Viva la campagna…che mi dà tutti questi grilli, birilli, cavalli, coltelli, mulini, bambini, tacchini, pulcini, casette, cosette, forchette, saette, tramonti, racconti, bisonti, rimpianti, castagne, lasagne, lavagne, montagne, ombrelli, fratelli, cartelli, caselli, bestiame, pollame, catrame, legname, fragori, fattori, pittori, rumori, patate affettate, posate, scarpate, fontane, cantine, gattoni, fornelli, randelli, piselli, martelli, sentieri, bicchieri, mestieri, profumi, dolcini, legumi, barlumi, cipolle, corolle, betulle, farfalle, formaggi, foraggi…
Nino Ferrer –
Viva la campagna – 1970.
Spesso, leggiamo articoli dove ci viene spiegata per filo e per segno com’è nata l’attuale crisi economica, quali saranno i suoi esiti, le contromisure da prendere per cercare riparo.
Non essendo un economista, prendo volentieri atto delle analisi altrui, cerco di capirle anche se – in alcuni casi, non molti per fortuna (capita soprattutto agli stranieri, con in aggiunta la fatica della traduzione) – il linguaggio troppo tecnico scoraggia il lettore. Oppure, gli chiede uno sforzo mnemonico e di sintesi che, talvolta, è veramente arduo.
Quando si spiega, dovendo usare un termine, credo si debba sempre scegliere il più comprensibile per tutti, mantenendo però la precisione del linguaggio. Per ovviare i termini più tecnici, meglio usare una perifrasi od una metafora.
Chiusa questa breve parentesi linguistica, torniamo alla crisi economica tanto strombazzata: l’impressione che si ricava, per l’Italia, è che sia stata poco toccata dagli eventi ben noti, ossia dalla creazione dal nulla di ricchezza inesistente sotto forma di bond “tossici”.
Alcuni grandi comuni italiani sono finiti nel sogno ad occhi aperti del Pozzo di San Patrizio, della Cornucopia a costo zero, ma l’Europa continentale è stata senz’altro meno coinvolta rispetto ai Paesi degli Angli.
Ciò nonostante, assistiamo ad un vero e proprio crollo dell’economia italiana: inutile citare i dati sulla disoccupazione o sul vertiginoso aumento della cassa integrazione, perché li conosciamo tutti.
Anche le analisi d’alcuni centri-studi (visto che non è obbligatorio chiamarli “think-tank”?) presentano un quadro scoraggiante: moltissime famiglie italiane non sono in grado di pagare un conto inaspettato di 600 euro, nemmeno pensare d’acquistare una nuova auto, meno che mai una casa.
Tutto questo è opera della crisi finanziaria internazionale?
Qualcosa sì – una riduzione delle esportazioni può starci – ma la verità è un’altra: è il “sistema-Italia” a non funzionare più, ad essere inequivocabilmente desueto. Tutto sta ad indicarlo, basta riflettere un po’.
Si parte da una scuola che è stata riformata l’ultima volta nel 1923, per passare ad una scuola la quale – senza nemmeno una discussione in Parlamento, con una semplice legge delega – rinverdirà gli antichi fasti, tornando pedissequamente all’impianto del 1923. Che andava benissimo nel 1923 (e fino al 1970 circa): poi, però, mostrò tutti i limiti di un sapere pensato per il 10% della popolazione.
Ad orchestrare questa bella pensata, un ministro che non sa nulla di scuola – assente giustificata dalla “plancia di comando” perché presto sarà madre, ma pur sempre assente – un sottosegretario che è lì soltanto perché ha la proprietà del marchio della vecchia DC, un ministro in pectore – Renato Brunetta – per il quale non merita nemmeno approfondire quali siano le sue competenze in campo didattico.
Passando oltre ma rimanendo nel campo del minus (inteso come mente, pensiero, ecc) veneziano, dovremmo riflettere su una delle sue ultime esternazioni: modificare l’art. 1 della Costituzione, da “fondata sul lavoro” a “fondata sulla finanza”. Tossica?
La disquisizione non è priva di senso, perché il piccolo ministro/forsesindacodiVenezia discende questa sua conclusione da un’analisi da perfetto economista embedded, ossia di una persona che sa perfettamente quali sono i cardini dell’economia globalizzata. La quale, proprio perché tale, ha il precipuo compito di scardinare qualsiasi resistenza al produci/consuma senza sapere quel che fai: fatti venire l’ulcera per 8 ore il giorno, giacché ti chiedi qual senso abbia quel che fai, poi recati al più vicino supermercato e compra senza sapere, ancora una volta, quel che mangerai.
Un meccanismo per formare perfetti imbecilli, laddove qualsiasi critica (nel senso, ovvio, di chi ancora esercita il raziocinio) è bandita:
defeco ergo sum, ecco il regale incipit dei nostri tempi.
Fallo però in fretta, giacché la produzione costante ed in aumento di rifiuti è necessaria per finanziare gli enti locali, grazie agli inceneritori ed ai contributi CIP6 che incassano sulla nostra bolletta dell’ENEL, quei soldi che in bolletta sono indicati come contributo per le energie rinnovabili. Ci prendono per il sedere alla grande.
Spostare questo cardine della nostra Costituzione, dal lavoro alla finanza, significa semplicemente dire agli italiani: qui non si produrrà più nulla, o ben poco. Un tempo avevamo veri e propri gioielli tecnologici – Ansaldo, Olivetti, ecc – pubblici e privati, e li abbiamo gettati nella spazzatura per riciclarli sotto forma di tangenti e prebende per noi (classe politica) ed i nostri lacchè imprenditori. Oppure siamo noi politici i lacchè? Non si sa e non importa: tutti assieme appassionatamente.
Siccome non si produrrà più nulla, meglio investire laddove ancora si lavora: un unanime coro – destro, sinistro, alto e basso – invita, consiglia, spinge ad investire in “Cindia”, ovvero nelle economie orientali. Le quali, nonostante queste bazzecole della crisi, hanno continuato ad avanzare imperterrite.
Si dà il caso che gli italiani in grado di seguire cotanta sapienza brunettiana (ossia possedere capitali) siano soltanto un 20% circa, a largheggiare, perché gli altri sono quelli che pagano i debiti ed i mutui con la tredicesima. Se desiderate un po’ di “parlar forbito”, pigliatevi l’espressione “inarrestabile declino del ceto medio”.
Continuo?
No, basta ed avanza, perché ho scritto tantissimi articoli
[1] per spiegare l’inganno politico/economico/energetico/istituzionale nel quale siamo stati precipitati: non avrebbe senso continuare. Meglio pensare al domani: al nostro domani, non al loro, a questa razza sciagurata.
Giungendo al dunque, una quisquilia come quasi 50 milioni d’italiani si troveranno – nei prossimi anni – ad affrontare il dilemma di come campare. Intendiamoci: non sarà fame – sono furbi, sanno cos’è l’elemosina – ma dimentichiamoci tanti piccoli “benefit” che ancora godiamo.
Tanto – non so se ve ne siete accorti – l’economia da “sguazzo” che propongono – i “pacchetti crociere”, le “impedibili” occasioni di viaggio, la moda all’ultimo grido, l’automobile supertecnologica e via discorrendo – sono pianificati, pensati per un plafond che non supera il 30% della popolazione. Gli altri, semplicemente, stanno a guardare.
Il che, potrebbe non essere proprio un gran danno. Basta riflettere.
Se abbandoniamo quel modo di pensare, non avremo nessun bisogno di una crociera che segue il copione della solita abbuffata a pranzo ed a cena, soltanto che avviene sull’acqua. Con l’imprevisto del mal di mare, che potrebbe farvi vomitare tutto: meglio, si prendono le pastiglie per il mal di mare e s’ingurgita nuovo cibo. Il PIL ringrazia.
Siccome superare i 130 Km orari costa salato, meglio nemmeno possedere uno dei “gioielli” da 200 all’ora: a momenti, ai fatidici 130 c’arriva una Panda.
Insomma, questo mondo di consumi stratosferici sembra creato apposta per gli allocchi che vogliono crederci: non abbiamo nessun bisogno – per la nostra salute fisica e psichica – di questa panoplia d’inutili orpelli.
Rimane il problema dei mancati introiti, degli scarsi guadagni, poiché un Paese che non produce può concedere solo salari da fame. Ovvio, che sono “da fame” anche perché dobbiamo mantenere quel 20% d’aguzzini.
C’è modo di sopravvivere degnamente in un simile scenario?
Sì, a patto di riflettere sulle contromisure da adottare.
Ovviamente, da qui in avanti, non bisognerà più pensare in termini generali – ossia gloabalizzati, si finirebbe nel loro cortile – bensì riferirsi alle situazioni personali, per quella che è semplicemente la nostra situazione economica, lavorativa, familiare, ecc, cercando a quale delle possibili “falle” della globalizzazione possiamo accedere per meglio campare.
Ciascuno prenda in esame la propria vita – famiglia, lavoro, impegni, ecc – e si soffermi su quel che può praticare, per migliorare la propria condizione, sia per l’oggi, sia per le scelte che potremo trovarci ad affrontare domani.
I bisogno primari dell’umanità sono principalmente tre: ripararsi, cibarsi e coprirsi. Iniziamo da quelli.
Il “riparo” è la casa, bene per il quale gli italiani s’indebitano per generazioni.
Pensandola un po’ come un aikidoka – ossia una persona che utilizza la forza d’attacco avversaria e la trasforma in difesa – in fin dei conti lasciano degli spazi, dei “buchi” aperti attraverso i quali potrebbe transitare un esercito.
L’Italia è un Paese a forte urbanizzazione: tutti gli indicatori statistici ed economici lo mostrano.
La ragione?
Una serie d’errori strategici compiuti negli ultimi decenni: nessun serio piano per salvare la nostra agricoltura al punto che oggi, per sette agricoltori anziani, in Italia, ce n’è soltanto uno giovane. In Francia e Germania, ad esempio, c’è praticamente la parità, ossia un normale ricambio generazionale in agricoltura.
La rapida industrializzazione che seguì la Seconda Guerra Mondiale fu pagata dalle campagne, che videro intere comunità giungere al lumicino: oggi, i medesimi luoghi sono praticamente delle comunità di pensionati.
Va da sé che il mercato immobiliare ha seguito l’andazzo e, la medesima situazione abitativa, in un paesino costa da 1/3 ad 1/6 rispetto alla città, affitto o casa di proprietà essa sia, al punto che le agenzie immobiliari sono poco propense a trattare questi immobili, giacché i margini di guadagno sono minimi.
Un appartamento in città, del valore di 300.000 euro, in un paesino scende sotto i 100.000; di più: le case isolate, con terreno annesso (veri “sogni” per chi abita in città), spesso costano ancora meno. Non tutte le aree del Paese seguono questo andazzo – i rustici maremmani non costano certo poco – ma tutta l’area prealpina ed appenninica ha subito una forte riduzione dei valori immobiliari, e sarebbe un peccato non approfittarne.
Si potrà obiettare che il lavoro è in città: con la perdurante crisi, di sistema per l’Italia, l’accentramento nelle città diventerà presto inutile. A ben vedere, l’urbanizzazione – dalla rivoluzione industriale in poi – è stata una necessità, più che una scelta: ora, che le aziende smobilitano, chiudono, riducono il personale, è ancora sensato programmare il proprio futuro in una città?
Ci sono moltissime attività professionali che si possono svolgere anche lontano dalla città – per questo non incentivano la banda larga, sono più furbi di quel che pensiamo – oppure recandosi in città solo per il tempo necessario.
Nelle scuole, spesso, anche personale di ruolo si sposta dalla città al circondario, segno che preferiscono vivere in città. Ma conviene?
Quali sono i vantaggi del decentramento?
Non si tratta soltanto del basso costo delle abitazioni, bensì del minor costo di molti balzelli, ad iniziare dalla tassa sulla spazzatura, l’acqua…per terminare con nessuna multa per divieto di sosta.
E l’energia?
Nei piccoli paesi è prassi che ci si riscaldi con la legna: scaldo circa 180 metri quadrati (più l’acqua calda per circa otto mesi l’anno), in una zona molto fredda e nevosa del Piemonte, con circa 1.500 euro l’anno. Le caldaie a legna, oggi, sono dei veri e propri gioielli, che consentono la carica una sola volta il giorno, ed è possibile controllare molti parametri per risparmiare.
Ho eseguito una semplice comparazione con mia suocera, che abita in Riviera, la quale – per riscaldare una villetta di circa 100 metri quadri – spende un capitale in metano e sta al freddo.
Fra l’altro, questi sistemi centralizzati consentono ogni genera di truffa: dagli scandali dei contatori “taroccati” che ogni tanto saltano fuori, fino all’anidride carbonica immessa nelle tubazioni (con la scusa di mantenere costante la pressione) che ci fanno pagare come metano. Provate a non utilizzare il metano per qualche mese: quando riaprirete le valvole dell’impianto, per parecchi minuti uscirà un gas che sa di metano, ma che non s’incendia. Più, ovviamente, tasse e balzelli che spillano con mille scuse sulle bollette.
Quando acquistate la legna, comprate energia e non foraggiate nessun apparato legato al potere: se, invece, siete robusti potrete tagliarla da soli, in un appezzamento di vostra proprietà oppure comprando il “taglio” a prezzi irrisori. In questo caso vi servirà qualche attrezzatura, ma una motosega ed un vecchio trattore vi costeranno quanto un’utilitaria usata!
Passiamo al secondo bisogno primario: coprirsi.
Mi fa quasi sorridere il pensiero di spendere soldi per gli abiti: la gente butta via di tutto! Approfittiamone!
In questi giorni di freddo, indosso il cappotto che fu di mio padre ed il cappello che fu di mio suocero: le colleghe – sempre attente a come vai vestito – mi chiedono dove ho scovato due capi così eleganti. Dal guardaroba di due persone a me care, ma oramai defunte! Stessa cosa per il lussuoso impermeabile che metterò in Primavera: roba di sartoria parigina. Era dello zio di una mia amica.
Ma non si gettano solo gli abiti dei defunti: un’amica di mia moglie, le telefonò per chiederle se le interessava una pelliccia di visone, giacché l’aveva letteralmente tratta dal sacco che la figlia stava gettando nella spazzatura. Ed è perfetta, senza il minimo difetto!
Conoscere, poi, una persona che fa il rigattiere è forse più proficuo d’avere amici banchieri: nessun pezzo d’antiquariato che ho in casa – dagli armadi in noce ai secretaire, le madie, le culle, le scrivanie – fu pagato più di 100.000 lire. Ci vuole parecchio lavoro per rimetterli in sesto, ma del “fattore” lavoro parleremo al termine dell’articolo.
E non buttano via solo le cose vecchie: tempo fa, il rigattiere mi regalò un lettino da bambini per mio nipote – una marca notissima, “di grido” – ancora imballato nel cellophane. Era stato gettato via senza esser mai stato usato!
In alcune città esistono oramai dei centri di scambio gratuito, oppure magazzini dove si trova a poco prezzo roba usata in buono stato: alcuni esempi? Rarissimo modellino di un leudo (barca ligure con l’albero inclinato verso prua) in legno, perfetto: cinque euro. Binocolo Zeiss perfettamente funzionante, in uso agli ufficiali tedeschi della
Kriegsmarine (il meglio che esista): 100 euro.
Un tempo anche e-bay era conveniente, e lo è ancora molto, ma per le cose nuove: lentamente, è diventata una vetrina commerciale per addetti ai lavori. Non mi strappo le vesti per questo mutamento, e per molti acquisti è conveniente, ma il rigattiere rimane la miglior vetrina.
E passiamo al cibarsi.
Nell’abitudine globalizzata, cibarsi significa fare lo shopping al supermercato: attentissimi alle etichette, alla qualità (?), alla certificazione (boh…), alla provenienza (mah?)…
Ciò che vogliono è privarci della possibilità d’essere, almeno parzialmente, autosufficienti: tutto l’ambaradan globalizzato pensa al “fai da te” solo per venderti trapani e seghetti. A patto che li usi pochissimo, altrimenti mandi in malora l’industria del mobile e l’edilizia: contraddizioni capitaliste.
Il verduriere, in campagna e nei piccoli paesi, è sotto casa: si chiama “orto”.
Provate a sottrarre dal vostro bilancio mensile gran parte della spesa per i vegetali: fatto? Quanto vi rimane?
L’orto non è soltanto una fonte di ricchezza e di salute: è una pratica zen.
Ci vuole tempo, impegno ed un po’ di fatica ma la ricompensa è, sul piano meramente pratico, avere deliziosi minestroni e fantasiosi sughi ogni giorno, verdure così gustose che – quando assaggerete quella del supermercato – vi sembrerà di masticare della plastica.
Ci sono, inoltre, due importanti “ricadute”: la prima è la fiducia in se stessi che nasce dalla soddisfazione di provvedere, da soli, ad un bisogno primario. Non si tratta di un borioso “l’ho fatto io”, bensì della consapevolezza d’essere in grado d’ottenere dei risultati senza dover chiedere niente a nessuno. E, di conseguenza, nessuno potrà ricattarvi per quello che sarete in grado di fare da soli.
Il secondo frutto è più sottile, e si gusta negli anni: è la pace interiore che si prova osservano le file ordinate degli ortaggi che crescono, la bellezza dei fiori che diverranno frutti, i contrasti di colore fra il verde acceso della Primavera e la terra smossa, oppure il rigoglio di colori dell’Estate e dell’Autunno. Vi scoprirete silenziosi e consapevoli attori di un processo del quale fate parte, e la vostra mente farà una gran scorpacciata d’endorfine.
Ma l’orto non è soltanto un piacere solitario, se avrete la fortuna d’avere un vicino con il quale andate d’accordo: un vicino, tanti anni fa, mi regalò 125 piantine di finocchio, che trapiantai. Quell’anno, le condizioni meteorologiche furono favorevolissime per i finocchi: regalai finocchi a tutto il vicinato.
L’orto diventa, dunque, il luogo dove la ricchezza perde significato, perché – quando un ortaggio cresce bene ed è abbondante – a parte la modesta quantità che potrete congelare, il resto vi toccherà regalarlo. E lo farete con gioia.
Lo scambio diventa la regola con i vicini: hai una pianta d’albicocche? Più famiglie faranno la marmellata. Sei scarso d’insalata? Quello che, nell’Estate, ha raccolto le tua albicocche, provvederà.
Posso raccontare queste cose per esperienza diretta, per centinaia di baratti che ho fatto senza toccar moneta: mangio i germogli di bambù di mio cugino perché a lui non piacciono, tanto qualcosa da barattare ci sarà sempre.
Autosufficienza e baratto sono una delle migliori medicine che possiamo prendere per guarire dalla malattia del capitalismo: ricordiamo che, fra i Nativi Americani, era usuale scambiare in modo rituale gli oggetti, come le offerte sacrali del nostro mondo antico.
Voglio però terminare con una tiratina d’orecchie.
Si trovano appezzamenti da adibire ad orto sempre più facilmente: perché? Poiché sono pochissime le persone sotto i 40 anni che meditano di tenere un orto: i vecchi se ne vanno, e crescono le erbacce.
In compenso, fioriscono le palestre: vuoi un fisico “da sballo”? Vieni – la mielosa canzone capitalista – spendi ed attueremo la metamorfosi: conosco persone di 90 anni che non hanno mai visto una palestra in vita loro, ma hanno sempre coltivato l’orto, ed hanno dei fisici che ci metterei la firma ad averli io, quando e se arriverò a quell’età.
Cari ragazzi (scusate la deformazione professionale): se volete iniziare a pensare ad un mondo più giusto e più equo, ma anche più gioioso e salubre, qualche abitudine bisogna cambiarla. Ed accettare anche un po’ di fatica.
Va benissimo informarsi, studiare, discutere e criticare ma è meglio anche “saper fare”, perché nessuna pratica della sola mente vi donerà quelle sicurezze interiori che derivano dal mangiare la propria insalata, dal trasformare un tronco d’albero in una scrivania, dal risistemare le tegole del tetto dopo le nevicate invernali.
E, quando sarete temprati dall’esperienza, sempre meno persone potranno raccontarvela per coprirvi di dubbi ed approfittare di voi: ci vuole un po’ d’impegno – questo è certo – ma il risultato è certo. Provare per credere.
Un futuro di comunità interdipendenti deve necessariamente progredire su due gambe: l’analisi teorica, la sintesi delle soluzioni, la curiosità per l’innovazione e lo scambio dell’informazione. Ma, se manca la prassi dell’esperienza diretta, è un mondo che nasce zoppicando. E continuerà a claudicare.
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