“…domani Miché
nella terra bagnata sarà
e qualcuno una croce col nome la data
su lui pianterà…”
Fabrizio De André - La Ballata Del Michè – dall’album Tutto Fabrizio de André – 1966.
Non riuscivo più a scrivere: tutto mi sembrava inutile e stupido di fronte ai suoi occhi mansueti…il Bilderberg, l’ambientalismo, persino la storia sulla quale sto lavorando da mesi…perché quegli occhi erano quelli dell’agnello ferito, colpito proprio da chi sarebbe stato deputato ad aiutarlo.
E mi sento colpevole, poi vedremo il perché.
Ma è anche un modo d’aprire una porta sulla Sanità e sulla vita e sulla morte, sulle quali passiamo troppo spesso “a volo d’uccello”. Tutto quello che leggerete di seguito è tutto vero, a parte i nomi sostituiti per non incorrere in guai di privacy.
Adriano, nel 1997, ebbe un ictus che gli paralizzò la parte destra senza però toccargli le funzioni cerebrali: a 46 anni si trovò la vita dimezzata, le possibilità di vivere normalmente quasi a zero, la voglia di vivere…ah, sì, la voglia di vivere…non so, avrei dovuto essere nella sua testa nelle notti insonni per saperlo veramente.
Di famiglia agiata, aveva perso la madre per una malattia quando era poco più che ventenne: non sappiamo quella sofferenza – così lontana – quanto lo segnò. Il padre, in ogni modo, cercò negli anni e nel possibile di fare le due parti: nel possibile, come si può.
Una vita sgangherata, anche prima dell’ictus: notti insonni, mille lavori cambiati, di donne non sappiamo molto, ma c’è una cosa che va notata.
Da giovane, Adriano migra a Roma e là conosce il mondo del cinema: Agostina Belli ed Helmut Berger, una sera, addirittura, Ugo Tognazzi e ci racconta storie di quelle sere romane. Perché? Poiché Adriano è un grande appassionato di cinema ed è un fine intellettuale rimasto “pre-Internet” per scelta: è anche un bravo musicista e suona il pianoforte per anni in un suo gruppo.
Dedica il tempo alla lettura – dopo l’ictus ancor più – ed alla filmografia meno conosciuta: comunica le sue intuizioni filosofiche ad una ristretta cerchia di amici via cellulare, semplici messaggi che invia spesso all’alba, prima d’addormentarsi.
E’ credente e, spesso, i suoi messaggi sono intrisi di religiosità: “Il Divino fluisce, navigando sopra il mare della negatività!” oppure “Aspettare che il Divino agisca vuol dire separarlo, è agendo che Lui si cala in noi divenendo uno con noi!”. Spesso non so cosa rispondere, non so nemmeno se sono sue intuizioni o frasi riportate: mi guardo bene dal chiederglielo.
Mentre lo osservo mi domando come sia stato possibile che non ci siamo conosciuti prima: tutti i suoi amici sono anche i miei, un caso veramente strano. Così, quando chiede se c’è qualcuno disposto ad aiutarlo per le mille incombenze della vita – preparare qualcosa da mangiare, fare la spesa, le mille burocrazie – mia moglie si fa avanti: in fin dei conti, le sembra un buon modo per “dimenticare” i tanti lutti che ci hanno colpiti.
Ed inizia una nuova vita, come sempre quando ci sono interessi nuovi e persone nuove, che portano nuovi ricordi e nuove situazioni: Adriano è più felice, mia moglie è contenta perché sa d’esser utile, di fare ancora qualcosa per qualcuno.
La sera, prima di riaccompagnarlo a casa, so che si fermano ad un certo bar: arrivo col casco da motociclista e faccio finta d’essere un poliziotto in borghese che li ha multati per l’auto mal posteggiata…mia moglie, due secondi dopo già ride…dai Carlo, bevi qualcosa…
Tutto sembra andar meglio, in una situazione che di “buono” ha assai poco: a volte, però, anche il peggio può avere un lato migliore e già Parmenide affermava che “il poco è cosa assai diversa dal nulla”.
A Settembre 2012 un’altra cattiva notizia: il padre – 92 anni – sta morendo. Adriano lo assiste impotente ma colmo d’affetto: i segni di quei giorni li porta sul corpo, nella occhiaie più infossate, nei silenzi sempre più lunghi che intercalano la voce.
Passano le mille incombenze: il funerale, la successione…l’aiuto di mia moglie è determinante in quelle faccende (con le volte che ci siamo passati!) e Adriano sa d’avere un pilastro al quale aggrapparsi.
Ho dimenticato di parlare della famiglia: una serie di cugini inesistenti, che non si fanno mai vedere e per questo lui fida di più degli amici, ovvio. Sono anche i suoi eredi, che non s’interessano di lui.
Poi arriva una tegola – a ben vedere una situazione risolvibile – ma bisogna entrare nella testa di chi ha solo mezzo corpo a disposizione: le paure si moltiplicano per mille, le ansie lo divorano.
Se l’INPS tarda un po’ troppo per confermargli la reversibilità della pensione del padre (gli invalidi al 100% ne hanno diritto) si fa vivo l’amministratore: c’è un “buco” pregresso di 5.000 euro. Per carità, nulla di così terribile: l’amministratore assicura che aspetterà, mia moglie gli presenta un piano di rientro che, in capo a tre anni, gli consente di pagare quel che resta del funerale del padre e l’amministratore. Dai, stai tranquillo: tutto s’aggiusta.
E invece non va a posto nulla, perché Adriano ne ha sopportate troppe negli ultimi anni: abituato bene, non sapeva che il padre aveva dilapidato il patrimonio familiare (con una donna, si dice) ed ora tocca a lui sopravvivere e pagare i debiti con 1.400 euro il mese. Lo so che per noi sembra una situazione risolvibile, ma bisogna essere nella sua testa.
Inizia a star male finché, una sera, mia moglie ed un amico lo trovano a letto: la Guardia Medica lo ha liquidato al telefono con “è l’influenza” senza recarsi da lui, il suo medico è uccel di bosco da tempo, il cellulare è per terra e non è riuscito a raggiungerlo, vaneggia, ci mette un po’ a riprendersi. Dai, forza, andiamo a cena da Carlo.
Arriva e scendo: noto subito che ci mette il doppio del solito ad attraversare il giardino, la scala – poi – è un tormento. Finalmente si siede al suo posto – è la sera di Santo Stefano – e ci sono i cappelletti in brodo “sciacquabudella” per mettere il fegato a suo agio, dopo tanti piatti della festa e vini d’annata.
Lo osservo, man mano che mangia sembra prender forza e si colora un po’: poi, scoppia a piangere e ci chiede grazie per quello che facciamo per lui, ci sentiamo un poco imbarazzati. E qui commetto il mio errore.
Le condizioni di Adriano rimangono pessime: e chi lo riaccompagna a casa e ce lo lascia? Con quel tremore, quei reni che destano più di una preoccupazione…perché non vai in ospedale a fare un po’ d’analisi? Accetta, obtorto collo, perché sa che non ha altra scelta.
Ce la prendiamo con calma e ci presentiamo al Pronto Soccorso che è l’una passata: c’è poca gente, lo guardano subito. Noto che è un codice giallo, ma appena passata la visita cambia in verde: meno male, evidentemente non ci sono grandi cose.
Il medico afferma che ha qualche valore del sangue fuori posto e che bisogna indagare: lo metteranno in medicina a fare un bel “lavaggio” di fegato e reni. Ci sembra una buona soluzione.
Il giorno dopo Adriano è triste (e chi non lo è in ospedale…) e rassegnato: però si alza per il pranzo e per la cena e mangia al tavolino, con la flebo attaccata. Insomma, le cose non vanno tanto male.
Il terzo giorno gli danno una pastiglia che non sopporta e che lo fa star male: vomita più volte. L’infermiera – ho notato che ci sono altre pastiglie sul comodino – conferma “no, non deve prenderle, lo fanno star male”. E qui Adriano commette quello che sembra un errore: alza la voce.
“Arriva o non arriva questo anti-emetico? E’ tutto il pomeriggio che lo chiedo!” non sentono, e allora lo urla.
Puntuale, arriva la “consulenza” psichiatrica, la quale conclude che non c’è niente di “significativo” – come sia giunto il medico a questa conclusione mi è strano, Adriano ha una depressione che galoppa… – però non manca la cura per farlo “stare tranquillo”. Valium, una pera che addormenterebbe un cavallo.
Il giorno seguente Adriano è assente: a malapena riesce a salutare ed a pronunciar qualche parola. Gli chiediamo se dobbiamo avvisare i cugini, solo lui ha i numeri di telefono…uno, addirittura, è un ex primario: è andato in pensione solo l’anno scorso nello stesso ospedale…no, Adriano si agita, no, niente parenti, voglio solo voi, i miei amici…
Andiamo a parlare con la dottoressa, ma non essendo parenti ci dirà quello che vuole: ci racconta che Adriano è un alcolista. Un alcolista?!? Sì, lo abbiamo dedotto dalle analisi e dalle sue affermazioni: certo, penso, “bombardato” com’è gli fai dire quello che vuoi…ci spertichiamo, siamo in tre – io, un ex infermiere ed un dipendente comunale – lo conosciamo bene…sì, beveva un bicchiere a pasto, d’Estate un po’ di birra al posto del vino, ma non è un alcolista, perdio! A questo punto siamo tutti alcolisti! E poi, l’alcolismo è una malattia psichiatrica, ci vogliono gli estremi per diagnosticarla, mica bastano delle analisi!
Osservo meglio la dottoressa: avrà quarant’anni, mal portati. Due lenti spesse mascherate da una montatura sapiente, viso tirato, poco trucco, capelli biondi (saranno naturali? Boh…) ed un’aria stanca e depressa: mentre parla con noi non smette di maneggiare qualcosa al computer e la sentenza è sempre la stessa, è un alcolista, lo curiamo, se vi va bene è così, altrimenti ciccia…
Usciamo, ringraziando il cielo di non aver mai incontrato un medico del genere: già, ma lo ha incocciato Adriano!
Dopo qualche giorno M. – l’ex infermiere – comincia a cedere…non possiamo pensare che Adriano, quando uscirà, potrà fare la vita di prima, dobbiamo trovare una soluzione, credetemi: dovrà andare in una residenza protetta. Non pronuncia la parola “ricovero” per non farci trasalire, ma la sentenza è chiara a tutti.
Già, penso: prima d’entrare qui dentro, però, Adriano camminava con le sue gambe e se la cavava…
R. – il dipendente comunale – s’attiva con le assistenti sociali: l’assistente sociale non c’è, è in ferie, c’è la sostituta che, però, è un’infermiera qualsiasi e non può prendere impegni. Fino al 7 Gennaio.
Pochi giorni dopo, Adriano viene spostato in un altro reparto: ci dicono “riabilitazione” e tiriamo un sospiro di sollievo.
Un medico ci sussurra che la “situazione è difficile” e, quando ribattiamo il trattamento pesantissimo subito con gli psicofarmaci, a denti stretti confessa “che sotto ci vanno giù pesante”.
Arriva, finalmente, uno dei parenti: è un cugino che, ogni tanto, lo degnava di una telefonata: trasale – ma neanche troppo – e ci racconta che Adriano è sempre stato uno sbandato. Insomma, se crepa se lo è solo meritato. Taccio per non mettergli le mani addosso: qualcuno mi ha sussurrato che in quella famiglia sono tutti massoni, compreso il padre defunto di Adriano.
Adriano, oramai, vive in un limbo tutto suo: a volte capisce, altre no, talvolta fa appena un cenno con la mano. Vive in un torpore continuo, che non è da lui. Ma che cos’ha? Nessuno ci risponde: è un alcolista, verrebbe da ridere se la situazione non fosse tragica.
Lunedì 14 Gennaio andiamo all’ospedale: sull’ascensore incontriamo una badante che avevamo conosciuto nel reparto di prima – quello del Valium a gogo, tanto per capirci – e ci confessa che, la sotto, sono più duri di una pietra.
Aveva chiesto un calmante per il vicino di letto del suo assistito – che si lamentava per il dolore – e s’è sentita rispondere: “che tanto sta morendo, un calmante non serve”.
Ci salutiamo, sull’ascensore, con la tristezza negli occhi: non facciamo in tempo ad entrare nel reparto che R. ci viene incontro: “sta morendo”. Ma come? E di che cosa? Proseguiamo.
Adriano è in coma – hanno già messo i teli verdi – e rantola: sale il groppo alla gola. Un’ora ed è tutto finito, se ne va: vai Adriano, lascia questa metà di un corpo che t’ha fatto soffrire così tanto. Liberati, che il Bardo ti sia benigno.
M. – che è stato infermiere, ribadiamo – è frastornato, pronuncia una sola frase che basta, però, a gettare una luce sinistra sugli eventi: “in tanti anni, non ho mai visto nessuno entrare in ospedale come Adriano, con le sue gambe, ed uscire con i piedi davanti in questo modo, senza un perché, senza una motivazione seria…”
A questo punto vorrei chiedere il sequestro della cartella clinica da parte dell’autorità giudiziaria…ma mi accorgo d’essere senza forze, svuotato. Succede, succede, quando tutto finisce. E poi non so nemmeno se potrei farlo, non essendo un parente.
Come se la notizia si fosse improvvisamente sparsa per vie misteriose, arrivano tutti i parenti, ma proprio tutti…cugini di qua, cugini di là…tutti gli eredi (la casa vale parecchio) e decidono per una cosa “semplice”: non vorrebbero nemmeno andare a casa per prendere il vestito bello e per loro basterebbe metterlo nella cassa così, con il pigiama. Non è una questione di abiti, bensì di dignità, ricordo: perché Adriano non lo merita? Convengono e ci rechiamo a casa a prendere l’abito.
In ogni modo, niente funzione in chiesa – Adriano era credente, perché negargliela? Qui sono irremovibili – si parte dall’obitorio e si va direttamente al cimitero, dove gli daranno una benedizione. Anche i cani meritano una benedizione, quando muoiono: capiamo che, in quella famiglia – a questo punto ritengo che le voci sulla massoneria siano fondate – chi non è “on” è una merdaccia, non merita nemmeno una messa. Che faremo celebrare noi in seguito: gli amici, le merdacce come lui.
Qui finisce la storia, salvo che ogni tanto – quando mi volto, a tavola – mi sembra di vederlo accanto a me, che racconta dei suoi anni “romani”.
Rimangono due riflessioni: una – se vogliamo – banale (ma neanche troppo) ossia cosa sta succedendo nella sanità a forza di “tagli”?
La seconda è più dolorosa e nascosta: siamo certi che le cure – i cosiddetti “protocolli” – siano uguali per tutti e non tengano conto dell’età?
Incominciamo dalla più facile, dalla prima.
La sanità, con la “cura Brunetta” ha perso 39.000 medici: da 319.000 a 280.000 – pensionati a 58 anni, basta farli fuori – che rappresentano il 12% del personale attivo. Stessa sorte per gli infermieri. Ora, immaginiamo cosa significa il 12% in meno? Per il nano malefico solo dei numeri, poi ripresi da messer Monti quando affermò “che dovevamo dire addio a questo modello di Sanità”.
Ve lo racconto io, nella realtà di tutti i giorni, non nei tabulati del Ministero delle Finanze.
Febbraio 2011, mia madre – dopo tre angiografie – deve subire un intervento di by-pass sotto il ginocchio, per ricollegare i vasi inferiori con quelli superiori: c’è un intoppo a livello del ginocchio. In poche parole, si tratta di prelevare una vena dal ventre e sistemarla al posto dell’arteria otturata. 7 ore d’intervento.
Alle tre del pomeriggio – scoccata l’8° ora – inizio ad essere nervoso ma, colpo di fortuna, uno dei medici che la operano esce e si avvicina al distributore del caffè.
“Tutto a posto” – mi previene – “il mio collega la sta ricucendo, è andato tutto bene”.
“Dottore, ma avete operato per otto ore…”
“Se tutte le giornate fossero così ci sarebbe da spararsi..” lo osservo meglio: la schiena mostra un’evidente macchia di sudore e il viso è stanco, nonostante la giovane età.
“Avevo un amico che faceva il chirurgo infantile” – racconto intanto che beviamo il caffè – “e mi diceva che l’orario di lavoro era di 6 ore circa il giorno per 6 giorni, ma che era raro trascorrere in sala operatoria più di 2-3 ore, perché dopo cala l’attenzione.”
“Sì, è proprio così, solo che – oramai – l’emergenza è diventata il ritmo normale: qui siamo in nove, primario compreso, e dobbiamo gestire tutto quel che succede nel ponente ligure, tutto…dall’ictus improvviso a situazioni come quella di sua madre…se approvano quella legge (la riforma Brunetta N. d. A.) non so dove andremo a parare…uno di meno…metti che uno si ammali…e ci ritroviamo con turni da incubo!”
Lui non lo dice, ma loro sono una di quelle “eccellenze” delle quali si riempiono la bocca i politici: proprio a Febbraio del 2011, il pilota di rally Kubica scivolò fuori strada e si ferì gravemente (2). In sette ore d’intervento i medici dello stesso ospedale ricostruirono il braccio destro: sistema nervoso, vascolarizzazione, ecc, dandosi il cambio in 4 medici a coppie per riuscire nell’impresa. Mi rende orgoglioso sapere che, fra quei nove, ci sia un nostro ex allievo.
Insomma, l’equilibrio è fragile e l’eccellenza deriva da due fattori: una buona “scuola” (o tradizione consolidata, di primario in primario), personale e mezzi a sufficienza.
Cosa capita se vengono a mancare i due presupposti?
Il primo – ossia le competenze – rimangono perché i migliori medici saranno attratti dai reparti d’eccellenza – vuoi per soldi o per semplice lustro – il problema è “a scalare”: dove andranno i medici che valgono di meno? A lavorare nelle strutture “comuni”, ossia nei reparti di medicina senza convinzioni, specializzazioni, ecc.
Il secondo fattore è più pericoloso: siccome i reparti continuano a funzionare come niente fosse, i medici “bravi” verranno sottoposti ad uno stress spaventoso, fin quando non getteranno la spugna per andare in un altro posto (all’estero, ad esempio, o nella sanità privata).
Le stesse considerazioni valgono per il personale infermieristico: poter far affidamento su personale altamente specializzato in sala operatoria è un fattore essenziale per il successo.
Risultato: i reparti di eccellenza verranno svuotati dai migliori medici – e quindi perderanno le competenze d’avanguardia – mentre i reparti “comuni” saranno gestiti da persone di “seconda linea” senza ambizione e diventeranno luoghi assai “pericolosi”.
Viene ora il momento d’analizzare la seconda ipotesi, ossia se negli ospedali viga qualche “ordinanza” superiore riguardo alle cure: ossia se, oltre un certo limite, i protocolli non prevedano ulteriori cure per pazienti anziani o con problemi od handicap gravi.
Recentemente (3), un ministro giapponese s’è espresso a favore della cessazione di fornire il servizio oltre una certa età o in certe condizioni, e lo ha fatto richiamando quello che io definisco il principio “dell’alveare” che regola i rapporti in quel lontano Paese. Nippon in primis, tutto il resto viene dopo: non a caso al samurai ritenuto inutile o dannoso veniva chiesto di togliersi di mezzo suicidandosi.
So che questo è un problema spinoso e, se lo seguissimo, ci perderemmo in mille contraddizioni: ciò che rimane è che, in Giappone, si può “chiedere” la vita per la patria in molti modi. Cosa assolutamente inconcepibile qui, in Italia.
Ci bombardano con i casi eclatanti (Eluana, Welby, ecc) ma si dimenticano di dire quante morti sono, per lo meno, “sospette”.
Se volete la mia schietta opinione, non vedo complotti perché non necessari: basta agire sui finanziamenti alla sanità e permettere ogni sorta di nefandezza finanziaria – rimembriamo, per quel che riguarda le tangenti, che con l’impianto sanitario regionale abbiamo moltiplicato i “Poggiolini” (4) a dismisura, fino a giungere ad un Tarantini che non “riusciva” a campare con meno di 20.000 euro il mese – e tutto questo è funzionale al potere. Ed è tutto incentrato sulle Regioni e sulla Sanità.
Si toglie, s’elimina qui e là, si sperperano soldi con le tangenti e le escort…alla fine, viene da sé che una persona non trovi più affidamento nella sanità pubblica: o ha i soldi per cure private, oppure crepa.
Senz’altro mille cose…particolari, riflessioni mi sono sfuggite: a questo, sono sicuro, porranno rimedio i lettori.
Una cosa però è chiara: avvicinandosi il voto, non scordiamo questo importantissimo settore del welfare che si pensa sempre “capiterà ad un altro”. Non è vero per niente: può capitare a tutti di varcare la porta di un ospedale: e allora? Non ci saranno calmanti disponibili perché i soldi sono stati spesi per sollazzare qualche caporione con una escort?
Nessun voto all’attuale casta: non facciamoci abbindolare, c’è una sola forza che merita il nostro assenso e sapete tutti qual è.
(1) Leggi:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ospedali-senza-medici%3Cbr-%3E/2123141
(2) Vedi:
http://www.corriere.it/sport/11_febbraio_06/kubica-incidente_6303d6ea-31dd-11e0-a054-00144f486ba6.shtml
(3) Fonte:
http://comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&thold=-1&mode=flat&order=0&sid=11389
(4) Vedi:
http://it.wikipedia.org/wiki/Duilio_Poggiolini