioni dell'attuale Comprensorio. Nei Comuni, solo le Pro Loco.
Si tratta di un argomento complesso, che richiederebbe a sua volta una lunga trattazione: siccome la decrescita è già complicata di suo, ho preferito limitarmi. Anche se il problema è collegato.
Sull'intervento di Juan Carlos sarei più ottimista. E' vero che si tratta di de-strutturare delle abitudini consolidate nell'essere umano, e la comunicazione di massa le sottolinea continuamente. Pensiamo alla cosiddetta "etica del lavoro", che va criticata e rinnovata.
Però, sursum corda, da qualche anno - anche grazie ai nostri piccoli blog - qualcosa si sta muovendo.
Ci vuole tempo, certo, tanto tempo e - fatemi aggiungere - gruppi di persone che imparino a lavorare insieme su temi specifici.
Grazie a tutti per i vostri commenti, veramente calzanti ed utili.
Carlo
Leggo questo tuo post Carlo dopo aver terminato di leggere il saggio di Barnard ( del quale anche se non apprezzo i toni amo alcuni suoi contenuti) e il libro di Marco della Luna Euroschiavi e devo dire che i miei dubbi e perplessità sull' economia mondiale e soprattutto su quella di casa nostra si moltiplicano.Da un lato ci sono i signoraggisti che sostengono che il deficit pubblico e qiundi la decrescita economica è segnata dal signoraggio monetario amplificato dall' avvento dell' euro con la messa in passivo della moneta sul bilancio della Bce creata a costo zero, pagata con titoli di stato e rimborsati dal popolo con le tasse. Poi c'è Barnard che parte dalla cospirazione delle destre attraverso personaggi come Friedman e Perroux che con un piano scientifico entrando nelle grandi università e nei centri nevralgici della politica hanno saputo creare sistemi come il mercato comune Europeo allo scopo di togliere la sovranità nazionale alla moneta evitando cosi di spendere ( gli stati ) a deficit e creando cosi assurdi paletti che hanno fermato la crescita impoverendo stati e persone. Poi ci sei tu Carlo che con la tua ponderatezza ci fai notare come 20 anni fa all' interno del sistema industriale ed economico e all' interno delle famiglie della grande industria Italiana ci fossero individui che cavalcavano sogni diversi divisi tra un capitalismo industriale e un sogno di sviluppo che potesse portare oltre che progresso soprattutto lavoro, il quale ( e qui credo di mettere d' accordo tutti) è l' unica vera forza primaria di crescita e ricchezza.Ciò che vorrei capire è se esiste una convergenza tra queste teorie o se il signoraggio o la pianificazione liberista del sistema sia solo una fantasia complottista mentre i corsi storici e l' avvelenamento del sistema politico e sociale sia dovuto solo all' impoverimenteo delle figure politiche ed economiche che controllano i posti chiave.
RispondiEliminaLa pianificazione liberista del sistema economico non è un'invenzione "complottista": si tratta, semplicemente, dell'assetto uscito dal dopo guerra fredda. Addirittura, dal "dopo Yalta".
RispondiEliminaIl capitalismo italiano - come ho ricordato nell'articolo - s'adattò.
Per i signoraggisti, ricordo che il primo a dare "veste" divulgativa al fenomeno (oltre al prof. Auriti, la base teorica del fenomeno) fu Domenico De Simone (se leggi: ciao Mimmo).
Potrei raccontare parecchi retroscena delle vicende del "primo signoraggismo" - ad esempio come mai i "no Euro" si presentarono alle elezioni con Berlusconi, ma "scippando" un programma con forti componenti sociali scritto da De Simone.
Basta vedere come si collocano, oggi, i neo-signoraggisti come Della Luna: a latere della Lega Nord. Quelli di "no-Euro" sono diventati una sorta di partitino politico per le regionali, una manciata di voti.
Ma stiamo parlando di decrescita, e non è il caso d'aggiungerci il signoraggio, altrimenti non ne usciamo più.
Ciao Marco, e grazie
Carlo
Per la decrescita occorre crescere
RispondiEliminainnanzitutto intellettualmente e
spiritualmente.
Attenzione ad incensare gli Agnelli.
Il nonno di Edoardo fu sostenitore del fascismo
( e te credo, gli comprava auto e carri armati), il padre Gianni era massone. Il povero Edoardo, poiché aveva idee un tantino diverse, fu
estromesso dalla successione, e gli
fu preferito il nipote, figlio di Umberto, ma poi morì precocemente,
lasciando campo libero agli Elkann
(ebrei massoni).
Eli
Sono d'accordo con te - Eli - sulle basi necessarie per la decrescita, quella che chiamo la "grande" decrescita. C'è però una "piccola" decrescita che può essere attuata modificando alcune leggi ed il sistema distributivo.
RispondiEliminaAvremo tempo d'approfondire.
Ciao e grazie
Carlo
PS: a me, che sono considerato un "non-complottista", m'ha sempre puzzato la morte di Carlo Alberto Agnelli. Quella d'Edoardo, ovvio.
Supponiamo che quel 40% di persone trovi uno sbocco politicamente significativo e addirittura arrivi a costituire un governo di persone che per quanto detto sono tutte animate dal voler essere al servizio del paese.
RispondiEliminaE supponiamo anche che questo avvenga in una situazione migliore dal punto di vista socio-economico.
Allora è lecito chiedersi a questo punto quanto tempo durerà questo governo?
Io non solo penso che sia lecito ma, oggi, credo sia un obbligo.
Penso che se non lo faccessimo sarebbe come andare ad una festa con un bel vestito senza essersi lavati e profumati dopo essere stati nella stalla delle vacche o come far operare un chirurgo con le mani, senza bisturi adatti.
Il caso di Profumo permette alcune osservazioni di qualità.
Sulla liquidazione avuta da lui o da altri suoi consimili;
Sulla remunerazione dei super manager;
Sulle stock-options
Ma qualunque sia la nostra reazione non possiamo dimenticare quello che sta sotto che quantitativamente puo' essere addirittura misurata in termini di valore:
Marchione vale 400 operai della Fiat, ad esempio.
E più in generale il valore di un manager in media è di 120 operai.
Ma, tornando all'ipotesi di buon governo, pensiamo sia possibile veram,ente che possa effettivamente governare, ad esempio, con lo stesso apparato dipartimentale che ha il ministero delle finanze, o se vi piace con l'apparato compartimentale della Ragioneria generale dello stato e... compagnia cantando?
Io penso proprio di no: alla prima finanziaria ..l'implosione e poi... la restaurazione.
Doc
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RispondiEliminaResistere, resistere, resistere
RispondiEliminaTornando al tema della definizione e del termine che sia più opportuno utilizzare per indicare la nuova strada che vogliamo intraprendere per far sì che l'utilizzo delle risorse del pianeta per soddisfare le nostre esigenze e la conseguente produzione di rifiuti siano compatibili con la biocapacità della terra, (per biocapacità, come ho già avuto modo di specificare, intendo la capacità dell’ecosistema terrestre di produrre risorse naturali e di assorbire il materiale di scarto generato da noi umani senza collassare, ma continuando a prosperare), continuo ad essere convinto della necessità di parlare di “acrescita” piuttosto che di “decrescita”.
Ovviamente, dando per scontato che con entrambi i termini vogliamo indicare la stessa cosa, la faccenda diventa un problema, diciamo così, di marketing.
Provo a spiegare meglio perchè.
Come giustamente osservi Carlo, il termine “decrescita” è certamente un termine più “collaudato”, soprattutto nel web. Infatti, è proprio grazie a questo strumento che a partire da circa quattro-cinque anni fa si è iniziato a diffondere in modo significativo il concetto della decrescita. Nonostante questo però esso è rimasto relegato all'interno di una cerchia ristretta fatto da un ceto medio alto (soprattutto dal punto di vista culturale) più attenta a questo tipo di tematiche.
Oggi, noi vogliamo provare ad impegnarci affinché questo concetto faccia un salto di qualità ed inizi in qualche modo a diventare di dominio pubblico diffondendosi ancora di più nel web, fino ad uscire da esso per allargarsi al “mondo reale” e divenire il concetto ispiratore di una qualche futura agenda politica illuminata accettata da tutti.
Ma quattro o cinque anni fa non esisteva alcuna crisi mondiale e le principali economie del pianeta viaggiavano più o meno a “pieno regime”. Oggi il quadro economico è completamente cambiato: dalle nostre parti lo sviluppo e la crescita sono praticamente ferme; i cassintegrati, i disoccupati, insomma tutte le vittime della crisi sono divenuti milioni. E che gli vai a raccontare a questi? Già mi immagino la scena davanti ai cancelli della FIAT (tanto per non fare nomi): Carlo ed io con il megafono che arringhiamo la folla di cassaintegratineolicenziatiprepensionatiassuntiaprogetto.
Noi:
"Ragazzi! Bisogna fermare lo sviluppo!"
Folla:
"Ma di quale c...o di sviluppo state a parlà? Qui è già tutto fermo da un pezzo!"
Noi:
"Si ma è fondamentale iniziare a decrescere!!"
Folla:
"E dove dobbiamo arrivare? Peggio di così?? Siamo senza stipendio, le banche si sono ripresi la casa perché il mutuo non lo possiamo più pagare, e per di più i bambini alla scuola pubblica non possono neppure fare più neanche il tempo pieno e stanno per strada tutto il pomeriggio a fare i teppistelli! Basta! Ci avete stancato!!"
Segue lancio di cibo avariato (ortaggi marciti) e fuga precipitosa dei due novelli “Don chsciotte”
Questa gente, nella situazione in cui si trova, e avendo conosciuto un benessere scaturito da un certo tipo di mondo, vuole sentire solo discorsi in qualche modo produttivisti (ecco quindi il successo si partiti tipo Lega Nord) che promettono nient'altro che crescita del PIL.
(segue -->)
(→ continua)
RispondiEliminaD'altro canto, nei paesi emergenti come Cina, India e Brasile le economia ancora corrono, anche se con qualche rallentamento. Quindi lo scenario è completamente diverso, anche se il finale è il medesimo. Vediamo che succede di fronte alla folla di operai davanti ai cancelli di un impianto siderurgico della Baosteel in Cina.
Carlo ed io con il megafono:
"Ragazzi! Bisogna fermare lo sviluppo!"
Folla:
"Ma che vi siete bevuti celvello? Ci siamo appena complati un bilocale, che dobbiamo finile di pagare. Nostli figli studiale ad univelsità ed avele alto costo di mantenimento! Io appena tlovato posto di lavolo fisso!"
Noi:
"Si ma è fondamentale iniziare a decrescere!!"
Folla:
"Andatelo a dile a vostla solella! Noi volele migliolale nostlo tenole di vita! Adesso basta!"
Segue lancio di cibo avariato (involtini plimavela scaduti) e fuga precipitosa dei due “Don chsciotte” recidivi.
Dunque, qualsiasi sia la situazione economica, il termine decrescita ha molta poca presa sulle persone. E' un temine che determina chiusura poiché evoca scenari di recessione, stagnazione, precariato, regresso del potere d’acquisto. E ai nostri giovani che lavoro gli diamo?? Questa confusione fa sì che chi ascolta sia portato subito a pensare che siamo dei matti che vogliono minare le basi della società in cui viviamo.
Tutto questo non avviene più se usiamo il termine acrescita. Infatti con esso indichiamo una via da seguire, che ci porta ad adottare tutta una serie di misure che preparano il terreno a quello che poi sarà inevitabile e cioè la decrescita.
Come dice più autorevolmente di me l'economista francese Serge Latouche, la a-crescita è una sorta di ateismo economico da contrapporre alla religione della crescita economia indefinita imposta dal capitalismo e dal suo libero mercato, vera e propria religione che domina il mondo.
Quindi, dal punto di vista “propagandistico” (passatemi il termine), acrescita è certamente migliore di decrescita. E' più convincente, è più avvolgente.
Inoltre, Carlo, a-crescere significa astenersi dalla crescita, e questo non comporta il mantenere i parametri di crescita all'attuale livello, perchè la crescita non c'è più. No, quelli che rimangono ai livelli attuali sono solo i consumi. Se a-cresco, ovvero fermo la crescita, per un po' i livelli di consumo restano ai livelli ai quali mi trovavo al momento dello stop, e poi iniziano man mano a diminuire come conseguenza naturale del blocco della crescita.
Resta intatto il problema di capire, al punto in cui siamo oggi, quale sia il limite temporale che ci resta per poter ancora sperare di applicare la acrescita: per quanto tempo la terra sarà ancora in grado di sopportare i sovraccarichi di consumi a cui la sottoponiamo (ormai da svariati anni)?
Saluti,
Alex
Acrescere, acrescere, acrescere
La tua analisi,Carlo, è profonda e invita a riflettere attentamente, come sempre.
RispondiEliminaNel riflettere, vorrei considerare, a questo punto, la nostra posizione, intendo come commentatori e ospiti del tuo blog.
Michael Hardt e Tony Negri, nel loro saggio "Impero", esaminavano, in definitiva, il sistema e il potere che governano il nuovo ordine mondiale, nella sua estensione spaziale reale e virtuale.
Si giungeva alla conclusione che, da una decina di anni a questa parte, è impossibile agire "fuori" dal sistema, ma solo "nel" sistema.
In verità, è il sistema che agisce sull' individuo, sui gruppi, sui movimenti, metabolizzando la loro spinta rivoluzionaria, riducendo così la minaccia di essere modificato o abbattuto.(la Grecia, oggi, non attrae rivoluzionari come la Spagna di Franco ieri).
Il sistema deve essere intaccato dall' interno, perchè non c'è più un bordo esterno ma un muro altissimo, invalicabile che non ci permette, per ora, di criticarlo a fondo e con incisività.
Facendo parte anche noi del sistema, non possiamo analizzarlo con la dovuta freddezza, in quanto suoi neuroni nella rete che ci lega ad un unico destino.(occorre destrutturare il linguaggio che il sistema usa e ci fa usare per preservare se stesso e comunicare la sua immortalità nei nostri sistemi di credenze).
Dobbiamo credere che il capitalismo si può e si deve superare, così come siamo stati prontissimi ad abbandonare il marxismo.
La decrescita è un mezzo per fermare il ritmo frenetico nel quale ci è impossibile iniziare a prendere coscienza della nostra posizione all' interno di Matrix, ma non è la soluzione finale, è una chiave, simile all' interruzione sciamanica del dialogo interiore, che permette di far affiorare l'osservatore che è in noi, scevro dei condizionamenti ai quali siamo sottoposti ogni secondo della nostra veglia.
Il tentativo fallito di applicare le teorie marxiste nella società, ha effettivamente scosso il sistema, ma non è bastato.
Ma il sistema non è omnicomprensivo, tralascia luoghi fisici e virtuali, dai quali non si aspetta nessun attacco: quelli sono i nostri territori dai quali muovere battaglia.
Uno di quei luoghi è la nostra mente...
ciao
B.S.
Sono convinto che il punto nodale è ,come dice black, la nostra mente.
RispondiEliminaSe una certa evoluzione ci ha portato al sistema consumistico come lo è oggi con le prospettive distruttive che con sè porta, questa evoluzione non è solamente figlia di se stessa.
In qualche modo ha fatto presa sugli individui che sono i componenti, soggetti economici e politici della società, ergo è dall'individuo che deve partire la spinta al cambiamento, direi rinnovamento se non rinascita.
E' certo , quindi, che i vecchi pseudo- valori devono essere sostituiti e credo che il primo passo per ottenere ciò sia di fare in modo che tutti comprendiamo che i modelli di comportamento devono essere individuati dentro noi stessi e non generati da logiche di mercato per il quale ogni giorno si inventano nuovi bisogni.
Ecco quindi che liberare la mente da strutture calate dall'alto è fondamentale.
Purtroppo esse sono così sedimentate che concetti come la de - acrescita sono assai ardui da comprendere ed è certo che il sistema basato sulla crescita infinita farà di tutto per combattere un'impostazione così innovativa nella sua assenza di spinte futuristico-espansioniste.
La vedo durissima a livello di macroeconomia.
Penso che si deve ricreare un percorso virtuoso che , purtroppo non ha lo stesso istantaneo "appeal" del benessere come oggi viene inteso dalla "Massa" coglionata per bene da falsi miti , falsi bisogni, ecc.ecc.ecc.
Sogno un Neo Rinasci-Umanesimo… se mi passate il termine.
Un saluto a tutti.
Credo che tutti, nelle diverse gradualità di accettazione, siamo consapevoli che la questione è essenzialmente culturale.
RispondiEliminaUn dato di fatto che si fa strada è che la grande promessa del capitalismo di dare benessere a tutti si è rivelata una bufala, forse la più grande per nazioni ed individui interessati.
Un altro dato di fatto che si sta facendo strada e che sta creando almeno una diversa sensibilità ai problemi che ne derivano è che i rifiuti sono oggettivamente troppi.
Anche mediaticamente sta passando l'evidenza che anche gli inceneritori non solo non risolvono questo problema ma ne creano addirittura altri.
Un altro dato di fatto che sta emergendo anche mediaticamente e' quello della Scuola:è totalmente inadeguata come struttura generale nel suo essere sia luogo che propulsore culturale.
Quello che non emerge, ne' mediaticamente e ne' nella famiglia dei blogger (qui e' stato piu volte accennato) e' il dato di fatto estremamente negativo in termini di rapporto addetti/ /popolazione del macrosettore dell'agricoltura.
Io credo che sia questo settore che nell'immediato possa dare delle risposte alternative economicamente valide, ed anche alla varie risposte che Alex potrebbe dare nel breve.
Certo i kazzi amari nel brevissimo rimangono tutti, ma bisogna iniziare.
E' urgente un riequilibrio occupazionale che solo l'agricoltura nell'immediato puo' dare. Ovvio che non basta.
Ciao
Doc
Avete nesso tanta carne al fuoco, che...acc...rispondere...
RispondiEliminaSpero che la questione fra decrescita ed acrescita non finisca come le scommesse con Orazio -))
Credo, a questo punto, che il problema sia il termine "crescita", non il prefisso.
Fermare o diminuire la crescita, nell'immaginario collettivo, scatena immagini di brodini di rape.
Il dibattito non è oggi esportabile "su piazza" perché non abbiamo ancora ben chiari i punti sui quali agire e le impostazioni generali da attribuire al fenomeno (queste, un po' di più).
Linguisticamente parlando, allora, sarebbe meglio introdurre termini come "economia sociale sostenibile" - che ne direste del logo @-ss ? - stavo scherzando...
Credo che la prima cosa sia discutere fra di noi, per chiarire meglio i parametri e le "vie" che possono essere seguite.
Sia Blak che ingenuo pongono, invece, il problema sulla seconda parte del titolo, ossia su cosa debba crescere.
Un secondo Rinascimento credo che avverrà per certo, poiché storicamente i bassi imperi finiscono in tragedie od in lunghe paludi, talvolta entrambe, ma dopo rinasce il sole.
La decrescita comporta inevitabilmente un riassetto dello Stato, dei redditi (pensiamo al reddito di cittadinanza) e delle produzioni.
Per certo che l'agricoltura dovrà nuovamente crescere ma, parallelamente, anche il sistema distributivo (filiere corte) oppure vendita diretta sul Web.
Anche il modo di costruire dovrà cambiare, giacchè quello odierno serve soltanto a trasformare rapidamente le merci in rifiuti.
Legno al posto del truciolato, automobili con telaio per sostituire via via i pezzi e non gettare tutto, eccetera...
Ne avremo di cose da discutere...
Grazie a tutti
Carlo
Caro Carlo, avrei voluto commentare questa prima parte del tuo promettente saggio sulla decrescita, ma il commentatore Blackskull mi ha preceduto sul tempo, quoto gli argomenti che ha cosí ben esposto.
RispondiEliminaPosso solo aggiungere che forse l'analisi dei cambiamenti politici é troppo centrata sul nostro Paese, che é solo un piccolo e periferico mattone dell'edificio neoliberista mondiale, e ne ripete le gesta. Noto anche una certa nostalgia per quel 'capitalismo dal volto umano' che in Italia fu da Olivetti ed Edoardo Agnelli. Purtroppo basta leggere il primo libro del Capitale (e condividerne le analisi ovviamente) per capire che é un tipo di capitalismo che puó solo avere una vita breve, cosí come il compartecipare alla gestione dei mezzi di produzione. La vera natura del Capitalismo é quella che stiamo vivendo oggi, inutile girarci intorno: deindustrializzazione, delocalizzazione, sfruttamento, dovuti alla inarrestabile caduta del saggio di profitto e conseguente economia finanziarizzata.
Qualsiasi discorso sulla descrescita non puó prescindere da questa analisi, secondo me.
Colgo anche l'occasione per appoggiare la tua scelta di lasciare CDC, ormai diventato terra di scorribande di stampo fascistoide e qualunquistico. Avevi visto giusto.
Concordo – ovviamente – con te, Ricky, che la miglior critica del capitalismo è l’opera di Marx. Però. Se noi partissimo dalle considerazioni che il capitalismo è tale, e dunque solo da distruggere, non ci rimarrebbe che la classica “chiamata”: “Domattina, ore 10, tutti in piazza per la Rivoluzione…”
RispondiEliminaCosa che non ha mai funzionato.
Per ottenere cambiamenti radicali – revoluctio – si deve argomentare, affinché il maggior numero di persone possano accedere a quelle conoscenze e dibatterle. A volte, io parto con argomentazioni che possono sembrare “riduttive”: si tratta di una deformazione professionale, un cedimento alla didattica. Che, però, funziona.
Anch’io non avevo dubbi che il capitalismo di Olivetti sarebbe stato “sfrattato”, ma è anche vero che nel Paese che più conserva la “memoria” del dibattito marxista – la Germania – molte di quelle impostazioni ancora esistono. Non ultima, la “codecisione” in Costituzione.
Quindi, la decrescita, ci offre l’occasione per una critica al capitalismo forse meno ortodossa nei termini e nella prassi più comune: la quale, se attuata oggi nella sua classica accezione, attira poche attenzioni. Da qui la mia scelta. Capito mi hai?
Per CDC provo più compassione che rabbia. Notare che una così bella occasione è stata sprecata, gettata alle ortiche, deprime. E noto sempre di più le poche menti ancora “accese” – penso a vic, al povero Truman – nel loro disperato tentativo d’arginare la marea montante dell’insipienza. Va reso loro onore di farlo, ma con quali risultati? Non sarebbe stato meglio se avessero protetto un po’ di più i loro autori?
Ciao e grazie
Carlo
Caro Carlo, prima di tutto desidero ringraziarti per aver deciso di scrivere questo saggio sulla decrescita di cui questo post rappresenta solo la prima parte.
RispondiEliminaL'argomento trattato mi interessa molto e - come ho già avuto modo di scriverti in precedenti mail - penso sia uno degli elementi cardine che tutti dovranno affrontare negli anni a venire.
Ritengo infatti che - nel medio/lungo termine - la decrescita non sarà una opzione, una alternativa a modelli di sviluppo ormai diventati aberranti, ma sarà l'UNICA strada che avremo difronte.
Basti infatti pensare a quali fatali conseguenze andremo incontro a seguito dell'imminente superamento del picco delle materie prime - a partire dal petrolio - in una civiltà i cui leader si limitano a rimuovere il problema assicurandosi che non diventi "troppo" di dominio pubblico.
Certamente se allarghiamo l'orizzonte a livello internazionale essa assumerà una consistenza a macchia di leopardo in quanto sarà molto più sentita nel mondo occidentale che non nei paesi sottosviluppati dove, forse, si potrà avere addirittura un miglioramento della qualità della vita proprio grazie ad una contrazione/modifica del nostro stile di vita.
In ogni caso, vivendo in questa parte di mondo, mi sembra importante affrontare e discutere le modalità con cui giocoforza si decrescerà.
Secondo me ci troviamo già da oggi difronte a due strade: quella della contrazione dei consumi imposta e quindi sofferta oppure ad un cambiamento di stile di vita verso modelli compatibili con i ritmi della natura scelti consapevolmente attraverso una maturazione culturale interiore, in sostanza quella che Maurizio Pallante definisce la Decrescita Felice.
Purtroppo finora la stragrande maggioranza degli abitanti nei paesi cosiddetti "ricchi" si è trovata a subire (o a percepire)i prodromi del primo tipo di decrescita ovvero quello imposto. L'imposizione è arrivata indifferentemente da soggetti (il datore di lavoro chiude l'azienda per delocalizzare in Cina) o da eventi totalmente o parzialmente al di fuori del controllo umano, ma che comunque vengono vissuti con sofferenza.
La nostra sfida, la sfida di tutti coloro che hanno figli o semplicemente vogliono vivere in modo consapevole è quella di operare per fare in modo sempre più persone prendano coscienza del punto di svolta storico difronte al quale ci troviamo e quindi possano via via mettere in pratica con gesti assolutamente quotidiani il passaggio dalla imposizione alla scelta.
Passare dalla "sofferenza" per l'impossibilità sopraggiunta di non potersi più permettere una borsa di Louis Vuitton al mese alla serenità di aver acquistato per sé e per i propri figli un cibo sano, da agricoltura biologica, prodotto localmente è - da un lato - un dovere sociale verso le generazioni future e - dall'altro - un modo per alzare veramente la qualità della vita superando gli schemi imposti dal modello imperante "Lavora, consuma, crepa".
Ai prossimi post....
Massimo
Caro Carlo, prima di tutto desidero ringraziarti per aver deciso di scrivere questo saggio sulla decrescita di cui questo post rappresenta solo la prima parte.
RispondiEliminaL'argomento trattato mi interessa molto e - come ho già avuto modo di scriverti in precedenti mail - penso sia uno degli elementi cardine che tutti dovranno affrontare negli anni a venire.
Ritengo infatti che - nel medio/lungo termine - la decrescita non sarà una opzione, una alternativa a modelli di sviluppo ormai diventati aberranti, ma sarà l'UNICA strada che avremo difronte.
Basti infatti pensare a quali fatali conseguenze andremo incontro a seguito dell'imminente superamento del picco delle materie prime - a partire dal petrolio - in una civiltà i cui leader si limitano a rimuovere il problema assicurandosi che non diventi "troppo" di dominio pubblico.
Certamente se allarghiamo l'orizzonte a livello internazionale essa assumerà una consistenza a macchia di leopardo in quanto sarà molto più sentita nel mondo occidentale che non nei paesi sottosviluppati dove, forse, si potrà avere addirittura un miglioramento della qualità della vita proprio grazie ad una contrazione/modifica del nostro stile di vita.
In ogni caso, vivendo in questa parte di mondo, mi sembra importante affrontare e discutere le modalità con cui giocoforza si decrescerà.
Secondo me ci troviamo già da oggi difronte a due strade: quella della contrazione dei consumi imposta e quindi sofferta oppure ad un cambiamento di stile di vita verso modelli compatibili con i ritmi della natura scelti consapevolmente attraverso una maturazione culturale interiore, in sostanza quella che Maurizio Pallante definisce la Decrescita Felice.
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RispondiEliminaPurtroppo finora la stragrande maggioranza degli abitanti nei paesi cosiddetti "ricchi" si è trovata a subire (o a percepire)i prodromi del primo tipo di decrescita ovvero quello imposto. L'imposizione è arrivata indifferentemente da soggetti (il datore di lavoro chiude l'azienda per delocalizzare in Cina) o da eventi totalmente o parzialmente al di fuori del controllo umano, ma che comunque vengono vissuti con sofferenza.
La nostra sfida, la sfida di tutti coloro che hanno figli o semplicemente vogliono vivere in modo consapevole è quella di operare per fare in modo sempre più persone prendano coscienza del punto di svolta storico difronte al quale ci troviamo e quindi possano via via mettere in pratica con gesti assolutamente quotidiani il passaggio dalla imposizione alla scelta.
Passare dalla "sofferenza" per l'impossibilità sopraggiunta di non potersi più permettere una borsa di Louis Vuitton al mese alla serenità di aver acquistato per sé e per i propri figli un cibo sano, da agricoltura biologica, prodotto localmente è - da un lato - un dovere sociale verso le generazioni future e - dall'altro - un modo per alzare veramente la qualità della vita superando gli schemi imposti dal modello imperante "Lavora, consuma, crepa".
Ai prossimi post....
Massimo
Credo che siamo partiti mirando troppo in alto.
RispondiEliminaAllo stato delle cose, è certamente giusto e legittimo parlare di Decrescita per giungere alla critica e al superamento del Capitalismo, ma la vastità e la complessità della questione -si discute di ribaltare tout-court un sistema che è globale- rischiano di generare ottime e dotte discussioni al limite, però, della pura speculazione.
Massimo nel suo post tocca il punto dei gesti quotidiani da compiere per imboccare la via della Decrescita.
Mi sembra che la via realisticamente praticabile per cambiare sistema economico è proprio quella di comportamenti individuali coscienti e rispettosi dell'ambiente.
L'esempio pratico di molti con la relativa diffusione dei principi ispiratori, può fare tantissimo per generare un momentum significativo sull'onda del quale costruire una coscienza politica e relativo percorso di cambiamento.
Buona giornata a tutti.
Uhe ragazzi qui in Italia la situazione si complica. Fini ha reagito ai colpi di manganello di Berlusconi ma imperterrito il nano di Arcore continua a manganellarlo. Ormai Berlusca deve vincere o perire. O sgomina gli oppositori o verrà sgominato lui. O prende in mano il potere assoluto oppure veramente va a Santa Lucia.
RispondiEliminaL'Italia è ad un bivio o si libererà del nano di Arcore oppure sarà trasformata nella sua seconda casa privata.
Io mi preoccupo e voi?
Ciao Carlo
Cari amici,
RispondiEliminasto lavorando alla rifinitura della seconda parte, anche perché ho desiderato tener conto dei vostri commenti e dei vostri dubbi.
Siccome penso che la decrescita sarà o potrà essere (le alternative le vedo proprio male...) il nostro futuro, il problema è non solo analizzarla, bensì provare ad indicare dei mezzi per attuarla.
M'aspettavo che ci fossero due, distinte posizioni: una più legata all'evoluzione dell'essere umano, l'altra con una visione "a tappe" sul piano politico.
Prima ancora di scrivere questo saggio, avevo individuato quella che può apparire come una contraddizione, mentre non lo è.
E' vero che dietro alla decrescita c'è una filosofia d'indirizzo - e questo richiede un cambiamento con relative riflessioni, anche interiori - ma è anche vero che devono essere trovate delle prassi per attuarla.
Quindi, non si tratta di una contraddizione, bensì soltanto di due diverse tappe del processo.
Ma non voglio accelerare troppo sulla terza parte: devo finire la seconda!
Per quanto riguarda Fini, mi sembra che abbia fatto un discorso onesto: di sicuro ha "bucato" il teleschermo più di come, oramai, riesca a fare mister B.
Soprattutto, c'è il "benservito" di Confindustria che pesa sul Cavaliere, che mi sembra oramai poco "in arcione".
Grazie a tutti
Carlo
Ritengo che la decrescita non sia possibile in Europa occidentale, in Italia sarà foriera di disordini sociali e lotte di piazza. Guardate la Germania che cresce alla grande +3,7% e conquista letteralmente territori con le sua banche e l'aiuto della lega, ora chiaramente eterodiretta. Pare che Tosi durante la defenestrazione di di Profumo fosse per non ben precisati colloqui a Monaco di Baviera. Ora più che mai il cavaliere nano è pericoloso. Potrebbe per salvarsi mobilitare tutte le sue TV dare il nord alla lega e prendersi il centro sud come
RispondiEliminadependance della sua famiglia.
Ciao Carlo
La decrescita - Orazio - in Europa già sta avvenendo, quella "oggettiva" di un capitalismo con il fiato corto. Poi, poco m'attizzano i teatrini dei vari minus di regime, che recitano a soggetto proprio per evitare che s'affrontino seriamente i problemi.
RispondiEliminaTutti sappiamo che la Lega non vuole il federalismo, vuole i soldi delle banche, mentre B. non può perdere l'appoggio di Cosentino e la camorra - che caso! - torna a seminare la monnezza in piazza.
Questa gente non merita più di un misero commento.
Ciao
Carlo