L’uscita di Franco Zeffirelli nei confronti di Imgar Bergman e di Michelangelo Antonioni – proprio perché pronunciata in articulo mortis – non merita altro titolo. Il regista toscano ha definito i due colleghi “pesanti e noiosi”, con un tempismo ed un savoir faire degni di un beccamorto, mostrandosi per quel che è: un malcapitato e penoso impresario di pompe funebri in cerca di notorietà.
Anche sull’accostamento dei due registi, ci sarebbe molto da dire: Bergman sa di Ibsen e Ibsen sa di Kirkegaard. Tutti insieme, volano accompagnati dai gelidi violini di Sibelius. Michelangelo Antonioni è forse più legato a forme decadenti di marca tedesca (la collaborazione e l’amicizia con Wenders…), e probabilmente meno esistenziali in senso stretto: tematiche gelide e taglienti a volte, ma graffianti, come in Blow-up e Zabriskie Point. Insomma, pur essendo l’argomento complesso, da Firenze – semplificando tutto con una battuta – si finisce per osservare il mondo e non capirci un cazzo.
Recentemente, avevo scorso sullo schermo alcune scene della Bisbetica domata di Zeffirelli: ecco, da qui possiamo partire per non cadere in uno stupido alterco.
Osservando l’allegra cavalcata di un gruppo d’universitari rinascimentali, nella Padova carnascialesca, non ero riuscito a fare a meno di notare lo stridore di quella scena. Pur ammettendo la goliardia dell’epoca, mai si sarebbe espressa nei temi e nei modi nei quali la propone Zeffirelli: più che un’allegra comitiva in festa, quella scena richiama – scusate il termine – un convivio di culattoni in vacanza. Nella Padova rinascimentale, quella di Galileo e di Giordano Bruno?
Il limite di Zeffirelli è proprio questo: non riuscire a dipingere il mondo cercando l’astrazione dalle vicende umane dei singoli, il doverle forzatamente colorare con il suo essere omosessuale. Qui sono conscio d’inoltrarmi in un tabù, ma – proprio perché non avverto nell’animo pulsioni razziste e di discriminazione – lo faccio senza esitare.
Oggi, va per la maggiore credere che la creatività sia di marca omosessuale: due insiemi perfettamente coincidenti. Una cazzata che non sta né in cielo e né in terra. La moda è un’espressione artistica riservata ai soli omosessuali? Solo perché omosessuali?
Vogliamo ricordare il più geniale creatore di moda italiano, Gianni Versace?
Gianni Versace fu tale perché era un genio, e basta. I geni nascono già belle e pronti, al supermercato della cultura?
Versace studiò per anni la sartoria teatrale e cinematografica, che è una miniera per chi s’appressa a quel mondo, e ne abbiamo le prove (oggi, se ben ricordo, documentate da una sorta di museo o galleria dei suoi studi): studio, meticolosità, precisione, curiosità furono la sua forza, unite senz’altro ad una gioiosa attitudine verso le forme ed i colori. Gli altri? Saranno pure bravi, ma non sono Versace.
La musica? Elton John è un bravo autore, nulla da eccepire, ma consideriamolo alla stregua di decine di suoi colleghi. Non paragoniamolo, però, a Dylan o a De André: non regge proprio. E il teatro? Le compagnie dilettantistiche sono zeppe d’omosessuali: sembrerebbe il loro pane. Se, invece, scorriamo i nomi dei “grandi” del teatro e del cinema, fatichiamo a trovarne uno che lo sia. Giannini? Gassman? Fo? Albertazzi? Ranieri?
Chissà perché Zeffirelli non ha accomunato ai due registi appena scomparsi anche Pier Paolo Pasolini, che – in quanto a “mattonate” – mica scherzava: vogliamo ricordare la “leggiadria” di Teorema? Forse perché “cane non mangia cane”? No, perché Zeffirelli, con Pasolini, non condivide nemmeno un’unghia.
Quando Pasolini decise d’inoltrarsi nella vita di Cristo – ne Il Vangelo secondo Matteo – lo fece con la meticolosità ed il rigore dello storico, viaggiando in Israele per scoprire che, il mondo del Cristo, sarebbe stato costretto ad ambientarlo a Matera. Vogliamo mettere accanto i Racconti di Canterbury con le “incursioni” in Shakespeare di Zeffirelli?
Quella sera di novembre, quando morì Pasolini, ero tornato da una gita con degli amici. Prima di lasciarci, accendemmo il televisore e fummo colpiti come una mazzata dalla notizia. In silenzio, tutti provammo la dolorosa sensazione della perdita: uno dei nostri padri se n’era andato. Avrei provato identico dolore tanti anni dopo, quando ci lasciò De André.
Pasolini ci ha lasciato in eredità il suo mondo di poeta, spesso profetico, senza mai pretendere d’essere qualcosa di più o qualcosa di meno perché era omosessuale. Quel suo esserlo, era un anelito di libertà: sofferta, forse, ma tutte le libertà hanno un prezzo.
Quella di Zeffirelli, nei confronti di Bergman e di Antonioni, non si può nemmeno definire una caduta di stile, perché bisognerebbe prima ammettere che l’uomo sappia cosa significa possederlo. Stile ed onore sono il patrimonio di coloro che accettano le sfide dell’esistenza con la schiena ritta, non dei giullari dei potenti.
Ricordiamo allora, a chi non sa far altro che azzuffarsi con i cadaveri, l’epitaffio che James Joyce dedicò ad Oscar Wilde. Joyce difese a spada tratta Wilde dal ludibrio calatogli addosso da britannici codini e bacchettoni, rivendicò il suo diritto di mostrarsi omosessuale in un’epoca nella quale il loro destino era la gogna o il segreto. Non mancò, però, di tratteggiare lucidamente il significato di quel suo mostrarsi “sopra le righe”: “Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi.”
Anche sull’accostamento dei due registi, ci sarebbe molto da dire: Bergman sa di Ibsen e Ibsen sa di Kirkegaard. Tutti insieme, volano accompagnati dai gelidi violini di Sibelius. Michelangelo Antonioni è forse più legato a forme decadenti di marca tedesca (la collaborazione e l’amicizia con Wenders…), e probabilmente meno esistenziali in senso stretto: tematiche gelide e taglienti a volte, ma graffianti, come in Blow-up e Zabriskie Point. Insomma, pur essendo l’argomento complesso, da Firenze – semplificando tutto con una battuta – si finisce per osservare il mondo e non capirci un cazzo.
Recentemente, avevo scorso sullo schermo alcune scene della Bisbetica domata di Zeffirelli: ecco, da qui possiamo partire per non cadere in uno stupido alterco.
Osservando l’allegra cavalcata di un gruppo d’universitari rinascimentali, nella Padova carnascialesca, non ero riuscito a fare a meno di notare lo stridore di quella scena. Pur ammettendo la goliardia dell’epoca, mai si sarebbe espressa nei temi e nei modi nei quali la propone Zeffirelli: più che un’allegra comitiva in festa, quella scena richiama – scusate il termine – un convivio di culattoni in vacanza. Nella Padova rinascimentale, quella di Galileo e di Giordano Bruno?
Il limite di Zeffirelli è proprio questo: non riuscire a dipingere il mondo cercando l’astrazione dalle vicende umane dei singoli, il doverle forzatamente colorare con il suo essere omosessuale. Qui sono conscio d’inoltrarmi in un tabù, ma – proprio perché non avverto nell’animo pulsioni razziste e di discriminazione – lo faccio senza esitare.
Oggi, va per la maggiore credere che la creatività sia di marca omosessuale: due insiemi perfettamente coincidenti. Una cazzata che non sta né in cielo e né in terra. La moda è un’espressione artistica riservata ai soli omosessuali? Solo perché omosessuali?
Vogliamo ricordare il più geniale creatore di moda italiano, Gianni Versace?
Gianni Versace fu tale perché era un genio, e basta. I geni nascono già belle e pronti, al supermercato della cultura?
Versace studiò per anni la sartoria teatrale e cinematografica, che è una miniera per chi s’appressa a quel mondo, e ne abbiamo le prove (oggi, se ben ricordo, documentate da una sorta di museo o galleria dei suoi studi): studio, meticolosità, precisione, curiosità furono la sua forza, unite senz’altro ad una gioiosa attitudine verso le forme ed i colori. Gli altri? Saranno pure bravi, ma non sono Versace.
La musica? Elton John è un bravo autore, nulla da eccepire, ma consideriamolo alla stregua di decine di suoi colleghi. Non paragoniamolo, però, a Dylan o a De André: non regge proprio. E il teatro? Le compagnie dilettantistiche sono zeppe d’omosessuali: sembrerebbe il loro pane. Se, invece, scorriamo i nomi dei “grandi” del teatro e del cinema, fatichiamo a trovarne uno che lo sia. Giannini? Gassman? Fo? Albertazzi? Ranieri?
Chissà perché Zeffirelli non ha accomunato ai due registi appena scomparsi anche Pier Paolo Pasolini, che – in quanto a “mattonate” – mica scherzava: vogliamo ricordare la “leggiadria” di Teorema? Forse perché “cane non mangia cane”? No, perché Zeffirelli, con Pasolini, non condivide nemmeno un’unghia.
Quando Pasolini decise d’inoltrarsi nella vita di Cristo – ne Il Vangelo secondo Matteo – lo fece con la meticolosità ed il rigore dello storico, viaggiando in Israele per scoprire che, il mondo del Cristo, sarebbe stato costretto ad ambientarlo a Matera. Vogliamo mettere accanto i Racconti di Canterbury con le “incursioni” in Shakespeare di Zeffirelli?
Quella sera di novembre, quando morì Pasolini, ero tornato da una gita con degli amici. Prima di lasciarci, accendemmo il televisore e fummo colpiti come una mazzata dalla notizia. In silenzio, tutti provammo la dolorosa sensazione della perdita: uno dei nostri padri se n’era andato. Avrei provato identico dolore tanti anni dopo, quando ci lasciò De André.
Pasolini ci ha lasciato in eredità il suo mondo di poeta, spesso profetico, senza mai pretendere d’essere qualcosa di più o qualcosa di meno perché era omosessuale. Quel suo esserlo, era un anelito di libertà: sofferta, forse, ma tutte le libertà hanno un prezzo.
Quella di Zeffirelli, nei confronti di Bergman e di Antonioni, non si può nemmeno definire una caduta di stile, perché bisognerebbe prima ammettere che l’uomo sappia cosa significa possederlo. Stile ed onore sono il patrimonio di coloro che accettano le sfide dell’esistenza con la schiena ritta, non dei giullari dei potenti.
Ricordiamo allora, a chi non sa far altro che azzuffarsi con i cadaveri, l’epitaffio che James Joyce dedicò ad Oscar Wilde. Joyce difese a spada tratta Wilde dal ludibrio calatogli addosso da britannici codini e bacchettoni, rivendicò il suo diritto di mostrarsi omosessuale in un’epoca nella quale il loro destino era la gogna o il segreto. Non mancò, però, di tratteggiare lucidamente il significato di quel suo mostrarsi “sopra le righe”: “Il Wilde, entrando in quella tradizione letteraria di commediografi irlandesi che si stende dai giorni di Sheridan e Goldsmith fino a Bernard Shaw, diventò, al par di loro, giullare di corte per gli inglesi.”