29 novembre 2019

Cambiare materiali, filosofie di progetto o modello?


Con l’Autunno, è arrivata la solita sequenza di disgrazie meteorologiche: in fin dei conti, è piovuto quattro giorni di seguito, e quattro giorni di pioggia sono bastati per mettere in crisi il sistema di trasporto italiano.

Una parte di responsabilità l’hanno, ovviamente, i mutamenti climatici in atto, basti pensare che, nel 2018, la temperatura massima del Mar Tirreno giunse a 26°, mentre nel 2019 è giunta a 29°, l’Adriatico a 30°.
Come se non bastasse, s’approfondisce lo strato di acqua che si riscalda – separata dal cosiddetto “termoclino”, che le divide dalle acque di fondo, che rimangono sempre alla massima densità di 4° – il problema è che mentre, prima, il termoclino s’assestava intorno ai dieci metri di profondità, oggi arriva a venti, il doppio.

La quantità di energia che le acque marine contengono, al termine della stagione estiva, è incommensurabile: sono quantità paragonabili a circa 50 volte il consumo elettrico annuo nazionale!
Si dà il caso che questa energia sia destinata a giungere in atmosfera con la fase di omotermia invernale, e allora osserviamo – come nel 2018 – i cicloni oppure, come nel 2019, le piogge “monsoniche”, che devastano il territorio.
In altre parole, l’energia può avventarsi col vento ed aumentarne la velocità, oppure sorreggere i fronti ciclonici e sommergerci con le acque.
In un modo o nell’altro, e qualunque sia la ragione, dobbiamo farci i conti.

L’altro problema, riguarda la specificità del territorio italiano.
Fatta salva la situazione della Pianura Padana – che deve, comunque, fare i conti con le bizzarrie dei vari fiumi che scendono dalle Alpi – il resto del territorio è tutto collinoso o montagnoso, salvo qualche modesta pianura costiera. Molto diversa dalla situazione francese – che ha solo montagne importanti al centro – da quella tedesca – tutta compresa fra la valle del Reno ed i lontani Carpazi – quella spagnola la quale, a parte la Catalogna, è quasi tutta un altopiano senza grandi rilievi o quella inglese, che – Scozia a parte (ma scarsamente abitata) – non possiede rilievi importanti.
Di più, l’Italia deve fare i conti con un’attività sismica costante e devastante, che ogni due per tre ci mostra segni di distruzione, per vite umane ed ambiente.
Come può essere armonizzato un simile territorio con il problema dei trasporti?

Tutte le linee di trasporto che corrono via terra sono suscettibili di danni, da parte delle piogge, dei cicloni o dei terremoti, sia per l’aspetto viario che per quello ferroviario.
Germania, Scandinavia, Gran Bretagna, Europa dell’Est, Francia e Spagna (salvo l’Andalusia meridionale) sono zone non sismiche, e non si ha notizia storica di un terremoto come quello di Amatrice in tutta l’Europa del centro-Nord, dell’Ovest e dell’Est. Al contrario, Italia, Grecia ed ex Jugoslavia sono bersagliate quasi ogni anno dai sismi, talvolta devastanti. Oggi è toccato all’Albania.
Fare presente in sede europea che la situazione italiana è veramente speciale, per rischi e continue spese di riparazione è giusto e necessario,  ma non risolve il problema, che ha una soluzione limpida…come l’acqua. Di mare.

I nostri avi non avevano i mezzi per costruire una rete autostradale, ma finché durò l’Impero Romano le navi – che navigavano solo da Marzo ad Ottobre per editto imperiale – rifornivano e commerciavano con ogni parte dell’Impero: le lunghe strade consolari non venivano usate per trasporti onerosi su lunghe distanze, bensì per il traffico dei militari o per i corrieri veloci. Dopo, Genova, Pisa, Venezia ed Amalfi continuarono la tradizione di trasportare sull’acqua, una tradizione che durò fino all’avvento della ferrovia.

Per questa ragione l’Italia è ricca di una tradizione marinara quasi ineguagliabile in Europa, basti pensare alla lista dei porti minori e maggiori:

Imperia, Savona, La Spezia, Piombino, Porto Ercole, Civitavecchia, Salerno, Augusta, Reggio Calabria, Gela, Porto Empedocle, Trapani, Olbia, Porto Torres, Alghero, Oristano, Crotone, Taranto, Otranto, Molfetta, Termoli, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Ancona, Porto Garibaldi, Chioggia, Caorle, Grado…ad essi vanno aggiunti, ovviamente, i grandi porti: Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Cagliari, Brindisi, Bari, Venezia e Trieste.

Tutto questo, ci racconta una realtà inequivocabile: quasi ovunque, in Italia, si trasportava via mare.
Ebbi un’esperienza illuminante ad Umag (Croazia) alcuni anni or sono: il porto di Umag è abbastanza grande e non molto utilizzato però, fuori del porto, c’era un solitario e modesto molo con una gru. A cosa serve? Chiesi.
Ah, niente… – mi fu risposto – era ai tempi di Tito…sa, allora le merci arrivavano tutte via mare…
A ben pensarci, era il modo più semplice di rifornire e trasportare le merci sul lunghissimo litorale dalmata, che comprende circa 900 isole, 100 delle quali abitate. E chi lo aveva inventato quel sistema? I Veneziani!

E’ pur vero che le grandi città sono distanti dal mare, ma ciò non toglie che si possa rifornirle via ferrovia o via canale, se qualcuno si decidesse a costruirli: la tanto vituperata Europa ci ha offerto un miliardo di euro, sui due complessivi, per terminare il canale che collegherebbe Milano al Mar Adriatico, ma l’ultimo presidente di Regione che se n’è occupato – Roberto Maroni – non ha saputo far altro che creare un “tavolo di discussione”. Saranno ancora là che giocano a scopone.

Si è parlato molto, e a proposito, della svendita del sistema autostradale pubblico, che ha privato l’ANAS (e, dunque, la collettività) di un cespite di ricchezza sicuro e continuo, quasi regalato ai privati.
Ora, che il sistema autostradale è molto anziano – dopo circa sessant’anni dalla sua creazione – riprendersi le autostrade sarebbe il più bel regalo che si potrebbe fare ai Gavio ed ai Benetton, ossia togliere loro la concessione. Si potrà anche togliergliela ma – riflettiamo – oggi siamo di fronte ad un momento critico: la rete autostradale (oltre alle strade di grande scorrimento) sta giungendo al collasso. Dal 2014, Benetton già sapeva che il ponte Morandi era a rischio di crollo, ma non fece nulla per evitarlo. Rimetterlo nelle mani dello Stato – pur giusto per come l’hanno trattato –  non sarebbe conveniente perché bisognerebbe immediatamente varare una serie d’interventi dai costi astronomici. E loro, zitti zitti, se la sono goduta fino ad oggi. Se, oggi, decidessimo di riprendere il sistema autostradale in mani pubbliche, dovremmo inserire in Costituzione una norma che impedisca, dopodomani, di darle in appalto nuovamente.

Perché tutto questo?
In parte per un naturale deterioramento dei manufatti, dall’altra per la scelta del cemento al posto dell’acciaio, ma anche per il volume dei traffici, che sono diventati astronomici: tutti noi, che abbiamo transitato sul ponte di Genova, avvertivamo scosse ogni circa 50 metri e, se avevamo davanti un camion, lo vedevamo sobbalzare sulle barre di ferro che rinforzavano la carreggiata.
Il sistema autostradale italiano è stato costruito per le automobili: all’epoca, circolavano anche i camion, ma non nella misura attuale e né nelle dimensioni.
Dobbiamo riflettere che sistema autostradale, quando fu progettato – fra gli anni ’50 e quelli ’60 – non conosceva ancora l’autosnodato! Il quale entrò in scena soltanto verso la fine degli anni ’60 ma non nei termini odierni: i grandi e pesanti trasporti sulle lunghe tratte, avvenivano per ferrovia! 

Attualmente, un autoarticolato pesa, a pieno carico, 44 tonnellate, ossia quanto 44 automobili, ma il problema non è che “un camion vale 44 macchine”, non è questo il problema. Il vero problema è che l’autoarticolato ha un peso per asse massimo di 9,5 tonnellate, ossia è come se passassero, in brevissimo tempo, cinque automobili da 9,5 tonnellate ciascuna, quando un’automobile pesa all’incirca una sola tonnellata e, dunque, mezza tonnellata per asse. Il “tu-tun” che avvertite sui viadotti, vale mezza tonnellata per le auto e 9,5 tonnellate per l’autosnodato.
Lo stress al quale sono sottoposte le strutture è evidente: un martellamento continuo, indifferente al tempo, alle stagioni ed al clima, che disarticola le strutture portanti. Difatti, per i carri ferroviari – che hanno un peso per asse che varia dalle 16 alle 22,5 tonnellate (non molto distante dalle 9,5 di una autoarticolato) – si prevede una strada ferrata appositamente costruita. Invece, 9,5 tonnellate “in continuo” sono considerate una “normalità”. La corruzione e i falsi report “consolatori” redatti dagli ingegneri collusi, hanno poi fatto il resto: difatti, Gavio finanzia la fondazione di Renzi mentre Benetton quella di Toti.

La scelta del cemento, infine, ha fatto il peggio: all’epoca di costruzione del sistema autostradale l’Italia non aveva una sufficiente produzione d’acciaio – difatti, si costruirono ben 4 grandi centri siderurgici e Gioia Tauro doveva diventare il quinto – e lo stesso ing. Morandi che costruì il ponte di Genova era perplesso sulla durata del manufatto, che non prevedeva oltre i cinquant’anni. Ma l’acciaio non c’era e, inoltre, era costoso: l’industria automobilistica si accaparrava la produzione nazionale e lo importava anche da altri Paesi.
Solo per citare un esempio, il ponte di Brooklyn – in acciaio e granito – è in piedi dal 1883 e sta benissimo.

Se vogliamo essere impietosi verso quelle classi politiche, dobbiamo ricordare che il primo, enorme, allucinante fallimento fu la Salerno-Reggio Calabria, del quale nessuno se ne assunse la paternità. Lasciando per un attimo stare gli evidenti episodi corruttivi che ci furono, dobbiamo riconoscere che l’uso del cemento armato fu messo a dura prova nello scenario più difficile che ci fosse nel Paese (Sila ed Aspromonte) – per l’ardire delle costruzioni e l’evidenza del territorio impervio, più la scarsa “tenuta” delle rocce e dei sedimenti in genere – portò ad un fallimento epocale, che ancora oggi non ha trovato soluzione. Lo Stato s’è arreso togliendo il pedaggio sulla tratta: non costa niente, arrangiatevi.

Oggi, è inutile che uomini politici come il Presidente della Liguria – Toti – faccia il verginello, affermando che senza autostrade il porto di Genova non può continuare a smaltire 4.000 TIR il giorno: inoltre, già che c’era, ha accettato anche i nuovi sbarchi di Vado Ligure, altri 800 TIR il giorno della Maersk da sistemare, senza più autostrade. Ma Toti conosceva la situazione, sapeva che il crollo del Ponte Morandi era stato solo il campanello d’allarme di una situazione che stava degenerando.

L’Ing. Paolo Forzano, di Savona, da mesi aveva denunciato lo stato di degrado dei piloni autostradali liguri, presentando esposti alla Procura savonese, dei quali non si conoscono gli esiti.
Non si tratta della scoperta dell’ignoto, bensì soltanto del naturale degrado del cemento armato, che ha una durata di 40-60 anni. Se ci aggiungiamo un po’ di corruzione negli appalti e nei materiali, ancora meno.
Perché è evidente che con i falsi rapporti non si può andare avanti, e nemmeno nascondere la testa nella sabbia è la miglior soluzione, parafrasando Lenin, non ci resta che porci l’annosa domanda: che fare?
Abbiamo di fronte tre strade:

1) Ricostruire gran parte dei tracciati autostradali: le autostrade liguri – tutte – per uno sviluppo di centinaia di Km e per un costo di molte decine, forse centinaia di miliardi. Si tratta, “semplicemente”, di sostituire i viadotti in cemento con corrispondenti viadotti in acciaio: non ho idea, oltre ai costi, ai tempi necessari per una simile impresa. Anche l’autostrada adriatica mostra i primi segni di degrado: è soltanto un po’ “indietro” il livello di usura. E poi c’è la Salerno-Reggio Calabria l’eterna incompiuta. E manca sempre l’autostrada ionica, che dovrebbe congiungere Reggio Calabria con Taranto. Come potremo mai far fronte ad una simile impresa? Con i lacci ed i laccioli che l’UE pone per gli interventi dello Stato nell’economia?

2) Tornare al cabotaggio costiero, ossia le grandi portacontainer oceaniche dovranno smistare i loro carichi su navi più piccole, le quali potrebbero essere dirette sulla portualità minore e maggiore, in Italia ed all’estero: non sarebbe poi così difficile inviare le navi a Barcellona, Valencia, ecc…oppure a Napoli, Bari, Livorno…più tutta la portualità minore. Per attuare un simile progetto abbiamo a disposizione Fincantieri, una delle massime espressioni mondiali della cantieristica: un solo neo…è una società pubblica che genera ricchezza e dividendi azionari…insomma, l’evidenza che il pubblico, a volte, funziona meglio del privato. E questo no, non piace proprio.
Per lo smistamento dei container, oggi c’è il sistema informatico Maersk collegato alle gru, in grado di “pescare” i singoli container con precisione nel carico della nave maggiore e condurli ad un’altra utenza. Basterebbe sostituire i camion con le navi minori. Attrezzare i porti minori con qualche nuova gru non sarebbe nemmeno paragonabile, come costo, al rinnovamento del sistema autostradale.
Il sistema autostradale – rivisto e corretto laddove ci sono i problemi maggiori – potrebbe continuare a funzionare per il traffico leggero, ovvero automobili e per il traffico merci minore: la differenza, rispetto a prima, è che non dovrebbe più essere sottoposto allo stress di migliaia di camion pesanti il giorno.
Per catalizzare il traffico verso il mare, sarebbe opportuno aumentare i pedaggi autostradali per i TIR e riversare, l’importo, come sgravio sui porti e sulle navi minori: questo perché, lo Stato, deve accollarsi una spesa occulta, quella della manutenzione del sistema autostradale, che i grossi pesi concorrono ad aumentare. Lo dico, ovviamente, per ricordare che se non lo fa lo Stato non lo fa nessuno: i privati si mettono i soldi in tasca e, all’occorrenza, scappano.

3) La ferrovia, in Italia, è negletta e dimenticata. Nei parchi merci arruginiscono capannoni e gru mentre la direzione delle FFSS è soltanto diretta a fare concorrenza ad Alitalia sulle tratte veloci: Frecciarossa! Frecciabianca! Frecciargento! A cosa serve?
A trascurare proprio dove servirebbero le Ferrovie, ossia nelle tratte merci minori e nei servizi all’utenza, con il bel risultato di sottrarre commesse ad Alitalia, che è in crisi. Mi domando se ci siamo ancora col cervello.
Una volta giunte in porto – sia dalle grandi portacontainer, e sia dalle navi minori – la ferrovia, ed anche gli autosnodati, dovrebbero occuparsi della consegna sulle tratte brevi.
Questo era l’obiettivo europeo da raggiungere nel decennio 2000-2010! “Solo le tratte inferiori ai 50 km dovrebbero essere di competenza del traffico su gomma”. Non lo dico io, lo dissero loro in un documento ufficiale!
Poi, iniziò la grande dismissione delle tratte minori, la soppressione delle linee e, contemporaneamente…il grande assalto (vedi TAV) alle tratte veloci internazionali. Follia pura, capitanata e gestita da Mauro Moretti, il quale dichiarò che “Il settore delle merci nelle Ferrovie dello Stato era identico a quello del 1905 come se i camion non fossero mai esistiti…”, poi condannato a 7 anni di prigione per la strage di Viareggio ed oggi sindaco in attesa che la Cassazione si pronunci.
Nell’attesa, il settore merci delle FFSS è stato demolito, a tutto vantaggio dei camion, che oggi esistono, vero Moretti? Ma guarda un po’.

Un grande problema, in Italia, sono le strade minori, soprattutto le strade provinciali che sono circa il 75% delle tratte: abolite le Province, hanno abolito anche le strade. Ci doveva essere anche una puntuale e precisa ridistribuzione dei compiti e dei finanziamenti…ma…osservando le strade, nello stato in cui sono, vi fate un’idea di com’è andata la faccenda?

Inoltre, i tracciati sono vecchi di secoli, ossia le attuali strade sono in gran parte le “pronipoti” dei tracciati – decisi nei secoli della trazione animale – per collegare i centri abitati. Ciò, comportò all’epoca delle decisioni:
1) Non si potevano affrontare pendenze gravose, perché buoi e cavalli non ce l’avrebbero fatta.
2) Le strade non dovevano “invadere” troppo le proprietà private, e allora passavano sui confini della proprietà, per scontentare il meno possibile gli abitanti.
Questo, duplice problema condusse a strade tortuose e sempre con un bordo verso valle: proprio le sezioni che oggi cedono e franano e che ci obbligano ad una costosissima manutenzione. E ci si può fare ben poco: non certo caricarle del peso degli autosnodati, che aumentano ancora il problema!

Se avete viaggiato in Francia, in Gran Bretagna o in Germania, vi sarete accorti che le strade affrontano le colline (certo, non le montagne!) con angoli molto alti, ossia, le prendono “di petto”, con pendenze piuttosto accentuate, che i mezzi meccanici, oggi, possono affrontare. Ciò evita l’eterno pericolo di frane (a monte) e di cedimenti (a valle). Le montagne, poi, vengono attraversate, se possibile e conveniente, mediante gallerie, mentre fiumi e bracci di mare sono attraversati da ponti molto arditi in acciaio.

In Italia, probabilmente, si scelse la via meno onerosa – ossia utilizzare l’esistente – ma, per molti anni, vi furono Comuni, Province e le Case Cantoniere a pensarci: con l’abbandono di questi “costi” per la collettività, il risultato è che ha piovuto per quattro giorni, e la Liguria – ad esempio – ha quasi perso completamente il suo patrimonio viario, non essendo più in grado di garantire un collegamento sicuro col Piemonte e la Lombardia. L’unica autostrada ancora pienamente in efficienza è la vecchia A7, che risale al 1935! E lo è non solo perché (forse) all’epoca si costruisse meglio, ma perché si preferiva “seguire” il territorio (con molte curve) piuttosto che lanciarsi nel costruire viadotti.

L’annosa domanda – che fare? – posta sopra, qualche risposta l’ha avuta:
1) Dobbiamo eliminare, il più possibile, il traffico di mezzi pesanti da strade ed autostrade, per trasferirlo sul mare o sulla ferrovia per le medie tratte: il camion deve intervenire solo per le tratte fino a 50 km (lo sancì l’UE, nel suo documento citato, nel 2000, non me lo sono inventato io);
2) Dobbiamo mettere in cantiere una classe di navi di medie dimensioni, in grado di caricare/scaricare container nel sistema della portualità minore. Inoltre, dobbiamo attrezzare con i mezzi adatti una trentina di porti minori in tutta la Penisola;
3) La ferrovia deve smettere d’esser pensata come un mezzo in concorrenza con l’aereo. Può anche farlo, ma non a spese del suo compito precipuo: far viaggiare persone e merci sulle medie distanze.

Una soluzione al problema?
Non me lo sogno neppure. Passata l’emergenza, defluita l’acqua alta da Venezia, rabberciate le autostrade e le strade alla belle e meglio, i politici ricominceranno a guardare alle loro belle “fondazioni”, dalle quali mungono soldi in cambio dei “favori” che elargiscono a lor signori. Così si completerà il Mose e i viadotti torneranno a marcire, fino al prossimo “disastro”.
Non fatevi illusioni.

21 novembre 2019

ET sta arrivando

Non sono certo le mille fregnacce del governo e dell’opposizione a rendermi perplesso, e nemmeno le mille disgrazie economiche: previste, annunciate, poi scorporate, quindi riammesse…nel gran calderone della politica e dell’economia: si sta muovendo qualcosa di serio da tutt’altre parti.

La prima notizia è giunta dalla NASA, poche settimane or sono: d’ora in avanti, non vogliamo più sentir parlare di Oggetti Non Identificati in cielo…beh…consideriamoli come “elementi non censiti nelle aeronautiche terrestri” o qualcosa del genere, insomma, ci sono cose che volano in cielo che non sappiamo cosa siano. E non sono, sia chiaro, palloncini sfuggiti ai bambini al luna park né palloni aerostatici dispersi dai meteorologi: non possiamo dirvi chiaro e tondo che sono extraterrestri – perché, ad onor del vero, non lo sappiamo nemmeno noi (?) – però ‘sta roba può essere pericolosa per il traffico aereo, quindi – cari piloti – state accuorti.

La comunicazione della NASA giunge a proposito, perché – grazie alle mille diavolerie informatiche oggi possibili – nessuno prendeva più troppo sul serio i filmati degli UFO, giacché il sospetto veniva: questi, tanto per guadagnare contatti su Youtube, macchineranno chissà che cosa. Invece è proprio la NASA a dirlo: non sono roba nostra e ci sono veramente.
Aggiunge anche, a pochi giorni di distanza, che su Marte c’è acqua ed una quantità “interessante” di Ossigeno: partiamo?
La NASA è in vena di scherzare, oppure hanno ricevuto l’ordine di mettere una ciliegina in più sulla gran torta della comunicazione planetaria? Può essere, ma non sono mica i soli.

A giro di ruota, parla anche Padre Funes, (astronomo e professore di fisica all’Università del Salvador a Buenos Aires), gesuita ed ex direttore della Specola Vaticana – che è il centro di ricerca scientifica della Chiesa Cattolica, munito anche di un osservatorio astronomico – e sentite cosa dice:

“Gli Ufo sono oggetti reali le cui strutture, velocità e traiettorie, sono state sia fotografate, sia registrate dai radar. Quelle navi di lontani pianeti sono state più volte inseguite dai nostri aerei militari. Da due degli Osservatori, molte volte ho seguito le evoluzioni degli Ufo. Quasi sempre essi seguivano dei “satelliti” o i missili che li mettevano in orbita, ma sempre ad una certa distanza, come per non disturbarli con il loro campo magnetico. Quando i “satelliti” entrano nel cono d’ombra della Terra, essi spariscono; per contro, gli Ufo rimangono luminosi e cambiano generalmente rotta, e questo a velocità fantastiche. Una notte e senza dubbio per la prima volta al mondo, abbiamo seguito uno di essi al telescopio. Tutto ciò è assolutamente certo e controllato da tecnici”.

Qui, c’è poco da aggiungere, ma sono altre ancora le “rivelazioni” che fanno pensare.

Da qualche anno a questa parte, il maggior fenomeno editoriale italiano è quello di Mauro Biglino, lo studioso torinese che, traducendo letteralmente dall’antico ebraico la Biblia Hebraica Stuttgartensia, un testo masoretico contenuto nel cosiddetto Codice di Leningrado, ha “rivoluzionato” le nostre conoscenze dell’Antico Testamento (e parte del Nuovo).
Ovviamente, non ho alcuna competenza per giudicare il lavoro di Biglino, però le tesi contrarie al biblista torinese – ho notato – non sono così “virulente” come ci si potrebbe attendere. Soprattutto nei confronti di chi – bene o male – sostituisce Dio Padre con un extraterrestre un po’ bisbetico e parecchio arrogante!

Ma non basta ancora, perché – recentemente – ha pubblicato un nuovo libro nel quale va a “rivedere” anche il Nuovo Testamento, nel quale Gesù Cristo potrebbe non essere più un pescatore con la strana abitudine della parabola per ogni occasione, bensì un semidio che doveva riscattare il popolo ebraico dalle sue mille e una vicissitudini. Certo, da Dio dei Cristiani a semidio fallito per gli Ebrei, di acqua ce ne passa.
Per cercare di capirci qualcosa di più, non stiamo a disquisire sulle sottigliezze di una traduzione, ma osserviamo con franchezza ciò che la Scienza ci dice e le prove che porta per dimostrarle.

Sia Biglino e sia Geremia Sitchin, riportano che la vera Storia c’è stata negata nei suoi assiomi fondamentali, vale a dire per il dubbio sulle nostre origini: se la teoria creazionista richiedeva forzatamente la Fede per crederci, nemmeno l’evoluzionismo darwiniano ci spiega poi molto.
Sulle basi della teoria evoluzionista di Darwin non c’è nulla da obiettare: è ovvio che chi è dotato del miglior “corredo” per un determinato scenario, esce vincitore su chi era in possesso di un “corredo” – maggiore, minore, stupendo, fatiscente, ecc – ma inadatto ad interloquire con quello scenario.
Basti riflettere che chiunque di noi – Homo Sapiens Sapiens – dotato di conoscenze iperboliche rispetto a 100.000 anni fa, non sopravvivrebbe più di qualche giorno in quell’ambiente.

In buona sostanza, non verifichiamo i percorsi storici dall’analisi dei fatti, bensì dalla ricostruzione degli eventi operata mediante le nostre conoscenze attuali, senza considerare le mille differenze – culturali, scientifiche, economiche, spirituali, ecc – rispetto al periodo interessato. E adattiamo i tempi – inesorabilmente, anche se ci sforziamo di essere “clementi” con quei poveri ignoranti del tempo antico – ai nostri tempi, al massimo annacquandoli un pochino, e ci sembra sufficiente questa operazione misericordiosa per assolverli e, dunque, confermarci nel nostro ruolo d’infallibili tessitori delle trame della Storia. Un fenomeno che è definito non-contestualizzazione storica.

Operiamo un semplice esempio: l’ultima glaciazione terminò circa nel 10.000 a. C. Subito dopo vi fu un apocalittico scioglimento di ghiacci – dalle Alpi alla Scandinavia, mica un “allarme rosso” dei nostri giorni! – che, si ipotizza, terminò intorno al 9.600 a. C. Un po’ pochini 400 anni di alluvioni? Avvenne quello che fu ricordato in molte tradizioni come il “diluvio universale”? Non lo sappiamo con certezza, possiamo solo ipotizzare che parte del mondo euroasiatico, almeno dal 9.000 a. C., sia stato “agibile” per i nostri progenitori.

La piramide di Cheope fu costruita intorno al 2.600 a. C., Babilonia circa nel 2.000 a. C., ma se consideriamo la capitale dei Sumeri, Ur, giungiamo al 3.800 a. C., ossia a soli 5 millenni dallo scioglimento dei ghiacci!
Insomma, in un periodo di circa 5-7.000 anni l’umanità conosciuta dovette mettere assieme tutte le conoscenze per passare dal nomadismo alla sedentarietà: agricoltura, allevamento, metallurgia, trasporti, conservazione degli alimenti, scrittura, classi sociali, ecc. Ed avere tempo sufficiente per costruire (come, poi, è ancora un mistero) il manufatto più alto del Pianeta, che restò tale fino al 1.300 d. C., con la costruzione della guglia della cattedrale di Lincoln, in Inghilterra.  Può essere?

Chiediamo aiuto ad un bravo scrittore, Jared Diamond, per il suo bellissimo “Armi, Acciaio e Malattie”: ben scritto, ben costruito e ben bilanciato fra Scienza ed ipotesi scientifiche, laddove cerca proprio di dipingere i “movimenti” degli ultimi 9.000 anni.
Diamond “concede” poche migliaia di anni per la domesticazione delle piante e degli animali, per la metallurgia e tutto il resto. Ma noi, osservando i secoli più prossimi a noi – sui quali siamo meglio documentati – possiamo dire altrettanto sulla capacità umana di fare “presto e bene”?

I primi mulini ad acqua comparvero durante l’impero di Augusto, ma dopo? Quanto tempo ci volle per giungere ad una generale e diffusa macinazione dei cereali senza più ricorrere alla forza fisica, umana ed animale? Altri 1.000 anni.




Quanto ci volle per capire che la trazione animale era la metà di quella che si poteva trarre da un cavallo, se non si usava la “collana”, ossia un anello piuttosto spesso (fatto con cuoio e paglia all’interno) che appoggia sulle spalle dell’animale e non sul collo? Per millenni tutti legarono un cappio (non scorsoio! Fin qui c’arrivavano…) od una cinghia al collo dell’animale, che in questo modo faticava di più perché respirava male, ma solo poco prima del Rinascimento si comprese finalmente l’inghippo e si dotarono i cavalli della necessaria, nuova bardatura. Quel, all’apparenza, modesto artifizio raddoppiò la potenza trainante di tutti i cavalli da tiro e concorse parecchio allo sviluppo del Rinascimento: ma ci vollero migliaia d’anni.

Fenici, Greci, Romani e popolazioni medievali varie navigarono, ovunque: andarono nelle Americhe e fino in Oceania, ma solo nel tardo Settecento gli olandesi s’accorsero che i pennoni, se collegati all’albero per uno dei vertici invece che nella parte centrale, potevano ruotare, e dunque “raccogliere” il vento molto meglio dai quadranti al traverso e, addirittura, sfruttare venti che avevano un angolo con la prua (oggi, si arriva a circa 35° da prua): si poteva andare controvento! Finalmente!
Eppure, a poppa, i grandi velieri avevano spesso una modesta vela latina (più o meno come quelle inventate dagli olandesi) ma a nessuno passò per la mente d’espandere quel concetto. Migliaia di anni a remare controvento.


Vele olandesi di fine '700


Gli stessi motori automobilistici – ossia strumenti che sfruttano cicli chimici/termodinamici per trasmutarli in forza motrice – ci misero quasi tre secoli, dai primi esperimenti di trazione a vapore, per giungere agli affidabili motori a ciclo Otto: quasi trecento anni!


Ora, tornando a Diamond che immagina 5.000 anni come sufficienti per giungere da una società di cacciatori-raccoglitori ad una società stabile, stanziale, che si è data strutture affidabili in tutti i campi, al punto di poter meditare di costruire opere ciclopiche, vi sembra coerente?

Questo è un bell’esempio per comprendere ciò che intendevo all’inizio dell’articolo: “pensare all’evoluzione dei nostri antenati con la mentalità moderna” soprattutto per quanto concerne i tempi.

Diamond spiega che le aree di scelta delle sementi e delle piante da frutto erano, per forza, i cessi. Sì, i cessi del villaggio, ammettendo che gli antichi avessero aree adibite per i bisogni corporali e non la facessero dov’erano e senza preoccuparsi molto di chi passava lì vicino: d’altro canto, ancora nel Medio Evo, la facevano nel vaso e poi la buttavano dalla finestra. Ma, ricordiamo, che per giungere ad un villaggio con aree stabili per la deiezione, bisogna essere stanziali, e non nomadi. Quindi, una piccola difficoltà già all’inizio.

Cosa facevano i nostri antenati nelle aree di “scarico”?
Ovviamente – sempre seguendo l’ipotesi di Diamond – mentre la facevano, osservavano, non avendo ancora Topolino da sfogliare. E cosa notavano? Delle piante, cresciute in un humus molto ricco di principi nutritizi, che derivavano per forza da semi passati attraverso l’intestino – interi – e che avevano germinato.
Sorvoliamo sul fatto, già di per sé strano, che dei semi passassero indenni alla forte corrosione dell’acido cloridrico che abbiamo nello stomaco e mantenessero la capacità di germinare, come facevano a sapere quali erano da raccogliere e da seminare?
I più grossi, ovviamente.

Ma, quei semi – cresciuti in mezzo agli escrementi – godevano di una condizione privilegiata (ricchezza di nutrienti) che poteva migliorare il fenotipo, ma che non poteva influire minimamente sul genotipo!
Con questo “strano” metodo di selezione, si poteva verificare la “sorpresa”: ossia che seminati in campo aperto dessero dei risultati deludenti, perché il genotipo non era affatto cambiato, i semi s’erano soltanto trovati in un ambiente più propizio.

Oppure, dobbiamo sostenere che dei cacciatori-raccoglitori nomadi cogliessero dei semi di graminacee e li selezionassero scegliendo i più grossi, sapessero (e come avevano fatto a capirlo?) che dovevano metterli sotto terra – né troppo e né poco – aspettare molto tempo, ripassare da lì e verificare cosa era successo: un ragionamento perfetto per un uomo del nostro tempo, ma possiamo affermare che sicuramente le cose sono andate così? Per della gente che ammazzava qualsiasi cosa gli capitasse a tiro con asce e lance con la punta di pietra? Per le quali l’orizzonte temporale degli eventi era limitato al “qui e ora”, ossia giungere a fine giornata con la pancia, perlomeno, abbastanza piena?
No, nessuno è in grado di farlo.

Senza criminalizzare Diamond, sono soltanto ipotesi molto nebulose, anche se “dilatiamo” le possibili date di qualche millennio, se ammettiamo che giunsero prima all’allevamento del bestiame… non sono mille anni in più od in meno a fare la differenza.
Ricordiamoci che né i Greci e né i Romani s’accorsero che le bardature dei cavalli sottraeva loro la metà della forza da tiro dell’animale e che, per “provare” a variare il punto di collegamento dei pennoni delle vele, si giunse quasi all’Ottocento!
Insomma, i nostri antenati fecero un passo così complesso – che richiede conoscenze, anche empiriche, ma molto variegate – mentre i nostri avi più vicini a noi non furono in grado di provare, per secoli e secoli,  a collegare una vela in modo diverso?

Come potrete notare, si possono – parallelamente – costruire anche altre ipotesi: i primi reperti metallurgici ritrovati datano circa 5.500 anni prima di Cristo, perciò, prima, erano veramente cavoli amari andare a caccia con le punte di selce.
Finalmente, nel 5.500 a. C., grazie all’uso dei metalli la caccia diventa più proficua e quindi tutto prende una nuova accelerazione, impensata fino a quel momento…ma…tutto questo avviene solo 2.200 anni prima d’edificare la città di Ur e d’inventare la scrittura cuneiforme? 3.000 anni prima di costruire la piramide di Cheope (senza conoscere ancora il Ferro)? Sono sempre i tempi ad essere troppo “compressi”: già, oggi andiamo di fretta…

Se, invece, cerchiamo conforto negli abissi del tempo, c’è veramente poco da star allegri. Possiamo affermare che l’Homo Sapiens esiste da circa 200.000 anni, ma per il resto…gli antropologi ed i paleo-biologi si danno da fare, certo…ma è il “quadro” ad essere troppo distante nel tempo, dovendo ricavare tutto da frammenti di ossa e qualche raro utensile, sempre col dubbio che quel pezzo di pietra scheggiata sia capitato lì per caso, abbia una datazione differente…insomma, è un mestiere per gente che non si fa spaventare dai grattacapi, avendo di fronte il puzzle più complicato che possa esistere.

In fin dei conti, tutto si basa su poche centinaia di frammenti di crani e di ossa lunghe, mentre i crani completi non sono più di qualche decina, ad essere molto “larghi”. E, soprattutto, pochissimi indizi riguardanti gli aspetti culturali (caccia, altri alimenti, abitazioni, ecc)…ne consegue che le uniche prove certe sono le dimensioni, i volumi cranici e poco altro.



Basti pensare al rompicapo della convivenza nell’Africa Meridionale di due specie d’ominidi, l’Homo Abilis – che visse fra i 2,4 e 1,44 milioni di anni fa – e l’Homo Erectus – che visse fra 1,8 ed 1,3 milioni di anni fa.
Mentre l’Homo Abilis era abbastanza piccolo, sul metro, o poco di più, forse ancora quadrupede ed aveva una capacità cranica di circa 500 cm3, l’Homo Erectus aveva un’altezza quasi come la nostra, era bipede ed un volume cerebrale di circa 1.000 cm3 (Homo Sapiens 1.300 cm3), conosceva ed usava il fuoco e si presume avesse un embrione di vita sociale.
Due specie d’ominidi così diverse vissero negli stessi territori per 500.000 anni? E si estinsero quasi contemporaneamente?

Senza volerne nei confronti dei paleo-biologi, mi sembra piuttosto curioso che due specie così diverse siano riuscite a “sopportarsi” (ossia a non eliminare l’altra) per un periodo così lungo. E poi, quella strana estinzione contemporanea, mentre si era ancora lontani un milione di anni dall’Homo Sapiens?

Passiamo ora ad una storia di tecnologia più “digeribile”, che riguarda il calcolo automatico.
Ci furono parecchi studiosi che s’interessarono al calcolo automatico, fra i quali Pascal e Leibnitz, ma fino al 1790 non si uscì dal sistema della ruota ad ingranaggi, derivata dagli orologi, per quanto complessa essa fosse. Fu un ignaro progettista di telai per tessitura ad applicare la teoria del calcolo binario, ossia Joseph-Marie Jacquard che inventò il telaio automatico, a funzionamento ancora manuale, ma con il controllo dei movimenti affidato a schede perforate. Sì/No: vi ricorda qualcosa?



Telaio di Jacquard


Alcuni matematici più solerti d’altri – Charles Babbage ed Ada Lovelace (figlia del poeta Byron), ad esempio – compresero che il principio del calcolo binario sarebbe stato il futuro del calcolo automatico.
Passarono gli anni: quel che mancava era qualcosa che potesse leggere un codice acceso/spento in una sequenza: finalmente, nel 1946, gli USA ci riuscirono con ENIAC – il primo calcolatore elettronico generalmente accettato – che pesava “solo” 30 tonnellate, aveva 18.000 valvole termoioniche ed alla sua prima accensione assorbì così tanta energia da mandare in black-out la rete elettrica di Filadelfia.


ENIAC

Ma, nel 1948…scocca il fulmine! Finalmente, la Bell Technology inventa il primo transistor funzionante!
Da dove viene? I modelli precedentemente costruiti non funzionavano ed avevano dimensioni troppo grandi…dal transistor si passò poi ai bit e decollò l’informatica che oggi conosciamo.
Ma cosa successe nel 1948?
Niente d’importante…ma nel 1947 – si dice – qualcosa “piovve” su Roswell, un ameno paesino di campagna americano…qualcosa che nessuno riusciva a capire come funzionava…però, l’anno dopo William Shockley, il direttore del progetto della Bell, vinse il Nobel! Forse, da un pezzettino di materiale piovuto dal cielo – accomunandolo ai nostri studi “indigeni” – partì la grande rivoluzione?
E siamo giunti all’oggi.

Quel che mi stupisce non è la presenza o meno degli extraterrestri: operando un semplice calcolo probabilistico, è difficile che attorno ad una stella, fra miliardi di stelle della nostra galassia, non ci sia vita. E che, magari, siano più sviluppati di noi.
Fino ad ora, c’era un po’ di riserbo a parlarne, per non venir investiti da una slavina di reazioni che potremmo restringere ad un solo concetto: sei scemo? Allucinato? Visionario?
Adesso, però, abbiamo almeno due istituzioni – la Chiesa Cattolica e la NASA, ossia l’amministrazione USA, difficile pensare che non ci sia l’approvazione presidenziale – le quali ci dicono che gli extraterrestri esistono e, probabilmente, vivono accanto a noi.
In questo caso, cosa potrebbe succedere?

Per la NASA si tratta di una comunicazione che non coinvolge profondamente la struttura della società americana: in fin dei conti, si tratta soltanto di trasfondere ET da un film alla realtà. E notate la “prudenza” del comunicato “per le difficoltà che possono creare al traffico aereo”…e per la Chiesa Cattolica?
Qui si va a toccare nel vivo i punti fondanti di quella dottrina religiosa: se le rivelazioni di Biglino sono vere, tutto il castello crolla. Perché va bene che l’antico Dio degli ebrei fosse un extraterrestre, ma che Gesù Cristo fosse anch’egli un inviato da qualche lontana costellazione, non va tanto bene. Tutto l’alone di mistero e misticismo scompare, e con esso molti esegeti e filosofi della religione cattolica.
Fra l’altro – mi sono chiesto – considerando il potere della gerarchia vaticana, come mai Biglino sia stato lasciato libero di pubblicare quel che ha pubblicato: per molto meno, altra gente non ha potuto pubblicare nulla oppure, metaforicamente, è “sparita”.

In questo caso, potremmo azzardare che Biglino – che lavorò molti anni alle Edizioni San Paolo – sia stato più che “tollerato”: in fin dei conti, si tratta di spostare solo più in là il concetto di creazione, ossia siamo i “figli” di qualcuno che è stato creato. Difatti, il traduttore torinese traduce e basta: non si occupa di questioni filosofiche, non traccia sentenze in questo senso.

A meno che sia la NASA e sia il Vaticano siano stati costretti ad accettare, obtorto collo, ciò che qualcun altro imponeva. E, a questo punto, bisogna domandarci i motivi di questa accettazione.
Se si considerano valide le traduzioni di Biglino, gli “dei” extraterrestri si fecero vivi fino al 70 d. C., laddove c’è una cronaca riportata da Giuseppe Flavio (e confermata da Tacito) la quale racconta della “fuga” di “carri volanti” prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme, operata dai Romani proprio in quell’anno. C’è poi un’altra testimonianza, più o meno coeva, di Plinio il Vecchio che cita una “battaglia” fra “carri volanti” sopra l’Umbria. Dopo, più nulla.

Se ci hanno “dato una mano” nel corso della nostra evoluzione, ad un certo punto – probabilmente – ritennero che era giunta l’ora di cavarcela da soli, cosicché si nascosero e rimasero a guardare. Dopo il “trattamento” riservato a Gesù Cristo…
Qualcuno ritiene che siano in mezzo a noi, ma non abbiamo né prove né concrete ipotesi da portare per dimostrarlo.
Cosa può essere successo per obbligare il Vaticano e gli USA a “preparare” – in qualche modo – l’incontro ufficiale? Cos’avranno da dirci di così importante?

Beh…non è che la salute della Terra, negli ultimi decenni, sia stata tanto florida: dopo la Guerra del Golfo del 1991, è stato uno stillicidio di guerre e violenze infinite, che hanno contrapposto l’Oriente contro l’Occidente in maniera devastante. Decenni di guerre, sempre correndo sul filo del rasoio che una guerra più balzana delle altre conducesse ad uno scontro fatale, a qualcuno che premesse il bottone delle armi nucleari, sicuramente la fine dell’avventura umana.
Perché prima del 1945 ci ammazzavamo e basta, mentre dopo – e soprattutto senza più il bilanciamento USA/URSS delle armi nucleari – tutto può accadere.

E il clima? C’arroventiamo in dibattiti infiniti, in sofismi iperbolici, sotto ai quali c’è sempre un attore consueto a tirare le fila: il dio denaro. Non ci vorrebbe molto a dire, molto semplicemente: smettiamo di bruciare carbone, petrolio e rifiuti perché, oggi, abbiamo i mezzi per fare le stesse cose meglio ed in modo meno dirompente per l’ambiente? Invece, nessuno di noi conosce i destini ecologici di questo pianeta, però tutti si arrogano il diritto di farlo.
Io non ho certezze che l’equilibrio planetario sia in procinto di deflagrare, però penso che ricavare l’energia dal sole e dal vento sia più conveniente e sicuramente meno pericoloso del carbone e del petrolio: ad oggi, costa di meno che bruciare carbone e, nonostante Trump continui a provarci, le aziende termoelettriche a carbone stanno accumulando passivi iperbolici.

Non pensate che, dopo Greta, si voglia tirare in ballo ET (pagando uno scotto mica da poco, soprattutto per il Vaticano) per sostenere una tesi: piuttosto, provate a spiegarvi perché il Vaticano e gli USA ammettono l’esistenza degli extraterrestri sul nostro pianeta. Provate, perché l’hanno appena fatto.

13 novembre 2019

Per favore, mandateli in Africa con un barcone


Un tempo, quello che accadeva dopo disastri apocalittici come il fallimento del Mose di Venezia, seguiva un copione consueto: un uomo (o più uomini) chiudeva la porta del suo studio, apriva un cassetto, osservava per un attimo la pistola, controllava il tamburo poi, senza aspettare troppo, la portava alla tempia e premeva il grilletto.
Prima, s’era concesso le lacrime scrivendo l’ultima lettera alla moglie: “Cara, perdonami se ti ho fatto del male: ti ho sempre amata, dal primo giorno che ti vidi…” non andiamo avanti, lasciamo almeno il riserbo, per decenza, ad un uomo che prende una simile decisione, senza giudicare.

Abitudine che si è persa, da quando gli uomini non sono più uomini ma pagliacci, che si coprono di gloriuzza di fronte alle Tv ed alle truccatissime giornaliste, che rilasciano interviste in studi ovattati, in ville faraoniche per le quali sono stati, quasi sempre, condannati. E prescritti.

Mi chiedo con quale faccia il sindaco di Venezia – Brugnaro – chieda lo stato di “calamità naturale” per la sua città, quando la calamità naturale è che esistano persone del genere, come Brugnaro e, soprattutto, Galan e Zaia, che del Mose furono e sono i santi patroni, mentre san Marco, dai cieli, li fulminava con le acque per tanta insipienza.

Sappiamo tutti la ragione del disastro: acciaio di cacca, nessuna competenza, fiducia in persone perverse, sorrisi furbetti mentre si accettava una busta. Tutte abitudine apprese nella corrosione, giorno per giorno, anno dopo anno, dell’inutilità di fare le cose per bene e per tutti, meglio farle andar bene per sé, parandosi il sederino dietro a tutte le bandiere e gli stendardi. All’occorrenza, cambiarli se uno stendardo era corroso da troppi sospetti e sentenze.

Cosa si può fare, ora?
Buttare altri miliardi nei Mose – che sono due, quello del Lido e quello di Malamocco – e continuare come prima, a far mazzi e mazzette di critiche e dubbi, ma tirare avanti.
In cambio dello stato di calamità, per favore, chiamate l’ing. Johan Peter Killan che, nel 1984, progettò e costruì la grande diga sull’estuario della Schelda, che tuttora funziona benissimo e non ha mai dato problemi. Un’opera che, per essere costruita, necessitò d’affondare piloni alti come case di dieci piani ad una distanza di 25 cm l’uno dall’altro, che furono calati nei termini del progetto senza nessun errore.


La Diga sull'estuario della Schelda progettata da Killan nel 1984

Nel frattempo, sotterrate nei fondali quel contorto sistema fatto di ruggine e plastica che chiamano Mose, affinché san Marco non debba più vederlo: ha aspettato mezzo secolo, dal 1969, prima di mettervi alla prova. E avete fallito: ci avete presi in giro per mezzo secolo.


Io non desidero istigare nessuno al suicidio, ma una piccola cosa dovrete farla in cambio: lasciate tutto – non come Veltroni! – e recatevi a Sciacca o da quelle parti, salite su un barcone ed andate in Africa. Scendete ed andate alla malora per sempre, voi e le vostre truffe camuffate da trovate geniali, voi ed i vostri ingegneri-servetti senza palle di fronte al maestoso potere politico.
Un po’ di sabbia o di savana non potrà che farvi bene. Saluti.

Pubblicazione non regolare e senza scopi di lucro. Per gli eventuali diritti sulle immagini rivolgersi all'autore.     

06 novembre 2019

Cannabiniamo…sì o no?




Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di intere ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l'equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall'annuale crescita dei campi di canapa?
Henry Ford

I ricordi più dolci che ho di mia madre, erano quelli nei quali mi raccontava l’epopea della canapa, e come quella pianta girovagasse intorno alle vite di donne e uomini, nel lontano ferrarese dei lontanissimi anni ’30. Tutto ruotava intorno a quella pianta gigantesca – arriva a sei metri! – che nasceva con poche cure e forniva raccolti abbondanti, che richiedeva però quasi una liturgia dopo il raccolto. E tanta fatica.

Se ben ricordo, dopo la raccolta, la parte più legnosa doveva essere separata da quella più flessibile, che serviva per le fibre tessili e, per separarle – a parte varie operazioni meccaniche, svolte a mano oppure con rudimentali macchine ed attrezzi – bisognava metterla in acqua.

Pulitura e separazione delle varie parti della canapa

Così, dopo una prima separazione delle parti più legnose, le parti più “tenere” della pianta venivano legate fra loro per creare una sorta di zatteroni, che venivano affondati nei maceri, che erano dei piccoli laghetti alimentati dai canali i quali, nella “bassa”, corrono ovunque, formando una ragnatela che, dal Grande Fiume, si dirama fra strade e poderi.

Le "zattere" di canapa nel macero

A quei tempi, il macero veniva usato anche per l’allevamento spontaneo di pesce: carpe, tinche e anguille che, insieme alle uova ed a qualche pollo, fornivano un po’ di proteine per una dieta che, all’epoca, era quasi vegetariana diremmo oggi, ma allora era un vegetarianesimo forzato, dovuto alla povertà.
C’era anche il maiale, accudito con tutte le attenzioni possibili, poiché le famiglie erano molto numerose, e tutti i giorni si doveva mettere in tavola qualcosa per sostentare gente che faticava di zappa, vanga e scure ogni giorno dell’anno.
Dopo aver affondato la canapa nei maceri, il pesce “sballava” un po’ e veniva a galla: così – ricordava mia madre – partivano lei, ragazzina, e mio prozio, di pochi anni più grande, con la fiocina per catturarli: dopo, li infilavano con un ramo di salice, facendolo passare dalla bocca alle branchie e tornavano a casa con lunghe sfilze di pesci, che erano la dannazione della nonna, regina della cucina. Perché?

Poiché non avevano olio per friggerle! In quelle terre, così lontane da quelle dell’olivo, la penuria d’olio era endemica, giacché i metodi per estrarlo dai semi (mais, girasole, ecc) richiedevano una tecnologia troppo avanzata per dei semplici contadini. Potenti macine, poi torchi o viti senza fine di raffinata produzione meccanica erano oltre le loro possibilità.
Per non parlare delle estrazioni con solventi chimici, che oggi vanno per la maggiore e sono consentite dalla legge (italiana ed europea) se il solvente (n-esano) non recuperato non supera le 0,012 parti per milione. Anche usando il miglior olio di semi in commercio (quello di girasole è forse il migliore) qualche microgrammo di n-esano, alla fine, ce lo becchiamo ogni volta che si frigge qualcosa.

Così, quel pesce finiva sulla gradella, che era l’antenata delle nostre griglie per il barbecue: circolare, fatta di lamiera con, in alto, la griglia, era usata per tutte le attività di cucina. La mettevi sulle braci del camino e, sopra, pentole o padelle o, all’occorrenza, i pesci ad arrostire. Ne ho conservata una, e talvolta la uso per cuocere minestre o per sterilizzare la salsa di pomodoro.
Terminata la macerazione della canapa, e raccolto tutto il pesce possibile, si ritirava la canapa all’asciutto e si apriva la chiusa del canale, così cominciava un altro anno di pesca ed allevamento.
La canapa, a quei tempi, veniva filata e tessuta in casa: ho conservato alcune lenzuola – che oggi hanno quasi un secolo! – e sono di una robustezza incredibile, perché i tessuti di canapa sono un po’ grezzi, ma robustissimi.

Le fibre tessili della canapa sono divise in due qualità: quelle più fini per la produzione di tessuti e quelle più grezze con le quali si fanno i cordami, i “canapi”.
Mentre la produzione della fibre più fini è tuttora richiesta, quella delle fibre per cordami lo è di meno, perché le cime di materiali sintetici costano meno ed hanno una buona resistenza: ho, comunque, a bordo della barca una cima di canapa lunga 120 metri, e non me ne sono mai dovuto lamentare.
Tutto quel mondo andò in fumo nel volgere di pochi anni ma, per indagare su questa vicenda, il problema è un altro, come avrete ben capito.(1)

Il cosiddetto “decreto Cossiga”, nel 1975, proibiva, di fatto, la coltivazione della canapa, senza distinguere fra le varie sottospecie e la quantità di THC: proibiva e basta. La coltivazione della canapa, in Italia, scomparve.
A dire il vero già da parecchi anni era diminuita, perché si era nel bel mezzo della seconda rivoluzione agricola: la prima aveva sostituito la trazione animale con quella meccanica, negli anni ’30-’70, mentre la seconda – appena iniziata – tendeva a specializzare al meglio tutte le lavorazioni agricole, con macchine espressamente dedicate per ogni coltura.
La canapa, se aveva un difetto, era la quantità di manodopera richiesta per tonnellata di prodotto finale: cosa abbastanza simile per altre colture, ma per la canapa il problema era molto avvertito. Sparita la vecchia società contadina, con famiglie con molti figli, più l’abitudine di concorrere con parenti o vicini di casa per i lavori più impegnativi, la coltivazione della canapa, per sopravvivere, doveva meccanizzare molte lavorazioni.
Il Decreto Cossiga – di là delle diverse motivazioni – calò proprio nel momento meno adatto per la coltivazione della canapa.

Oggi, quel decreto è, nella sostanza, decaduto, sostituito da una nuova legge del 2016 e, recentemente, da alcune correzioni ma, la domanda, è sempre la stessa: si può coltivare la canapa senza incorrere nei rischi di un suo uso per scopi non legali?
A mio avviso no, però si possono però  prendere delle precauzioni e, prima, informarsi di più sull’argomento.

La pianta della canapa è definita, dai botanici, cannabis sativa, ma ne esistono molte cultivar o sottospecie, perché non c’è nessuna differenza dalla cannabis sativa alla cannabis indica, soltanto il più alto tasso di THC, per una cultivar che si è più specializzata naturalmente per i climi caldi o tropicali.
Le resine, che contengono il famigerato THC, sono la naturale difesa della pianta contro le malattie e gli insetti: una pianta senza resine, deve affidarsi al solito balletto dei fitofarmaci i quali, come si sa, sono la vera “vigna” per le industrie del settore, anche se le sostanze che vengono sparse non sempre sono innocue per la salute umana.
La canapa, per sua fortuna, è una pianta robustissima,a patto di lasciarle le sue difese naturali!
Recentemente, è stata approvata una modifica alla precedente norma del 2016 che limitava il tasso di THC a 0,2% e l’ha portato allo 0,6%, proprio per consentire la difesa della pianta dai parassiti, ma non raccontiamocela soave: se la cannabis sativa, la meno ricca di THC, viene coltivata, è normale che si diffonda il suo uso anche ad impiego “ricreativo”.(2)
A questo punto, l’attenzione si sposta su due aspetti: la tossicità del THC e le conseguenze sulla malavita che gestisce il mercato.

Recentemente, il giudice Nino di Matteo s’è espresso negativamente sulla liberalizzazione della cannabis, adducendo il problema al fronte delle attività della mafia. Il magistrato sostiene – e di Matteo ha ampia esperienza di cose di Mafia – che non sappiamo come la Mafia andrebbe a “sostituire” i proventi del mercato della cannabis. Ossia, potrebbe gettarsi sui mercati delle droghe pesanti (e c’è già), oppure sulle armi (anche qui, già c’è). E dove, allora?
Qui, però, e non so se di Matteo se n’è accorto, si va a toccare un ganglio importante del rapporto dello Stato col potere mafioso: non si può giustificare una scelta – qualsiasi: potrebbe essere l’auto elettrica o a metano, le patatine fritte o il melograno candito – e la domanda rimane: lo Stato, deve calibrare le sue scelte sulla base della “risposta” che si potrebbe avere dal sistema mafioso? Mi sembra una ben triste condizione: a questo punto, diamogliela vinta del tutto e morta lì. Ma diciamolo a chiare lettere, non cincischiando con le commissioni antimafia.
Voglio precisare che ho grande stima e profondo rispetto per Nino di Matteo, ma non posso esimermi dall’incongruenza che questa sua esternazione contiene. Forse, la situazione di un uomo troppo abituato a vivere accanto ai problemi di mafia…forse un’amarezza profonda, che gli consente ancora di lottare ma forse senza crederci fino in fondo (e lo capisco), se non a patto d’accettare queste incongruenze. Non me lo spiego proprio, e sì che è un’affermazione grave.

Fra l’altro, tutti oramai sanno che il mercato della cannabis europea è l’Albania: da anni, oramai, a Tirana si assiste ad una sorta di miracolo economico, con forti investimenti nel mercato immobiliare ed un aumento ben diffuso e “spalmato” su tutti i beni di consumo più comuni. Dalle auto all’elettronica, dalla cosmesi alla spesa alimentare, ecc. (3)

Scene di guerra fra la polizia ed i narcos a Lazarat,in Albania

 La zona meridionale dell’Albania (Valona, Argirocastro, ecc) è oramai nelle mani dei trafficanti ed il governo è imbelle, forse coinvolto nella corruzione dilagante, forse sta solo a guardare questo “miracolo” economico che gli toglie le castagne dal fuoco, da quando l’Albania è diventata la prima produttrice europea di cannabis. 90 tonnellate di sequestri della Guardia di Finanza in Italia solo nel 2017: con chi trafficano gli albanesi? Con la Sacra Corona Unita – che è il loro dirimpettaio in Puglia – ma i clan albanesi sembra che abbiano stretto alleanze anche con alcune n’drine per lo smercio della cocaina nel nord Europa, soprattutto nel mercato tedesco.

Sarebbe possibile togliere dal controllo mafioso i proventi della cannabis per farli rientrare nel mercato legale, con lo Stato o dei privati a gestirlo? Ovviamente, mantenendo la “soglia” dello 0,6 di THC sulle coltivazioni, le sanzioni per chi guida in stato d’ebbrezza (alcolica o da THC), ma cancellando il reato penale per la detenzione di cannabis? In fin dei conti, l’alcool causa danni più gravi del THC, eppure è legale.
In queste faccende, quel che conta è la quantità e la frequenza con la quale si assumono certe sostanze: la scorsa Estate, sono stato presente, casualmente, ad una vendita di superalcolici in un supermercato. Sono arrivati in quattro o cinque ragazzi/e, hanno depositato sul banco bottiglie di vodka e di rum, sufficienti per ubriacare una compagnia d’alpini: alcuni erano, chiaramente, minorenni. Ma, quello che ha pagato, ha mostrato alla cassiera la carta d’identità (secondo me, era l’unico maggiorenne) che non ha potuto far altro che dargliele. Buona sbronza, colossale dal quantitativo acquistato: quando, poi, uno di loro guida, capitano le morti del sabato sera, puntuali, ogni fine settimana.

Questo è il quadro che abbiamo di fronte, non altro: tutti possono acquistare superalcoli in quantità industriale, e dobbiamo consegnare alla giustizia penale un tizio che ha qualche grammo di marijuana?
L’industria degli alcolici, però, è sacra e non si devono scalfire i livelli occupazionali…quindi…dobbiamo anche mantenere stabili i livelli occupazionali delle mafie? O sarebbe un atto d’orgoglio, da parte dello Stato, togliere loro quei proventi? Resterebbero loro la cocaina, la morfina, l’eroina, l’LDS e tutte le droghe sintetiche.
Resta da definire se la cannabis sia così nociva.

Il problema è complesso, giacché tutti riconoscono che il THC ha degli effetti molto positivi e conclamati nel controllo del dolore, degli spasmi nervosi in molte patologie, malattie dove la farmacopea ufficiale si trova un po’ spiazzata non tanto per l’efficacia dei prodotti, quanto per gli effetti collaterali indesiderati.
Hanno provato a produrre THC sinteticamente, ma i risultati sono stati scarsi: molti effetti collaterali rispetto al derivato naturale…insomma, la maledizione della canapa sembra quella d’essere…perfetta!
Tutti, per fortuna, riconoscono che la cannabis non dà assuefazione né crisi d’astinenza: insomma, è un po’ come chi è  abituato a bere vino a tavola. Se non c’è non è certo contento, però s’adatta a bere acqua: sarebbe forse meglio pensare alle vere droghe, eroina e cocaina, ad esempio e fare qualcosa per un mercato che è praticamente libero ed in mano alle mafie. Già, ma fa comodo scagliarsi contro una sostanza ed una pianta che hanno accompagnato l’avventura umana per millenni, piuttosto che guardare in faccia alla realtà.

Fra l’altro, la canapa ha avuto una storia “legale” molto complessa: fu proibita negli USA già nel 1937, ma non per vicende legate al THC. Fu una storia strana: Henry Ford aveva costruito un’automobile usando come componente di base del telaio le fibre di canapa, “annegata” in una resina proveniente dalla soia, che rendevano più leggera la struttura e molto robusta: il motore funzionava ad etanolo, sempre ricavato dalla canapa. La prima auto al mondo ad essere costruita in gran parte con materiali naturali!
La Ford, però, entrò in collisione con la potente industria chimica Du Pont la quale, ovviamente, non vedeva di buon occhio questa “incursione” dei prodotti agricoli nell’industria automobilistica. La Du Pont scatenò una campagna giornalistica che, alla fine, condusse alla proibizione di coltivare la canapa nel 1937. Ovviamente, fu la fine per l’innovativa Hemp Body Car (auto di canapa). (4)

Una Hemp Car del 1941

 Insomma, la chimica contro i prodotti naturali: anche per quanto riguarda la produzione di cordami, l’industria chimica vedeva nella canapa l’avversario da sconfiggere, perché stava iniziando la produzione di fibre tessili o adatte per la filatura. La cosa sorprendente, però, avvenne nel dopoguerra quando un ricercatore americano ebbe dei fondi per studiare la composizione chimica della tela di ragno: ebbene, fu proprio dalla riproduzione chimica di quel polimero che nacquero molte fibre adatte a corde resistenti ma anche elastiche, oggi usate in alpinismo o nella nautica. Insomma, sembra proprio che la natura, mettendoci milioni di anni d’evoluzione, sia ancora vincente sull’uomo!
La vicenda di Henry Ford è emblematica – e, in qualche modo, parallela a quella di Raoul Gardini: anche lui vedeva nel futuro una nuova chimica, più legata all’agricoltura che al petrolio – e, per sua fortuna, Henry Ford cedette e…salvò la pelle? Mah…

 Ricordiamo qui – en passant – le mille proprietà della canapa per entrare nel mercato in tanti settori: soprattutto la creazione di pannelli leggeri che contendono la palma di miglior sistema rispetto alla fibra di Carbonio (sensibilmente più costosa), pannelli composti da base di canapa e reagenti poliuretanici, oppure cementi od altre resine. Lo “scarto” sarebbe costituito da lignina, utile – e naturale – per usi energetici e  di riscaldamento o per la formazione di pannelli più resistenti, destinati a mille usi diversi. Insomma, la canapa è un cespite di idee e di soluzioni per l’edilizia, l’industria automobilistica, il mondo dell’energia, la produzione di carta, la produzione di foraggio per animali, di semi oleosi, di cellulosa, senza dimenticare la fibra tessile ed i cordami…non per nulla la pianta comparve nell’avventura umana sin dal lontanissimo 8.000 a.C. Una vera e propria miniera a cielo aperto.



Cosa si oppone a tutto questo?
 Sul Web, la pubblicistica sulla cannabis è enorme, ovviamente suddivisa in favorevoli e contrari: normale, visto che la canapa, come mercato complessivo (tessile, chimico, energetico, farmaceutico, ecc) muove interessi enormi, perciò mi sono affidato a Wikipedia la quale riporta, almeno, fedelmente le varie posizioni.
Sul fronte sanitario e scientifico, non c’è assolutamente una certezza alla quale affidarsi: in Spagna hanno rivelato che il THC uccide le cellule tumorali nel cervello, mentre in Gran Bretagna negano che sia vero…secondo alcuni psichiatri l’uso della cannabis favorisce psicosi, nevrosi od altro per il 40% dei casi, per altri psichiatri solo per l’1%, ossia nulla. Un disastro totale, la scienza all’ammasso.
Inoltre, se si prendono in esame le vie di inalazione insieme al fumo del tabacco, non si riesce a discernere quali sono i danni dell’uno o dell’altro…niente, una follia totale.
Si riconoscono, almeno, gli effetti positivi del THC nella cura del dolore neuropatico e nella sclerosi multipla…di più, è inutile cercare perché si finisce nella ridda di contenuti contradditori. Ma, qualcosa si muove.

Alla legalizzazione della cannabis, per prima attuata dall’Uruguay e dal Cile, s’è aggiunta quella più “pesante” del Canada, che ha completamente legalizzato la coltivazione e l’uso “ricreativo”. Gli USA, come sempre, sono a macchia di leopardo: dipende dalle scelte di ciascuno stato, mentre gli organismi federali non prendono decisioni. In Europa, solo l’Olanda permette un blando uso, sempre però circoscritto in locali pubblici ben definiti dalla legge.
Nel panorama generale, sembra che l’anti-proibizionismo nei confronti della cannabis stia diminuendo: forse, ci si è accorti che i danni collaterali sono meno gravi di quelli causati dall’alcool e, per non avviare campagne pubblicitarie che coinvolgerebbero inevitabilmente anche l’alcool (con relativi aspetti economici), si preferisce chiudere la faccenda senza troppo chiasso.

In Uruguay – per confermare quello che temeva Nino di Matteo – c’è stata una virulenta ripresa degli omicidi mafiosi: probabilmente, la perdita di un mercato clandestino, un settore molto “succoso” – la vendita della cannabis, in Uruguay, è adesso affidata ai monopoli di Stato – ha comportato una ri-definizione degli equilibri del mercato illegale per le altre droghe, che nel campo mafioso contiene sempre la sfilza di morti ammazzati.

Quindi, per concludere, la storia della cannabis è, in realtà, la storia della canapa: nessuno, penso, se n’accorgerebbe se fosse liberalizzata la produzione della cannabis sativa con uno 0, qualcosa in più od in meno di THC, perché la canapa fa parte – anzi, è quasi la Regina – di quel mondo che preferisce la chimica da prodotti agricoli invece che da prodotti fossili. Questo è il vero motivo del proibizionismo.
La canapa fu anche studiata come farmaco agli albori della Carlo Erba: qui, probabilmente, c’è un altro, enorme conflitto di interessi poiché la funzione antidolorifica del THC è accertata e sicura. Ovvio che si scatenano conflitti paurosi, come quelli sotterranei laddove le case che si basano sull’acetil-salicilico stampano (per soli medici e farmacisti, ovvio) pubblicazioni – le ho viste di persona – che colpiscono il paracetamolo, e viceversa quelli del paracetamolo verso l’acetil-salicilico. Figuriamoci se entrasse nel mercato un potente antidolorifico ed antispastico d’origine, oltretutto, naturale!
Perciò, io ritengo che i (possibili?) danni sarebbero senz’altro inferiori ai rischi: non fate, però, diventare la coltivazione della canapa uno stato di polizia se, un’Estate a causa del calore eccessivo, si scopre una coltivazione con lo 0,7% di THC! Oltretutto, chi volesse usarla per scopi “ricreativi” dovrebbe soltanto prendere qualche infiorescenza, senza nemmeno sapere se è 0,2 o 0,7: tanto sarebbe la stessa cosa.
L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di vedere un agricoltore in manette a causa del caldo: pensate piuttosto a come limitare od abolire – veramente, non lasciando praticamente il mercato libero alle mafie – le terribili droghe di sintesi, l’eroina, la cocaina ed a limitare seriamente il consumo d’alcool, ma con un po’ di cognizione: non si capisce perché si deve stare attenti, al ristorante, a non bere più di un paio di bicchieri di vino, mentre c’è gente che va in giro completamente sbronza e/o “fatta” e semina morti a profusione.

Come diceva Henry Ford, perché dobbiamo rinunciare alla risorse che ci dà il mondo vegetale per aderire senza riflessione al mondo dei fossili? Chissà, forse rivedremo la Hemp Body Car 3.0, e ne saremo soddisfatti. Anzi, l’hanno già fatta: in Canada ovviamente.





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