28 giugno 2010

Da Monnezia con furore



Talvolta, quando il mare dell’informazione ingrossa e squassa il nostro fragile vascello, conviene serrare le vele e restare qualche giorno in porto, ascoltare storie di mare nei bistrot, bere un po’ di Calvados. E leggere.
Il rumore di fondo di questo Web 2.0 a volte subissa, riempie le orecchie di vento al punto che non capisci più da dove spira, per gettare la prua all’orza e fermarti un attimo.
In mesi, anni di notizie sulla crisi economica e finanziaria abbiamo scorso centinaia d’articoli (compresi i miei!) mediante i quali abbiamo cercato di capire la ragione ultima di questo assurdo evento. Che, oggi, sappiamo essere solo un Frankenstein finanziario, confezionato in digitali antri dai novelli stregoni dell’economia politica.
Eppure, qualcosa ancora sfugge: perché?

Poiché lo scenario, lo sfondo nel quale tutto ciò viene creato, ai più si sottrae come se, abbagliati da un fiammeggiante sole al tramonto, non riuscissimo a scorgere le nuvole foriere di tempesta che s’approssimano ad Est.
Sono rare le epoche, e le conseguenti generazioni, nelle quali è possibile osservare la fine di un mondo: una generazione è troppo poco per rendersene conto. A meno che.
A meno che non si chieda soccorso alla Storia, la quale non potrà spiegarci – ovviamente – l’oggi ma potrà fornirci tutta la casistica di “ieri” e riuscirà, almeno, a fornirci degli elementi per capire meglio ciò che ci accade intorno.
Purtroppo, lo studio tradizionale della Storia è alquanto carente: materia negletta, considerata – scolasticamente parlando – poco di più che un ingombrante accessorio del quale, ahimé, non si può fare a meno.

Aprendo una breve parentesi, dobbiamo riconoscere che rientra a pieno titolo, in questo contesto disinformativo, la decisione della Gelmini di riunire l’insegnamento della Storia, nel biennio delle Superiori, con Geografia: così, d’amblé, uno più uno fa due e morta lì. Come si nota che la signora non ha nessuna esperienza di scuola! Che è soltanto lì per eseguire gli ordini della Triade: Brunetta, Sacconi e Tremonti!
Altra cosa sarebbe stata introdurre le due discipline come Geostoria, ossia studiare i singoli ambiti geografici (ad esempio Medio Oriente, Oceania, America del Sud, ecc) partendo dalla Geologia e dalla Paleontologia, per giungere infine alla Storia Moderna e Contemporanea. Una gran bella materia, grazie alla quale sarebbe possibile persino capire qualcosa di quel che ci circonda.
La scelta dell’attuale governo mantiene invece separate le due discipline, diminuendo semplicemente il numero d’ore d’insegnamento: risparmiare! risparmiare! Bertolaso & Anemone ringraziano sentitamente per i “risparmi”.
Se fossimo dei superficiali, concluderemmo qui la parentesi, come una semplice questione di “risparmio” ma…in cauda venenum…ed è nella parte più nascosta del mostro che troviamo la spina velenifera.
Agendo in questo modo, le capacità critiche autonome che la scuola potrà fornire scemeranno ancora, cosicché sui media embedded non ci sarà il rischio che qualche forma di ragionato costrutto venga a galla. E si potranno raccontare balle a iosa.

Già oggi – solo qualche misero esempio – si presenta alla maturità un tema sulle foibe, ma non si chiede – parallelamente – d’approfondire cosa significò l’occupazione militare italiana della Jugoslavia: difatti, si chiedeva al candidato di soffermarsi “sugli eventi degli anni compresi fra il 1943 e il 1954.”
Come a dire: parlaci male dei criminali partigiani di Tito, ma non c’interessa sapere nulla degli “eroici” generali italiani i quali esortavano le truppe d’occupazione, fra il 1941 ed il 1943, con proclami del tipo “Si ammazza troppo poco”, giustamente diventato il titolo per un coraggioso libro[1] di denuncia.
Il campo di concentramento di Jasenovac (comandato dal francescano Miroslav Filipovic-Maistorovic, detto “Frà Satana”, si stimano dalle 500 mila al milione di vittime) è ancora là che urla il disgusto per i nostri “Giorni del ricordo”: se si “ricorda” la tragedia della guerra, hanno egual peso i drammi degli uni e degli altri. Noi, invece, “ricordiamo” solo le menzogne e facciamo beato il diretto superiore di Filipovic-Maistorovic, Aloysius Stepinac, come se fosse stato un agnellino[2].
La negazione della Storia, l’inquinarla in malafede con la prezzolata storiografia, conduce a non riconoscere più gli eventi d’oggi, perché le fonti comuni di riferimento sono avvelenate: si pensi a quante balle c’hanno raccontato sul Risorgimento.

La falsità più incredibile che oggi andiamo raccontando è che l’Occidente sia sempre stato il faro della civiltà: in campo filosofico, letterario, tecnologico. Certo, fin quando non studiamo il sapere degli altri, la menzogna regge.
C’è un momento, nella Storia, nel quale l’Occidente pone una pietra miliare del suo percorso, tanto da segnarlo come spartiacque fra il Medio Evo e l’Evo Moderno: il 1492, Colombo e le Americhe.
Prima del 1500, secondo la vulgata imperante, in giro per il pianeta c’erano soltanto selvaggi che aspettavano di ricevere collanine fatte con perline di vetro.
Invece, nel 400 D. C., in India già fabbricavano una lega di metallo che non arrugginiva: è ancora là, a testimoniarlo, una stele alta 7 metri che ha resistito alla ruggine per ben 16 secoli! Oppure, un paio di secoli prima, in Cina si fondevano leghe d’Alluminio. Peccato che noi, l’Alluminio, imparammo ad estrarlo e raffinarlo nel 1908[3]!
In tutto l’Oriente la polvere da sparo, il telaio per tessere e la stampa furono inventati pressappoco nello stesso periodo rispetto all’Occidente: spesso, prima. E non parliamo della cultura araba dei grandi califfati.
Eppure, divenimmo i padroni del pianeta.

Tutto ciò fu possibile grazie ad un fatto di per sé irrilevante, che invece concesse all’Occidente un’incollatura di vantaggio, quel che bastò per dominare l’Oriente per cinque secoli. In Occidente si fondevano le campane e, “allungando” una campana, s’ottiene un cannone: le prime petriere o bombarde avevano ancora la forma di una campana allungata ma, già nel ‘600, nessuno poteva competere con le artiglierie occidentali.
Un piccolo vantaggio tecnologico, la maggior perizia nel fondere dei tubi di ferro, ci diede un vantaggio impensabile: la nostra storia, da quegli eventi in poi, divenne una vicenda di sangue e di cannoniere, poco improntata verso il sapere se esso non era immediatamente funzionale alla conquista.

Gran parte della storia moderna europea, anzi, si svolse proprio per decidere gli equilibri coloniali: le grandi battaglie del Mare del Nord, fra Monck e De Ruyter, avevano lo scopo di difendere le rispettive Compagnie delle Indie, inglese ed olandese. Si pensi che – per la spedizione di Magellano – il solo carico della Victoria (l’unica delle cinque navi tornata in Spagna, quasi un relitto galleggiante) “coprì” le spese dell’intera spedizione e ci fu ancora un buon margine di guadagno.
Noi, europei del XXI secolo, da circa cinque secoli viviamo immersi in questo mare di certezze, come se la storia extraeuropea fossero solo quattro battaglie fra Cornwallis e gli americani, oppure il sangue versato nella Guerra di Secessione Americana. Nonostante Marco Polo avesse già riportato cronache avvincenti sulla Cina, poco si sapeva (e si doveva sapere) di ciò che esisteva di là del Mediterraneo.

La dimostrazione tangibile che la nostra è oramai un’abitudine che succhiamo con il latte materno, sono le attuali guerre per la conquista dell’ultimo petrolio (Iraq) e per mantenere il controllo delle vie di transito nell’Asia Centrale (Afghanistan), vale a dire per non concedere troppa libertà di movimento fra Iran, Cina, India, Russia e le ex repubbliche sovietiche.
Noi abbiamo inventato la Scienza, noi abbiamo scritto la Matematica: peccato che, i testi medici scritti intorno all’anno mille a Baghdad, siano stati d’uso comune nelle Università europee fino al 1700, che i numeri “arabi” giunsero a Baghdad portati dai matematici persiani, che li avevano appresi in India…
Poi, cosa succede?

Capita che convenga acquistare bamboline di pezza fatte in Cina, perché costano un’inezia, quindi una serie infinita d’oggetti d’uso comune…ed oggi producono la quasi totalità dell’elettronica del pianeta. Come sono bravi gli informatici indiani! Come costano poco! Facciamoli lavorare per noi!
Così, il software per prevenire il “Millenium bag” e tutto quello di gestione dell’euro, sono stati creati a Bangalore e negli altri distretti tecnologici indiani: probabilmente, anche quello dei missili iraniani che, affidati ad Hezbollah, affondarono nel 2006 alcune vedette israeliane. Anche il noto “Windows Installer” è firmato da un ingegnere indiano.
Tornano alla mente le parole di un generale statunitense, all’indomani di Pearl Harbour: “Dopo 87 anni dalla forzatura della Baia di Tokyo ad opera del commodoro Perry, i giapponesi ci hanno restituito un campionario rivisitato e corretto della nostra tecnologia”.
E siamo ad oggi.

Letto, appreso e sottoscritto, per capire meglio l’oggi dobbiamo distanziarci, prendere il primo dirigibile in partenza per un altro pianeta del sistema solare è, da lì, far maturare il frutto delle nostre meditazioni.
Visto da lontano, con il privilegio di poter far scorrere il tempo a piacimento, avanti ed indietro, cosa vedremmo?
Una parte del globo che, per cinque lunghissimi secoli, s’approvvigiona delle ricchezze altrui e ci campa a sbafo: se non bastano le materie prime si prendono anche le genti – schiavi – per la loro trasformazione in beni di consumo.
Si rifletta sul noto “Triangolo degli schiavi”: le merci europee erano vendute agli arabi (gran razziatori di schiavi), poi i neri erano rivenduti nelle Americhe e le materie prime, prodotte dalle braccia frutto di razzia, erano acquistate dalle industrie europee. Alla base del tutto, c’era la trasformazione della libera carne umana in “risorsa umana”, ossia “capitale umano”: per questa ragione l’Africa versa nelle condizioni che sappiamo, non per chissà quale maledizione divina!
Fa quasi agghiacciare ascoltare parole come “risorse umane”, perché fa pensare all’espulsione dell’Uomo dal lavoro come attività nella quale immette la propria creatività e ne ricava soddisfazione: un misero ingranaggio, quello di Chaplin di “Tempi moderni”, ecco a cosa ci hanno ridotti quei cinque secoli di schiavitù imposta, a riproporre il medesimo ingranaggio per le popolazioni europee.

Nel ‘900, però, alcune nazioni europee decidono di regolare una serie di conti “interni”, con ovvi risvolti sul colonialismo – si pensi al “ratto” franco-britannico del Medio Oriente (accordo di Sèvres del 1920), ed alla spoliazione dell’Impero Coloniale Tedesco e di quello Ottomano – ma vanno forse un poco “oltre” le loro possibilità economiche, finendo sì vincenti, ma indebitate come non mai. Il potere coloniale, che necessita di risorse per essere mantenuto, vacilla.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale ci si mette pure l’URSS – per mere questioni di politica estera più che ideologiche – a foraggiare i movimenti di liberazione, e la stagione coloniale termina.
Lascia però il posto – le nazioni razziate per secoli non avevano mezzi, si pensi che all’indipendenza della Tanzania il Paese poteva contare su 14 laureati e 150 diplomati, quasi tutti maestri elementari, di “tecnico” quasi nulla – al neocolonialismo: ce ne siamo andati con le cannoniere, ma torniamo con le corporation e le banche.
Oggi, cosa possiamo osservare dal nostro privilegiato punto d’osservazione su Marte?

Un gruppo di nazioni che stanno bruciando tappe su tappe, che non hanno debiti interni o se li hanno sono risibili: anzi, sono proprietarie del debito delle ex nazioni coloniali! Queste nazioni stanno diventando il fulcro di nuove alleanze per Paesi di media e piccola taglia, pensiamo all’Iran od al Venezuela.
Come rispondono le vecchie signore occidentali, con i fucili spianati e le pezze al sedere?
Dove possono inviano le truppe, altrimenti il petrolio iracheno (seconda riserva mondiale) finirebbe in Cina, oppure cercano di mantenere il controllo delle vie di transito dell’Asia Centrale, affinché le nazioni del Patto di Shangai non abbiano troppa libertà di commercio. Per farlo, devono raccontare una miriade di balle, come la stantia e desueta “guerra al terrorismo”.
La novità del post-neocolonialismo è che i paesi ex-colonizzati devono importare sempre meno tecnologia e, spesso, appena importato un macchinario, lo replicano in modelli migliorati. La base sulla quale poggiava l’impronta neocoloniale del secondo ‘900 era, invece, che quelle nazioni dovevano, volente o nolente, importare beni tecnologici e know-how. Oggi, il flusso è quasi invertito: le migliori università sono spesso in India e in Cina.
La risposta occidentale?

La strada è sempre la stessa: cannoniere a volontà. Per fare cosa?
I costi di manutenzione di un Task Group navale statunitensi sono astronomici, per una nazione nella quale alcuni Stati (California, ad esempio) sono sull’orlo della bancarotta: mantenere in navigazione navi, sottomarini ed aerei costa cifre che sono nell’ordina di grandezza dei bilanci dei singoli Stati.
Anche in Italia, nel nostro piccolo, stiamo demolendo lo stato sociale e la corrispondente parte della Costituzione che lo salvaguarda: si mette in dubbio, almeno qualche volta, la montagna di soldi che spendiamo per le “missioni di pace” nel pianeta? Dobbiamo dissanguare la popolazione, con Finanziarie da 24 miliardi, senza mai nominare i miliardi spesi, ogni anno, per foraggiare le nostre truppe all’estero?
I risultati (a parte le bare che, ogni tanto, tornano), dove sono?

Si dirà che dobbiamo difendere le fonti d’approvvigionamento petrolifero.
La Germania – la quale, non dimentichiamo, perdendo l’Impero Coloniale nel 1919 non partecipò al successivo “gran sacco” del petrolio – è la nazione che, negli anni, ha avuto minori spese per contingenti militari. Eppure, è quella all’avanguardia nella progettazione e nell’attuazione dei sistemi di captazione per le energie rinnovabili: non dimentichiamo che, per il 2015 – nonostante gli sproloqui di Franco Battaglia – è già prevista la completa autosufficienza energetica per distretti industriali quali Monaco, Dusseldorf, Kassel, Augusta e Friburgo.
Il paradosso è dunque questo: investendo risorse nel settore militare per difendere i campi petroliferi, non si hanno sufficienti risorse da destinare alla ricerca ed all’attuazione delle tecnologie per le rinnovabili.
Il caso italiano è ancora peggiore giacché, la corruzione e lo stretto connubio fra la classe politica ed i boiardi di Stato, acuisce ulteriormente il problema: si pensi ai contributi CIP6 (che tutti paghiamo sulla bolletta dell’ENEL, che dovrebbero essere destinati alle energie rinnovabili), i quali finiscono – grazie a spericolate “interpretazioni” tecnico-giuridiche – nelle tasche dei petrolieri ed al gran circo degli inceneritori, i cancrogeneratori al quadrato.
Si parla tanto di Pomigliano e delle scelte FIAT, ma si dimentica che la FIAT non ha praticamente programmi per auto elettriche che non siano meri prototipi destinati soltanto a “far vetrina”. Lo crediamo bene che, per continuare a sopravvivere, debbano cancellare diritti del lavoro che sono addirittura siglati nella Costituzione! Alla fine della questione, Marchionne chiederà il ripristino della schiavitù per varare la produzione di omnibus a cavalli?

Le nazioni che, per un naturale volgere della Storia, si trovano nel campo perdente devono capire per tempo la lezione: ci sono pochi esempi dai quali attingere – se vogliamo, la Spagna dopo il crollo del suo impero nelle Americhe, l’URSS (la quale, però, rimase una nazione enorme, su due continenti!), forse l’Olanda…le vicende lontane nel tempo poco hanno da raccontare, troppo diverse le situazioni… – ma c’è poco da imparare d’immediatamente “spendibile”.
L’unica lezione che si deve assolutamente capire è la consapevolezza dell’evento: oggi, invece, assistiamo all’ennesimo tentativo di una “resa dei conti” fra gli USA i quali – dopo anni di liberismo selvaggio – tentano la via keynesiana (Obama che sostiene i sostegni statali all’economia) e l’Europa – spaventata dal “babau” greco, creato ad hoc dalle agenzie di rating, guarda a caso sotto influenza USA – la quale si rifugia nella fumosa salvaguardia della ricchezza nazionale (Germania) utilizzando inconcludenti strategie liberiste, mentre non esiste nessun disegno comune. Basti riflettere che manco trovano unità d’intenti sulla tassazione delle rendite finanziarie.

Questo perché l’UE è una creazione fittizia, dove ogni nazione cerca singoli vantaggi in politica estera – la Gran Bretagna sempre legata al carro atlantico, l’Italia ondivaga e sconclusionata da una crisi interna senza fine, la Francia tentata dal “sogno carolingio”, che deve però fare i conti con una Germania che sigla accordi con la Russia… – insomma: com’ebbe a dire a suo tempo Solana, “tutti insieme, in ordine sparso”.
Oggi, addirittura, per cementare quel “ognuno per sé e Dio per tutti” hanno nominato una sconosciuta baronessa inglese alla politica estera comune, la quale manca completamente dell’esperienza necessaria: un bel modo per dire “Continuiamo a farci i c…nostri”.
Il balletto continuerà fino all’implosione della baracca europea: ad oggi, è presto per dire se saranno gli Stati nazionali a riprendere la sovranità in toto, oppure se si “scivolerà” verso aree regionali omogenee per cultura ed economia. Il secondo scenario, non dimentichiamo, presenterebbe forti rischi di “derive balcaniche”.
Tutto ciò che dovrebbe essere fatto – ossia programmare uno stile di vita più sobrio, meno teso verso consumi imposti ed in gran parte inutili – non viene preso minimamente in considerazione: addirittura, la sperequazione nella distribuzione della ricchezza, aumenta. E, questa, sembra oramai una deriva internazionale.

In effetti, i vari G8-12-20 e roba del genere sembrano più delle continue rese dei conti nei rapporti fra le ex potenze coloniali che altro: i Paesi del BRIC non sembrano molto interessati. Perché?
Riflettiamo che, i soli quattro grandi Paesi appena citati nell’acronimo, raggruppano all’incirca la metà dell’umanità, mentre il blocco euro-americano è circa un decimo: una sproporzione evidentissima.
Si potrà obiettare che la grande finanza riposa in Occidente: sarà, ma, da quando mondo è mondo, Main Street ha sempre avuto la meglio su Wall Street, perché gli eserciti si muovono con la nafta, non con rettangolini di carta verde.
Un rischio di confronto militare fra i blocchi che si stanno delineando – la scelta atlantica dell’UE, qualche anno fa ancora incerta, è oggi senza smagliature (Obama ha lavorato bene, alla faccia di coloro i quali lo pensavano un Messia) – è comunque molto basso: entrambi i blocchi dispongono d’abbondanti testate nucleari, e nessuno sarà preso dalla “febbre del bottone”.
Aumenteranno, probabilmente, i conflitti locali: qualche avvisaglia c’è già stata – la “fiammata” georgiana, le continue tensioni fra le due Coree (recentemente “benedette” dal “pacifista” Obama), il sempiterno tormentone iraniano… – ma sarà purtroppo l’Africa a pagare, ancora una volta, il prezzo del confronto, giacché la “sete” di materie prime sta aumentando: non si tratta di solo petrolio, ma di metalli che iniziano a scarseggiare, e l’Africa è una enorme miniera a cielo aperto.
Esiste un’alternativa?

Sotto il puro aspetto ideale sì – ed è giusto sottolinearlo – ma il peso politico di una nuova cultura, nei santuari dell’economia, è così scarso da risultare ininfluente.
Chi da anni riflette sul “dove stiamo andando”, ha già compreso che si tratta di una folle corsa su un binario morto: consumiamo risorse a velocità folle, quasi la stessa con la quale creiamo montagne di rifiuti.
Se l’ONU fosse qualcosa di diverso da un’accozzaglia di prezzolati devastatori del pianeta, dovrebbe indire un’assemblea plenaria su una nave, nei pressi della grande “isola artificiale” dei rifiuti che s’è creata nel Pacifico. Là – di fronte alla testimonianza tangibile del nostro fallimento come specie in grado di comprendere gli equilibri di un pianeta piccolo, dalle dimensioni rigidamente finite, e di rispettarli – si dovrebbe piangere.
Invece?

Allo scoppiare della bolla finanziaria nel 2008, un dirigente della Skoda ebbe a dire che bisognava “iniziare a riflettere” di ridurre la vita media di un’autovettura a 7 anni, per aumentare la produzione e rimediare al semplice fatto che, la potenzialità costruttiva dell’industria automobilistica, supera oramai di gran lunga le necessità. Per l’Europa, siamo ad un surplus ci potenzialità produttiva del 20%[4].
Al crollo del saggio di profitto per ogni bene prodotto, si risponde aumentando a dismisura la quantità di beni da produrre: è così facile! Nel Pacifico esiste oramai il settimo continente, quello della monnezza? E chi se ne frega!

Ecco il legame politico/economico fra l’oggi e la fine dell’era coloniale, neocoloniale o post-coloniale, quando lo sfruttamento di miliardi di persone era sufficiente per arricchire a dismisura le holding finanziarie ed industriali, e mantenere un minimo di stato sociale, tanto per pararsi le chiappe dal pericolo socialista ed aprire varchi alla socialdemocrazia venduta!
Vogliamo ricordare la “suddivisione” dei proventi petroliferi in Iran, quella che condusse alla “ribellione” di Mossadeq poi soffocata da USA e GB nel 1953, vale a dire il 94% alla British Petroleum ed il 6% allo Stato iraniano?
La sopravvivenza e l’affermazione della socialdemocrazia, in Europa, avvenne proprio grazie ai “benefici” d’origine coloniale e neocoloniale: al termine di quel processo, generò personaggi come Craxi – apparentemente socialdemocratici, in realtà già liberisti – i cui “figliocci” si chiamano Brunetta, Tremonti, Sacconi, Epifani…e la totalità, almeno sotto l’aspetto della cultura politica, della cosiddetta “opposizione”.
La salvezza, per i manovratori del treno impazzito che non può più predare ricchezze ad ogni stazione, è premere sull’acceleratore: questa è la risposta liberista di variegati colori, bianco-rosso-verde-nero.

L’unica via d’uscita all’attuale follia, per il genere umano, è riprendere in mano la responsabilità di cosa produrre e di quanto produrre: non esistono altre soluzioni. Qualcuno preferisce chiamarla economia di Stato, socialismo, comunismo, totalitarismo…faccia pure.
Ricordiamo soltanto che, già oggi, sarebbe perfettamente possibile costruire automobili elettriche alimentate ad Idrogeno con pila a combustibile che durerebbero decenni: ciò che sconcerta, in un’auto elettrica, è il “nulla” che c’è sotto il cofano. Un motore elettrico un po’ più grosso di quello di una lavatrice e poco altro.
Sono già stati costruiti prototipi costruiti su telaio, con carrozzeria simile alla “cover” di un telefonino (facilmente staccabile e riciclabile), con tutto l’impianto propulsivo contenuto in una “lastra” di soli 26 centimetri di spessore! E tutto questo mentre l’ENEL – la stessa che ci succhia i contributi CIP6 – riconosce che la sola risorsa eolica è in grado di fornire 4 volte l’attuale consumo mondiale d’energia!
Ma, per quanto tempo ancora dovremo farci prendere per i fondelli? Per quanto tempo ancora solo poche persone s’accorgeranno dell’evidenza, che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, mentre sarebbe perfettamente possibile ridurre la “febbre” del consumo, garantire diritti e protezione sociale, e campare tutti meglio?

Personalmente, sono alquanto pessimista: quando il continente artificiale “Monnezzia” giungerà a lambire le coste della California – ed i surfisti torneranno a terra con i sacchetti di plastica incollati alla pinna – diranno che è tutta colpa di Al-Qaeda. Se c’è troppa merda in giro – rifletteranno al Pentagono – è perché troppa gente caga: tiremm innanz.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

20 giugno 2010

Apocalypse Down



This is the end, beautiful friend, this is the end, my only friend …”
The Doors, The End, dall’album The Doors, (1967).

“Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in un’atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata…”
Joseph Conrad, Cuore di tenebra, (1902).

Ogni tanto mi prendo la briga di leggere il gossip elettoralistico, ovvero il “quanto vi piaccio” giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Lo so, è ingannare il tempo, ma tanto vale per rilassarsi un attimo, come giocare a carte.
Scorrendo, per par condicio, i sondaggi più disparati – che sono differenti soltanto per la diversa semantica utilizzata nel confezionare le medesime frasi – si nota una sostanziale stasi: qualche punticino in meno quando il Governo promulga l’ennesima legge capestro, bavaglio, trabocchetto…poi recuperato con qualche “sparata” a nove reti unificate del capocomico… e il diametralmente opposto saliscendi dell’altro comico, il Masaniello del Monte Nero. Qui, mi sa che l’unico ad esser meno comico è un comico di mestiere, ossia Beppe Grillo: sarà perché lo spirito d’ogni clown è sempre venato da un’incrinatura di tristezza? Chissà.

L’unica formazione arroccata su coriacee posizioni di pura resistenza è il partitino di Casini, ma qui è facile comprenderne la ragione: essendo più che altro dei contractors con sede Oltretevere, l’obiettivo unico è mantenere aperto l’ufficio scambi e compravendite. Il resto, viene da sé.

Il PD muove la classifica solo quando cambia segretario, come una squadra che lotta per la retrocessione, la quale ruota sulla panchina un tecnico il mese: il nuovo arrivato riunisce lo spogliatoio, magnifica premi di partita a iosa, smazza speranze e futuri di gloria per portare a casa un paio di pareggi. Poi, arrivano due sonori 3-0 (il secondo in casa) e l’allenatore fa le valigie.
L’arguzia di chi stabilì una cesura fra una stagione calcistica e l’altra – ossia non immaginò una competizione perpetua – fu quella di capire che, ogni tanto, bisogna contare i punti, porre dei paletti, condurre sugli altari gli eroi e stramazzare nella polvere i perdenti.

Così è la vita, altrimenti saremmo ancora qui a discutere se Caio Giulio Cesare – attraversando il Rubicone – avesse tradito l’impianto istituzionale Latino. Oppure se, le circostanze eccezionali nelle quali versava la repubblica, potessero concedere l’azzardo.
Per nostra fortuna, Cesare era persona viva e vegeta e Bruto poté così trasformarla in cadavere, altrimenti non ne saremmo mai usciti.

Quando, invece, sentiamo parlare del PD – sia dagli avversari che dai sostenitori – la parvenza è quella del dopo-funerale, quando si va a bere qualcosa al bar con l’amico che non si vedeva da anni e si stemperano così – la circostanza lo richiede – quattro parole sul neo-estinto. Generalmente, sono frasi pronunciate a mezza voce, con misura – quasi dei “coccodrilli” verbali – nelle quali la dolcezza sopravanza il ricordo di quando gli prestasti la “850” coupé e te la rese con il motore che andava a fuoco.
Si domandano notizie della famiglia: figli, nipoti (quella bionda, alta…già la nipote? Eh, se passa il tempo)…della situazione familiare (ah, ma quella era la prima moglie, non la seconda! Ah, ma allora…) oppure sulle vicende di natura economica. Eh, glielo avevo detto anch’io che aprire un ristorante macrobiotico proprio sul retro dell’Italsider era una scelta azzardata…ah sì? Riuscì a salvare qualcosa perché un gommista rilevò il locale per farci un autosalone? Meno male…

A volte, mentre – soli – si torna a recuperare l’auto nel parcheggio, ci si domanda cosa racconteranno gli amici al tuo funerale: testa di cavolo…che carattere di m…però, quando c’era di testa era uno spasso…no, troppo ingiusta…in fin dei conti, pur essendo per natura uno scapestrato, ha saputo tener fede alle sue responsabilità…no, banale…
Poi, si giunge all’auto, si cercano le chiavi – dove c…le metto sempre ‘ste chiavi… – e si rimanda il capitolo seguente al prossimo funerale. Sperando d’avere il tempo di concludere qualcosa – si tratta pur sempre di un’opera in divenire – prima che tocchi ad altri vergare l’epilogo.

Speriamo di non aver tediato troppo il lettore con queste funeree dissertazioni, poiché era d’altro che desideravamo parlare ma, l’unico prologo adatto al volumetto che andavamo a scrivere, ci sembrava proprio questo: il funerale. Mancato.
Si potrebbe, tanto per concludere la prefazione, dissertare sulle differenze che esistono nelle tradizioni funerarie secondo le religioni, i cieli ed i tempi d’appartenenza: in genere, le religioni monoteiste sono molto “sbrigative” nei confronti del caro estinto. Sarà la necessità di riaprire in fretta la fabbrichètta?
Altre culture, invece, sembrano conceder più tempo al caro estinto per estinguersi con calma, come se la fiammella – anche dopo il rigor mortis – non fosse del tutto scomparsa.
Ora basta, però, perché stiamo facendo tutto questo can can senza capire a quale funerale dovremo recarci, chi sarà l’estinto: soprattutto, non sappiamo quando. Un po’ di rispetto per la claque funeraria: ci vuole un po’ di tempo per trovare la cravatta nera e le uniche scarpe nere, lucide, rimaste!

Il problema del PD è proprio questo: l’essere, a tutti gli effetti, un trapassato presente. Tempo e modo incongrui per qualsiasi verbo, lo ammetterete.
Eppure, passano i mesi, gli anni e pure le stagioni…cambiano i segretari, gli attici ed i loft…e, pur essendo del tutto evidente che il partito è estinto, nessuno si prende la briga d’affiggere i manifesti mortuari. Presto, nei sondaggi, non comparirà neanche più, alla la voce “Partito Democratico”, il gradimento percentuale e verrà sostituito con un generico “Nebbia in Val Padana”.
Di regola, ai funerali, chi la fa da padrone sono gli aggettivi: “bravo” (generico, il più usato), “simpatico” (d’uso più arduo: e se l’estinto era un vero e proprio “orso”?)…e così via. “Onesto” è l’aggettivo più gettonato ai funerali dei politici, proprio per marcare la differenza abissale fra il caro estinto ed il ceto che lo espresse: l’aggettivo “passa” poiché l’unico che potrebbe ribellarsi dovrebbe essere l’officiante.
Ma, avete mai sentito un prete alzarsi e dire “E basta! Qui non c’è più religione!” Non si può, ed il giudizio divino viene – correttamente – posizionato fuori del tempo e dello spazio.

Gli aggettivi più usati per definire il PD sono “nuovo” (fa il paio con il “bravo” dei funerali), “dinamico” (il necessario ossimoro, non preoccupatevi)…talvolta viene usato “giovane” ma sta cadendo in disuso: la vittoria della sconosciuta Serracchiani in Friuli fece passare in secondo piano il nome dello sconfitto.
Cioè…del candidato ufficiale del PD…perché a “casa PD” non si giocano mai campionati, solo tornei interni, nei quali la ferocia belluina è all’ordine del giorno: quando giunge il momento d’iscrivere la squadra al campionato, sono tutti “rotti” e l’infermeria tracima tendiniti e legamenti crociati aggrovigliati e cadenti.
Il candidato sconfitto dalla giovane avvocatessa in Friuli era niente di meno che…Luigi Berlinguer! Un applauso!

Dovrebbe trattarsi dell’ex Ministro della Pubblica Istruzione, appartenente alla nobil casata dei Berlinguer sardi, ma non siamo così esperti nella decrittazione degli alberi genealogici per affermarlo con certezza, come del resto siamo incerti sulla sua età, ossia se navighi ancora verso gli ottanta (un giovane, appunto) oppure i novanta (la mezza età politica pidieddina).
E’ caduta in disuso la pratica del nepotismo diretto in politica: Bianca Berlinguer ha avuto il buon gusto di scegliere una carriera politica parallela in RAI, mentre i figli di Massimo D’Alema sembra che, presto, entreranno a far parte dell’equipaggio di Mascalzone Latino per una futura America’s Cup.
Dobbiamo riconoscere che il buon gusto ci guadagna: come se, alla recente tornata elettorale nel Lazio, avesse partecipato anche la bis, bis, bis…nipote del grande Caio, la giovane avvocatessa Jennifer Giulio Cesare. Eh no: a tutto c’è un limite.

Siccome l’atto ufficiale di morte del PD non è stato mai presentato – dovrebbe dunque trattarsi di un caso di morte presunta, che richiede il vaglio del magistrato – il povero dott. Benjamin L. Willard sta risalendo su un battello il Po per cercare, traversando l’oramai verde Padania, elementi che gli possano servire per districare il groviglio delle origini.
Facile a dirsi, ma l’evidenza che non ci può essere morte senza nascita non poteva essere accettata così, senza approfondimenti, soprattutto da un magistrato scrupoloso come il dott. Willard, il quale sta risalendo il fiume fino a Torino per colloquiare proprio con un ex magistrato, che gli è stato indicato solo con uno pseudonimo, quello del “dott. Walter E. Kurtz”.

Il misterioso ex magistrato sarebbe a conoscenza delle origini del “mistero PD”, l’ectoplasmatico ossimoro creatosi fra il dottor Faustus di Marlowe e la nera coppia di Bergman, il Cavaliere e la Morte, ne “Il Settimo Sigillo”. L’ultimo tentativo, per tastare il polso di un ectoplasma mai morto e mai vissuto: un vero mistero.
In effetti, non s’era mai visto nella Storia tanto brigare per ottenere l’eternità politica – ottenuta al prezzo dell’anima popolare ed operaia – per poi gettarla alle ortiche in un’incessante partita a scacchi con la morte.

Mentre scorrono ai lati del battello canneti ed antichi insediamenti di battellieri, oramai abbandonati, il dott. Willard – intanto che annusa, appoggiato alla falchetta della motovedetta dei Carabinieri, l’amaro profumo del fiume – si chiede se il suo viaggio servirà a qualcosa, se Kurtz accetterà di spiegare il mistero di quel sibillino “le televisioni non sarebbero state toccate”, pronunciato proprio di fronte al nemico, una vita prima nel chiassoso parlamento di una lontanissima, pulsante Saigon.
Anche se accordi ci fossero stati – è il tormento che azzanna Willard ogni volta che cerca di prender sonno nella sua cuccetta, fra il gracchiare dell’interfono di bordo e la puzza di nafta che pervade i locali – perché renderli pubblici? Quale la ragione, politica, per urlarlo al mondo?

Ottenere benevolenza dal nemico, pur nella prostrazione della sconfitta, è l’ultima speranza – rifletteva Willard – alla quale solo chi non ha letto Von Clausewitz, Miyamoto Musashi e Sun-Tzu può credere: no, non funziona…Kurtz sarebbe solo uno stupido…non è questo il copione…
Ma, Kurtz, accetterà di parlare?

Willard non n’è così certo: il Procuratore, che gli ha affidato l’incarico, ha sottolineato più volte la delicatezza della missione – si tratta di un ex magistrato, parlamentare, Presidente della Camera… – lasciandogli però carta bianca sul come procedere. Già, “carta bianca”: e quale “carta” potrà mai usare per convincerlo a rivelare le origini?
Mentre la motovedetta approda per fare rifornimento, Willard ricorda che il Procuratore s’espresse chiaramente sulla sua missione: tornare con le tasche vuote avrebbe significato marcire per decenni in qualche Procura di provincia. Maledizione a Kurtz, all’enigma del PD, a quella rogna che gli era toccata.

Sul casotto del rifornimento di carburante, una scritta verde recita “Lega per sempre” e Willard – sono approdati sulla sponda emiliana – non può fare a meno di riflettere che, solo pochi anni prima, quelle terre erano il fulcro del potere “rosso”. No, doveva far parlare Kurtz: a tutti i costi.
Sulle prime aveva meditato di chiedere lumi ad un vecchio segretario – uno che si dilettava di “gioiose macchine da guerra” – ma aveva presto cambiato idea: l’uomo, più che un ex segretario del potente PCI, pareva la larva di se stesso. Blaterava nel vento recriminazioni per una partito “di sinistra” mai nato, ma si notava chiaramente che non contava nulla e, soprattutto, che non sapeva nulla.

La notte trascorse tranquilla e riuscì ad addormentarsi: piombò in un sonno profondo, nel quale sognò Kurtz o, almeno, quello che riteneva essere Kurtz. Quando si svegliò, aveva ancora nelle orecchie la risata di Kurtz e nelle pupille gli rimase l’immagine dei suoi occhi: due braci rosse, ardenti.
L’ufficiale lo informò che l’autovettura era pronta sul molo: salutò e sbarcò.
Il contatto era stato fissato per le nove di quella stessa mattina, presso i locali di un’associazione di canottieri: osservò l’orologio e, con sollievo, s’accorse ch’era in anticipo.
In quella mattina primaverile di Sabato, Torino stava ancora sbadigliando o cercando, a tastoni, l’orologio sul comodino: non fu necessario inserire la sirena e l’auto dei Carabinieri lo depositò silenziosamente proprio all’ingresso del circolo. L’ufficiale che lo accompagnava chiese se desiderava essere scortato all’interno, ma Willard ringraziò: «No, da qui in avanti dovrò andare da solo». Il giovane tenente non fece obiezioni.

Appena entrato, una giovane alla reception lo affiancò e gli indicò la strada: «Da questa parte, prego dott. Willard.» Benjamin non si stupì oltremodo di quell’accoglienza, l’aveva messa in conto: la segretezza era svanita nel momento stesso nel quale avevano chiesto l’incontro.
La giovane aprì la porta di uno studio avvolto nella penombra, ma non oltrepassò la soglia, facendo cenno d’entrare: una voce dall’interno, però, lo invitò ad entrare. «Venga, dott. Willard, s’accomodi.»
«Allora, ha fatto buon viaggio?» chiese Kurtz.
«Sì, grazie.» Mentre rispondeva meccanicamente, Benjamin fu colpito da quanto era diverso, il vero Kurtz, da quello che aveva immaginato.
L’uomo esile seduto nella poltrona, segaligno, vestiva un anonimo abito grigio che pareva quasi cascargli addosso, e la voce era appena un sibilo, senza toni che denotassero emozioni. Lo sguardo, che aveva immaginato focoso, era invece gelido ma pungente, indagatore, pareva quasi inarrestabile nel cercare anche il minimo particolare sulla sua persona.
«Allora, ha qualcosa da chiedermi?»

«Certo, ma non sapevo che lei era…»
«Per lei rimarrò sempre Kurtz, chiaro? Erano i patti…»
«Certo, come preferisce.»
«Immagino che sia venuto a chiedermi qualcosa del PD, dello strano PD, del partito immobile…»
«Sì, a volte sembra addirittura morente, in uno stato di catalessi…»
Kurtz sorrise: «Sì, c’è del vero in quanto afferma…catalessi…ottima definizione, però aggiungerei “apparente”: sì, è meglio…”apparente catalessi”…» ridacchiò.
«Se lo analizziamo alla luce della prassi politica comune» continuò Kurtz «potrebbe apparire una creatura vuota, proprio un ectoplasma…ma, la devo mettere in guardia, ciò è vero solo per la comune politica, per quello che la gente deve percepire…»
«Scusi, non comprendo…»

Kurtz si mostrò quasi infastidito dall’intromissione, quasi come se dovesse spiegare le cose ad uno svogliato scolaro: «Non crederà, per caso, che la vera politica sia quella che viene mostrata? Il PD che s’oppone, Berlusconi che comanda, Di Pietro che sbraita…Tremonti che fa manovre economiche, il PD che fa le barricate…»
Kurtz scoppiò in una risata e questa volta – a Benjamin – apparve quasi sguaiata e fuori posto, eppure capì che quella risata era nata con il preciso scopo d’intimidirlo, di farlo sentire come un bambino che domandava come riuscissero a volare gli aerei.
Provò a controbattere: «Ma, in una democrazia compiuta…»

«Senta» Kurtz s’avvicinò a lui, sporgendosi un poco dalla poltrona dov’era seduto «la “democrazia”, come lei la chiama, non potrebbe vivere nemmeno un secondo senza l’approvazione di chi deve gestirla, chiaro?»
«No, non è affatto chiaro, ma il PD…quel congresso proprio qui a Torino…la scelta di correre da solo alle elezioni, poi tutto il marasma…»
«Ma quale marasma, quale marasma!» Kurtz sembrò accendersi «tutto fu programmato anzitempo…si sapeva perfettamente dove si sarebbe finiti…affidammo la creatura alla persona più idealista che si potesse trovare…credevamo che sarebbe stato in grado di reggere la parte, invece…»
«Si riferisce a Wal…»
«Sì, a lui: quell’uomo ha visto troppi film. Scambiò il PD con la brumosa visione di un suo, personale, sogno politico…vecchie affermazioni desiderate e mancate…confuse, nella bruma mattutina, un peschereccio che pescava le acciughe con il “Rex” di Fellini…si rese necessario riprendere il controllo, tornare a persone più affidabili…gli emiliani sono ottimi amministratori: peccato che la politica, per quel che veramente è, nemmeno sappiano da dove inizia…»
«Ma lei, allora…perché ritirarsi qui, quasi alle sorgenti del fiume, lontano dalla mischia…»

«Lontano dalla mischia? Ah, ma lei ha veramente un’idea originale della politica, mi complimento con l’istituzione che rappresenta!»
«La stessa nella quale lei ha lavorato a lungo!» per un attimo, a Benjamin parve di risalire la corrente.
Kurtz passò oltre, per nulla offeso dalla stoccata di Benjamin «Io, fondando Italiadecide[1] – della quale sono il Presidente[2] – sto facendo quanto di meglio posso fare per il mio Paese: perché mai, allora, saremmo riuniti nella medesima associazione io, un ex Presidente della Repubblica come Ciampi, il Sottosegretario più influente del Governo, Gianni Letta, il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il principale estensore del Trattato di Lisbona, Giuliano Amato, e tanti altri personaggi influenti dell’economia, dell’impresa e della finanza?»
«Ma, lei, militava, milita…nel partito d’opposizione…»

«E lasci queste fregnacce ai gonzi, per Dio, Willard! Non faccia il bambino!» per un attimo s’accasciò sulla poltrona, poi riprese «la vera politica è il gioco delle fondazioni, dei think tank, come li chiamano gli americani…quello che va in scena è solo la parvenza, panem et circenses…»
«E così, lei…perché rassicurò il premier sulle televisioni?»

«Io non rassicurai proprio nessuno, perché non c’era nessuno che doveva essere rassicurato: confermai, semplicemente – e dovevo farlo pubblicamente, altrimenti non avrebbe avuto valore – la fedeltà al sistema di governo che va avanti da molti anni, un metodo condiviso di gestione della politica “la qualità delle politiche pubbliche”: ha letto l’incipit di Italiadecide? Ha capito, adesso?»
«Credo di no, o forse sì…ma se ho capito bene, allora, tutto…»
«Tutto acquista senso soltanto se si capisce il gioco delle fondazioni: perché, allora, dovremmo condividere gli stessi obiettivi di Italiadecide io e Ciampi, Letta, Tremonti ed Amato? Poiché la fondazione è colei che garantirà, sempre, la continuità del sistema di governo, qualsiasi coalizione salga al potere!
Osservi cosa sta succedendo per la questione nucleare: per uno Scajola che diventa impresentabile, è pronto un Chicco Testa a scendere in pista. Oppure, Scajola fu acchiappato con le mani nella marmellata proprio per far posto ad uno dei nostri: a scelta. Non lo trova divertente? »
«No, non mi diverte affatto: tutto questo, ovviamente, per il bene della nazione.» Aggiunse Benjamin.
«Ovviamente.»

«Un’ultima domanda: la sua lunga militanza nel PCI, allora, che senso ha avuto? Cosa rappresenta, oggi?»
«La sostanziale continuità» fu la risposta, asciutta come uno uadi del deserto.
«Come…continuità?»
Kurtz parve, per l’ennesima volta, spazientito dal comportamento di Benjamin. Sbuffò, poi si decise a rispondere.

«Il PCI fu sempre, dalla sua sostanziale accettazione del sistema parlamentare borghese, una componente del sistema, non la sua controparte. Se lei ricorda Kautsky ed il dibattito con la Luxemburg, già allora parve chiaro che la scelta socialdemocratica non avrebbe mai posto in essere il dilemma della gestione del potere.
Con quella scelta – sembrerà un paradosso detto da me, ma la Luxemburg aveva ragione – la socialdemocrazia tedesca si poneva in modo subalterno rispetto alla classe dominante, la borghesia. Poiché, proprio da Marx – e molti di noi Marx l’hanno studiato seriamente, non come i penosi epigoni della sinistra “radicale” oggi di moda – giunge la sentenza sulla dinamica delle classi: non possono esistere situazioni compromissorie – salvo per brevi periodi, si pensi a Lenin ed ai menscevichi – giacché la classe dominante è quella che detiene le reali leve del potere politico, finanziario, militare. Ovviamente, nessuna classe dominante regalerà ad altri il potere che detiene: pena la negazione di se stessa. Questo fu l’abbaglio di Kautsky.»
«Ma, allora, Lenin…» Benjamin si rese conto che, più che uscire, le parole gli sfuggivano oramai dalle labbra.

«Il fallimento della rivoluzione bolscevica era chiaro da decenni, ma gli eventi dell’89 posero fine a quel teatrino che fingeva essere l’URSS uno sterminato paese socialista. Nella realtà, tutti gli sforzi della dirigenza bolscevica furono diretti a creare una borghesia interna al PCUS: potremmo forse passarla – ma con un dubbio azzardo – come una borghesia “rivoluzionaria”, ma pur sempre una borghesia. E, questo, spezza una lancia in favore delle argomentazioni di Kautsky. Non è lo stesso processo che sta avvenendo in Cina?»
«Certo, ma in Italia…»
«In Italia, il PCI occupò semplicemente il posto – potremmo affermare – della dirigenza kautskiana tedesca del primo Novecento: “organizzarsi ed attendere”, ricorda l’ammonimento di Kautsky? Poi, con la fine dell’URSS e le “aperture” cinesi, divenne chiaro che non esisteva un’alternativa al potere della borghesia. Dunque, farne parte non è un peccato mortale: si tratta soltanto di seguire la corrente della Storia.»
«Ma le iniziative, gli slogan, il PD d’oggi…»

«Ma li guardi. Varano “imponenti” lotte d’opposizione d’Estate, mentre per i rimanenti nove mesi si squagliano come neve al sole. Tante chiacchiere, ma su Pomigliano una posizione chiara non l’hanno. Ed è normale che così sia: sono soltanto un’appendice del pensiero socialdemocratico borghese, mentre alla loro sinistra è pronta, all’occorrenza, la speculare e sterile “vena” barricadiera.
In fin dei conti, il PD e l’IDV servono soltanto a tenere occupate le masse che potrebbero – ma sono piuttosto scettico anche su quel “potrebbero” – elaborare nuove strategie per mettere in crisi il potere della borghesia. Niente di nuovo sotto il sole, mi creda: solo più facce della borghesia che dialogano fra di loro, per capire come gestire al meglio i loro interessi.»
«La speranza di una nuova stagione…è dunque solo tale?»

«Sì, è così» Kurtz parve rabbuiarsi «la borghesia è oggi così forte da permettersi persino un restyling coloniale. Nessuno è in grado d’opporre un pensiero ed una strategia, credibili e vincenti, alla polimorfa struttura della borghesia internazionale finanziaria: il fatto che creino in continuazione bolle speculative e, al loro frangersi, scarichino i debiti sui bilanci degli Stati, non le dice nulla? E, badi bene, in ogni Stato è la borghesia nazionale a stabilire chi pagherà lo scotto: sicuramente, non i borghesi!»
«E la Storia?»

«La Storia, la Storia…la Storia registra gli eventi, li valuta e li approfondisce con la storiografia, li espone…ma solo delle mutate condizioni economiche e di pensiero potrebbero provocare grandi rivolgimenti…non ne vedo all’orizzonte…non si tratta di mere questioni organizzative: una classe dirigente nasce da un pensiero e da una prassi condivise e credibili, non azzannandosi sui giornali e su Internet!» Kurtz scosse il capo.
«Per questo s’è rifugiato qui, quasi alle sorgenti del fiume?»
«Sì, e se qualcuno volesse giungere fin qui per mostrarmi il contrario, non dovrebbe salire solo e, soprattutto, con una misera borsa zeppa di carte sotto il braccio: lei, è la dimostrazione lampante che i tempi non sono maturi, che l’impotenza è totale.»

Cadde un silenzio tagliente come una lama di Damasco, mentre Kurtz lo fissava con quegli occhi freddi e pungenti, ancor peggiori di quelli che aveva sognato sulla motovedetta.
«Bene dott. Willard, ora devo andare: ho un appuntamento a mezzogiorno, un pranzo di lavoro con la dirigenza FIAT...»
«Certo, sarà molto occupato…la saluto.»
Tornò la segretaria e lo accompagnò all’esterno, dove attendeva l’auto dei Carabinieri. Il giovane tenente gli andò incontro, ma Benjamin sentiva di non potersene ancora andare così, come se nulla fosse: era ancora troppo sconvolto da quel che aveva udito.
Fece cenno d’attenderlo ancora pochi istanti.

Scese al fiume, che distava pochi passi, e s’accoccolò sulla riva. Al lato opposto, sul viale scorrevano le automobili. Una donna, sul balcone di un palazzo, con il battipanni scuoteva un tappeto. In strada, due giovani in bicicletta si chiamavano l’un l’altro.
Tutti e quanti – i ragazzi, la donna, gli automobilisti – credevano di vivere in una democrazia, un posto dove depositando una scheda nell’urna si decideva qualcosa. Invece, era dovuto salire fin lassù, quasi alle sorgenti del fiume, per sentirsi dire che non esisteva nulla del genere e che, se qualcuno desiderava metterlo in dubbio, non doveva certo presentarsi con una borsa zeppa d’inutile cartaccia.
Se, invece, qualcuno desiderava proprio tentare l’azzardo, non solo si sarebbe dovuto organizzare per bene, bensì avrebbe dovuto elaborare una strategia ed una prassi per attuarla.
Dopo il colloquio con Kurtz, quel posto in provincia, baluginato dal Procuratore quando gli affidò l’indagine, gli parve dietro l’angolo: avrebbe avuto, anch’egli, tutto il tempo per “organizzarsi ed attendere”.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

13 giugno 2010

Fine del miracolo liberista italiano. E di un’epoca

Se la Storia volesse trovare una data, un bigliettino da affiggere nell’immaginaria bacheca dell’inarrestabile declino italiano, credo che potrebbe proprio scegliere le date di questi giorni, ovvero la Finanziaria per il 2011.
Con, in aggiunta, uno dei tanti rapporti che, regolarmente, giungono alla stampa: si tratta di quello del CENSIS redatto proprio in questi giorni, a margine del convegno che si è tenuto a Roma nei primi giorni di Giugno di quest’anno, intitolato “Come staremo al mondo?”
Ci staremo piuttosto male – a seguire le analisi del CENSIS – e questo spiegherebbe la frenesia tremontiana di voler far “quadrare i conti” più in fretta possibile. Se l’uomo che è seduto al Ministero dell’Economia fosse meno ossessionato dai “conti”, e si prendesse una pausa per capire il nostro futuro, ci guadagneremmo tutti. Almeno, scivoleremmo nella merda a bocca chiusa.

Le risultanze del convegno – le quali, non so perché, sono state poco riprese sul Web – forniscono uno “sguardo” sul futuro italiano fino al 2030. Collegamento in nota[1].
E’ opportuno ricordare che queste tavole rotonde non sono il Vangelo e lo stesso presidente del CENSIS – Giuseppe Roma – si è affrettato ad aggiungere che “fare previsioni è un azzardo”. Per questa ragione, al CENSIS sono partiti dalla demografia, per tracciare – de minimis – qualche affresco sul futuro italiano.
Eseguendo un breve abstract, il convegno ha identificato con precisione l’invecchiamento della popolazione, la sua distribuzione geografica (emigrazione costante dal Sud verso il Nord, forse un po’ azzardato su un lasso di tempo di 20 anni, ma accettiamolo) e, soprattutto, gli indicatori economici per i prossimi anni.
Qui, c’è poco da dibattere: la demografia è questa, il debito pubblico pure, perciò non c’è tanta trippa per gatti sulla quale piroettare elucubrazioni.
La domanda posta era: cosa dovremmo fare per mantenere gli attuali livelli di reddito (e, aggiungo io, di protezione sociale)?

La risposta può apparire sconcertante ma, all’interno dell’economia di mercato, poteva essere una sola: mantenere i livelli d’occupazione (possibilmente migliorarli) e ridurre il debito pubblico. Obiettivo: far scendere il rapporto deficit/PIL sotto il 100%. Che bella pensata: e che ci vuole?
Ovvio che, per raggiungere l’obiettivo – sempre secondo il CENSIS, non gettiamo loro la croce addosso, sarebbe come sparare sul pianista – servono misure per incrementare il PIL (occupazione, sviluppo, ecc) ed altre per ridurre il debito (risparmi, sprechi, evasione fiscale, ecc). Ciò che spaventa sono i numeri: dei quali, il CENSIS non ha nessuna responsabilità, sono altri ad averle.

In pratica – affermano – per mantenere gli attuali livelli di reddito (che per i più non sono certo esaltanti), dovremmo semplicemente, dunque, non so come dirvelo…beh, facciamola finita: creare ogni anno 480.000 nuovi posti di lavoro e, contemporaneamente, “risparmiare” (cioè in Finanziaria) ogni anno 12 miliardi.
Se fosse possibile mantenere questo “ritmo” almeno fino al 2020, l’Italia potrebbe uscire dalle paludi: vorremmo sapere quale Italia uscirebbe dalle “paludi”, perché quell’Italia – che dovrebbe fare simili “risparmi” – alla fine assomiglierebbe molto ad un’armata di zombie.

Ciò che sconcerta, è come questi dati siano perfettamente logici nel computo del “mercato”, mentre appaiono terribilmente irrazionali se confrontati con la realtà: disoccupazione ufficiale al 8,9%, più quelli che un lavoro manco più lo cercano e “s’arrangiano”, vuol dire che ci sono almeno 2,2 milioni gli italiani in cerca di lavoro. Confindustria, invece, comunica che a Maggio la produzione industriale ha avuto un balzo del 2,4%. Vedi nota[2].
Ciò, conferma che parametri come il PIL e l’occupazione sono oramai desueti per identificare l’andamento economico, giacché l’impresa aumenta la sua produttività (e dunque i profitti) soltanto se automatizza i processi, ossia sbatte fuori un po’ di gente e la sostituisce con macchine che fanno meglio e più in fretta la produzione.
Ovviamente, nella produzione di beni di largo consumo.

In questo bel panorama, dove le imprese automatizzano oppure delocalizzano – ossia vanno nei Paesi dove le braccia umane costano ancor meno di una macchina – ci tocca pure ascoltare l’ignobile ultimatum di Marchionne ai lavoratori di Pomigliano: “o così o ce ne andiamo all’estero”[3]. Prendi questo tozzo di pane e saziati, schiavo!
Dimentica – monsieur Marchionne…ma non fa rima con qualcuno? Ah sì, Cambronne… – che, se avessimo utilizzato la montagna di soldi che lo Stato ha consegnato alla FIAT per decenni, di FIAT pubbliche ce ne sarebbero almeno dieci, e magari andrebbero a gonfie vele come la maggior azienda industriale italiana, Italcantieri, che – guarda a caso – è statale!
Quando s’incassano fior di quattrini per decenni a “scopo sociale” – caro il mio Marchionnino – e poi si fanno orecchie da mercante, significa comportarsi come i ladri di Pisa, quelli che fingono zuffe di giorno e si spartiscono il bottino la notte.

Dunque, in questa terra baciata dalla fortuna che è il Belpaese, dovremmo “creare” 480.000 – quattrocentottantamila! – nuovi posti di lavoro l’anno per almeno dieci anni! Ma che bella soluzione! Dove li creiamo? Inventiamo il lucidatore d’antenne, la ricamatrice di cartoni, l’aggiusta-mollette per la biancheria, la psicologa per canarini?
Questo numero non è casuale: corrisponde a grandi linee alla consistenza di un’intera generazione! Vorrebbe dire che, per 10 anni almeno, ogni giovane in età da lavoro dovrebbe uscire da scuola e…voilà, a lavorare il giorno dopo. Ci sono altre favole da raccontare?
A meno che, quel “lavoro” non sia creato “re-distribuendo” quello già esistente: eh sì, sarebbe proprio l’ora di smagrire un po’ gli stipendi di quei Paperoni che lavorano a progetto o con contratti a termine. Invece di 500 euro il mese, due posti di lavoro – a parità d’orario – da 250: che ne dite? E’ una buona soluzione?
Poi, i risparmi: era ora, non se ne può proprio più di questo popolo di spreconi (che saremmo noi, non loro).

La Finanziaria per il 2011 prevede pressappoco 24 miliardi di “risparmi”, e già sta ammazzando il Paese con il solo profumo: questa manovra è sbagliata sotto il profilo qualitativo e quantitativo.
Il solo pensiero di stramazzare la cultura (che ha notevoli risvolti sul turismo) – ma dove si riesce a trovare una coppia come la Brambilla e Bondi, per occupare quei ministeri? E’ difficile far meglio! – ha fatto dire a Monicelli, il quale non è proprio l’ultimo arrivato, che l’unica identificazione italiana che regge all’analisi è proprio l’appartenenza culturale: letteratura, arti grafiche, scultura, musica, teatro, cinema.
Siamo famosi per questo almeno dalla Firenze rinascimentale in poi: vogliamo proprio azzerare tutto? Poi, cosa faremo? Andremo tutti a canticchiare l’aria del Nabucco sventolando all’aria gli accendini con un paio di corna verdi sulla testa?

Sotto l’aspetto quantitativo, poi, viene da sorridere a pensare a future Finanziarie che dovranno “risparmiare” 12 miliardi l’anno: con quella di quest’anno, tanto per ricordarlo, i dipendenti pubblici hanno perso quello che un tempo si chiamava “contratto di lavoro”. Il contratto aveva previsto tot? Non ce ne frega niente: lo azzeriamo!
Una recente riforma delle pensioni prevedeva certi parametri per andarci? Noi congeliamo tutto! E i 480.000 nuovi posti, chi li crea se almeno nel pubblico nessuna va più in pensione? Nel privato?!? Se i dipendenti privati riusciranno, negli anni a venire, a mantenere almeno gli attuali livelli d’occupazione – cosa che, già oggi, si rivela inattuabile – sarebbe già grasso che cola.

Il risultato della contrazione del reddito che avranno 4 milioni di dipendenti pubblici, più i contratti da fame dei privati – e questo lo diciamo ai “guru” dell’economia – si trasformerà, inevitabilmente, nella rovina per decine di migliaia d’esercizi commerciali.
Nel nostro piccolo, sapendo che fino al 2014 lo stipendio non si muoverà “di un euro” – parola di Tremonti l’anti-globalizzatore, il salvatore dei deboli, il “Robin Hood” de no antri – abbiamo già attuato le contromisure: pizzeria? Verboten. Vacanze? Visite a parenti ed amici. Ristorante? Si mangia benissimo a casa. Vestiti? Scambi e rotazioni con parenti ed amici. Auto? Un po’ d’antiruggine alla vecchia Panda del 1993 e passerà almeno un paio di collaudi. Quando finirà? Un’altra Panda da quattro soldi. Verdure? Orto: costa meno della palestra e ti fa risparmiare.
Insomma, una specie di “decrescita” confezionata su misura per la situazione contingente: sopravvivremo benissimo. Chi non ce la farà? Il pizzaiolo, il barista, l’autosalone, il negozio d’abbigliamento, il verduriere…

In definitiva, quel “taglio” del 5-10% del salario su paghe non certo da Paperoni, andrà a scatenare una contrazione dei consumi che, già oggi, indica un crollo dell’1,6% dei consumi[4].
Quei pochi consumi che ancora reggevano erano quelli incentivati dallo Stato: uno Stato che deve scovare 12 miliardi l’anno, non avrà certo i soldi per incentivare qualcosa. Difatti, nell’attuale Finanziaria, è sparito l’incentivo del 55% per il risparmio energetico: qualcuno ha affermato che lo rimetteranno ma nel tempo – 12 miliardi l’anno, sai che “botte” – anche quello dovrà sparire.

Insomma, potremmo continuare per righe e righe: a fronte della “suzione” richiesta dalla finanza internazionale, si risponde prosciugando il tenore di vita della popolazione, la protezione sociale (cosa farà un invalido che raggiunge “solo” il 75% d’invalidità?), la cultura (che richiama turismo: difatti, ogni anno che passa, altri Paesi ci sorpassano per presenze turistiche) e “congelando” la popolazione al lavoro.
In cosa si spera? Nella moltiplicazione dei prestiti e delle entrate? Come i pani ed i pesci?
No, la soluzione l’ha prospettata Berlusconi stesso: una riforma costituzionale – la stanno pensando, l’ha comunicato ai “Promotori della Libertà” – per poter varare una nuova impresa in un solo giorno, senza nessun controllo.

Dunque, fateci capire…in un panorama di crollo dei consumi…bisogna impiantare nuove imprese? Ma se quelle che ci sono stanno già con la merda al labbro inferiore?
E poi, che bello! Proprio in Italia – con un terzo del territorio governato dalle mafie – diamo la possibilità di creare nuove imprese e i controlli…beh, qualche mese dopo, anno…no…quando?
Già immaginiamo che tutti i nuovi “imprenditori” nel campo dello smaltimento dei rifiuti speciali, dell’agricoltura dei veleni, del commercio “senza regole” stiano fregandosi le mani.

Vorrei ricordare – un solo esempio – quel che avvenne in Spagna nel 1980 (ero là) con l’olio d’oliva: una “svista” nei controlli fece 160 morti in poche settimane. Va beh, direte voi, in Italia li farebbero passare come una nuova malattia da allergia: già me lo vedo, il Vespone, strambagliare fra grafici che testimoniano l’impennarsi di quelle malattie, più casi nel Togo, qualcuno in Costa d’Avorio, uno in Portogallo…è tutto sotto controllo, tranquilli.
L’aspetto ridicolo sta tutto nell’esagerazione delle malattie inventate – vedi la “maiala” – mentre in quelle vere scatta la negazione, vedi i militari italiani morti per l’Uranio impoverito. Penosi.

La realtà – pensiamo a quei 12 miliardi l’anno per 10 anni, 120 miliardi di euro che dovranno prenderci per via diretta (dipendenti) ed indiretta (fallimenti d’imprese e piccoli imprenditori) – è che questa gente non sa più dove sbattere la testa, perché non ha capito niente di quel che sta succedendo.
Se, da un lato, 500 anni di dominio coloniale stanno terminando – fra un po’ i Paesi del BRIC ci pisceranno in testa, e noi dovremo pure ringraziare per l’acqua offerta con tanta gentilezza – dall’altro non si capisce che il liberismo è la peggior ricetta per Paesi che vanno incontro ad una naturale decrescita. Perché?

Poiché non abbiamo bisogno di nuove reti ferroviarie, stradali, ecc – quelle che muovono soldi, lavoro, investimenti, tangenti – perché le abbiamo già: il Quinto Centro Siderurgico (Gioia Tauro) non sorse perché ce n’erano già almeno tre di troppo. Al più, servono modesti aggiustamenti.
Non servono nuove pizzerie, telerie, autosaloni, compagnie telefoniche…“già teniamo tutto” in abbondanza.
Serve, invece, lavorare “cum grano salis” in pochi campi: energia, agricoltura, turismo.
Per farlo, però, serve una struttura dello Stato più “leggera”, senza il gran tourbillon dei livelli di controllo (e di spesa): via Regioni, Province e Comuni.

Un solo livello decisionale locale – corrispondente all’odierno comprensorio, 10-20 Comuni – perché è il territorio a misura d’uomo, dove la gente si conosce, ha parenti, amici. Da lì può nascere una nuova stagione politica: dalla semplicità. Unita ad uno Stato autorevole, del quale non si mette in dubbio l’unità.
La re-distribuzione del reddito IRPEF pro capite, affidata dallo Stato ad ogni comprensorio, come la Sanità: niente più figli e figliastri, regioni ricche perché assistite – scandaloso il livello di spesa clientelare della Regione Sicilia – ed altre che si vantano d’essere il meglio – vedi Alto Adige – soltanto perché prendono il doppio del Veneto o del Piemonte.
Decine di miliardi l’anno risparmiati cancellando questo improduttivo, parassitario ed inconcludente ceto politico. Pensate: stanno meditando di spillarci 12 miliardi l’anno per 10 anni! E i folli saremmo noi?

Conforta il fatto che il livello di “suzione” previsto non è più tollerabile dal popolo italiano: pur considerando di dar fondo ai risparmi delle precedenti generazioni, d’azzerare la pensione come un ricordo, la scuola come un inutile orpello, la sanità come un inutile gingillo…non potranno mai farcela.

Il botto s’avvicina: estote parati.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

09 giugno 2010

Eutanasia di una nazione




E così, zitti zitti, hanno portato la pensione di vecchiaia a 70 anni e quella d’anzianità oltre i 66 anni[1], andando ben oltre ogni altro Paese europeo.
Il provvedimento, a grandi linee, interessa chi è nato dopo il 1955 ed inciderà sempre di più con l’avanzare dell’anno di nascita: l’avevano annunciato da tempo che l’età della pensione sarebbe stata “collegata” con l’aspettativa di vita.
E, con questa bella pensata, siamo i primi a raggiungere la fatidica “quota 70”: per vostra conoscenza, i regimi pensionistici europei (vedi nota[2]) sono tuttora orientati verso questi valori di età legale per la pensione:

Francia: 60 anni, con riduzioni per i lavori usuranti e possibilità di prosecuzione fino a 65.
Germania: 65 anni, con pensione d’anzianità a 63 ed a 60 (con riduzione dell’assegno) per chi ha avuto periodi di disoccupazione;
Spagna: 61 anni e 30 di contribuzione, 60 anni per chi ha iniziato a lavorare prima del 1967.

Non prendiamo in considerazione sistemi pensionistici come quello inglese – che prevede un’età massima di 70 anni già oggi – oppure quello svedese – che si basa più sugli anni di cittadinanza piuttosto che su quelli di contribuzione – perché sono strutturalmente molto diversi dal nostro. In quei casi, l’età di pensionamento non è comparabile con la nostra, giacché le condizioni sono molto diverse e ci sono più variabili e possibilità per il lavoratore.
Francia, Germania e Spagna hanno invece una struttura simile alla nostra, perciò sono utili per capire lo “sfregio” che l’attuale governo sta per fare: non mettono le mani nelle tasche degli italiani – nelle loro ed in quelle del 10% di ricconi che li sostiene meno che mai – semplicemente, porteranno via letteralmente la vita al rimanente 90%. Anche quelle dei fessacchiotti che sgobbano e poi li votano: spiacente, ma è così.

Prima di proseguire, vorrei precisare che chi scrive non è minimamente toccato dalle attuali “novità” in campo pensionistico: questo per sgombrare il campo da possibili “conflitti d’interesse”.

Il sistema pensionistico italiano è quello, fra quelli europei, che destina percentualmente meno risorse all’uopo, mentre la gestione previdenziale dell’INPS era in attivo per un miliardo l’anno già prima della controriforma Damiano del 2007 (quando c’è da massacrare i lavoratori, sedicenti destre e sinistre trovano accordi “miracolosi”), e di ben 17 miliardi l’anno dopo l’intervento del “Mazzarino” del centro-sinistra.
Non sono ancora disponibili stime precise sui “risparmi” che porterà la Sacconi-Tremonti ma, prendendo come base l’incremento dell’attivo dalla Dini alla Damiano, è facile capire che faranno un ricco “bottino”.

Ci sono, a questo punto, due punti da chiarire:

a) Se vi siano serie basi demografiche, sociologiche, storiche, scientifiche od etiche per un simile provvedimento;
b) Le vere motivazioni della riforma Sacconi-Tremonti.

L’incremento della vita media che c’è stato nell’ultimo mezzo secolo non è da imputare a mutazioni genetiche: semplicemente, una serie di “accidenti” che prima troncavano la vita anzitempo, con l’incremento della protezione sanitaria sono stati debellati.

Possiamo ascrivere a questi interventi della medicina una serie di malattie od incidenti che un tempo conducevano a morte quasi certa (ad esempio tetano, morsicature di vipere, emorragie, meningite, tifo, colera, ecc) ed una serie di malattie un tempo mortali (polmonite, broncopolmonite, infezioni varie, TBC, ecc) che oggi sono debellate o tenute a bada con gli antibiotici.
Il risultato finale è stato – unito alla forte riduzione della mortalità infantile – il crollo della mortalità nell’età dell’adolescenza ed in quella della riproduzione. Ci sono stati alcuni “settori” d’incremento – pensiamo alle droghe, all’AIDS, agli incidenti stradali, ecc – ma nulla che possa minimamente essere messo in relazione con la mortalità precoce della prima metà del ‘900.
Dobbiamo, inoltre, considerare che le generazioni che oggi hanno più di 70 anni sono ancora nate nell’era “pre-antibiotici”, oppure hanno dovuto sopportare vicende di selezione terribili: si pensi a chi è sopravvissuto alla ritirata di Russia od alla guerra in Africa.

La demografia italiana è in costante calo e la popolazione viene mantenuta pressoché costante con l’immigrazione – questa, è bene dirlo, specificatamente richiesta dagli imprenditori, salvo poi criminalizzare l’immigrato per ottenere condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù – e si tratta, dunque, di un meccanismo innaturale, le leve del quale non sono nella demografia stessa, bensì nella sfera di decisione politica.
La scienza non ha mai sostenuto che vi sia stato – in tempi biologici così brevi – una modificazione genetica del cosiddetto “orologio biologico”: nonostante il clamore mediatico che le trasmissioni televisive embedded propinano, la scienza afferma che la nostra aspettativa di vita – accidenti permettendo – non è cambiata nei secoli.
In altre parole, il genoma umano è il medesimo almeno da secoli[3]: ciò che può influenzare la longevità sono le abitudini di vita, lo stress, l’inquinamento, ecc. La scienza afferma che è possibile raggiungere una maggior longevità, ma che la stessa è il risultato di più fattori, fisici e psicologici.

Vorremmo sapere quale “bonus” – inteso come valore aggiunto alla propria aspettativa di vita – acquisisce un lavoratore a progetto a tempo determinato, il quale – per anni ed anni – non avrà nessuna sicurezza del proprio futuro, dovrà ingoiare come un rospo che permettersi d’avere un figlio sarà una grossa incognita, oppure vivere sapendo che, in caso di malattia, non avrà protezione sociale.
Qui divergono le prospettive “ottimiste” della scienza: si basano su parametri “ideali” senza scendere nella realtà delle vite quotidiane. Un semplice “provvedimento” come la pensione a 70 anni, più parecchi anni di precariato, quale effetto avrà sull’aspettativa di vita?

Se non basta la scienza, possiamo ragionare sul semplice buon senso: un operaio edile di 70 anni, potrà portarsi la carrozzella sul tetto? Che gioia, affidare i propri figli in gita scolastica ad un autista settantenne! O un treno?
E, tutto questo, mentre intere generazioni di giovani appassiscono nei call centre.

Passiamo ora ad analizzare le vere ragioni di un simile provvedimento.
Siccome le gestioni previdenziali sono fortemente in attivo, l’unica ragione per un simile innalzamento può derivare dal cedere della “gamba nascosta” della gestione: l’assistenza.
A differenza delle altre nazioni europee, l’Italia non ha separazione fra l’assistenza e la previdenza: i soldi per le pensioni e per i sostegni al reddito (cassa integrazione, ad esempio) provengono dalla stessa cassa.
Come può, un governo, garantirsi la pace sociale di questi tempi? Dando un po’ d’elemosina a chi perde il lavoro.
Ma, per farlo, non s’assume la responsabilità in proprio – ossia non s’inserisce come arbitro fra le imprese ed i lavoratori – ossia non partecipa al gioco come attore responsabile: semplicemente, prende soldi dalle casse previdenziali e distribuisce elemosine. Quella “solidarietà caritatevole” con la quale si riempiva la bocca George Bush.

Un simile percorso, però, conduce alla generale de-responsabilizzazione nel mondo dell’impresa: che mi frega – pensa l’imprenditore – se tutto va a rotoli? Salvo i capitali creati con il “nero” in Lussemburgo – se, poi, serviranno nuovamente in Italia me la caverò con il 5% dello “scudo fiscale” – e butto tutto nel deretano agli operai.
Salvo la piccola impresa – la quale, semplicemente, va a gambe all’aria e lascia sul lastrico i lavoratori – le imprese italiane pretendono soldi per produrre (incentivi) e ferree garanzie se le cose vanno male. Quante FIAT sono state pagate, nei decenni, con soldi pubblici?
Accidenti, che classe imprenditoriale!
Sommando i due effetti, se ne ottiene un terzo.

Aumentando l’età pensionabile in un quadro di sempre minor protezione sociale, s’aumenta la mortalità nella fascia fra i 60 ed i 70 anni, cosicché le prestazioni pensionistiche da fornire sono annullate in mancanza d’eredi (l’INPS trattiene tutto), e dimezzate per vedove e vedovi. Un bel malloppo.
Dunque, l’accusa di omicidio premeditato – alla luce dei fatti sopra esposti – non è proprio campata per aria: in aggiunta, sappiamo che fanno tutto questo per potersi permettere ogni anno 18 miliardi di auto blu, tangenti, case gratis, puttane e tutto il resto.
Ogni volta che sento parlare di “inevitabile” necessità di “rivedere” l’età pensionabile, quindi, mi torna alla mente Goebbels, e la mano corre a cercare la fondina.

Cosa bisogna fare?
Per prima cosa smetterla di seguire il giochino “destra-sinistra” sul quale campano. Poi, smetterla di seguire la TV: anche quando sembra tutto sommato accettabile, quasi sempre cela una pozione velenosa: perché, altrimenti, hanno ostacolato qualunque possibilità di TV indipendenti? La “pluralità” che doveva garantire la legge Gasparri – l’aumento delle frequenze disponibili – dov’è finita?

Per seconda cosa dobbiamo saper distinguere fra scenari macroeconomici e le situazioni nazionali e locali.
Il grande scenario internazionale è certamente dominato dalle grandi holding, e potrete chiamarle come più vi aggrada: multinazionali, sistema finanziario, Bilderberg, Illuminati, ecc.
Ma, a queste strutture, non potremo mai opporci proprio perché transnazionali e, in alcuni casi, semiocculte.
In campo nazionale e locale, invece – proprio perché chi va a sedersi sugli scranni diventa responsabile delle sue azioni direttamente – possiamo opporci e dobbiamo farlo, ne va della nostra vita e di quella dei nostri figli.
Come opporsi?

Inutile pensare di creare nuovi partiti o movimenti adesso, sarebbe del tutto inutile, e la Storia è zeppa d’avanguardie rivoluzionarie fucilate nei cortili delle caserme.
La strategia vincente passa ancora e sempre per l’informazione – l’attuale classe politica lo sa, e cerca di controllarla in modo ferreo – e finché potremo farlo dal Web alla luce del sole lo dovremo fare. Qualora le leggi liberticide che stanno per varare dovessero metterci un bavaglio, trovare – ma insieme! E qui mi rivolgo ai tanti colleghi scrittori, giornalisti e bloggher – i mezzi per lavorare su piattaforme estere in lingua italiana, mediante pseudonimi, per aggirare la censura. I modi, se si vuole, si trovano: altre soluzioni sono auspicabili e, se migliori, da attuare.

Ultima cosa: saper distinguere, al nostro interno, le vere voci di dissenso perché intenzionate a portare costrutto dal chiacchiericcio dei troll e dei debunker che postano dalle sedi dei partiti, siano essi di governo o d’opposizione.
Fin quando accetteremo di comportarci come i Polli di Renzo, di strada ne faremo poca.

Sarebbe inutile e prolisso, in questa sede, tornare a riproporre gli infiniti esempi di una diversa gestione sociale che più volte abbiamo approfondito: energia, decrescita, reddito di cittadinanza, nuova agricoltura, nuovi trasporti, turismo, ecc.
Il nostro Paese potrebbe essere ricchissimo: solo che, una masnada di ladri ed imbroglioni, da circa un trentennio ha occupato le leve del potere. Come scalzarli?

Ricordate un antico proverbio orientale: “Quando l’allievo è pronto, giunge il Maestro”. Invece di scannarci per cose di poco conto – oppure lasciar spazio ai soliti furbetti del quartierino con più targhe, che si fingono “utenti qualunque” – impariamo ad usare l’informazione in modo militante.
Alle ultime elezioni, meno del 60% ha votato: non era mai successo, soprattutto per delle elezioni locali. E’ il segno che qualcosa sta cambiando: il momento della riscossa s’avvicina.
La strada è questa, però non basta che pochi scrivano: molti devono diffondere e discutere. Altrimenti, gli alieni mascherati che ci schiavizzano, c’avranno in pugno.
Grazie.


Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

06 giugno 2010

Comunicazione interna del 6 Giugno 2010

Oggi, anniversario dello sbarco in Normandia, voglio spiegare perché sono salito sul tank e sono sbarcato nell’area d’eliminazione dei commenti del blog. Del nostro blog.
In passato l’avevo fatto soltanto quando i commentatori si lasciavano andare ad insulti, ma qualche commentatore usa tecniche più raffinate: in gergo, vengono chiamati troll o debunker. Specie di virus o de-strutturatori.
Più volte abbiamo discusso, io ed i responsabili di CDC – che hanno problemi ben più gravi – di quale sia il limite, superato il quale, scatta la censura. L’argomento è complesso e senza soluzioni univoche ed applicabili sempre nell’identico modo. Ricordiamo che nei blog delle destre di governo (e, in molti casi, anche della sedicente sinistra) i commenti sono filtrati alla fonte, salvo farne passare qualcuno per poi scatenargli la gazzarra contro: utilizzano tecniche di provenienza televisiva, ossia il blog è la trasposizione sul Web dei tanti reality.
Per prima cosa, allora, bisogna definire quali sono gli obiettivi di questo blog.
Questo spazio, che è privato per definizione, nel tempo s’è trasformato in quello che definirei un “luogo di studio e di meditazione”. Qui, intervengono persone che vivono anche lontano dall’Italia, Europa ed oltre, per portare i loro contributi. Qual è l’obiettivo?
Sulla base di un plafond condiviso di valori, cercare soluzioni, approfondire le proprie conoscenze e, in definitiva, crescere insieme, poiché ogni azione genera un mutamento. Non bisogna essere dei fisici o dei sociologi acclarati per capirlo.
In metafora, potremmo paragonarlo ad una biblioteca, dove ciascuno porta un testo e lo commenta con gli altri: i libri sono diversi, le persone anche, e si esercita la critica. A nessuno, però, viene in mente di portare un registratore per ascoltare la K40 durante la discussione, giacché gli altri non riuscirebbero più a capirsi, per quanto piacevole possa essere ascoltare Mozart.
Fuor di metafora, l’inserimento “a raffica” di commenti che hanno poco valore in sé, che non qualificano la discussione – anzi – la fanno virare verso litigi senza senso, raggiungono il solo scopo di depotenziare la discussione.
La “regola” di non ascoltare musica durante la discussione può essere presa come termine di paragone per capire qual è la base etica del blog, ossia i valori condivisi.
Il primo valore è il rispetto della vita e della personalità umana, inteso però anche come la lotta senza quartiere a tutto ciò che la nega. Così come il desiderio di sempre maggior serenità per tutti gli esseri senzienti, con la ferma opposizione verso chi desidera affermare solo la propria serenità, magari a danno di quella altrui.
Ne discende, quindi, la ricerca di soluzioni di pace, di prosperità, di salvaguardia dell’ambiente e della qualità del lavoro, compresi i diritti che reggono queste affermazioni.
Questi sono i valori fondanti del blog: mi sembrano abbastanza ampi. In ogni modo, ci sono migliaia di blog dove – non essendovi rispetto per valori etici basilari – la cosiddetta discussione “libera” conduce spesso a centinaia di commenti senza senso, spesso volgari, quando non sono altro che catene d’insulti.
Questo blog ha scalato la classifica di Blogbabel come un destriero: la sua collocazione varia, ma sempre nei primi 1000 blog italiani, spesso fra i primi 500. Non è poco: dietro di lui, ci sono spesso blog di politici di buona visibilità.
Vi siete chiesti il perché?
Poiché l’elaborazione collettiva – spesso, un nuovo articolo nasce proprio dalla riflessione sulle molte cose dette nei commenti – ha in sé la forza che nessuno scrittore, anche bravissimo, può avere.
La nomina ufficiale di Mahmoud a “corrispondente dalla Giordania” era una celia solo a metà: non è da tutti avere “in squadra” una persona d’elevata cultura, in grado di spiegare uno dei maggiori affanni del nostro tempo, il Medio Oriente, proprio dal Medio Oriente. E Mozart, che spesso ci racconta la Germania? Ma anche noi, che tentiamo di raccontare l’Italia, questa pessima Italia del giorno d’oggi.
In altre parole, qui si predilige la cultura – che non significa titoli di studio od altre stupidaggini – come strumento per affinare quei valori etici dai quali poi discende l’economia, il dibattito storico, la politica, ecc.
Potremmo, ogni giorno, partire dall’ABC, recitare tutti insieme l’alfabeto?
Calando a bomba nella situazione odierna, il valore etico che Israele non rispetta riguarda espressamente le leggi sulla navigazione nelle acque internazionali: ha mostrato di farsene un baffo.
Perché i commenti erano pretestuosi?
Poiché se Israele avesse avuto dei dubbi sul carico delle navi, avrebbe potuto semplicemente attenderle al limite delle acque territoriali, chiedere il diritto d’ispezione e salire a bordo. Poi, attrezzare i controlli allo sbarco. Invece?
Invece 9-19 morti (le fonti discordano), botte e maltrattamenti per i partecipanti alla missione: botte e maltrattamenti gratuiti, senza un perché. La ragione?
Ricordare al mondo che Israele non rispetta le leggi internazionali, se ne fa un baffo delle risoluzioni ONU 242 del 1967 e 338 del 1973, le quali intimavano a Tel Aviv la riconsegna di quei territori. Invece, dritti come un fuso verso il “Bantustan” medio-orientale.
Far saper che le accuse di genocidio portate da Goldstone (che è ebreo!) nel rapporto ONU su Gaza non verranno mai prese in considerazione, anche se sono un documento ufficiale delle nazioni Unite. Per molto meno, proprio in Oriente, sono state scatenate tempeste di bombe “marca ONU” niente male.
E potremmo continuare.
Anche la pretestuosa manfrina dei razzi di Hamas, perde valore perché è solo Israele il responsabile di quella situazione: se solo avesse rispettato le risoluzioni ONU, oggi non ci sarebbero i razzi di Hamas (peraltro, partiti all’indomani del blocco di Gaza, altra azione illegale e condannata dalle Nazioni Unite).
Per questa sequenza di ragioni, le posizioni filo-israeliane odierne non possono essere qui accettate, poiché tradiscono i valori etici sopra esposti.
Ciò non significa sposare un acritico pan-arabismo, che qui non ha mai messo piede: le discussioni serie, qui gradite, riguardano il modo di superare le impasse – ossia: due stati? un solo stato? in quale scenario del post colonialismo europeo? ecc - ma niente che possa giustificare l’azione israeliana di questi giorni.
Proprio perché l’ABC l’abbiamo superato da un pezzo, non caschiamo nell’errore di ripartire ogni volta da capo per far piacere a qualcuno il quale, in definitiva, vuol solo far perdere del tempo.
Perciò, in data 6 Giugno 2010, l’editto è stato promulgato e, per il futuro, ad ogni “sbarco dagli elicotteri” sul blog risponderò o ignorando, oppure muovendo un tank: costa meno fatica a me, cancellare, che ad altri scrivere.

04 giugno 2010

Più schifo di così, è impossibile fare

Invito i lettori a guardare lo sconcertante, sconvolgente, schifoso video realizzato in Israele per “commemorare” l’assalto alla Freedom Flotilla.
Questo è il link:

http://tv.repubblica.it/copertina/gaffe-del-governo-israeliano-video-farsa-sul-blitz-inviato-ai-media/48347?video


Intitolato “We con the World” (Noi inganniamo il mondo), il video è stato diffuso – adesso dicono “per errore” – dal governo israeliano ed inviato alle redazioni dei principali media planetari.
La mancanza di rispetto per le vittime si sposa perfettamente con la boria israeliana di considerare tutti i goim una razza inferiore.
Si vergognino di esistere: aspettiamo, crediamo inutilmente, una protesta ufficiale del Governo Italiano.
Nirenstein, dove sei? Commenta!

01 giugno 2010

Tutto può succedere. O niente.

L’attacco alla Freedom Flotilla dello scorso 31 Maggio, è parso a molti come una boa senza ritorno, qualcosa che potrebbe scardinare gli attuali equilibri nell’area. Oppure che, passata l’indignazione, tutto rimarrà come prima.
Sinceramente, il mio sesto senso sta raccontando che la seconda ipotesi è la più plausibile, almeno per quel che riguarda gli aspetti esteriori, soprattutto per quelli di stampo militare. Un po’ diversa la situazione, invece, in ambito politico e, soprattutto, mediatico.

L’aspetto giuridico

Secondo la Conferenza di Ginevra del 1958, il limite nel quale uno Stato può esercitare il controllo sui natanti che vi transitano è di 12 miglia nautiche, circa 23 Km. Chi esercita la giurisdizione sulla nave?

Il principio generale è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha nazionalità: lo Stato di bandiera o Stato nazionale ha diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale e esercita siffatto potere attraverso il comandante (considerato come organo dello Stato).

La successiva Conferenza di Montago Bay (1982) introdusse il concetto di mare territoriale (sempre 12 miglia), estendendo però il limite a 24 miglia (46 Km circa) – in quella che è definita zona contigua al mare territoriale, calcolato dalla linea dei capi, ossia dai segmenti che uniscono i capi della costa – ma solo per le seguenti attività:

a) prevenire la violazione delle proprie leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione;
b) reprimere le violazioni alle stesse leggi, qualora siano commesse sul suo territorio o nel suo mare territoriale.

Quali sono i casi nei quali una Marina può intervenire?

1) Acque internazionali. La nave pirata può essere catturata da qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive. Lo Stato nel cui territorio è in corso una guerra civile può visitare e catturare qualsiasi nave che si proponga di recare aiuto (in armi o armati) agli insorti;
2) Zona economica esclusiva. Lo Stato costiero può visitare e catturare navi e relativo carico per infrazioni alle proprie leggi sulla pesca o allo sfruttamento delle risorse sottomarine;
3) Mare territoriale. Rilevano i principi già analizzati del diritto di passaggio inoffensivo e della sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla nave.

Precisiamo che il conflitto arabo-israeliano non può rientrare nella casistica delle guerre civili, giacché i palestinesi non sono cittadini israeliani.
La materia è assai complessa (non tutti gli Stati hanno recepito in pieno i contenuti della Conferenza di Montago Bay), perciò consigliamo chi desiderasse approfondire l’argomento di visitare il collegamento in nota[1], dal quale è stato tratto il testo in corsivo.

Secondo le cronache inviate dai partecipanti alla missione della Freedom Flotilla[2], “L'attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia al largo della costa di Israele, in violazione del diritto internazionale”. Le fonti israeliane non hanno smentito, ossia non hanno affermato che le navi stessero attraversando aree sottoposte alla Conferenza di Ginevra del 1958 né altre aree che consentissero ad Israele qualsivoglia diritto ad intervenire per un’ispezione.

Siccome le navi della Freedom Flotilla battevano regolarmente la bandiera dei relativi Stati, il comportamento israeliano può essere circoscritto a tre eventi:

1) atto di pirateria;
2) guerra di corsa;
3) atto di guerra nei confronti dei Paesi di provenienza (bandiera) del naviglio in oggetto.

I casi 1 e 2 non possono essere presi in considerazione, giacché le navi assalitrici (israeliane) non battevano bandiera pirata e nemmeno possedevano una patente di corsa, consegnata loro dal relativo governo, nei confronti delle navi assalite.
Siccome le navi della Freedom Flotilla non avevano atteggiamento ostile, né avevano commesso atti di guerra nei confronti di chicchessia e neppure avevano attentato all’ecosistema marittimo, violando le norme relative alla conservazione degli ambienti marini la Marina Israeliana – ai sensi della normativa internazionale – ha commesso un atto di guerra nei confronti della Turchia, della Grecia e d’eventuali altre navi battenti altre bandiere.
Ai sensi della normativa internazionale, le nazioni assalite potrebbero rispondere con atti di guerra nei confronti dello Stato di Israele senza, per questo, essere accusate d’iniziare una guerra: l’atto israeliano consentirebbe loro la semplice difesa.

L’aspetto mediatico

L’assalto alla Freedom Flotilla è stata una sconfitta mediatica come mai se n’erano viste per l’apparato d’informazione israeliano: disinformativo o controinformativo che lo si voglia definire.
Interessante notare come una serie di personaggi, da Levy a Grossmann, fino al nostrano Lerner si siano smarcati da una difesa che non aveva più basi per reggere.
Rimangono sulla barricata le Nirenstein, ma questo è ovvio: se la suddivisione dell’intelligenza – per dirla con Cipolla – è una costante nella popolazione degli umani, il buon senso – per dirla con Cartesio – non fu distribuito da Dio in gran copia.
Diventa, quindi, interessante notare i “distinguo” dei commentatori “prudenti” – i quali hanno compreso che la falla fa acqua e non può essere tappata – dai pasdaran che tirano dritto come niente fosse.
Questi ultimi sono giunti al ridicolo.

Presentano bancarelle[3] multicolori dove, a Gaza, abbondano verdure d’ogni tipo: nessuno di noi, ovviamente, ha letto le statistiche di fonte ONU[4] nelle quali sono esposte le drammatiche condizioni di vita dei palestinesi nella striscia di Gaza, derivanti soprattutto dall’illegale embargo israeliano.
Costoro, in definitiva, offendono la nostra intelligenza: sarebbe come fotografare la vetrina di un autosalone zeppo di Jaguar, Bentley e Rolls-Royce a Roma e poi affermare che tutti gli italiani sono dei Paperoni.
Ehi, capataz pelato, fratello dell’editore “ammazzateli tutti”, non ti ho fornito una bella idea? Pensaci.

Poi, ci sono le disinformazioni più “tecniche”[5], dove vi fanno ascoltare l’accorato richiamo via radio di un ufficiale israeliano – a bordo della nave che poi assalirà la Freedom Flotilla – il quale pretende (ma insomma, questi pacifisti non vogliono proprio collaborare!) che le navi lo seguano in un porto israeliano. Dimenticando che, in acque internazionali, la richiesta si configura praticamente come guerra di corsa.
Noi, che ci siamo dilettati nel cercare di capire le stranezze di certi eventi storici – da Pearl Harbour ad Ustica, dal Tonchino all’11 Settembre – siamo stati tutti, ovviamente, completamente convinti dalle accorate richieste dell’ufficiale israeliano. Che, raccontano, era proprio in contatto radio con la Freedom Flotilla! Per quel che riguarda l’onere della prova, quel tizio poteva essere in uno studio televisivo a Tel Aviv e poteva parlare con il regista di là di un pannello di polistirolo.
La realtà, però, ha tagliato loro le ali.

Hanno dovuto ammettere che l’assalto è avvenuto in acque internazionali, mettendo in soffitta vecchi tentativi di ampliamento “unilaterale” delle acque territoriali: anche noi italiani potremmo ampliare unilateralmente, ad esempio, le nostre acque territoriali ad Ovest di 200 miglia. Bisognerebbe, però, sapere come la prenderebbero alla base militare francese di Tolone.
Perciò, l’informazione israeliana meno “de no antri” ha scelto l’altra strada: salvare l’icona di Shalit e dei terrificanti missili di Hamas, gettando a mare (sic!) la marina di Tzahal, l’insipienza di Barak e la sfingea inconcludenza di Netanyahu.
Ma, quella che appare come una semplice scelta redazionale, nasconde in realtà due diverse impostazioni politiche per il futuro.
Qual era il vero obiettivo?

L’aspetto politico

Il vero obiettivo dell’azione militare condotta il 31 Maggio 2010 (anniversario della battaglia dello Jutland!) era la Turchia, ma non sul piano geopolitico (ossia intesa nella sua interezza): l’esito atteso era quello di far saltare gli equilibri interni turchi.
Per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro.

Per riuscire a traghettare l’Impero Ottomano verso la moderna Turchia, Mustafà Kemal (detto Ataturk) dovette cedere l’arbitrato del suo impianto costituzionale alla casta militare. In altre parole, dal 1923 in poi, furono i militari a reggere – in pratica – il timone della politica turca.
Una reggenza a volte discreta, altre pesante, come dimostrano i colpi di stato del 1960, 1971 e 1980, ma non è probabilmente coerente chiamare “colpi di stato” le ingerenze dei militari nella vita politica turca, giacché quel diritto – che può essere inteso come una sorta di “veto” quando essi ritengano che la politica turca si discosti troppo dai loro piani – fu riconosciuto proprio da Ataturk. Al punto che la tribuna centrale del parlamento turco era riservata proprio ai militari: osservatori silenti (ma non troppo) di tutte le vicende legislative della Turchia moderna.

Ovvio che questo impianto non potrebbe mai essere accettato all’interno dell’Unione Europea – come non potrebbe mai essere accettato uno Stato come Israele, addirittura privo di una Costituzione – ed il compito del partito islamico moderato dei Gul e degli Erdogan è proprio questo: riportare l’esercito all’interno dei confini “naturali” stabiliti da tempo in Europa.
Chi, in Turchia, aveva solidi rapporti con Israele?
Il perno della “strana alleanza”, fra il più popoloso paese musulmano del Mediterraneo e la “controparte” ebraica, ruota (anzi, oramai potremmo dire “ruotava”) proprio sulle collaborazioni in campo militare, le manovre congiunte, ecc. In pratica, con questa impostazione forse un po’ bislacca ma in qualche modo funzionale, Israele manteneva un piede nella staffa NATO, poiché la Turchia è da sempre il “baluardo” ad Est dell’Alleanza Atlantica.

La nuova politica di Erdogan – si veda, come prodromo della situazione di questi giorni, il mio “Solimano guarda verso Est[6] – mette ovviamente in crisi i rapporti fra la casta militare ed Israele indebolendo, contemporaneamente, i militari all’interno e l’alleanza sul piano internazionale.
In fin dei conti, potremmo quasi affermare che l’attacco alle navi della Freedom Flotilla sia stato una “scialuppa di salvataggio” lanciata ai militari turchi, per compiere quel “quarto colpo di stato” che avrebbe riportato la politica turca su un binario più gradito a Tel Aviv. Difatti, Erdogan torna precipitosamente in Turchia dall’America del Sud (dov’era in visita) e s’affretta a cavalcare politicamente uno sfrenato antisionismo, unica sua “assicurazione” contro le mire dei militari. I quali, osservando che la popolazione è schierata all’unisono con il partito islamico, si trovano depotenziati ad agire.

E, questo, corrisponde in pieno con le due “anime” dell’informazione israeliana: quella rozza, che considerava un gioco da ragazzi scatenare la reazione interna dei militari turchi, e che oggi continua ad affossare Israele sul piano internazionale. La quale, però – contemporaneamente – riesce a “parlare” a quella parte del sionismo estremo a fini interni israeliani: giustificando l’ingiustificabile, continua a legare al carro del Likud i partiti estremisti dell’ortodossia ebraica.
Se, invece, preferite un approccio meno legato ad Ezechiele e desiderate fare un po’ di Kippur per le vittime innocenti, è pronta l’altra campana – Grossmann, Levy, Lerner, ecc – i quali (essendo più intelligenti della focosa Nirenstein) hanno subito compreso che l’operazione era miseramente fallita e tentano – con una buona dose di cenere fra i capelli – di salvare almeno il salvabile, ossia che Hamas è un’organizzazione terrorista, la quale governa “illegalmente” Gaza (ma non aveva vinto le elezioni?), i terrificanti razzi palestinesi, il soldato Shalit, ecc. Leggete i loro articoli: grondano pentimento e salvatio, salvezza per quel poco che tentano di salvare.

A questi signori, imbellettati di tanto ardore democratico, poniamo una domanda che può apparire tecnica, mentre è invece profondamente politica.
Perché mai, le navi israeliane – se desideravano mantenere il blocco di Gaza – non hanno fermato il convoglio appena fosse entrato nelle acque territoriali (sedicenti) israeliane – 23 km da terra, mica sulla spiaggia – per chiedere, con tutti i crismi della legalità internazionale marittima, un’ispezione?
Vista l’ora dell’attacco e la rotta del convoglio, le navi della Freedom Flotilla avrebbero varcato la soglia delle 12 miglia nautiche all’alba: cosa ben diversa rispetto alla notte, come chiunque abbia navigato ben sa. La notte, in mare, ogni tappo di sughero si trasforma nell’Olandese Volante.
Se l’avessero fatto, nessuno avrebbe messo in dubbio il diritto israeliano d’ispezione: alla luce del sole in tutti i sensi, temporale e giuridico.
Invece?

Invece, si scende dalle funi con gli elicotteri in hovering sopra delle navi mercantili, dove la gente sta dormendo – durante “l’ora del lupo”, fra le 3 e le 4 di notte – per poi poter dire che ci sono state reazioni violente, ma le uniche dichiarazioni delle prime ore sono quelle israeliane. Quelle di una forza navale che sequestra ed imprigiona senza motivo centinaia di persone di svariate nazionalità!
Spieghino, gli illustri giornalisti di nazionalità israeliana o di provata “amicizia” per lo Stato d’Israele, le motivazioni di quella scelta, che è incomprensibile proprio alla luce del diritto marittimo e del buon senso: a meno che – come sopra ricordavamo – i “destinatari” di tanto clamore fossero pochi personaggi con molte stellette sulle uniformi, che attendevano un centinaio di miglia a Nord, con i piedi ben piantati sulla terraferma. I quali, hanno glissato. Qui, si apre l’altro scenario, quello militare.

L’aspetto militare

Israele ha smarrito l’icona di terrifica potenza militare nella campagna libanese del 2006, e non l’ha più ritrovata. Si limitano a bombardare ed a vessare la popolazione civile di Gaza, ma finiscono per mostrare al mondo la loro deprimente impotenza.
Perché affermiamo ciò?
Poiché se, nel 2006, Israele fosse stato la potenza militare tanto osannata, le colonne corazzate di Tzahal avrebbero dovuto innestare la marcia in Galilea e frenare nel centro dei Beirut. In realtà, non giunsero nemmeno a varcare il Litani, lasciando sul campo circa il 10% dei mezzi corazzati.
A cosa fu dovuta quella sconfitta?

Al deprimente pressappochismo dei suoi generali ed ai mezzi tecnici del nemico.
I carri israeliani furono fermati da un nuovo tipo di lanciarazzi russo a doppia carica: il primo razzo provocava lo scoppio della corazza reattiva[7], mentre il secondo penetrava il carro. Successivamente, ci furono le proteste israeliane a Mosca, ma i russi risposero con il classico “pippa”.
Ancor più significativo fu il danneggiamento o l’affondamento (ha scarsa importanza) d’alcune unità navali israeliane, ad opera dei missili antinave lanciati da Hezbollah. Qui, è necessario un approfondimento.

Un missile non colpisce per traiettoria balistica (a differenza di un razzo), bensì perché l’elettronica di cui dispone – in volo od a terra – gli consente di “trovare” da solo il bersaglio. Ovviamente, la nave tenterà di confondere il missile inviando falsi segnali ed “oscurando” la propria posizione: in gergo tecnico, queste operazioni si chiamano ECM od ECCM, ossia contromisure elettroniche e contro-contromisure elettroniche.
Come probabilmente avrete capito, si tratta di una partita a scacchi elettronica, nella quale ciascuno dei due contendenti cerca di confondere l’avversario: potete aggiungere tutti i “contro” che desiderate.

I missili giunti sui bersagli, però, testimoniarono che l’elettronica di Hezbollah (di provenienza siriana, quindi iraniana, in definitiva software indiano o russo) ebbe la meglio su quella israeliana, di provenienza USA. Ciò allarmò, e parecchio, le alte sfere militari, di qua e di là dell’Oceano Atlantico. Mesi dopo fu programmata ed eseguita una ricognizione armata sul territorio siriano, molto probabilmente per “catturare” segnali elettronici, più che per colpire chicchessia.
Dal 2006 – nonostante le roboanti minacce all’Iran – Tzahal se n’è stato ben compreso nei suoi confini: al più, esercitano una sorta di “caccia alla volpe” sui civili palestinesi, ad esclusivo uso della propaganda interna.
Perché Israele non ha deciso – quando ancora era in carica Bush – di bombardare i siti nucleari iraniani?

Semplicemente, perché non era e non è in grado di farlo.
In tutti i casi, gli F-15 con la stella di David dovrebbero inoltrarsi per centinaia di chilometri sul territorio o sul mare nemico, e non sono in grado di farlo. Troppo rischioso, perché l’Iran non è certo Hamas. Troppo lontano, per non rischiare fiaschi ancora peggiori. Troppo pericoloso anche per scatenare Armagheddon, giacché all’attacco nucleare israeliano – i quali, ritengo, non avrebbero remore ad attuarlo – subirebbe il contrattacco con testate biologiche dall’Iran, mentre i missili Iskander siriani “ombreggiano” già oggi i siti nucleari israeliani, compresa la centrale di Dimona.
La vecchia definizione di “tigre di carta” – in fin dei conti – ben s’adatta: ciò non ha condotto certo i militari turchi a lanciarsi nella carica. Più probabilmente, li ha consigliati di ringuainare le sciabole.

Conclusioni

Quello che sta avvenendo, è soltanto la disperata ritorsione di un imperialista mancato, il quale osserva passare il tempo e, con esso, vede ogni giorno scemare le possibilità di raggiungere i suoi obiettivi di potenza, la Eretz Israel tanto agognata.
Lo stesso Olmert giunse a dire, nel Settembre del 2008, che:

“Grande Israele è finita. Essa non esiste. Chi parla in questo modo si auto-illude.”[8]

Purtroppo, dalle le treccine nere che spuntano dalle tese dei cappelli a Gerusalemme – fino alle treccine rosse di qualche giornalista nostrana – pare che la sordità stia dilagando. Consiglieremmo un buon otorinolaringoiatra: prima che sia troppo tardi e che la sordità, inesorabilmente, avanzi.

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