“Fanatico è colui che non può cambiare idea, e non intende cambiare argomento.”
Winston Spencer Churchill
In questi giorni, come tanti, ho scorso gli articoli sul Tibet ed ho guardato i filmati su Youtube: della TV mi fido sempre meno. Ho un certo riserbo a parlare del Tibet, giacché vivo quasi una sorta di “conflitto d’interesse”: sono buddista da circa vent’anni.
A prima vista, sarebbe semplice chiudere la vicenda esortando tutti a sostenere le sacrosante libertà dei tibetani, ma sarebbero parole al vento.
Riflettiamo che, durante la recente visita in Italia di S.S. il XIV Dalai Lama – Tenzin Ghiatzo – l’unico uomo “politico” – per così dire – che ebbe il coraggio di parlare con lui fu Beppe Grillo. Se qualcun altro lo ha ricevuto e non ne sono a conoscenza me ne scuso, ma è acclarato che nessuno dei leader politici e delle figure istituzionali ha osato parlare con questa persona, che rappresenta soltanto le istanze di un governo in esilio.
Dispiace ascoltare voci che, in qualche modo, avallano la conquista cinese oppure accusano i tibetani di chissà quali nequizie per la spedizione “geografica” che i nazisti fecero in Tibet nel 1939. Sono affermazioni di chi conosce poco la storia tibetana, di là delle cronache della David-Neel e di qualche orientalista: in realtà, abbiamo iniziato a conoscere il vero Tibet solo dopo la diaspora, dai profughi che si sono insediati in Europa e negli USA.
Iniziamo con il raccontare che i primi a violare i sacri confini della terra dei Lama furono i britannici, nel 1904, al comando di Francis Younghusband, i quali non ebbero difficoltà – durante la loro avanzata, nei pressi di Phari, a Chumi Shengo[1] – ad accettare la resa di un contingente tibetano armato con fucili ad acciarino. Appena i tibetani s’arresero e furono ben visibili, i britannici scaricarono loro addosso nastri e nastri di mitragliatrice, compiendo un massacro. British honour.
Perché gli inglesi e quella data? Se riflettiamo un attimo sulle date, ci rendiamo conto che era lo stesso anno nel quale l’ammiraglio russo Rozhedestvensky cercava di raggiungere il Giappone con la flotta del Baltico, dopo gli esiti rovinosi della battaglia dello Shantung, nella quale i giapponesi avevano distrutto la flotta russa del Pacifico, di base a Port Arthur. L’anno dopo, ci sarebbe stato l’epilogo a Tsushima. Dunque, un momento di debolezza per la Russia, già minata al suo interno dai latenti moti rivoluzionari.
La Cina, a sua volta, era nel bel mezzo di una buriana, ovvero la rivolta dei Boxer e – in definitiva – era alle prese con l’ultimo atto delle sue millenarie dinastie.
Gli altri protagonisti del Great Game nell’Asia Centrale, dunque, erano alle corde: la Gran Bretagna cercò semplicemente d’approfittarne.
Quando Younghusband entrò in Lhasa, non fu considerato proprio un visitatore amichevole, anche se i tibetani – vista la potenza britannica – fecero di necessità virtù.
La ragione della fretta inglese nel porre una sorta di “prelazione” sul regno tibetano era dovuta all’intraprendenza dell’altro competitore del Great Game d’inizio secolo, ossia la Russia degli zar. Il rivale di Younghusband era il colonnello russo Grombtchevski, che era stato inviato su quelle montagne per lo stesso scopo: garantire “amicizia” e “collaborazione”[2]. Nell’attesa di riuscire a farne un sol boccone.
Gli inglesi lasciarono quasi subito il Tibet, formulando una soluzione furbesca: riconobbero il diritto di protettorato della Cina sul Tibet, una questione controversa, che affonda le sue radici dai tempi di Gengis Khan. Perché lo fecero?
Probabilmente per complicare le cose ai russi, giacché conoscevano bene le condizioni disastrose nelle quali versava il morente Impero Cinese. Come si potrà facilmente capire, la complessità di quelle vicende richiederebbe ben altre analisi, che prendessero in considerazione tutte le velleità delle potenze dell’epoca, ma un articolo rimane pur sempre un articolo, e non un libro.
Sarebbe dunque lungo ricordare la complessità del Great Game nell’Asia Centrale d’inizio secolo: sottolineiamo solo che gli attori erano tre – britannici, russi e cinesi – e che la Prima Guerra Mondiale e la guerra civile in Cina posero fine alle ambizioni sul Tibet[3].
A margine, possiamo notare come la situazione tibetana del 1900 fosse straordinariamente simile a quella dell’odierno Afghanistan: una terra non molto importante per le ricchezze naturali, quanto per la sua posizione geo-strategica. Difatti, sono decenni che ci si scanna nelle pietraie afgane, per un territorio che – di per sé – vale poco o nulla.
L’ultimo “sussulto” del Great Game fu però cinese: nel 1910, le truppe manciù cinesi entrarono in Lhasa ed il XIII Dalai Lama dovette fuggire in India. Durò poco: lo scoppio della guerra civile in Cina condusse alla ritirata, nel 1912. Per rendere più agibile la collocazione degli eventi, ricordiamo che l’ultima (e molto discussa) imperatrice cinese, Ci Xi, morì nel 1908, lasciando come erede un bambino, Pu Yi, la storia del quale è narrata nel film “L’ultimo imperatore” di B. Bertolucci.
Le guerre mondiali del ‘900 portarono – paradossalmente – tranquillità sull’Himalaya: inglesi, cinesi e russi erano occupati a scannarsi, in patria e per il mondo, e nessuno si ricordava del Tibet.
Nessuno, a parte i tedeschi (nazisti), che inviarono una spedizione nel paese nel periodo 1938-39 (come la parallela missione in Amazzonia, alla ricerca di segreti esoterici): in quale Tibet giunsero il dott. Ernst Schäfer, biologo e zoologo (ed ufficiale delle SS), e gli altri componenti della spedizione?
Il XIII Dalai Lama – Thubten Ghiatzo – era morto nel 1933 e, nel 1934, la reggenza era stata assunta dall’abate del monastero di Reting, Reting Rimpoche. L’attuale Dalai Lama (il XIV) – Tenzin Ghiatzo – nacque nel 1935 e fu ufficialmente riconosciuto come sua precedente incarnazione nel 1940 (1939 secondo altre fonti).
I tedeschi giunsero quindi in un momento delicato, come tutte le reggenze, e furono ben accolti dal reggente, che fece loro dono di parecchie, antiche scritture buddiste. La spedizione terminò nel 1939 e, il 4 Agosto del 1939, l’aereo che li riportava in patria atterrò all’aeroporto di Berlino.
Una seconda spedizione partì nel 1939, ma fu interrotta dagli eventi bellici: Heinrich Harrer (alpinista, prima appartenente alle SA e poi alle SS) e Peter Aufschnaiter(agronomo), partiti per scalare il Nanga Parbat[4], furono internati dagli inglesi poiché di nazionalità austro-tedesca, ma riuscirono a fuggire ed a raggiungere Lhasa nel 1946. Rimasero parecchi anni nella capitale, dove Aufschnaiter lavorò come agronomo, cartografo e per la sistemazione di canali ed impianti idroelettrici. Harrer divenne amico dell’allora giovane Dalai Lama, e le sue vicende sono raccontate nel famoso libro Sette anni nel Tibet (poi divenuto un non esaltante film).
Questi sono gli unici e documentati contatti fra la Germania nazista ed il Tibet dei Lama: un po’ pochino, a mio avviso, per far gridare a Fulvio Grimaldi che “il Dalai Lama flirtava con i nazisti, nel segno della comune purezza ariana”. In primis, nessun Dalai Lama ebbe a che fare con la prima spedizione: sulla seconda – che spedizione non era più, perché non esisteva più la Germania nazista quando i due giunsero a Lhasa – riflettiamo che il Dalai Lama era un ragazzino di dieci anni.
La figura del reggente – Reting Rimpoche – fu invece discussa, al punto che la condotta non proprio “monacale” dell’abate lo costrinse a dare le dimissioni nel 1944. Nel 1946, volle riprendersi il potere, ma fu fermato ed imprigionato nelle carceri del Potala, dove morì (qualche fonte afferma avvelenato, ma non ci sono certezze). La vicenda di Reting Rimpoche è però tutta interna al Tibet ed ai suoi equilibri, e nulla ha a che vedere con i nazisti.
Heinrich Harrer e Peter Aufschnaiter rimasero in Tibet fino al 1951, quando il giovane Dalai Lama (dichiarato maggiorenne a sedici anni per l’invasione cinese) fuggì ai confini del paese, verso l’India, per poi tornare a Lhasa e cercare un accordo con i cinesi. I due tedeschi, invece, tornarono in patria.
Cos’era successo, nel frattempo?
La fine del processo rivoluzionario in Cina, aveva riaperto i giochi: russi ed inglesi erano poco interessati al Tibet – i primi affaccendati con la nuova Guerra Fredda, i secondi che cercavano di salvare il salvabile dell’Impero – e la Cina ebbe tutte le vie aperte per conquistare Lhasa.
Sulle ragioni dell’intervento cinese, ci sono varie ipotesi. Di natura geostrategica nei confronti dell’India, oppure per una sorta di “frattura” nelle relazioni con l’URSS (durante la cosiddetta fase della “destalinizzazione”) che s’evidenziò alla fine degli anni ’50: forse, la principale ragione fu la pura e semplice conquista territoriale.
Il Tibet non era certo uno stato florido, ma i cinesi del dopoguerra erano praticamente alla fame: alcuni monaci tibetani, imprigionati, raccontarono che il cibo, per i prigionieri, era quasi “simbolico”. Nemmeno le guardie, però, avevano di che scialare: addirittura, però, gli stessi cinesi Han affamati s’avvicinavano ai “campi di rieducazione” in cerca di cibo. La carestia, in quegli anni, in Cina era quasi la regola e non l’eccezione.
Era quindi una situazione poco comprensibile per noi occidentali, quando il “ricco” è colui che detiene un semplice sacco di cereali.
Le razzie nei monasteri condussero ad accumulare oro e preziosi, ma anche il legname ed altri prodotti naturali furono depredati e spediti in Cina: il solito copione di una guerra di conquista, questa volta operato dal più straccione degli imperialisti che si possa immaginare.
Qual era la situazione interna del Tibet, in quegli anni?
La società tibetana era feudale fino al midollo, con un rilevante potere ecclesiale che aveva voce in capitolo su quasi tutto, anche se le cariche pubbliche erano “sdoppiate”, ovvero in ogni amministrazione c’era un pari grado, civile ed ecclesiastico.
Siccome, spesso, i grandi abati dei monasteri provenivano da importanti famiglie aristocratiche, il potere si “saldava” nelle mani del “primo e secondo stato” quasi in ogni luogo. La grande nobiltà, generalmente, preferiva dimorare a Lhasa, mentre i nobili in sottordine accettavano di fare i governatori (bon-po) nelle aree più lontane: a ben vedere, nulla di diverso dalla struttura russa, cinese o d’alcuni stati dell’Italia pre-risorgimentale.
Le condizioni economiche della popolazione erano naturalmente improntate ad una generale povertà, resa meno evidente rispetto ad altri luoghi dalla specificità dell’ambiente ecologico tibetano: grazie all’altitudine, la ridotta carica batterica nell’aria consentiva di conservare i cereali, in apposite torri, per quasi un secolo, mentre la carne seccata e salata rimaneva intatta per un anno intero.
Per questa ragione, è giusto affermare che nel Tibet (almeno, negli ultimi due secoli) non c’erano state gravi carestie, ma è altrettanto vero che la disparità di ricchezza fra la nobiltà e la popolazione rurale era enorme.
Uno dei cardini dell’ordinamento tibetano era l’ereditarietà dei debiti, sia nei confronti dei privati, sia con lo Stato, e questa era la vera “maledizione” dei contadini tibetani, sempre in ritardo con pagamenti e rimesse. Fu la prima riforma che introdusse, appena riconosciuto come capo di Stato, l’attuale Dalai Lama, nel 1951: cancellò l’ereditarietà dei debiti.
Il clero non viveva nel lusso, ma i monaci in Tibet erano decine, forse centinaia di migliaia, e questo era un aggravio che pesava tutto sulla popolazione rurale, priva di qualsiasi protezione sociale da parte dello Stato.
Sulla supposta protervia degli ecclesiastici, non abbiamo molte fonti attendibili: possiamo soltanto immaginare che ci fossero i più svariati comportamenti, secondo il feudatario – civile od ecclesiale – che governava quella regione. Il Tibet abolì la pena di morte già nel XIX secolo (poiché in contrasto con il dettato buddista), ma mantenne – come qualsiasi società feudale – le pene corporali. Insomma, nei giudizi che possiamo formulare, dobbiamo ricordare che parliamo di una nazione medievale proiettata nel XX secolo.
Ciò che – a mio avviso – molti commentatori non hanno compreso, è che eravamo di fronte ad una società feudale come le nostre del XVII-XVIII secolo, catapultata – grazie all’isolazionismo cercato fino all’inverosimile, ed alle due guerre mondiali che avevano posto in seria difficoltà gli eventuali colonialisti – nella seconda metà del XX secolo.
Nel 1951 – potremmo quasi affermare – un mondo che aveva appena attraversato mezzo secolo terrificante, e che aveva tratto da quelle esperienze (in positivo ed in negativo) una nuova impostazione sociale, si trovò improvvisamente di fronte un paese vasto come mezza Europa, popolato da 6-8 milioni d’abitanti (le cifre sono approssimative, e comprendono l’intero Tibet, Amdo e Kham inclusi) che vivevano secondo tradizioni ancestrali.
L’impatto, fu tremendo.
E’ mia opinione che, se non ci fossero stati gli imperialisti cinesi, quel mondo sarebbe franato ugualmente: falce e martello o Coca-Cola, il Tibet medievale era condannato.
Se ne resero conto, a posteriori, anche parecchi Lama tibetani giunti in Occidente, i quali ammisero d’essersi illusi di poter continuare a vivere nel loro “nido samsarico[5]”, come se il resto del pianeta non li riguardasse.
Nel Tibet esistevano già prima dell’invasione cinese cellule comuniste, simpatizzanti per la Rivoluzione Cinese, ma erano individui che credevano di riuscire a coniugare il grande principio della Compassione buddista con l’uguaglianza di matrice marxista. Dopo pochi anni, s’accorsero che quella sintesi era solo ideale, cancellata dalla brutalità delle truppe cinesi.
Nel decennio 1950-1960 ci fu il tentativo, da parte cinese, di cooptare il giovane Dalai Lama e l’altrettanto giovane Panchen Lama al marxismo leninismo, con viaggi in Cina e nomine – soltanto simboliche – nell’organigramma cinese. Intanto, in Tibet avvenivano tragedie.
Nel 1959 – e qui ci sono opinioni discordi su chi fomentò o diresse i disordini – il Dalai Lama fuggì da Lhasa per raggiungere l’India: recentemente, due scrittori statunitensi hanno raccontato che la fuga fu organizzata dalla CIA, ma non possiamo affermarlo con certezza. Se si crede agli americani, si crede loro sempre, anche quando sbatacchiano fialette di presunto antrace all’ONU, non solo quando fa comodo.
E’ invece accertato che gli USA eseguirono lanci d’armi[6] (solo di fabbricazione inglese, e molto vecchie, per non inimicarsi troppo la Cina) ai resistenti tibetani che, in ogni modo, non impensierirono mai l’esercito cinese.
Addestrarono piccoli gruppi di tibetani alla guerriglia, ma non appoggiarono mai con forza la causa tibetana: perché?
Nel 1951, quando avvenne la prima occupazione, gli USA erano impegnati in Corea e non se la sentivano d’aprire un altro fronte. Soprattutto, temevano un eventuale fronte contro la Cina in un Paese che non era toccato dal mare: la potenza anglo-americana è sempre stata fedele a Nettuno.
L’appoggio aereo fu probabilmente scartato per le esperienze della Seconda Guerra Mondiale, quando in Cina combattevano le famose “Tigri Volanti” di Charlie Chennault: il problema era rifornirli partendo dall’India.
Gli americani scoprirono quanto fosse difficile sorvolare l’Himalaya, perché le cime svettano oltre i 25.000 piedi d’altitudine, quote molto elevate per gli aerei da trasporto dell’epoca. Difatti, parecchi equipaggi si dovettero lanciare per problemi meccanici e presero terra anche in Tibet.
L’ultima ragione che non portò Washington ad un evidente appoggio alla causa tibetana fu la stessa che condusse a sospendere i rifornimenti alla guerriglia: la politica sorretta da George Bush (padre), quando era ambasciatore a Pechino, era quella di creare legami in chiave antisovietica. In quegli anni, Cina ed URSS giunsero addirittura a confrontarsi militarmente sui fiumi Amur ed Ussuri – per questioni di confini – e tutto ciò mandava in brodo di giuggiole Washington. E Taiwan? Quando mai gli USA accettarono che l’isola si dichiarasse completamente indipendente dalla grande Cina? Una indipendenza de facto poteva anche passare, mentre quella de iure avrebbe condotto a fratture con Pechino: il Tibet, a ben vedere, valeva ancora di meno.
Di conseguenza, gli USA hanno usato più che sorretto la causa tibetana, ed anche gli ultimi avvenimenti sembrano confermarlo.
Liberi da ogni ingerenza esterna (incubo della politica cinese, dai tempi della parziale occupazione europea d’inizio ‘900) i cinesi si dedicarono alla “modernizzazione” del Tibet.
I cinesi non compresero – abituati ai grandi numeri – che la società tibetana era un microcosmo assai fragile: la richiesta di 2.000 tonnellate d’orzo per sfamare le truppe d’occupazione e gli animali al loro seguito – fatta da un generale cinese al governo tibetano nei primi anni – provocò quasi ilarità: non c’era, nell’intero paese, un simile quantitativo di granaglie!
Abituati al frumento, i cinesi non gradivano l’orzo: collettivizzarono le terre ed imposero la coltivazione del grano, al posto del tradizionale orzo.
Il frumento, in Tibet, cresce soltanto nella bassa valle del Brahamaputra – nei pressi di Shigatse – mentre nel resto del paese l’altitudine non consente che l’orzo, le patate e poco altro.
I cinesi “liberatori”, grazie a questa bella invenzione, inflissero ai tibetani la più grave carestia che gli abitanti ricordassero a memoria d’uomo. Obbligarono anche ad adottare, in tutto il Paese, l’ora di Pechino: chi difende l’operato cinese contro i “Lama nazisti”, queste cose dovrebbe raccontarle.
Sull’altro piatto della bilancia, i cinesi hanno modernizzato il Paese costruendo strade, ferrovie, aeroporti, ecc, ma hanno trasferito decine di milioni di cinesi Han in terre, per loro, poco ospitali: i cinesi Han sono una popolazione di pianura, abituata ai grandi fiumi e che mal s’adatta a vivere a 3.500 metri d’altitudine.
La situazione odierna vede alcune decine di milioni di cinesi Han (intorno ai 40 milioni) convivere con circa 6,5 milioni di tibetani e con una minoranza musulmana (da secoli presente in Tibet), chiamati Hui.
Devo confessare che i filmati della recente rivolta mi hanno lasciato alquanto perplesso, per la violenza con la quale sono stati portati avanti – indubbiamente – dalla minoranza tibetana, poco avvezza a questi scenari di guerriglia urbana. Sembrava quasi d’osservare Gaza o Beirut.
Riflettiamo che lo stesso Dalai Lama – più volte – ha affermato che l’indipendenza del Tibet dalla Cina non è più in agenda: quello che chiede è il rispetto delle tradizioni e del credo buddista. Il quale – nonostante si siano fatti vivi i soliti “avvoltoi della storia”, che non esitano ad imputare sommosse o guerre per altre ragioni alla religione – non ha mai fomentato guerre nel mondo. Di certo, cristiani, musulmani ed ebrei hanno ben altro su cui meditare.
Inutile qui ricordare che la minoranza Tamil dello Shri Lanka è sì buddista, ma le ragioni della contrapposizione sono politiche, e non c’entrano niente con il buddismo. Come se la ragione delle guerre in Medio Oriente fossero l’Islam o l’Ebraismo! Cerchiamo dalle parti del petrolio, che è meglio.
Quei manifestanti di Lhasa mi hanno colpito perché erano straordinariamente violenti, organizzati, efficaci nei loro attacchi di guerriglia urbana. Qualcosa che stride con il carattere dei tibetani.
Ho il sospetto che – ancora una volta – non fosse in agenda la libertà del Tibet, ma qualcos’altro. Forse l’enorme debito che gli USA stanno accumulando nei confronti della Cina? O i dollari che i cinesi cercano subito di rivendere, perché è come essere pagati con monete di ghiaccio, che si sciolgono con il trascorrere del tempo? Una rivolta con un copione “globalizzato”, che sembra avere il giusto marchio per essere sbattuto sui principali media planetari. Dopo i tanti fallimenti delle due presidenze Bush, un po’ di Tibet in rivolta può risollevare le quotazioni di Washington. La speranza, nello Studio Ovale, è l’ultima a morire.
La rivolta di Lhasa non condurrà a nulla di buono per i tibetani, tanto che lo stesso Dalai Lama ha subito lanciato un appello per la fine delle violenze da entrambe le parti.
Chi, oggi, può pensare d’infastidire la Cina con delle manifestazioni di piazza? I cinesi reagiranno come sempre, ovvero con la forza bruta, e non hanno rivali.
Solo qualche sprovveduto nostrano va in piazza a gridare libertà per il Tibet: facile farlo a Roma, un po’ più arduo farlo a Lhasa, dove ti prendi le fucilate cinesi.
Qualcuno, ancora più fesso, non s’è accorto di compiere una discriminazione senza remore: difendiamo strenuamente la libertà dei palestinesi e dei curdi, e che i tibetani vadano a farsi fottere. Di questo passo, potremo dissertare se i curdi sono “buoni” quando combattono i turchi e “cattivi” quando appoggiano gli USA in Iraq. Oppure giocarci ai dadi chi dovrà ammazzare l’altro in Kosovo, serbi od albanesi: è un vicolo cieco, che si chiama nazionalismo.
Il vero internazionalismo passa sopra a razze e religioni, nel nome della comune appartenenza alla razza umana. Non declina le rime delle alleanze fra le borghesie finanziarie, perché sono quelle stesse borghesie – arabe, europee, russe, ecc – che recitano i versi della guerra per raggiungere i loro scopi di dominio sul proletariato: cinese e tibetano, inglese ed irlandese, armeno e turco, basco e spagnolo.
Chi si sente profondamente internazionalista, inorridisce nel vedere le sofferenze di questo o di quel popolo “tirate per la giacchetta” per miseri scopi di bottega: nella guerra del 1982, con chi ci si doveva schierare, con gli imperialisti britannici o con i fascisti argentini?
Non provo e non trovo contraddizioni fra il pensiero marxista e molti assiomi delle principali religioni: scopro invece terribili compromessi e macchinazioni – fra sedicenti idealisti, dottrinari e dottrinali – per cercare d’essere domani il nuovo padrone, al posto di quello che oggi ci schiaccia. Ora, nessun cane abbaia tanto perché gli sia cambiata la catena.
E, fra un padrone americano ed uno cinese, forse sceglierei ancora quello made in USA: se non altro, perché è senz’altro più fesso, ed avrei qualche speranza di batterlo.
Winston Spencer Churchill
In questi giorni, come tanti, ho scorso gli articoli sul Tibet ed ho guardato i filmati su Youtube: della TV mi fido sempre meno. Ho un certo riserbo a parlare del Tibet, giacché vivo quasi una sorta di “conflitto d’interesse”: sono buddista da circa vent’anni.
A prima vista, sarebbe semplice chiudere la vicenda esortando tutti a sostenere le sacrosante libertà dei tibetani, ma sarebbero parole al vento.
Riflettiamo che, durante la recente visita in Italia di S.S. il XIV Dalai Lama – Tenzin Ghiatzo – l’unico uomo “politico” – per così dire – che ebbe il coraggio di parlare con lui fu Beppe Grillo. Se qualcun altro lo ha ricevuto e non ne sono a conoscenza me ne scuso, ma è acclarato che nessuno dei leader politici e delle figure istituzionali ha osato parlare con questa persona, che rappresenta soltanto le istanze di un governo in esilio.
Dispiace ascoltare voci che, in qualche modo, avallano la conquista cinese oppure accusano i tibetani di chissà quali nequizie per la spedizione “geografica” che i nazisti fecero in Tibet nel 1939. Sono affermazioni di chi conosce poco la storia tibetana, di là delle cronache della David-Neel e di qualche orientalista: in realtà, abbiamo iniziato a conoscere il vero Tibet solo dopo la diaspora, dai profughi che si sono insediati in Europa e negli USA.
Iniziamo con il raccontare che i primi a violare i sacri confini della terra dei Lama furono i britannici, nel 1904, al comando di Francis Younghusband, i quali non ebbero difficoltà – durante la loro avanzata, nei pressi di Phari, a Chumi Shengo[1] – ad accettare la resa di un contingente tibetano armato con fucili ad acciarino. Appena i tibetani s’arresero e furono ben visibili, i britannici scaricarono loro addosso nastri e nastri di mitragliatrice, compiendo un massacro. British honour.
Perché gli inglesi e quella data? Se riflettiamo un attimo sulle date, ci rendiamo conto che era lo stesso anno nel quale l’ammiraglio russo Rozhedestvensky cercava di raggiungere il Giappone con la flotta del Baltico, dopo gli esiti rovinosi della battaglia dello Shantung, nella quale i giapponesi avevano distrutto la flotta russa del Pacifico, di base a Port Arthur. L’anno dopo, ci sarebbe stato l’epilogo a Tsushima. Dunque, un momento di debolezza per la Russia, già minata al suo interno dai latenti moti rivoluzionari.
La Cina, a sua volta, era nel bel mezzo di una buriana, ovvero la rivolta dei Boxer e – in definitiva – era alle prese con l’ultimo atto delle sue millenarie dinastie.
Gli altri protagonisti del Great Game nell’Asia Centrale, dunque, erano alle corde: la Gran Bretagna cercò semplicemente d’approfittarne.
Quando Younghusband entrò in Lhasa, non fu considerato proprio un visitatore amichevole, anche se i tibetani – vista la potenza britannica – fecero di necessità virtù.
La ragione della fretta inglese nel porre una sorta di “prelazione” sul regno tibetano era dovuta all’intraprendenza dell’altro competitore del Great Game d’inizio secolo, ossia la Russia degli zar. Il rivale di Younghusband era il colonnello russo Grombtchevski, che era stato inviato su quelle montagne per lo stesso scopo: garantire “amicizia” e “collaborazione”[2]. Nell’attesa di riuscire a farne un sol boccone.
Gli inglesi lasciarono quasi subito il Tibet, formulando una soluzione furbesca: riconobbero il diritto di protettorato della Cina sul Tibet, una questione controversa, che affonda le sue radici dai tempi di Gengis Khan. Perché lo fecero?
Probabilmente per complicare le cose ai russi, giacché conoscevano bene le condizioni disastrose nelle quali versava il morente Impero Cinese. Come si potrà facilmente capire, la complessità di quelle vicende richiederebbe ben altre analisi, che prendessero in considerazione tutte le velleità delle potenze dell’epoca, ma un articolo rimane pur sempre un articolo, e non un libro.
Sarebbe dunque lungo ricordare la complessità del Great Game nell’Asia Centrale d’inizio secolo: sottolineiamo solo che gli attori erano tre – britannici, russi e cinesi – e che la Prima Guerra Mondiale e la guerra civile in Cina posero fine alle ambizioni sul Tibet[3].
A margine, possiamo notare come la situazione tibetana del 1900 fosse straordinariamente simile a quella dell’odierno Afghanistan: una terra non molto importante per le ricchezze naturali, quanto per la sua posizione geo-strategica. Difatti, sono decenni che ci si scanna nelle pietraie afgane, per un territorio che – di per sé – vale poco o nulla.
L’ultimo “sussulto” del Great Game fu però cinese: nel 1910, le truppe manciù cinesi entrarono in Lhasa ed il XIII Dalai Lama dovette fuggire in India. Durò poco: lo scoppio della guerra civile in Cina condusse alla ritirata, nel 1912. Per rendere più agibile la collocazione degli eventi, ricordiamo che l’ultima (e molto discussa) imperatrice cinese, Ci Xi, morì nel 1908, lasciando come erede un bambino, Pu Yi, la storia del quale è narrata nel film “L’ultimo imperatore” di B. Bertolucci.
Le guerre mondiali del ‘900 portarono – paradossalmente – tranquillità sull’Himalaya: inglesi, cinesi e russi erano occupati a scannarsi, in patria e per il mondo, e nessuno si ricordava del Tibet.
Nessuno, a parte i tedeschi (nazisti), che inviarono una spedizione nel paese nel periodo 1938-39 (come la parallela missione in Amazzonia, alla ricerca di segreti esoterici): in quale Tibet giunsero il dott. Ernst Schäfer, biologo e zoologo (ed ufficiale delle SS), e gli altri componenti della spedizione?
Il XIII Dalai Lama – Thubten Ghiatzo – era morto nel 1933 e, nel 1934, la reggenza era stata assunta dall’abate del monastero di Reting, Reting Rimpoche. L’attuale Dalai Lama (il XIV) – Tenzin Ghiatzo – nacque nel 1935 e fu ufficialmente riconosciuto come sua precedente incarnazione nel 1940 (1939 secondo altre fonti).
I tedeschi giunsero quindi in un momento delicato, come tutte le reggenze, e furono ben accolti dal reggente, che fece loro dono di parecchie, antiche scritture buddiste. La spedizione terminò nel 1939 e, il 4 Agosto del 1939, l’aereo che li riportava in patria atterrò all’aeroporto di Berlino.
Una seconda spedizione partì nel 1939, ma fu interrotta dagli eventi bellici: Heinrich Harrer (alpinista, prima appartenente alle SA e poi alle SS) e Peter Aufschnaiter(agronomo), partiti per scalare il Nanga Parbat[4], furono internati dagli inglesi poiché di nazionalità austro-tedesca, ma riuscirono a fuggire ed a raggiungere Lhasa nel 1946. Rimasero parecchi anni nella capitale, dove Aufschnaiter lavorò come agronomo, cartografo e per la sistemazione di canali ed impianti idroelettrici. Harrer divenne amico dell’allora giovane Dalai Lama, e le sue vicende sono raccontate nel famoso libro Sette anni nel Tibet (poi divenuto un non esaltante film).
Questi sono gli unici e documentati contatti fra la Germania nazista ed il Tibet dei Lama: un po’ pochino, a mio avviso, per far gridare a Fulvio Grimaldi che “il Dalai Lama flirtava con i nazisti, nel segno della comune purezza ariana”. In primis, nessun Dalai Lama ebbe a che fare con la prima spedizione: sulla seconda – che spedizione non era più, perché non esisteva più la Germania nazista quando i due giunsero a Lhasa – riflettiamo che il Dalai Lama era un ragazzino di dieci anni.
La figura del reggente – Reting Rimpoche – fu invece discussa, al punto che la condotta non proprio “monacale” dell’abate lo costrinse a dare le dimissioni nel 1944. Nel 1946, volle riprendersi il potere, ma fu fermato ed imprigionato nelle carceri del Potala, dove morì (qualche fonte afferma avvelenato, ma non ci sono certezze). La vicenda di Reting Rimpoche è però tutta interna al Tibet ed ai suoi equilibri, e nulla ha a che vedere con i nazisti.
Heinrich Harrer e Peter Aufschnaiter rimasero in Tibet fino al 1951, quando il giovane Dalai Lama (dichiarato maggiorenne a sedici anni per l’invasione cinese) fuggì ai confini del paese, verso l’India, per poi tornare a Lhasa e cercare un accordo con i cinesi. I due tedeschi, invece, tornarono in patria.
Cos’era successo, nel frattempo?
La fine del processo rivoluzionario in Cina, aveva riaperto i giochi: russi ed inglesi erano poco interessati al Tibet – i primi affaccendati con la nuova Guerra Fredda, i secondi che cercavano di salvare il salvabile dell’Impero – e la Cina ebbe tutte le vie aperte per conquistare Lhasa.
Sulle ragioni dell’intervento cinese, ci sono varie ipotesi. Di natura geostrategica nei confronti dell’India, oppure per una sorta di “frattura” nelle relazioni con l’URSS (durante la cosiddetta fase della “destalinizzazione”) che s’evidenziò alla fine degli anni ’50: forse, la principale ragione fu la pura e semplice conquista territoriale.
Il Tibet non era certo uno stato florido, ma i cinesi del dopoguerra erano praticamente alla fame: alcuni monaci tibetani, imprigionati, raccontarono che il cibo, per i prigionieri, era quasi “simbolico”. Nemmeno le guardie, però, avevano di che scialare: addirittura, però, gli stessi cinesi Han affamati s’avvicinavano ai “campi di rieducazione” in cerca di cibo. La carestia, in quegli anni, in Cina era quasi la regola e non l’eccezione.
Era quindi una situazione poco comprensibile per noi occidentali, quando il “ricco” è colui che detiene un semplice sacco di cereali.
Le razzie nei monasteri condussero ad accumulare oro e preziosi, ma anche il legname ed altri prodotti naturali furono depredati e spediti in Cina: il solito copione di una guerra di conquista, questa volta operato dal più straccione degli imperialisti che si possa immaginare.
Qual era la situazione interna del Tibet, in quegli anni?
La società tibetana era feudale fino al midollo, con un rilevante potere ecclesiale che aveva voce in capitolo su quasi tutto, anche se le cariche pubbliche erano “sdoppiate”, ovvero in ogni amministrazione c’era un pari grado, civile ed ecclesiastico.
Siccome, spesso, i grandi abati dei monasteri provenivano da importanti famiglie aristocratiche, il potere si “saldava” nelle mani del “primo e secondo stato” quasi in ogni luogo. La grande nobiltà, generalmente, preferiva dimorare a Lhasa, mentre i nobili in sottordine accettavano di fare i governatori (bon-po) nelle aree più lontane: a ben vedere, nulla di diverso dalla struttura russa, cinese o d’alcuni stati dell’Italia pre-risorgimentale.
Le condizioni economiche della popolazione erano naturalmente improntate ad una generale povertà, resa meno evidente rispetto ad altri luoghi dalla specificità dell’ambiente ecologico tibetano: grazie all’altitudine, la ridotta carica batterica nell’aria consentiva di conservare i cereali, in apposite torri, per quasi un secolo, mentre la carne seccata e salata rimaneva intatta per un anno intero.
Per questa ragione, è giusto affermare che nel Tibet (almeno, negli ultimi due secoli) non c’erano state gravi carestie, ma è altrettanto vero che la disparità di ricchezza fra la nobiltà e la popolazione rurale era enorme.
Uno dei cardini dell’ordinamento tibetano era l’ereditarietà dei debiti, sia nei confronti dei privati, sia con lo Stato, e questa era la vera “maledizione” dei contadini tibetani, sempre in ritardo con pagamenti e rimesse. Fu la prima riforma che introdusse, appena riconosciuto come capo di Stato, l’attuale Dalai Lama, nel 1951: cancellò l’ereditarietà dei debiti.
Il clero non viveva nel lusso, ma i monaci in Tibet erano decine, forse centinaia di migliaia, e questo era un aggravio che pesava tutto sulla popolazione rurale, priva di qualsiasi protezione sociale da parte dello Stato.
Sulla supposta protervia degli ecclesiastici, non abbiamo molte fonti attendibili: possiamo soltanto immaginare che ci fossero i più svariati comportamenti, secondo il feudatario – civile od ecclesiale – che governava quella regione. Il Tibet abolì la pena di morte già nel XIX secolo (poiché in contrasto con il dettato buddista), ma mantenne – come qualsiasi società feudale – le pene corporali. Insomma, nei giudizi che possiamo formulare, dobbiamo ricordare che parliamo di una nazione medievale proiettata nel XX secolo.
Ciò che – a mio avviso – molti commentatori non hanno compreso, è che eravamo di fronte ad una società feudale come le nostre del XVII-XVIII secolo, catapultata – grazie all’isolazionismo cercato fino all’inverosimile, ed alle due guerre mondiali che avevano posto in seria difficoltà gli eventuali colonialisti – nella seconda metà del XX secolo.
Nel 1951 – potremmo quasi affermare – un mondo che aveva appena attraversato mezzo secolo terrificante, e che aveva tratto da quelle esperienze (in positivo ed in negativo) una nuova impostazione sociale, si trovò improvvisamente di fronte un paese vasto come mezza Europa, popolato da 6-8 milioni d’abitanti (le cifre sono approssimative, e comprendono l’intero Tibet, Amdo e Kham inclusi) che vivevano secondo tradizioni ancestrali.
L’impatto, fu tremendo.
E’ mia opinione che, se non ci fossero stati gli imperialisti cinesi, quel mondo sarebbe franato ugualmente: falce e martello o Coca-Cola, il Tibet medievale era condannato.
Se ne resero conto, a posteriori, anche parecchi Lama tibetani giunti in Occidente, i quali ammisero d’essersi illusi di poter continuare a vivere nel loro “nido samsarico[5]”, come se il resto del pianeta non li riguardasse.
Nel Tibet esistevano già prima dell’invasione cinese cellule comuniste, simpatizzanti per la Rivoluzione Cinese, ma erano individui che credevano di riuscire a coniugare il grande principio della Compassione buddista con l’uguaglianza di matrice marxista. Dopo pochi anni, s’accorsero che quella sintesi era solo ideale, cancellata dalla brutalità delle truppe cinesi.
Nel decennio 1950-1960 ci fu il tentativo, da parte cinese, di cooptare il giovane Dalai Lama e l’altrettanto giovane Panchen Lama al marxismo leninismo, con viaggi in Cina e nomine – soltanto simboliche – nell’organigramma cinese. Intanto, in Tibet avvenivano tragedie.
Nel 1959 – e qui ci sono opinioni discordi su chi fomentò o diresse i disordini – il Dalai Lama fuggì da Lhasa per raggiungere l’India: recentemente, due scrittori statunitensi hanno raccontato che la fuga fu organizzata dalla CIA, ma non possiamo affermarlo con certezza. Se si crede agli americani, si crede loro sempre, anche quando sbatacchiano fialette di presunto antrace all’ONU, non solo quando fa comodo.
E’ invece accertato che gli USA eseguirono lanci d’armi[6] (solo di fabbricazione inglese, e molto vecchie, per non inimicarsi troppo la Cina) ai resistenti tibetani che, in ogni modo, non impensierirono mai l’esercito cinese.
Addestrarono piccoli gruppi di tibetani alla guerriglia, ma non appoggiarono mai con forza la causa tibetana: perché?
Nel 1951, quando avvenne la prima occupazione, gli USA erano impegnati in Corea e non se la sentivano d’aprire un altro fronte. Soprattutto, temevano un eventuale fronte contro la Cina in un Paese che non era toccato dal mare: la potenza anglo-americana è sempre stata fedele a Nettuno.
L’appoggio aereo fu probabilmente scartato per le esperienze della Seconda Guerra Mondiale, quando in Cina combattevano le famose “Tigri Volanti” di Charlie Chennault: il problema era rifornirli partendo dall’India.
Gli americani scoprirono quanto fosse difficile sorvolare l’Himalaya, perché le cime svettano oltre i 25.000 piedi d’altitudine, quote molto elevate per gli aerei da trasporto dell’epoca. Difatti, parecchi equipaggi si dovettero lanciare per problemi meccanici e presero terra anche in Tibet.
L’ultima ragione che non portò Washington ad un evidente appoggio alla causa tibetana fu la stessa che condusse a sospendere i rifornimenti alla guerriglia: la politica sorretta da George Bush (padre), quando era ambasciatore a Pechino, era quella di creare legami in chiave antisovietica. In quegli anni, Cina ed URSS giunsero addirittura a confrontarsi militarmente sui fiumi Amur ed Ussuri – per questioni di confini – e tutto ciò mandava in brodo di giuggiole Washington. E Taiwan? Quando mai gli USA accettarono che l’isola si dichiarasse completamente indipendente dalla grande Cina? Una indipendenza de facto poteva anche passare, mentre quella de iure avrebbe condotto a fratture con Pechino: il Tibet, a ben vedere, valeva ancora di meno.
Di conseguenza, gli USA hanno usato più che sorretto la causa tibetana, ed anche gli ultimi avvenimenti sembrano confermarlo.
Liberi da ogni ingerenza esterna (incubo della politica cinese, dai tempi della parziale occupazione europea d’inizio ‘900) i cinesi si dedicarono alla “modernizzazione” del Tibet.
I cinesi non compresero – abituati ai grandi numeri – che la società tibetana era un microcosmo assai fragile: la richiesta di 2.000 tonnellate d’orzo per sfamare le truppe d’occupazione e gli animali al loro seguito – fatta da un generale cinese al governo tibetano nei primi anni – provocò quasi ilarità: non c’era, nell’intero paese, un simile quantitativo di granaglie!
Abituati al frumento, i cinesi non gradivano l’orzo: collettivizzarono le terre ed imposero la coltivazione del grano, al posto del tradizionale orzo.
Il frumento, in Tibet, cresce soltanto nella bassa valle del Brahamaputra – nei pressi di Shigatse – mentre nel resto del paese l’altitudine non consente che l’orzo, le patate e poco altro.
I cinesi “liberatori”, grazie a questa bella invenzione, inflissero ai tibetani la più grave carestia che gli abitanti ricordassero a memoria d’uomo. Obbligarono anche ad adottare, in tutto il Paese, l’ora di Pechino: chi difende l’operato cinese contro i “Lama nazisti”, queste cose dovrebbe raccontarle.
Sull’altro piatto della bilancia, i cinesi hanno modernizzato il Paese costruendo strade, ferrovie, aeroporti, ecc, ma hanno trasferito decine di milioni di cinesi Han in terre, per loro, poco ospitali: i cinesi Han sono una popolazione di pianura, abituata ai grandi fiumi e che mal s’adatta a vivere a 3.500 metri d’altitudine.
La situazione odierna vede alcune decine di milioni di cinesi Han (intorno ai 40 milioni) convivere con circa 6,5 milioni di tibetani e con una minoranza musulmana (da secoli presente in Tibet), chiamati Hui.
Devo confessare che i filmati della recente rivolta mi hanno lasciato alquanto perplesso, per la violenza con la quale sono stati portati avanti – indubbiamente – dalla minoranza tibetana, poco avvezza a questi scenari di guerriglia urbana. Sembrava quasi d’osservare Gaza o Beirut.
Riflettiamo che lo stesso Dalai Lama – più volte – ha affermato che l’indipendenza del Tibet dalla Cina non è più in agenda: quello che chiede è il rispetto delle tradizioni e del credo buddista. Il quale – nonostante si siano fatti vivi i soliti “avvoltoi della storia”, che non esitano ad imputare sommosse o guerre per altre ragioni alla religione – non ha mai fomentato guerre nel mondo. Di certo, cristiani, musulmani ed ebrei hanno ben altro su cui meditare.
Inutile qui ricordare che la minoranza Tamil dello Shri Lanka è sì buddista, ma le ragioni della contrapposizione sono politiche, e non c’entrano niente con il buddismo. Come se la ragione delle guerre in Medio Oriente fossero l’Islam o l’Ebraismo! Cerchiamo dalle parti del petrolio, che è meglio.
Quei manifestanti di Lhasa mi hanno colpito perché erano straordinariamente violenti, organizzati, efficaci nei loro attacchi di guerriglia urbana. Qualcosa che stride con il carattere dei tibetani.
Ho il sospetto che – ancora una volta – non fosse in agenda la libertà del Tibet, ma qualcos’altro. Forse l’enorme debito che gli USA stanno accumulando nei confronti della Cina? O i dollari che i cinesi cercano subito di rivendere, perché è come essere pagati con monete di ghiaccio, che si sciolgono con il trascorrere del tempo? Una rivolta con un copione “globalizzato”, che sembra avere il giusto marchio per essere sbattuto sui principali media planetari. Dopo i tanti fallimenti delle due presidenze Bush, un po’ di Tibet in rivolta può risollevare le quotazioni di Washington. La speranza, nello Studio Ovale, è l’ultima a morire.
La rivolta di Lhasa non condurrà a nulla di buono per i tibetani, tanto che lo stesso Dalai Lama ha subito lanciato un appello per la fine delle violenze da entrambe le parti.
Chi, oggi, può pensare d’infastidire la Cina con delle manifestazioni di piazza? I cinesi reagiranno come sempre, ovvero con la forza bruta, e non hanno rivali.
Solo qualche sprovveduto nostrano va in piazza a gridare libertà per il Tibet: facile farlo a Roma, un po’ più arduo farlo a Lhasa, dove ti prendi le fucilate cinesi.
Qualcuno, ancora più fesso, non s’è accorto di compiere una discriminazione senza remore: difendiamo strenuamente la libertà dei palestinesi e dei curdi, e che i tibetani vadano a farsi fottere. Di questo passo, potremo dissertare se i curdi sono “buoni” quando combattono i turchi e “cattivi” quando appoggiano gli USA in Iraq. Oppure giocarci ai dadi chi dovrà ammazzare l’altro in Kosovo, serbi od albanesi: è un vicolo cieco, che si chiama nazionalismo.
Il vero internazionalismo passa sopra a razze e religioni, nel nome della comune appartenenza alla razza umana. Non declina le rime delle alleanze fra le borghesie finanziarie, perché sono quelle stesse borghesie – arabe, europee, russe, ecc – che recitano i versi della guerra per raggiungere i loro scopi di dominio sul proletariato: cinese e tibetano, inglese ed irlandese, armeno e turco, basco e spagnolo.
Chi si sente profondamente internazionalista, inorridisce nel vedere le sofferenze di questo o di quel popolo “tirate per la giacchetta” per miseri scopi di bottega: nella guerra del 1982, con chi ci si doveva schierare, con gli imperialisti britannici o con i fascisti argentini?
Non provo e non trovo contraddizioni fra il pensiero marxista e molti assiomi delle principali religioni: scopro invece terribili compromessi e macchinazioni – fra sedicenti idealisti, dottrinari e dottrinali – per cercare d’essere domani il nuovo padrone, al posto di quello che oggi ci schiaccia. Ora, nessun cane abbaia tanto perché gli sia cambiata la catena.
E, fra un padrone americano ed uno cinese, forse sceglierei ancora quello made in USA: se non altro, perché è senz’altro più fesso, ed avrei qualche speranza di batterlo.
[1] Chumi Shengo, in tibetano, significa sorgenti termali. Patrick French – Oltre le porte della città proibita – Sperling & Kupfer - 2000.
[2] Patrick French, op. cit.
[3] Ho cercato di riassumere qualche aspetto di quegli importantissimi avvenimenti nel mio libro “Europa Svegliati” – Malatempora – 2003.
[4] Heinrich Harrer era un valente alpinista, ed aveva fatto parte della cordata che aveva scalato per la prima volta la parete Nord dell’Eiger.
[5] Il Samsara, nella filosofia buddista, rappresenta i sei regni della rinascita (Inferi, Spiriti, Animali, Uomini, Semidei, Dei) che gli esseri percorrono infinite volte, prima di giungere alla condizione di Liberato (Arhat) od Illuminato (Buddha).
[6] Tenzin Ghiatzo – La libertà nell’esilio – Sperling & Kupfer - 1998