Sembra che l’attuale crisi di governo si debba concludere con le inevitabili elezioni anticipate – lo stesso Presidente Napolitano ha affermato che può solo garantire “l’ordinato procedere delle consultazioni”, come a dire che non s’intravedono scenari praticabili – eppure, questo non era l’esito che desiderava chi la crisi l’ha scatenata.
Torniamo indietro di qualche settimana, quando la “bomba” Mastella non era ancora esplosa: qual era l’orizzonte politico del centro sinistra?
Dopo aver concluso la fase di “macelleria sociale” silenziosa – pensioni e welfare, soprattutto – ed aver ricondotto il bilancio dello Stato alla normalità (spremendo tasse come nessuno mai), si poneva il dilemma di come proseguire.
Era evidente che l’ala sinistra dello schieramento non sarebbe potuta resistere ancora molto – nel vedere il proprio elettorato massacrato da Prodi, Padoa Schioppa e Damiano – ed iniziava a temere tracolli che avrebbero finito per minare in profondità i loro apparati. A tutto vantaggio dei centristi dello schieramento.
Non si comprende come Diliberto e Giordano non siano riusciti a comprendere il rischio che correvano nell’appoggiare il “rientro” dell’Italia nei parametri di Maastricht in un solo anno. Dopo, secondo le promesse, sarebbe iniziata la fase di “re-distribuzione”.
Già alcuni segnali di totale indisponibilità erano giunti dai centristi – PACS, DICO, rendite finanziarie, ecc – ma i due compari non riuscirono a comprendere quello che stava avvenendo. Il piano di aggregazione centrista va avanti da tempo, e misi in guardia la sinistra da facili entusiasmi già durante le elezioni del 2006, in un pezzo intitolato “La domanda delle cento pistole”.
Fra l’altro, non fui certo l’unico a criticare la completa sudditanza ai potentati economici del centro sinistra: il giudizio politico sui due compari non può quindi che essere tranchant: come si suol dire, o lo sei o la fai. Poi, scegli tu se preferisci passar per scemo o per venduto.
Per capire meglio cosa sta succedendo, però, è utile spiccare un altro salto all’indietro, alla campagna elettorale del 2006, e più precisamente a Vicenza, all’incontro fra Confindustria ed i due leader che si sfidavano per assumere la leadership.
Come forse alcuni ricorderanno, quell’incontro fu assai tempestoso, con alcuni imprenditori più vicini al centro sinistra che si presero fischi, ecc. Di là delle solite risse, quella contrapposizione indicava che in Confindustria le due “ali” – quella della piccola/media impresa ed il grande capitale industriale – erano praticamente allo scontro. I primi con Berlusconi, i secondi con Prodi.
Ridurre tutto ad una semplice contrapposizione in chiave di benefici attesi è, a mio avviso, riduttivo: queste cose si possono contrattare con qualsiasi governo.
La differenza nasceva dai rispettivi orizzonti delle due correnti di Confindustria: la piccola/media impresa è più “sensibile” a scenari di riduzione fiscale, pochi controlli ed un’evasione fiscale – se non proprio esplicita – silenziosamente accettata. Questo scenario, il “Berlusconi-Tremonti”, però, conduce nel tempo ai noti problemi di bilancio, ad uno scontro con le burocrazie europee e con le grandi banche d’affari.
L’altro settore di Confindustria, invece, guarda di più all’internazionalizzazione del capitale ed ai grandi affari internazionali: è sì sensibile a riduzioni fiscali ed ai copiosi “regali” dello Stato, ma in un quadro che non comporti troppi scossoni alle finanze pubbliche, altrimenti la credibilità italiana sui mercati internazionali va a farsi benedire ed il quadro del commercio internazionale si complica.
Un piccolo esempio di queste richieste è il viaggio compiuto a Mosca da Prodi, nell’autunno del 2006, per cercare di ricondurre alla ragione Russia ed Ucraina per la “guerra” del gas, che rischiava di procurare parecchi guai sul fronte energetico: ricordiamo che, nei primi mesi del 2006, giungemmo ad avere pochi giorni di riserve strategiche di metano. La “spedizione” di Prodi in Kazachistan aveva il medesimo obiettivo, così come i viaggi in Cina: energia, merci, scambi.
Per mantenere un buon livello di scambi (e d’esportazioni) – in un quadro di euro “forte” e di petrolio “fortissimo” – bisogna ricevere energici appoggi dalla diplomazia del proprio Paese.
Ovviamente, per mantenere l’Italia nei parametri di bilancio europeo, non si poteva cedere sul fronte dell’imposizione fiscale, che negli ultimi due anni ha toccato livelli da record, giungendo ad impoverire 1/3 delle famiglie italiane.
La FIAT, in questi anni – però – ha esportato moltissimo ed ha consolidato la sua posizione nel mercato dell’auto, solo per citare la più grande azienda italiana.
In definitiva, la scelta di privilegiare l’apparato produttivo ha condotto sì a dei benefici, ma solo per i grandi gruppi industriali, mentre l’artigiano ed il piccolo imprenditore si sono visti soltanto aumentare le tasse. Per non scontentare troppo il potenziale elettorato dell’opposto schieramento, Prodi non ha esitato a fare macelleria sociale: la legge Damiano, quando andrà a regime nel 2012, chiederà ai lavoratori un anno in più di lavoro rispetto alla legge Maroni: 62 anni + 37 di lavoro, al posto di 61 anni e 36 di contributi. Con buona pace dei tre Re Magi sindacali cosicché, i lavoratori dipendenti che avevano votato Prodi, sono stati i veri “cornuti e mazziati”.
Tutto ciò è passato sotto gli occhi di Giordano e Diliberto, e non hanno proferito parola. S’attendevano forse qualche forma di gratitudine? La gratitudine, l’onore e la parola data sono merci assai rare in politica.
Torniamo allora alla strana crisi – della quale si è incolpata la scarsa coesione dell’Unione – senza considerare che quello schieramento aveva retto a prove ben più ardue: pensioni e welfare, solo per ricordarne alcune.
In quell’occasione, non furono solo calpestati i lavoratori ma gli stessi fondamenti della democrazia: le cosiddette “parti sociali” – da tutti indicate come il sancta sanctorum da seguire senza fiatare – non sono altro che le vecchie corporazioni fasciste. Il governo Prodi ha avallato un concetto che non è previsto nel nostro ordinamento: le leggi, non si fanno più in Parlamento, bensì sono decise dalle “fantomatiche” parti sociali. I rappresentanti liberamente (si fa per dire…) eletti devono sottostare al volere di ciò che è stato deciso in un accordo separato fra Governo, Confindustria e Sindacati (abbondantemente venduti per un piatto di lenticchie).
Perché, allora, quando questi importanti risultati (ovviamente, per banchieri, industriali & Co.) erano stati raggiunti, scatenare la crisi? Per qualche dollaro in più.
Con la finanziaria per il 2007, Confindustria aveva già ricevuto consistenti sgravi fiscali: il “taglio” di 5 punti del cuneo fiscale, prevedeva una ripartizione di 2/3 per gli imprenditori e di 1/3 per i lavoratori. Il terzo destinato ai lavoratori, con un escamotage, è servito per alzare i contributi familiari, ossia non viene più distribuito ai lavoratori, ma “spalmato” su una base più ampia che comprende anche chi ha redditi bassi perché dichiara solo una parte del proprio reddito. Il solito trucco, grazie al quale certi imprenditori riescono ad avere redditi inferiori ai propri lavoratori.
Viene la finanziaria per il 2008 e non ci sono specifici provvedimenti per affrontare la questione salariale: dichiarazioni di buona volontà, ordini del giorno, impegni per il futuro. La solita aria fritta.
La questione, però, è oramai nell’aria e non si può eluderla con le solite nozze con i fichi secchi. Montezemolo gioca una carta: chiede un altro taglio del cuneo fiscale, questa volta al 50% fra imprese e lavoratori. Siamo riconoscenti per l’interesse mostrato, Vostra Grazia.
Il governo non risponde (oramai è alle prese con la querelle scatenata da Mastella) e tutto passa nel dimenticatoio. Ovviamente, farcito dalle solite dichiarazioni d’interessamento; certo: faremo, saremo, vorremo…
Viene da chiedersi, allora, perché si scateni la questione di Mastella così, all’improvviso. Perché Mastella è veramente l’anello debole della coalizione di governo. Intendiamoci: il buon Clemente si è comportato come si comportano i vari potentati emiliani targati PCI-PDS-DS-PD, le coop rosse e tutto il resto. Oppure, come la Moratti a Milano che, appena eletta sindaco, ha “pre-pensionato” decine di dirigenti per far posto ai suoi attacché elettorali. Lo spoil system è la regola, mica l’eccezione.
Mastella, però, ha di certo oltrepassato il segno: troppo sfacciato il suo potere da signore feudale, troppo evidente. Non ha certo lo charme di Damiano né il pragmatismo di Bersani. È un potere feudale alla mozzarella, senza nemmeno le minime precauzioni del caso.
Oltretutto, il buon Clemente non ricorda nemmeno che i Sanniti hanno un triste destino: già a Roma, quando c’erano turbolenze interne, una guerra nel Sannio rimetteva le cose a posto.
Il buon Mastella, però, non è stato così determinante per la caduta del governo: solo due suoi senatori hanno votato contro Prodi, mentre quelli di Dini non hanno avuto dubbi. E qui c’è forse un’altra “radice” della vicenda.
Potremmo semplificare tutto adducendo il fatto che la signora Dini non è stata solo inquisita, bensì condannata per truffa, ma sarebbe una strada fuorviante.
Torniamo indietro di qualche settimana, quando la “bomba” Mastella non era ancora esplosa: qual era l’orizzonte politico del centro sinistra?
Dopo aver concluso la fase di “macelleria sociale” silenziosa – pensioni e welfare, soprattutto – ed aver ricondotto il bilancio dello Stato alla normalità (spremendo tasse come nessuno mai), si poneva il dilemma di come proseguire.
Era evidente che l’ala sinistra dello schieramento non sarebbe potuta resistere ancora molto – nel vedere il proprio elettorato massacrato da Prodi, Padoa Schioppa e Damiano – ed iniziava a temere tracolli che avrebbero finito per minare in profondità i loro apparati. A tutto vantaggio dei centristi dello schieramento.
Non si comprende come Diliberto e Giordano non siano riusciti a comprendere il rischio che correvano nell’appoggiare il “rientro” dell’Italia nei parametri di Maastricht in un solo anno. Dopo, secondo le promesse, sarebbe iniziata la fase di “re-distribuzione”.
Già alcuni segnali di totale indisponibilità erano giunti dai centristi – PACS, DICO, rendite finanziarie, ecc – ma i due compari non riuscirono a comprendere quello che stava avvenendo. Il piano di aggregazione centrista va avanti da tempo, e misi in guardia la sinistra da facili entusiasmi già durante le elezioni del 2006, in un pezzo intitolato “La domanda delle cento pistole”.
Fra l’altro, non fui certo l’unico a criticare la completa sudditanza ai potentati economici del centro sinistra: il giudizio politico sui due compari non può quindi che essere tranchant: come si suol dire, o lo sei o la fai. Poi, scegli tu se preferisci passar per scemo o per venduto.
Per capire meglio cosa sta succedendo, però, è utile spiccare un altro salto all’indietro, alla campagna elettorale del 2006, e più precisamente a Vicenza, all’incontro fra Confindustria ed i due leader che si sfidavano per assumere la leadership.
Come forse alcuni ricorderanno, quell’incontro fu assai tempestoso, con alcuni imprenditori più vicini al centro sinistra che si presero fischi, ecc. Di là delle solite risse, quella contrapposizione indicava che in Confindustria le due “ali” – quella della piccola/media impresa ed il grande capitale industriale – erano praticamente allo scontro. I primi con Berlusconi, i secondi con Prodi.
Ridurre tutto ad una semplice contrapposizione in chiave di benefici attesi è, a mio avviso, riduttivo: queste cose si possono contrattare con qualsiasi governo.
La differenza nasceva dai rispettivi orizzonti delle due correnti di Confindustria: la piccola/media impresa è più “sensibile” a scenari di riduzione fiscale, pochi controlli ed un’evasione fiscale – se non proprio esplicita – silenziosamente accettata. Questo scenario, il “Berlusconi-Tremonti”, però, conduce nel tempo ai noti problemi di bilancio, ad uno scontro con le burocrazie europee e con le grandi banche d’affari.
L’altro settore di Confindustria, invece, guarda di più all’internazionalizzazione del capitale ed ai grandi affari internazionali: è sì sensibile a riduzioni fiscali ed ai copiosi “regali” dello Stato, ma in un quadro che non comporti troppi scossoni alle finanze pubbliche, altrimenti la credibilità italiana sui mercati internazionali va a farsi benedire ed il quadro del commercio internazionale si complica.
Un piccolo esempio di queste richieste è il viaggio compiuto a Mosca da Prodi, nell’autunno del 2006, per cercare di ricondurre alla ragione Russia ed Ucraina per la “guerra” del gas, che rischiava di procurare parecchi guai sul fronte energetico: ricordiamo che, nei primi mesi del 2006, giungemmo ad avere pochi giorni di riserve strategiche di metano. La “spedizione” di Prodi in Kazachistan aveva il medesimo obiettivo, così come i viaggi in Cina: energia, merci, scambi.
Per mantenere un buon livello di scambi (e d’esportazioni) – in un quadro di euro “forte” e di petrolio “fortissimo” – bisogna ricevere energici appoggi dalla diplomazia del proprio Paese.
Ovviamente, per mantenere l’Italia nei parametri di bilancio europeo, non si poteva cedere sul fronte dell’imposizione fiscale, che negli ultimi due anni ha toccato livelli da record, giungendo ad impoverire 1/3 delle famiglie italiane.
La FIAT, in questi anni – però – ha esportato moltissimo ed ha consolidato la sua posizione nel mercato dell’auto, solo per citare la più grande azienda italiana.
In definitiva, la scelta di privilegiare l’apparato produttivo ha condotto sì a dei benefici, ma solo per i grandi gruppi industriali, mentre l’artigiano ed il piccolo imprenditore si sono visti soltanto aumentare le tasse. Per non scontentare troppo il potenziale elettorato dell’opposto schieramento, Prodi non ha esitato a fare macelleria sociale: la legge Damiano, quando andrà a regime nel 2012, chiederà ai lavoratori un anno in più di lavoro rispetto alla legge Maroni: 62 anni + 37 di lavoro, al posto di 61 anni e 36 di contributi. Con buona pace dei tre Re Magi sindacali cosicché, i lavoratori dipendenti che avevano votato Prodi, sono stati i veri “cornuti e mazziati”.
Tutto ciò è passato sotto gli occhi di Giordano e Diliberto, e non hanno proferito parola. S’attendevano forse qualche forma di gratitudine? La gratitudine, l’onore e la parola data sono merci assai rare in politica.
Torniamo allora alla strana crisi – della quale si è incolpata la scarsa coesione dell’Unione – senza considerare che quello schieramento aveva retto a prove ben più ardue: pensioni e welfare, solo per ricordarne alcune.
In quell’occasione, non furono solo calpestati i lavoratori ma gli stessi fondamenti della democrazia: le cosiddette “parti sociali” – da tutti indicate come il sancta sanctorum da seguire senza fiatare – non sono altro che le vecchie corporazioni fasciste. Il governo Prodi ha avallato un concetto che non è previsto nel nostro ordinamento: le leggi, non si fanno più in Parlamento, bensì sono decise dalle “fantomatiche” parti sociali. I rappresentanti liberamente (si fa per dire…) eletti devono sottostare al volere di ciò che è stato deciso in un accordo separato fra Governo, Confindustria e Sindacati (abbondantemente venduti per un piatto di lenticchie).
Perché, allora, quando questi importanti risultati (ovviamente, per banchieri, industriali & Co.) erano stati raggiunti, scatenare la crisi? Per qualche dollaro in più.
Con la finanziaria per il 2007, Confindustria aveva già ricevuto consistenti sgravi fiscali: il “taglio” di 5 punti del cuneo fiscale, prevedeva una ripartizione di 2/3 per gli imprenditori e di 1/3 per i lavoratori. Il terzo destinato ai lavoratori, con un escamotage, è servito per alzare i contributi familiari, ossia non viene più distribuito ai lavoratori, ma “spalmato” su una base più ampia che comprende anche chi ha redditi bassi perché dichiara solo una parte del proprio reddito. Il solito trucco, grazie al quale certi imprenditori riescono ad avere redditi inferiori ai propri lavoratori.
Viene la finanziaria per il 2008 e non ci sono specifici provvedimenti per affrontare la questione salariale: dichiarazioni di buona volontà, ordini del giorno, impegni per il futuro. La solita aria fritta.
La questione, però, è oramai nell’aria e non si può eluderla con le solite nozze con i fichi secchi. Montezemolo gioca una carta: chiede un altro taglio del cuneo fiscale, questa volta al 50% fra imprese e lavoratori. Siamo riconoscenti per l’interesse mostrato, Vostra Grazia.
Il governo non risponde (oramai è alle prese con la querelle scatenata da Mastella) e tutto passa nel dimenticatoio. Ovviamente, farcito dalle solite dichiarazioni d’interessamento; certo: faremo, saremo, vorremo…
Viene da chiedersi, allora, perché si scateni la questione di Mastella così, all’improvviso. Perché Mastella è veramente l’anello debole della coalizione di governo. Intendiamoci: il buon Clemente si è comportato come si comportano i vari potentati emiliani targati PCI-PDS-DS-PD, le coop rosse e tutto il resto. Oppure, come la Moratti a Milano che, appena eletta sindaco, ha “pre-pensionato” decine di dirigenti per far posto ai suoi attacché elettorali. Lo spoil system è la regola, mica l’eccezione.
Mastella, però, ha di certo oltrepassato il segno: troppo sfacciato il suo potere da signore feudale, troppo evidente. Non ha certo lo charme di Damiano né il pragmatismo di Bersani. È un potere feudale alla mozzarella, senza nemmeno le minime precauzioni del caso.
Oltretutto, il buon Clemente non ricorda nemmeno che i Sanniti hanno un triste destino: già a Roma, quando c’erano turbolenze interne, una guerra nel Sannio rimetteva le cose a posto.
Il buon Mastella, però, non è stato così determinante per la caduta del governo: solo due suoi senatori hanno votato contro Prodi, mentre quelli di Dini non hanno avuto dubbi. E qui c’è forse un’altra “radice” della vicenda.
Potremmo semplificare tutto adducendo il fatto che la signora Dini non è stata solo inquisita, bensì condannata per truffa, ma sarebbe una strada fuorviante.
Domandiamoci: chi è Lamberto Dini? Da dove viene?
Uomo di destra, molto vicino al FMI, viene dalla Banca d’Italia.
La matrice del suo piccolo partito non deriva dal cattolicesimo: in altre parole, non fa parte della diaspora democristiana. Almeno, non ne porta i valori in punta di lancia.
E’ invece molto attento alle questioni economiche: se il Parlamento non riuscì ad intervenire sui protocolli del welfare e delle pensioni – abdicando così ad un suo naturale diritto/dovere – lo si deve in gran parte ai “paletti” posti dal senatore: se si tocca anche solo un’unghia, io non voto nemmeno la finanziaria.
Ottenuto così il successo di schiaffeggiare di fronte al Paese la sinistra dell’Unione – tre miseri senatori contro decine – quando ha avvertito l’aria di concessioni per i lavoratori, ha dato forfait.
Lamberto Dini meditava di ricevere in cambio la poltrona di Primo Ministro in un governo tecnico? Dopo quel che è successo, Dini potrà tornare solo alla “casa madre”, ossia dal suo padrone Berlusconi.
Per chi ha lavorato, allora, Lamberto Dini?
Per il capitalismo delle grandi imprese, certo, per i grandi poteri bancari – altrettanto vero – ma, in fin dei conti, non farà altro che regalare l’Italia a Berlusconi, a “folletto” Tremonti e ad un trombone sfiatato come Fini, che parla oramai solo quando il Cavaliere tira le briglie. A meno che…
Nessun leader di un partito di centro ha oggi il carisma per assumere l’incarico di Primo Ministro: né Casini e né Veltroni riuscirebbero a mettere insieme una maggioranza.
Dall’altra parte, siamo oramai alla completa follia: Berlusconi ha una concezione della politica che è carnascialesca. Per il 72 enne “Unto dal Signore”, la vita politica si riduce ad una sorta di Albero della Cuccagna, da salire per vincere in premio un prosciutto a forma di Stivale tricolore. Poi, qualche santo sarà: controlleremo le TV, magari ci proveranno anch’essi con Internet, diremo che “la colpa era d’Alfredo”. Una parte degli italiani ci crederà, e l’altra che vada a farsi fottere.
Per accontentare i suoi clientes, Berlusconi dovrà ridurre il carico fiscale e, allo stesso tempo, mantenere i vincoli di bilancio: nell’arco di un anno, al massimo due, saremmo di nuovo alle prese con le procedure per infrazione di bilancio, ai richiami da Bruxelles, ecc. Insomma, il solito copione già visto. A meno che…
A meno che Napolitano non cerchi una terza via, l’unica che forse potrebbe avere qualche possibilità di successo: affidare l’incarico ad un uomo esterno al Parlamento, ad un “tecnico”. Dovrebbe, però, essere un “tecnico” al quale dovrebbe risultare difficile dire di no.
L’unico “papabile” sulla piazza è – e qui il cerchio si chiude – l’uomo con il quale, tante volte, Luca di Montezemolo si è detto “in piena sintonia”. Quell’uomo, non può essere che Mario Draghi, il Governatore della Banca d’Italia.
Il centro sinistra – completamente allo sbando – direbbe di sì anche a Benigni o a Pippo Baudo: porrebbe forse qualche “paletto” per un’eventuale candidatura di Cicciolina ma, una volta chiarito che la signora non sosta più di fronte alla macchina da presa, anche i TeoDem s’acquieterebbero e finirebbero per appoggiare un suo governo.
Per Berlusconi la scelta sarebbe più ardua, poiché l’uomo di Arcore è oramai giunto a metà del Palo della Cuccagna: ancora un po’ di gesso, per contrastare il grasso che cola dal Quirinale, ed il gioco è fatto. Il Quirinale, a sua volta, potrebbe affermare d’aver giocato tutte le carte che erano in suo possesso.
Dire di no a Mario Draghi sarebbe, per Berlusconi, una scelta ardua: non dimentichiamo che il presidente di Forza Italia è anche banchiere, imprenditore, ecc. Insomma, deve garantire il suo impero economico.
Ora, mettersi contro un personaggio come Draghi – con le sue “aderenze” nella city londinese e, più in generale, nell’alta finanza – potrebbe rivelarsi troppo azzardato. Un rischio da calcolare bene, poiché potrebbe costar caro.
Non crediamo che siano sufficienti le operazioni di “maquillage” che Silvio Berlusconi ha operato sul suo impero finanziario: le “scatole cinesi” servono solo per noi, per dire che non ci si può far nulla ma, se a muoversi è il mondo della finanza internazionale, ti trovano anche una scatoletta di fiammiferi.
La soluzione Draghi consentirebbe di procedere ancora più speditamente nella Macelleria Sociale Italiana – un’azienda allo sfascio dalla quale succhiare il poco sangue che resta – per poi abbandonare la carogna alle iene.
D’altro canto, siamo oramai terra di conquista: le grandi distribuzioni straniere (Auchan, Lidl, ecc) la fanno oramai da padrone. Alitalia diventerà una costola di AirFrance, la Banca d’Italia è già oggi controllata in gran parte dal Crédit Agricole francese.
C’è ancora qualche “boccone” che fa gola – Fincantieri sarà la prossima preda – ma il grosso del lavoro è oramai compiuto: ce ne siamo accorti, negli ultimi vent’anni, per quanto è diminuito il nostro potere d’acquisto.
Le grida d’allarme, lanciate da parecchi esponenti del centro e della sinistra, non sono prive di senso: si stanno rendendo conto che i giochi stanno finendo, la crisi economica attraverserà anche l’Europa ed il vaso di coccio chiamato “Italia” finirà in frantumi. Poltrone dorate comprese.
Che fare?
Beppe Grillo ha annunciato che partiranno finalmente le Liste Civiche. Inizieranno dai comuni, per poi approdare (non si capisce bene se è questa l’intenzione, e quali saranno i tempi) ad una lista nazionale.
Per carità, niente di sbagliato sul piano della democrazia ma, se aspettiamo un simile progetto per avere una nuova classe dirigente, ci metteremo almeno un decennio. Possiamo aspettare tanto? C’è il rischio di non ritrovare più l’Italia.
Non capisco perché non si voglia percorrere il sentiero inverso: grazie al Web, sarebbe possibile selezionare – in modo completamente democratico, con forme di voto alle idee ed ai progetti – una classe politica per contrastare gli estremi sussulti della Casta. I quali, altro non sono che l’ennesimo ed estremo scippo della sovranità popolare.
I due processi – locale e nazionale – potrebbero avanzare in parallelo: l’unica cosa che mi lascia molto perplesso è una nuova classe politica locale che non si prenda responsabilità a livello nazionale. Riflettiamo che, ponendo questo limite, finirebbe per creare da sé l’arma per delegittimarla. In fin dei conti, potrebbero sempre dire: partecipa pure alla vita politica nei comuni, ma lascia perdere la “stanza dei bottoni”, perché non l’hai nemmeno chiesta. Fatti da parte, ragazzino: lasciami lavorare.
E, senza avere una solida classe politica da contrapporre, sarebbe difficile controbattere.
Se qualcuno pensa che giungeranno ad una sorta di “resa” per manifesta incapacità, rammentiamo che un “governo Draghi” sarebbe una sorta di “commissario” per “l’emergenza Italia”: se non abbandoneremo la strada finora percorsa (con pessimi risultati) dalla sinistra – ossia del lassez faire – ci ritroveremo sempre più in basso.
La crisi della classe politica italiana non nasce solo dall’economia: gli ultimi anni hanno visto il Web gridare – in mille modi diversi – che il Re è nudo. Ora, la crisi si farà più dura ed aspettiamoci pure provvedimenti restrittivi, molto peggio del Decreto Levi.
Se non riusciremo ad attaccare, ed a presentare una nuova classe politica in tempi ragionevoli, la sconfitta questa volta sarà totale.
Uomo di destra, molto vicino al FMI, viene dalla Banca d’Italia.
La matrice del suo piccolo partito non deriva dal cattolicesimo: in altre parole, non fa parte della diaspora democristiana. Almeno, non ne porta i valori in punta di lancia.
E’ invece molto attento alle questioni economiche: se il Parlamento non riuscì ad intervenire sui protocolli del welfare e delle pensioni – abdicando così ad un suo naturale diritto/dovere – lo si deve in gran parte ai “paletti” posti dal senatore: se si tocca anche solo un’unghia, io non voto nemmeno la finanziaria.
Ottenuto così il successo di schiaffeggiare di fronte al Paese la sinistra dell’Unione – tre miseri senatori contro decine – quando ha avvertito l’aria di concessioni per i lavoratori, ha dato forfait.
Lamberto Dini meditava di ricevere in cambio la poltrona di Primo Ministro in un governo tecnico? Dopo quel che è successo, Dini potrà tornare solo alla “casa madre”, ossia dal suo padrone Berlusconi.
Per chi ha lavorato, allora, Lamberto Dini?
Per il capitalismo delle grandi imprese, certo, per i grandi poteri bancari – altrettanto vero – ma, in fin dei conti, non farà altro che regalare l’Italia a Berlusconi, a “folletto” Tremonti e ad un trombone sfiatato come Fini, che parla oramai solo quando il Cavaliere tira le briglie. A meno che…
Nessun leader di un partito di centro ha oggi il carisma per assumere l’incarico di Primo Ministro: né Casini e né Veltroni riuscirebbero a mettere insieme una maggioranza.
Dall’altra parte, siamo oramai alla completa follia: Berlusconi ha una concezione della politica che è carnascialesca. Per il 72 enne “Unto dal Signore”, la vita politica si riduce ad una sorta di Albero della Cuccagna, da salire per vincere in premio un prosciutto a forma di Stivale tricolore. Poi, qualche santo sarà: controlleremo le TV, magari ci proveranno anch’essi con Internet, diremo che “la colpa era d’Alfredo”. Una parte degli italiani ci crederà, e l’altra che vada a farsi fottere.
Per accontentare i suoi clientes, Berlusconi dovrà ridurre il carico fiscale e, allo stesso tempo, mantenere i vincoli di bilancio: nell’arco di un anno, al massimo due, saremmo di nuovo alle prese con le procedure per infrazione di bilancio, ai richiami da Bruxelles, ecc. Insomma, il solito copione già visto. A meno che…
A meno che Napolitano non cerchi una terza via, l’unica che forse potrebbe avere qualche possibilità di successo: affidare l’incarico ad un uomo esterno al Parlamento, ad un “tecnico”. Dovrebbe, però, essere un “tecnico” al quale dovrebbe risultare difficile dire di no.
L’unico “papabile” sulla piazza è – e qui il cerchio si chiude – l’uomo con il quale, tante volte, Luca di Montezemolo si è detto “in piena sintonia”. Quell’uomo, non può essere che Mario Draghi, il Governatore della Banca d’Italia.
Il centro sinistra – completamente allo sbando – direbbe di sì anche a Benigni o a Pippo Baudo: porrebbe forse qualche “paletto” per un’eventuale candidatura di Cicciolina ma, una volta chiarito che la signora non sosta più di fronte alla macchina da presa, anche i TeoDem s’acquieterebbero e finirebbero per appoggiare un suo governo.
Per Berlusconi la scelta sarebbe più ardua, poiché l’uomo di Arcore è oramai giunto a metà del Palo della Cuccagna: ancora un po’ di gesso, per contrastare il grasso che cola dal Quirinale, ed il gioco è fatto. Il Quirinale, a sua volta, potrebbe affermare d’aver giocato tutte le carte che erano in suo possesso.
Dire di no a Mario Draghi sarebbe, per Berlusconi, una scelta ardua: non dimentichiamo che il presidente di Forza Italia è anche banchiere, imprenditore, ecc. Insomma, deve garantire il suo impero economico.
Ora, mettersi contro un personaggio come Draghi – con le sue “aderenze” nella city londinese e, più in generale, nell’alta finanza – potrebbe rivelarsi troppo azzardato. Un rischio da calcolare bene, poiché potrebbe costar caro.
Non crediamo che siano sufficienti le operazioni di “maquillage” che Silvio Berlusconi ha operato sul suo impero finanziario: le “scatole cinesi” servono solo per noi, per dire che non ci si può far nulla ma, se a muoversi è il mondo della finanza internazionale, ti trovano anche una scatoletta di fiammiferi.
La soluzione Draghi consentirebbe di procedere ancora più speditamente nella Macelleria Sociale Italiana – un’azienda allo sfascio dalla quale succhiare il poco sangue che resta – per poi abbandonare la carogna alle iene.
D’altro canto, siamo oramai terra di conquista: le grandi distribuzioni straniere (Auchan, Lidl, ecc) la fanno oramai da padrone. Alitalia diventerà una costola di AirFrance, la Banca d’Italia è già oggi controllata in gran parte dal Crédit Agricole francese.
C’è ancora qualche “boccone” che fa gola – Fincantieri sarà la prossima preda – ma il grosso del lavoro è oramai compiuto: ce ne siamo accorti, negli ultimi vent’anni, per quanto è diminuito il nostro potere d’acquisto.
Le grida d’allarme, lanciate da parecchi esponenti del centro e della sinistra, non sono prive di senso: si stanno rendendo conto che i giochi stanno finendo, la crisi economica attraverserà anche l’Europa ed il vaso di coccio chiamato “Italia” finirà in frantumi. Poltrone dorate comprese.
Che fare?
Beppe Grillo ha annunciato che partiranno finalmente le Liste Civiche. Inizieranno dai comuni, per poi approdare (non si capisce bene se è questa l’intenzione, e quali saranno i tempi) ad una lista nazionale.
Per carità, niente di sbagliato sul piano della democrazia ma, se aspettiamo un simile progetto per avere una nuova classe dirigente, ci metteremo almeno un decennio. Possiamo aspettare tanto? C’è il rischio di non ritrovare più l’Italia.
Non capisco perché non si voglia percorrere il sentiero inverso: grazie al Web, sarebbe possibile selezionare – in modo completamente democratico, con forme di voto alle idee ed ai progetti – una classe politica per contrastare gli estremi sussulti della Casta. I quali, altro non sono che l’ennesimo ed estremo scippo della sovranità popolare.
I due processi – locale e nazionale – potrebbero avanzare in parallelo: l’unica cosa che mi lascia molto perplesso è una nuova classe politica locale che non si prenda responsabilità a livello nazionale. Riflettiamo che, ponendo questo limite, finirebbe per creare da sé l’arma per delegittimarla. In fin dei conti, potrebbero sempre dire: partecipa pure alla vita politica nei comuni, ma lascia perdere la “stanza dei bottoni”, perché non l’hai nemmeno chiesta. Fatti da parte, ragazzino: lasciami lavorare.
E, senza avere una solida classe politica da contrapporre, sarebbe difficile controbattere.
Se qualcuno pensa che giungeranno ad una sorta di “resa” per manifesta incapacità, rammentiamo che un “governo Draghi” sarebbe una sorta di “commissario” per “l’emergenza Italia”: se non abbandoneremo la strada finora percorsa (con pessimi risultati) dalla sinistra – ossia del lassez faire – ci ritroveremo sempre più in basso.
La crisi della classe politica italiana non nasce solo dall’economia: gli ultimi anni hanno visto il Web gridare – in mille modi diversi – che il Re è nudo. Ora, la crisi si farà più dura ed aspettiamoci pure provvedimenti restrittivi, molto peggio del Decreto Levi.
Se non riusciremo ad attaccare, ed a presentare una nuova classe politica in tempi ragionevoli, la sconfitta questa volta sarà totale.