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Harley-Davidson 1947
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La novità che il Covid-19 ci ha portato non è stata soltanto
l’epidemia in sé, bensì prender atto che siamo esposti – e lo saremo ancor più
in futuro – a malattie nuove, portate dall’incommensurabile miscuglio di
molecole che stanno tutte nel posto dove non dovrebbero stare, ossia
nell’acqua, nell’aria e sulla terra.
Per troppi anni ci siamo illusi che i parametri di “massima
allerta” – fissati dal genere umano – potessero salvaguardarci da guai futuri
ma, anche per la leggerezza con la quale sono stati by-passati con un’alzata di
spalle, la realtà, oggi, ci sbatte contro il muso tutte le nostre boriose
sentenze.
E, premetto, qui non si tratta solo della tanto vituperata
C02, bensì di una marea di composti che viaggiano, indisturbati,
intorno a noi e che rilasciati nel “brodo primordiale” degli oceani finiscono
per essere in contiguità con le più semplici molecole che possono entrare in
contatto con il nostro metabolismo: i virus.
Se torniamo indietro nel tempo – non tanto, solo dall’inizio
dell’ultimo periodo interglaciale, circa 10.000 anni fa – scopriamo che
soltanto da un secolo, massimo un secolo e mezzo ad esser “larghi”, abbiamo
iniziato questo perverso percorso.
Per 10.000 anni l’equilibrio fra la specie umana e le malattie
è stato sempre il medesimo: sappiamo che in epoca augustea la peste dilagava
nel quartiere greco di Roma, e per secoli e secoli – insieme al colera, al
vaiolo, al tifo ed alle malattie esantematiche – le malattie condussero più
volte verso il limite dell’estinzione. Ci vollero due secoli, ad esempio,
perché Torino tornasse al numero d’abitanti che aveva prima del 1629, quando
iniziò la celebre epidemia di peste citata dal Manzoni.
A metà Ottocento, però – dopo un secolo di lavoro complicato
da informazioni frammentarie e talvolta errate – finalmente Pasteur riuscì a
togliersi dalla mente tutte le superstizioni sui “miasmi” che portavano
malattie e comprese che gli agenti erano loro, quei minuscoli organuli che
osservava al microscopio. Erano stati definiti i Batteri, e vaccini ed
antibiotici furono i passi successivi.
Che vi fosse qualcosa d’ancora più minuscolo Pasteur lo capì
dal “virus del tabacco”, un virus dei vegetali che fu intuito, più che
scoperto, intorno al 1870. Troppo piccolo per poterlo individuare, però,
sentenziò il grande vecchio della Biologia: bisognò attendere il 1931, anno di
scoperta del microscopio elettronico, per definirlo meglio.
Questo breve excursus storico (che, spero, mi perdonerete)
era necessario per comprendere come la Medicina si sia evoluta, lentamente, soprattutto
nell’Ottocento e poi nel Novecento per poi evolversi ulteriormente nella
Medicina Elettronica, come andremo a scoprire, dimenticando un poco alcune
vecchie tradizioni e “posture” che sovrintendono al rapporto del medico col suo
paziente.
Come potrete notare, non è necessario esser medici per
disquisire di questi problemi, giacché si tratta di un argomento di base
filosofica, ossia capire i nessi dell’indagine, per chiarire i termini del loro
rapporto dialettico il quale, se inesistente, non può originare nessun tipo di
risposta razionale giacché – parafrasando Hegel – condurrebbe ad un universale
irrazionale e, dunque, irreale.
Il Covid-19
ha negato, per la sua essenza, un anti-Covid-19 compreso
nella sua singolarità ed ha mostrato l’incapacità di contrastare una malattia
in assenza di specifici mezzi: finora, per ogni malattia conosciuta, c’era
sempre stato un antibiotico od un antivirale. A dire il vero, già Sars, Mers ed
(in parte) AIDS avrebbero dovuto metterci in guardia, ma così non è stato ed è
inutile piangere sul latte versato.
I mezzi che la
Medicina ha messo in campo sono stati soprattutto tesi ad
evitare la polmonite interstiziale che ha condotto alla morte milioni di
persone nel Pianeta e dunque, trattandosi di “polmonite”, hanno usato gli
antibiotici. Un secondo pericolo era la formazione di trombi nelle arterie e,
dunque, antiaggreganti piastrinici: infine, cortisonici per ovviare a risposte
allergiche ed infiammatorie ed antipiretici per combattere la febbre.
Non esistendo il farmaco univoco rispetto al virus, i medici
sono stati obbligati a dosare molto attentamente un mix di farmaci che
tendevano a ridurre gli effetti del contagio, pur sapendo di non possedere un
agente univoco il quale – per chi è guarito – è stato il buon funzionamento del
suo sistema immunitario.
Rimangono alcuni dubbi, ad esempio perché non indirizzarsi
verso gli anticorpi mono-clonali ricavati dal sangue dei guariti, ma non
vogliamo entrare in campi che esulano la nostra indagine, ossia finire in una
disputa fra virologi della Domenica Sportiva: se non l’hanno fatto, avranno
avuto le loro buone ragioni.
La grande confusione, derivante dal terribile stress che
hanno provato i sanitari, certamente non ha aiutato a sondare per il singolo
paziente il bilanciamento dei farmaci: pratica difficile alla quale non tutti i
nostri sanitari sono allenati e le responsabilità non sono ad personam, perché
riposano in decenni di pratiche sì più veloci, ma che di fronte ad un attacco
sconosciuto mostrano il fianco con troppa facilità. Chiariamo.
Era il 1970 – lo ricordo bene – quando ebbi una discussione
quasi “feroce” con due ragazze, entrambe “matricole” di Medicina.
Il dissidio nasceva da due posizioni inconciliabili ed era impossibile
trovare una sintesi: è di primaria importanza il rapporto con il paziente
oppure è sufficiente una immagine del
paziente, ricavata dai mezzi diagnostici?
Conoscevo le pratiche mediche di quegli anni – nei quali
erano già molto comuni gli antibiotici, ad esempio – ma i medici di vecchia
formazione non esulavano mai dall’approfondire il rapporto con il loro
paziente, di qualsiasi malattia si trattasse.
Il mio medico – che era anche un amico di famiglia – mi
confessò che, una volta la settimana, una vecchietta lo veniva a visitare, lui
l’ascoltava per qualche minuto e poi le faceva l’iniezione. Di cosa? Acqua
distillata, 1 cc, rispose laconico. Perché?
Poiché aveva solo bisogno di un rapporto di fiducia, di
sentirsi “importante ed amata” soprattutto dalla persona più importante del
borgo, ossia il medico. E così andò avanti per anni ed anni. Quel medico – che
“volava” in mille posti diversi ogni giorno, in sella ad una Harley-Davidson
tre marce (leva sul serbatoio) – salvando ora uno che aveva bevuto accidentalmente
varechina (io), chi s’era tagliato con la sega mezzo braccio, fino al contadino
che lo pregava, disperatamente, d’aiutarlo a far nascere un vitello – non
dimenticava mai il giorno dell’appuntamento per l’iniezione d’acqua distillata.
Le due ragazze – prim’anno di Medicina, ma già parlavano
come due primari – mi presero (neanche poi tanto garbatamente) in giro,
dileggiandomi con veemenza. Tu non capisci niente…(loro sì: eravamo negli
stessi banchi solo pochi mesi prima…) perché la Medicina si sta evolvendo
e queste forme “paternalistiche” nel rapporto col paziente non avranno più
senso.
La
Medicina – questo era il succo del loro punto di vista – si
evolverà mediante la diagnostica per immagini, che ci consentirà diagnosi
rapide ed esatte fino a divenire una Scienza. Cosa che mi lasciava un poco
scettico, giacché la Medicina
è definita Arte, a volte Pratica, ma mai Scienza poiché le Scienze sono esatte e la Medicina mai potrà
esserlo, poiché nasce proprio dal quel rapporto dialettico medico-paziente che sopra
ricordavamo.
Eppure, avevano in parte ragione: nessuno qui nega
l’importanza di una TAC o di una Risonanza, solo che a fidarsi soltanto delle
immagini si finirà con l’avere solo una immagine
del paziente, che è molto diversa dalla sua realtà,
e che quindi non servirà più visitare ed
auscultare, basterà una telefonata. Che, ovviamente, la sua immagine farà quando avrà un problema.
Telefonata di esempio (ante Covid): “Ho la febbre e mi fanno
male tutte le giunture, le ossa…” “Quanta febbre?” “38 e mezzo” “Prendi la Tachipirina e, se vedi
che non passa, l’antibiotico per cinque giorni”. Fine del rapporto diagnostico.
Magari per il 70% dei casi la cosa va a posto, ma il
restante 30%?
Il restante 30% avrebbe avuto bisogno di un’ispezione a
bronchi e polmoni, magari uno “sguardo” all’apparato digerente…insomma: una
visita diagnostica.
I nostri medici, oggi, per la gran parte non si fidano più
dei loro mezzi di percezione per stabilire il malanno: senza la diagnostica per
immagini perdono gran parte della loro capacità diagnostica e brancolano nel
buio.
Il dottor Riccardo Munda (1) – un medico giovane, non ancora
specializzato, uno che (parole sue) aveva bisogno di lavorare – nell’inferno
della pandemia nelle valli bergamasche, ha accettato di fare il medico lassù,
partendo dalla Sicilia.
Si è trovato 1400 pazienti, parecchi malati di Covid-19 e ne
ha perduti e/o ospedalizzati…nessuno!
A chi gli domandava come aveva raggiunto un simile
risultato, rispondeva:
“Me lo spiego con una
ragione semplice: l’assistenza domiciliare. Andare a casa di un mutuato non è
la stessa cosa che fare il medico stregone via cavo. Tanto per cominciare
andare significa fare una visita accurata, capire se ci sono problemi
respiratori e quanto sono seri, valutare lo stato generale del paziente,
prescrivere i farmaci giusti...”
Che è, esattamente, quanto sostenevo poco sopra.
Un secondo aspetto da rivedere, per le professioni
sanitarie, è togliere quel maledetto numero chiuso all’iscrizione, permettendo
una sana competizione basata sulle competenze per chi acquisisce la laurea.
Vorrei ricordare – sono stato insegnante nei Licei – che in
tanti anni di carriera ho conosciuto un solo figlio di medico che avesse scelto
una facoltà diversa da Medicina. Chissà come mai? Per trovare già la “pappa
fatta”? Senz’altro, ma anche per godere dei vantaggi che l’ordine dei Medici,
qui e là, su e giù, non manca mai di fornire ai figli degli amici, magari
“segnalandoli” a qualcuno nella Commissione Medica per l’ammissione.
Voglio chiarire che la mia non vuole essere un’accusa, bensì
un semplice sospetto: non tocca a me, bensì ad altri (Giustizia) valutare se
esistono questi comportamenti. In altre parole, la Medicina si sta
trasformando in un affare di famiglia e non è assolutamente detto che il figlio
di un medico abbia quella “scorza” che gli consente d’iniziare una professione
così difficile.
E, se togliamo il numero chiuso, ci troveremo con medici in
soprannumero? Se sono bravi possono andare all’estero, altrimenti andranno a
fare gli informatori per le case farmaceutiche: non è sufficiente sedersi alla
sedia che fu del padre, se mancano le precise motivazioni per seguire quel
percorso di formazione.
La figura del medico “telematico”, inoltre, è quanto di più
gradito possa esistere per le case farmaceutiche: il sistema è veloce –
telefonata, diagnosi “telematica”, farmaco – in modo da rendere immediata una
scelta che ha rapporti precisi con la produzione di farmaci e la loro
distribuzione. In alcuni studi medici, già esiste una segretaria che ha praticamente
“potere di firma” per tutti i farmaci che il paziente usa normalmente, ma
questo allontana sempre di più il rapporto medico/paziente che prima
ricordavamo e che il dott. Munda, così chiaramente, esplicitava.
In futuro, potremo recarci negli ipermercati ed acquistare
semplicemente i farmaci che sono elencati in una carta elettronica: giunti a
quel punto, saremo molto vicini al metodo americano di gestione della Sanità,
che non ci sembra funzioni così “alla grande”. Guardatevi Sicko, di Michael Moore se non ci credete.
Per ultima cosa, ricordo che anni fa ci fu la proposta – non
ricordo di chi e di quale governo – di raggruppare i medici in studi: cosa che
già hanno fatto per risparmiare sui costi, ma che non sempre è così comoda per
i pazienti. Ricordiamo che, a Cuba, esiste una precisa legge che prevede
l’abitazione di un medico a non più di 15 minuti a piedi (al massimo 1,5 Km) da qualsiasi
paziente.
La proposta che ricordavo, però, conteneva anche un aspetto
positivo: quegli studi medici dovevano essere dotati di semplici
apparecchiature di diagnostica per immagini (tipicamente: ecografia) le quali
avrebbe consentito ai medici di fare subito una ricognizione e, dunque, una
diagnosi. In questo modo, molte strutture ospedaliere sarebbero state meno “compresse”
da code e file interminabili, che portano a due fattori diversi: o il paziente
se ne frega e cerca altre soluzioni, oppure – invece di prendere appuntamenti
distanti mesi dalle sue necessità – si rivolge alla sanità privata o
convenzionata.
L’ordine del Medici, ovviamente, non appoggiò quella
soluzione: c’era da meravigliarsi? Continueremo a fare i segretari per le case
farmaceutiche, con tanto di segretarie pagate dallo Stato.
Poi è arrivato il Covid e siamo nelle prime posizioni
mondiali per decessi rapportati alla popolazione: di chi è la colpa?
Del Governo, ovvio, recitano tutti in coro ma sono decenni
che la Sanità
italiana va a rotoli – pensiamo solo ai tanti ospedali “privatizzati” e su una
gestione regionale che fa disgusto quando non fa paura – eppure, quasi tutti
dimenticano che le leggi sono scritte e/o approvate dal Parlamento.
Signori parlamentari, che vi lamentate ad ogni piè sospinto
d’essere by-passati dai decreti governativi, in questi decenni, dov’eravate?
1) https://www.corriere.it/cronache/20_novembre_01/medico-siciliano-nembro-che-va-casa-pazienti-torino-brescia-6fd89d92-1c79-11eb-a718-cfe9e36fab58.shtml?refresh_ce-cp