27 maggio 2008

Vattelapesca forever

Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.
Reinhold Würth, imprenditore tedesco che ha costruito, partendo da una ferramenta, un’azienda di levatura mondiale, che occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari.

A dire il vero, non meriterebbe nemmeno d’interessarsi alle vicende della misera borghesia italiana, tanto è diafana e poco incisiva nel panorama europeo; verrebbe da dire: lasciamo questi poveri parvenu in SUV al loro misero destino, se il loro fato non intersecasse il nostro.
Era tanto tempo che non s’udiva un condensato di bugie e pessime intenzioni – di tal, miserrimo livello – in una relazione di Confindustria: anche gli imprenditori italiani confermano l’andamento “in picchiata” del Paese.
L’assemblea, che ha accolto Emma Marcegaglia come novella presidentessa degli industriali italiani, è iniziata con un minuto di silenzio per l’oramai quotidiano morto sul lavoro. Probabilmente, sicuri delle statistiche, erano riusciti a programmare già tutto il giorno prima. Avrebbero potuto fare tre ore di silenzio, perché il resto del tempo è servito soltanto a sparare cavolate a fiumi.

La prima uscita è in perfetta sintonia con il minuto di silenzio, per uno dei tanti poveracci che crepano nei lager italiani definiti “luoghi di lavoro”: de-tassazione degli straordinari! Evviva! Siamo con te – echeggiano – Veltrusconi in sala.
Chi ha un minimo di conoscenza del lavoro, anche un semplice delegato sindacale, dovrebbe conoscere gli studi che da decenni si attuano sul rapporto fatica/lavoro, ossia sulla stanchezza del lavoratore.
Senza entrare troppo nei particolari né ingombrare spazio con grafici, si sa che l’attenzione è vigile nelle prime quattro ore di lavoro, poi inizia a decrescere nelle successive due, mentre nelle ultime due finisce per crollare. Non bisogna essere degli scienziati per capirlo: chiunque lavori od abbia lavorato lo sa.
In un Paese flagellato da anni, sempre più, dalla piaga dei morti sul lavoro, la “bella pensata” è quella d’aggiungere altre ore di lavoro all’orario: dai, che così ti porti a casa una bella “busta”! Insieme alla roulette russa.
Veltrusconi plaude.
E’ naturale pensare che, se aggiungiamo ore di lavoro, la fatica aumenta, la qualità del lavoro decresce ed il rischio di farsi male aumenta enormemente.
Risultato: lavoratori sempre più stanchi, maggior incidenza del rischio.
Per lor signori, invece, gli straordinari significano meno persone impiegate (e, quindi, minori costi fissi) ed un maggior sfruttamento del singolo lavoratore. Ne crepa qualcuno? E beh? Quanti minuti di silenzio si possono fare nelle ventiquattr’ore?
Il denaro può rappresentare certo una motivazione, ma se il lavoratore – proprio perché sono sempre meno e lavorano di più – quando torna a casa ritrova i figli disoccupati o sotto-occupati, che fa? S’attacca ai 200 euro di straordinario?
Il modello proposto, e benedetto da Veltrusconi – inutile girare intorno al problema – è quello americano: paghe basse, lunghi orari di lavoro, poche vacanze. Insomma: trotta e galoppa (se ci riesci) in silenzio. E’ sotto gli occhi di tutti quale “miracolo economico” stiano vivendo gli USA con questa impostazione.

E veniamo alla seconda “pensata” di Emma. Per scaldare la platea, è sempre utile dare addosso ai fannulloni, che sono identificati con i maledetti statali. Emma non pensa che, così parlando, demotiva ancor più milioni di statali, ma Emma non ha una cultura dello Stato: d’altro canto, la classe imprenditoriale italiana non ce l’ha mai avuta.
Veltrusconi, in sala, ammicca.
Emma, però, non si è nemmeno informata; allora provvediamo noi a fornirle qualche dato, perché qui siamo oramai arrivati alla nota teoria: “dammi tre mezze bugie e ti costruisco una mezza verità”.
Emma e Veltrusconi non sanno (e, da parte di Veltrusconi, è più grave) che la Ragioneria Generale dello Stato – alcuni mesi fa – aveva promosso una rilevazione su base nazionale per conoscere la situazione delle assenze per malattia nel pubblico impiego. L’esigenza era scattata dopo l’esternazione del predecessore di Emma, il Lucherino da Montezemolo, il quale aveva urlato, inorridito: «Si assentano tre volte i loro colleghi del settore privato! Ci costano 14 miliardi di euro l’anno!». Dovessimo mai fare i conti di quanto ci è costata la FIAT.
Comunque, ecco i dati delle ore annue d’assenza, elaborati dalla CGIA di Mestre su quelli forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato:

Ministeri: 14,31
Corpi di polizia: 13,31
Agenzie fiscali: 13,11
Presidenza del Consiglio: 12,95
Regioni e nelle Autonomie locali: 12,73
Enti non Economici: 12,69
Sanità: 12,40
Enti di ricerca: 11,38
Regioni a statuto speciale e le province autonome: 7,31

La media ragionata, sulla base dei dipendenti in servizio nelle varie amministrazioni eseguita dalla CGIA di Mestre, è di 11,54. Quella dei lavoratori metalmeccanici del settore privato è di 9,6. Differenza: 1,94 giorni l’anno – meno di due giorni! – per un costo di circa 4 miliardi di euro, non 14 come aveva urlato il Lucherino. Va bene che gli zeri davanti non contino nulla, ma gli “1” qualcosa contano.
Evidentemente, Lucherino, Emma & Veltrusconi hanno bisogno di qualche ripetizione in Matematica: oppure, dovrebbero tornare a scuola “d’onestà”, visto che i dati sono ufficiali, emanati dalla Ragioneria Generale e disponibili per tutti sul Web.
E due.

Il terzo boccone è di quelli ghiotti, perché Emma si lancia nell’agone energetico: e facciamo ‘sto nucleare!
Berlusconi fa finta di dire sì, Veltroni finge di dire no. Ad entrambi, frega assai poco: lasciamola dire. Scajola assicura che sarà posata la “prima pietra” di quattro centrali entro pochissimi anni. All’uomo che osò definire “un rompicoglioni” Marco Biagi, a cadavere ancora caldo, avremmo molti consigli da dare sul come utilizzare quella prima pietra. Ne basterebbe una.

Abbiamo però una buona notizia da fornire ai tanti, infervorati sostenitori dell’atomo: il problema delle scorie è stato risolto!
Non possiamo, ovviamente, rivelare qui le nostre fonti, ma possiamo assicurare che esiste già l’assenso di un Comune italiano per la custodia del materiale nucleare esausto prodotto dalle centrali.
Possiamo rivelare solo il nome del comune: nulla più. Ovvio: c’è il segreto di Stato su tutto, oramai, anche sul rubinetto del gas sul balcone. Lo vuoi spostare? Ti mandano il SISMI.

L’ameno borgo appenninico di Vattelapesca ha già assicurato patron Berlusconi che, grazie ad alcune provvidenziali caverne, sarà possibile stivare nelle profondità della terra tutte le scorie, in modo sicuro e per sempre.
Silvio si è commosso: ha promesso al Sindaco che costruirà nel comune di Vattelapesca Milano 12 e – per almeno un decennio – dagli studi TV che costruirà nella città satellite s’esibiranno ogni sabato sera Maria de Filippi, Mariano Apicella e Mara Carfagna. Come soubrette, ovviamente. Perché: fa dell’altro?
I costi per la ristrutturazione delle caverne sono stati stimati in circa 2,4 miliardi di euro: tutto sommato, un terzo del Ponte di Messina. Un affare: tanto, pagheranno i nostri figli e nipoti.
Un vero e proprio fremito di gioia ha colto la lobby nucleare: pare addirittura che il professor Franco Battaglia, pasdaran dell’atomo, voglia esibirsi in un brano soul intitolato “My sweet reactor”.
I costi dell’impresa sono stati “girati” sulla scrivania di Tremonti il quale – in compagnia dell’inseparabile calcolatrice a manovella – li sta esaminando. Anche qui, grazie ad una “gola profonda”, siamo riusciti a sbirciare.

Le centrali in costruzione saranno quattro, ciascuna per una potenza massima di 1.350 MW: complessivamente 5.400 MW di nuova potenza elettrica, circa 1/10 se la calcoliamo sui picchi di richiesta della rete.
La potenza totale annua che si riuscirà ad ottenere – 24 ore su 24 per 365 giorni – sarà di 47.304.000 MWh, che sarà disponibile per circa 25 anni. Oddio, le moderne centrali durano anche di più, ma dobbiamo considerare i notevoli costi di manutenzione delle stesse su lunghi periodi. Insomma (forse) le attenuanti compensano (difficilmente) le aggravanti.
Quanto renderanno?
Qui, la materia è complessa. I costi del nucleare dipendono in gran parte da chi si assume l’onere dell’arricchimento dell’Uranio: se, come in Francia, sono i militari a farlo, una bella fetta dei costi sembra scomparire. In realtà, cambia solo capitolo di bilancio e viene “spalmata” sulla fiscalità generale.
Altri Paesi, come la Germania – che non hanno armamento nucleare – hanno costi maggiori. Il MIT (USA: paese con armamento nucleare) stimava alcuni anni fa un costo di 65 $ il MWh, mentre in Europa ci si orienta fra gli 82 euro della Francia ed i 118 della Germania. Si tratta di una stima, ricavata dal prezzo di vendita dell’energia alle industrie[1].
L’Italia, non avendo armamento nucleare, s’avvicinerebbe forse di più alla Germania, ma siamo ottimisti: 100 euro il MWh e non ne parliamo più.
Di conseguenza, in quei 25 annui le centrali renderebbero 118.260.000.000 euro di controvalore, ossia circa 118 miliardi di euro.
Fin qui, tutto bene e Tremonti si strofina le mani. Poi, si passa ai costi.
Tremonti non valuta l’andamento del prezzo dell’Uranio – in crescita esponenziale – perché non è suo compito, e nemmeno s’interessa alle stime della IEA[2]: circa 40 anni d’Uranio a questi prezzi ed agli attuali consumi, poi si va al raddoppio (sempre che i cinesi non si “mangino” tutto) per altri 40 anni. Quindi, fine dell’Uranio.

Ovviamente, un sito così importante richiede un’attenta sorveglianza militare: almeno un paio di compagnie più il comando e la logistica. Una cinquantina di dipendenti civili (amministrazione, mensa, comunicazioni, ecc) e siamo a duecento persone, dal fantaccino al grande dirigente.
Ci sono poi i costi fissi per la manutenzione e le compensazioni che il comune di Vattelapesca ha richiesto e che sono state – per ovvi motivi politici – subito accettate.
Riassumendo:

Potenza prodotta in 25 anni: 1.182.600.000 MWh
Controvalore economico: 118 miliardi di euro.

Spese annue:
Stipendi annui (3000 euro mensili medi lordi): 7.800.000 euro
Compensazioni richieste da Vattelapesca: 180.000 euro
Spese di manutenzione (automezzi, energia, comunicazioni, ecc): 45.000 euro

Per un totale di 8.045.000 euro, circa 8 milioni annui. Beh, poteva andare peggio – pensa Tremonti – prima di verificare gli anni di spesa.
Gli anni di spesa sono circa 20.000 – legge dal foglietto che gli ha lasciato Scajola… – e facciamo ‘sta moltiplicazione…
Rattle, rattle, rattle…
Fanno 160.900.000.000 euro, 160 miliardi, quasi una volta e mezza il ricavato d’energia. Tremonti fa spallucce: saranno cavoli dei futuri ministri economici.

Ciò che c’è di veramente allucinante in questa follia è quel numero – 20.000 – che corrisponde a grandi linee al tempo di decadimento delle scorie. Se le centrali inizieranno a funzionare nel 2025 e termineranno – poniamo – nel 2050, nel 22.050, finalmente, a Vattelapesca potranno chiudere baracca e buttare tutto nel cassonetto.
Ma, qualcuno si rende conto di cosa sono 20.000 anni?
Se riflettiamo sulla storia che conosciamo – a partire da tradizioni scritte convincenti – pur esagerando, non giungiamo a 2500 anni. Di questi due millenni e mezzo, solo gli ultimi 200 anni sono stati, in qualche modo, “tecnologici”.
Con una “bordata” alla platea degli imprenditori italiani, Emma non racconta ciò che succederà a Vattelapesca nei prossimi 20.000 anni. Potremmo azzardare:

Nel 3456 un terremoto distrugge l’impianto: ricostruzione totale.
Nel 4215 l’Unione Africana attacca dallo spazio e colpisce Vattelapesca, insieme ad altre 80 città italiane.
Nel 13467 un’epidemia sconosciuta falcia la popolazione ed il sito viene abbandonato…

Siamo alla completa follia.
Qualcuno potrà azzardare che si troveranno altre soluzioni…che nasceranno nuove tecnologie…bla, bla, bla…la realtà, è che oggi questo è lo stato dell’arte, non altro. Vattelapesca forever.

Nessuno, ovviamente, riflette un solo secondo sul significato reale di “20.000 anni” e nemmeno si sogna di comunicare che, negli USA, la produzione eolica reale (non la potenza di picco) ha superato di gran lunga quella nucleare. Che la Danimarca ha raggiunto il 20% di produzione elettrica di sola fonte eolica.
Nei cantucci, qualcuno inizia a far conti: se sommiamo i 7 miliardi del Ponte con i 14 della TAV, più…quanto le centrali? 6-8? Bene! E Vattelapesca? Peccato, solo 2 miliardi…comunque…somma: sant’Iddio, che manna!
E tre: questo è il livello di chi dovrebbe guidarci.

Intanto, in platea, Veltrusconi gongolano e si scambiano battute: «Hai visto, io, con Maroni? 61 anni e 36 di contribuzione!» Attacca Berlusconi. «Niente da fare, amico mio, ti ho battuto con il “mio” Damiano: 62 anni e 37 di contribuzione!», risponde il Veltro. «Siamo una bella squadra», conclude il Berlusca.
La nostra rampante presidentessa ascolta, e riesce ad intendere qualche brandello del dialogo. Qui – pensa – con quei due che blaterano sulle pensioni, corro il rischio di giocare la parte della bella statuina. Supera allora il grande Houdini e rilancia: «Le pensioni? Fine dell’età fissa per andarci (come se esistesse ancora…): “indicizziamo” la pensione alla previsione di vita!» Scroscio d’applausi. Sì, qualcuno aggiunge: così le donne – in una sola “botta” – aumentano d’almeno dieci anni!. Risate, pacche amichevoli: l’atmosfera si galvanizza.

Un tempo s’indicizzavano i salari, ossia la ricchezza prodotta, oggi t’indicizzano gli anni che ti restano da vivere. Ogni anno, l’occupazione nelle grandi imprese decresce pressappoco dell’1% e la produttività, ossia la ricchezza prodotta, cresce dell’identico valore: se vent’anni fa, con 100 operai si costruivano 100 automobili, oggi con 80 se ne fanno 120. Ci saranno pure i costi d’investimento, ma il rapporto fra le retribuzioni degli operai e dei dirigenti è passato da 1:100 ad 1:7000. Traccia evidente delle tasche nelle quali vanno a finire quelle 20 automobili in più, ed il risparmio di 20 operai.
Un anno fa la benzina costava 1,25: adesso 1,50. La pasta 60 cent il pacco, oggi la stessa confezione costa 90 cent. Veltrusconi tace: qui, è meglio non parlare di “indicizzazione”…
In questa “indicizzazione” della vita delle persone c’è tutta la protervia e la spocchia della razza padrona: noi siamo i proprietari delle vostre vite, del sangue e della linfa che scorre nei vostri corpi e ce la aggiudichiamo a colpi di riforme scritte dai nostri lacché veltrusconiani.
Non esiste più una semplice vita, così, senza aggettivi: esiste solo una vita lavorativa, produttiva, fruttifera (per noi eletti). Non può esserci decrescita, scelta, contrazione d’inutili consumi: no, più orpelli sugli scaffali dei supermercati, più vita smarrita fra le catene di montaggio, più soldi per noi e per le nostre banche. Veltrusconi tace ma gongola: sa che avrà la giusta mercede, i trenta denari della tradizione.

La razza padrona finge d’essere il “motore” della Nazione, dimenticando che – senza i muratori – Michelangelo non avrebbe mai costruito la cupola di San Pietro.
Cos’ha costruito questa generazione di padroni del vapore? Ricordo anni lontani, quando ad Ivrea esisteva un’azienda in grado di produrre processori e software almeno di pari livello rispetto alla IBM americana. IBM varava il processore 286, Olivetti rispondeva con l’M24, diventando il secondo produttore mondiale di PC. Passano gli anni e, oggi, ad Ivrea gli stabilimenti Olivetti si sono trasformati nella solita archeologia industriale abbandonata: vetri rotti, ruggine, abbandono, dove un tempo gli Olivetti avevano costruito addirittura gli asili nido interni – tutto vetro, affinché i bambini potessero avere il meglio – per aiutare, e di conseguenza motivare, le loro maestranze. Quella era gente che poteva stare al livello di Reinhold Würth.
Quel che poi è avvenuto ha nome e cognome: Carlo de Benedetti, grande boiardo di Stato, capace d’acquistare la SME per un terzo del suo valore, condannato in primo e secondo grado per la vicenda del Banco Ambrosiano. Assolto poi, provvidenzialmente, dalla Cassazione.
De Benedetti dapprima trasformò un’attività produttiva – Olivetti – in una società di servizi, Omnitel, che infine divenne Vodafone. Si potranno raccontare mille storielle sulla vicenda de Benedetti, ma la realtà è una sola: l’ingegnere torinese, per Ivrea, è stato peggio di Gengis Khan. Deserto.
L’altro bravo messere è morto suicida (almeno, questa è la verità ufficiale), ma vale la pena di ricordare come Raul Gardini riuscì a distruggere la chimica italiana in pochi anni di corruzione e d’incompetenza, a braccetto della classe politica dell’epoca, con l’affaire Enimont. Sono lontani i tempi dei premi Nobel per la Chimica italiani: oggi, la chimica italiana non esiste praticamente più.

Poi, per decenni, lor signori sono andati a braccetto con la classe politica per il “sacco” dei fondi europei: con l’abile trucco d’assegnare alle Regioni la concessione dei fondi – le quali coinvolsero poi le Province – si riuscì a non dare una sola moneta senza, in cambio, ricevere qualcosa. Oggi, mentre Spagna ed Irlanda hanno mantenuto allo Stato la concessione dei fondi, possiamo osservare i risultati: capannoni abbandonati, costruiti in fretta per acchiappare i soldi, per avere i finanziamenti. E dopo?
Dopo…pagheremo un buon avvocato, se necessario, ma il più delle volte non ce n’è stato bisogno. Se un De Magistris scopre l’inghippo – la questione dei depuratori in Calabria, storia di fondi europei – si caccia il magistrato. L’imperativo è uno solo: prendi i soldi e scappa.

Ci sono anche bravi imprenditori, onesti e fantasiosi, che cercano di trasferire nella realtà il parto del loro ingegno: il più delle volte, si vedono surclassati dal furbacchione di turno che cerca solo appoggi politici. Il grave problema – tutto italiano – è che non sono certo questi imprenditori ad essere spalleggiati da Emma: l’interlocutore è, sempre, il potere politico colluso. Se Reinhold Würth è partito da una ferramenta ed ha costruito un impero, anche i Tanzi sono partiti da una salumeria: il primo si è espanso anche nel settore del fotovoltaico ed ha creato un’ampia collezione d’arte. Il secondo, ha finito per falsificare certificati di credito con lo scanner.
Questa è la differenza fra una classe imprenditoriale – che guadagna, certo, per i rischi che corre e per le energie che investe nell’impresa – ed una di zecche lustrate a festa, solo buone a succhiare il sangue della nazione. Qualcuno s’è accorto che, con la de-tassazione degli straordinari, avverrà semplicemente che parti di produzione verranno spostate dall’area dell’orario normale allo straordinario? In pratica, elusione fiscale occulta.

Perché tutto ciò può continuare di fronte alla platea degli italiani i quali, ordinatamente, si mettono in fila – almeno 70 su 100 – per approvare Veltrusconi e i suoi Casini?
Hanno ragione quelle voci che stanno gridando da tempo – ciascuno con modi e stili diversi – al naufragio dell’informazione: Travaglio, Grillo, Barnard…
Il cortocircuito inizia nelle redazioni dei giornali e delle TV, nell’assurda catena di “supervisori” che un giovane deve superare per essere ammesso alla professione: in pratica, c’è sempre qualcuno che deve garantire per te, altrimenti sei fuori.
Quando, finalmente, il giornalista approda ad una scrivania, per anni avrà sempre un direttore responsabile che gli terrà il fiato sul collo: quando reagirà, finalmente, come i cani di Pavlov, allora riceverà la sua poltrona di comando.
Se qualcuno, poi, sgarra, sono pronte le contromisure: qualcuno ricorda perché la RAI – in anni lontani – cacciò un grande attore come Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura? Dario Fo fa notizia: i tanti che non s’assoggettano, finiscono fuori nel più agghiacciante silenzio.
In questo modo, la classe politica e quella imprenditoriale possono progettare, allenarsi ed eseguire i pessimi concerti che ci ammansiscono: perché non c’è contraddittorio, opinione a confronto, nulla.
E, attenzione: potremmo affermare che l’intera Europa è prigioniera del potere finanziario che si sostanzia in queste performance. Solo in Italia, però, la rappresentazione va in scena con una scenografia, oramai, sudamericana. Per quel che era il Sud America vent’anni fa.
Mediocri capitani d’industria hanno bisogno di pessimi politici, i quali si servono di sedicenti giornalisti per raccontare montagne di balle. Voilà, signori: il pranzo è servito.

[1] Fonte: Romanello, Lo Monaco, Cerullo, I veri costi dell’energia nucleare, Pisa, 2006 (pdf).
[2] International Energy Agency.

19 maggio 2008

Parla con loro

Cara Lea, cara figlia mai nata,
questa mia vorrebbe essere una lettera ma già so che sconfinerà inevitabilmente nel diario, perché è trascorso tanto tempo dalla tua nascita mai avvenuta, e abbiamo un sacco di cose da dirci.
Anzitutto, vorrei rassicurarti: stiamo tutti bene, come tranquillizzava tutti noi Marcello Mastroianni – in un celebre, quasi omonimo film – recandosi in visita ai figli.

Quelli che sarebbero stati tuo fratello e tua sorella “grandi” già lavorano, dopo essersi diplomati e laureati. Lavorano…cioè…ci provano ma tu, dal Regno del Mai Nato, queste cose le sai in un battito d’ali di farfalla: anche il loro lavoro è fragile e impalpabile come la vita delle farfalle. Chissà se ci sono le farfalle là, dove sei tu, ma tanto tu sai cosa sono.
Quelli che sarebbero stati tuo fratello e tua sorella “piccoli”, invece, studiano e tentano di credere che al termine delle loro fatiche qualcuno avrà bisogno di loro, di quello che hanno imparato, di quello che sono, semplicemente, come esseri umani. Ci provano, ma aspettano con timore il momento della verità.

Noi due – ovvero quelli che sarebbero stati il tuo papà e la tua mamma – cerchiamo di tirare avanti e d’aiutare, come possiamo, i ragazzi a credere ancora in qualcosa perché siamo coscienti che, anche se tutto sembra contraddirci, se viene a mancare anche la fiducia in se stessi il crollo è sicuro. Facciamo – o forse, meglio, recitiamo – semplicemente la nostra parte.
Quelli che sarebbero stati i tuoi nonni so che li conosci oramai quasi tutti, perché sono tornati lì da te, e avrai senz’altro avuto modo di chiacchierare con loro: hai visto che bravi nonni avresti avuto? Erano persone semplici, che ci avevano insegnato il valore della rettitudine e della solidarietà con l’esempio: ti avranno raccontato della loro vita nelle fabbriche e nei campi, delle loro speranze per un mondo che non dovesse rifiutare un piatto di minestra e un letto d’ospedale, alla bisogna, a nessuno.

Probabilmente, stanno meglio lì da te, perché quello che è toccato loro d’osservare negli ultimi anni so che li amareggiava: non riuscivano a capire perché – loro che erano vissuti pensandosi quasi ricchi in un mondo con meno cose – dovevano sentirsi poveri in un altro, quello dove le cose sono tante, vorticano, cambiano, si sostituiscono con altre cose sempre diverse, ma non si riesce ad essere sereni, figuriamoci felici. Ho qualche difficoltà a spiegarti i loro dubbi, perché nemmeno io riesco a capire la cosa nei particolari: spero che lì, da voi, sia tutto più chiaro.

Forse, quello che faceva soffrire i tuoi mai nonni, era osservare come gli anziani fossero tenuti in così poco conto. Erano abituati a riconoscere nel nonno, nella vecchia zia, nel lontano cugino che viveva con loro nelle grandi case di un tempo, un valore di saggezza e d’amore familiare: quando la famiglia era qualcosa di un poco diverso dal microcosmo (scusami la parola difficile) al quale siamo abituati. Se non c’era la mamma t’aiutava la zia, e il nonno ti portava a passeggio raccontandoti mille storie, dalle quali imparavi un sacco di cose.
Soffrivano poi nel vedersi soli – sapendo d’attendere solo la morte – nei loro minuscoli appartamenti di periferia: inorridivano certo – ma non lo facevano mai capire – quando il giornale scriveva che un anziano era stato ritrovato, morto, dopo mesi.
La loro unica compagna era, da tempo, la televisione, dalla quale ricevevano soltanto la copertina patinata di un mondo che non comprendevano più. Risi, lazzi, maleducazione, ostentazione: l’opposto rispetto a quanto avevano ricevuto dalla loro educazione.

Osservavano anche, passando per strada, i volti dei nuovi emigranti: gente che giunge da terre lontane, che nemmeno loro sapevano con precisione dove fossero, perché a quei tempi non c’erano i soldi per comprare l’atlante. Ci s’accontentava dei racconti di qualche zio che aveva fatto la guerra lontano, oppure quando tornavano in visita ai parenti quelli che erano andati in America tanto tempo prima, che non sapevano più parlare l’italiano ed utilizzavano solo il dialetto.
Eppure, guardando quelle famiglie numerose che si recavano – tutti insieme – al mercato e poi tornavano carichi di sporte della spesa, penso che non potessero fare a meno di tornare indietro nel tempo, quando anche noi eravamo tanti, e per comprare un paio di scarpe s’andava tutti insieme al mercato. Perché un paio di scarpe era un paio di scarpe, mica la pubblicità di un marchio.

Dalla televisione, però, tuonavano che quelle non erano vere “famiglie” perché consideravano “familiari” anche i lontani parenti: no…la famiglia è solo quella cosa con il papà e la mamma, al massimo due figli, che paga il mutuo per la casa, le rate della macchina, compra cibo-schifezza nei supermercati-plastica e butta tutto in strada, per alimentare gli inceneritori-energia e gli assessori-banditi. Senza discutere.
Loro, però, ricordavano famiglie numerose dove il cappotto passava da un fratello all’altro, dove la vecchia nonna rammendava, dove non si buttava nemmeno lo zerbino. Si fermavano, in strada, per osservare l’albero di ciliegie di un giardino e stimavano quanti giorni mancavano alla maturazione: raramente sbagliavano.
Non capivano, però, perché ci si dovesse interrogare su quanti anni mancavano all’esaurimento del petrolio: sapevano, dalla loro saggezza, che tutto ciò che la natura non rigenera è destinato inevitabilmente ad estinguersi. Allora, perché crucciarsi? Meglio tagliare il bosco, che quello ricresce – pensavano loro – miseri, poco acculturati tapini.

Non so – Lea – come siamo giunti a questo punto: qualcuno sostiene che dopo vent’anni di TV spazzatura noi stessi siamo diventati spazzatura, altri che tutto sia deciso da poche persone che comandano l’intero pianeta, altri ancora che sia tutta colpa della Cina, degli USA, d’altri ancora…
Forse tu, che hai il privilegio d’osservare i millenni in un battito d’ali, avrai senz’altro una risposta: io non ce l’ho.
I giovani guardano meno Tv degli anziani, eppure non sono meno maleducati, quando comandava la nobiltà erano sempre in pochi a decidere, ma non c’era il senso di perdita d’identità che oggi viviamo. L’Oriente già c’era e, fino al 1500, superava l’Europa per quantità di cose che riuscivano a fabbricare. Gli USA sono stati anche gli USA di Roosevelt, il quale predicava che “anziani e disabili dovevano essere a carico della collettività”. Sai com’è andata a finire.
No, non riesco a trovare una sola risposta, e nemmeno credo che una sola risposta ci sia, ma un dubbio, sempre più, m’assale.

Sai quanto ti avremmo desiderata – Lea – e non sei venuta, ma oggi non è più un cruccio: pensarti giovane, sottoposta a questo mare in tempesta di pessime emozioni che giungono da tutti i quadranti, mi fa paura. Cosa ti potrei raccontare? Cosa ti potrei assicurare?
Se i tuoi mai nonni sono lì da te, parla con loro – cara, tenera Lea – e fatti raccontare da loro qualcosa di meglio di quanto potrei narrarti io. Chissà, forse un giorno ci conosceremo, e potrò abbracciarti.

Il tuo mai papà

14 maggio 2008

Colpirne 10 per educarne 1000

Di questi tempi, è piacevole sollazzarsi sul Web alla ricerca dei naufraghi lasciati su spiagge lontane, dispersi dal terrificante uragano delle recenti elezioni: cercando, scovando con il binocolo spiagge che si pensavano deserte, s’intravedono sparuti gruppi di giovani e meno giovani, un mondo di ex alla deriva che costruisce incerte capanne, edifica casette sulle paludi, pianifica d’ergere grattacieli su aguzze vette. Dell’immaginazione.

Qualcuno, pensa invece di tornare alla Patria avita, al focolare dal quale è stato brutalmente scacciato: è il caso dei Verdi, che meditano un ingresso nel PD magari tardivo, ma qualcosa pur sempre è. Bisognerà andare a piedi scalzi a Canossa, cospargersi il capo di cenere (rigorosamente di fonte biologica) e, infine, sperare nella pietà del Papato o dell’Imperatore, secondo il vento che tira. Durerà probabilmente anni il pellegrinaggio – cinque senz’altro – così, se tutto andrà a buon fine, avremo anche gli “Ambientalisti – ombra”. Che già avevamo.

Altri, invece, non cercano spazio nelle riserve e passano il tempo a lucidare vessilli che hanno loro stessi insozzato – è il caso di uno schiavo liberato, un tal Di Liberto – oppure s’appressano al tremebondo regno dei farnetichi – è il caso della “compagnia cantante” di Rifondazione – che continua, come se nulla fosse accaduto, a presentare, approvare e bocciare tesi e antitesi, risoluzioni programmatiche, analisi e riflessioni (poco critiche). In quella lontana isola – che la penna di Melville descriverebbe con gran maestria – quando la sintesi non è più possibile s’inizia a tuonare il verbo della scissione: minacciata, contata, ricontata, rientrata, riproposta…Pare che qualcuno, dimenticato solo su uno scoglio, stia pensando – per scindersi finalmente dai traditori dei lavoratori – di ricorrere al bisturi.
C’è chi, invece, da settimane tace.

A dire il vero, non sarebbe richiesto un commento del sindacato su quanto è accaduto ma, visto che Epifanio si è sbilanciato ad affermare che “le elezioni non sono proprio andate come desideravamo”, bisognerebbe sapere cosa medita per il futuro, perché la nuova situazione politica non esime il sindacato dal porre (e porsi) profonde riflessioni.
Non parliamo degli altri “confederali”: Bonanno si è già perfettamente acclimatato sulle poltrone dell’isola delle Vespe, al punto che gorgheggia, svolazza e sbatte le ali che sembra un cardellino, mentre intrattiene i nuovi padroni del vapore che lo osservano, incuriositi da tanto frullar per l’aria. Di Angeletto non si hanno notizie, come del resto della UIL non se ne hanno da decenni nei luoghi di lavoro: sarà un sindacato “virtuale”, pronto a reggere le sfide della società informatizzata e presente, oramai, solo nell’agone elettronico.
La sfiga di Epifanio è quella d’essere ancora – in qualche modo – punto di riferimento per molti lavoratori: arrabbiati, delusi, stufi delle manfrine neoliberiste che ci ammansiscono, ma che non perdono d’occhio la vecchia CGIL, se non altro per una questione di tradizione.
Deve, oltretutto, fronteggiare la fronda interna del solito Rinaldini e della sua FIOM i quali, poveracci, hanno perso qualsiasi riferimento ancora visibile nel mondo politico. Non si parla ancora di scissione, ma di voti contrari nelle varie assemblee e riunioni già si sente il vento di tempesta, al quale il buon Epifanio ha risposto “dimettendo” due delegati sindacali milanesi oramai troppo “fuori linea”. Una semplice questione di democrazia interna, che nella CGIL segue, da sempre, il metodo di Josif (non Broz).

Ora che “l’Armata Rossa” è definitivamente migrata con le forze Bianche, anche Epifanio riflette: un tempo, il futuro politico di un ex sindacalista era garantito dalla cosiddetta sinistra, fosse un posto come direttore dell’INPS, uno scranno parlamentare o una poltrona da sindaco. Che, per come sono andate le cose a Roma, c’è da scordarsela per un po’.
Che fare? Si chiedeva Lenin in ben altre ambasce: non confondiamo la porcellana con la terracotta.
Il nuovo ministro del Lavoro – Sacconi – ha chiesto alla CGIL di non “riproporsi come la vecchia, solita CGIL”. Siamo in completo accordo con Sacconi: cambiano, probabilmente, i punti d’osservazione.

Il primo “pizzino”, inviato dai sindacati (all’apparenza, unitari) alla nuova classe politica – ufficiale ed “ombra” – è stata una proposta di quelle che colano grasso, mica roba da ridere. In buona sostanza, si trasformeranno i contratti da biennali a triennali, in completo accordo con i desiderata di Confindustria.
Della cosa non sono stati informati i lavoratori né, tanto meno, è all’orizzonte una consultazione referendaria: s’ha da fare, via, cosa stiamo a perder tempo…
Di tempo, il buon Epifanio non ne perde, perché sa che non ne ha molto per accreditarsi presso i nuovi padroni PDL-PD: quelli che perderanno “tempo”, come sempre, saranno i lavoratori, i quali si troveranno a rinnovare contratti non più dopo la scadenza del secondo anno, bensì del terzo.
“Lavorando” accuratamente sulle “vacanze contrattuali” – vedi l’ultimo, immondo rinnovo contrattuale del pubblico impiego – si potrà “scorporare” un anno intero dalla contrattazione. Risultato: se – considerando un’inflazione ufficiale al 3% – dopo tre anni i lavoratori (per recuperare soltanto il potere d’acquisto dei salari!) dovrebbero ricevere il 9% d’aumento, con qualche trucco già utilizzato si scenderà al 6-7%, ed un’altra fetta di ricchezza andrà a schizzare nelle tasche degli imprenditori e delle banche. Oltre, ovviamente, in quelle di lor signori, che continueranno a gozzovigliare con 19.000 euro il mese. Poi, s’allagheranno gli studi televisivi con i pianti di coccodrillo sulla povertà degli italiani. Tutto fa brodo: anzi, audience.

Fermi! Cosa state bestemmiando! Il nuovo credo – ufficiale ed “ombra” – ci parla di merito, meritocrazia, premio per chi fa di più…basta con i fannulloni…rubapagnotte…
Puntuale, “Repubblica” – giornale “ombra” – piazza telecamere nascoste (e la privacy? Mah…) all’ingresso della Corte di Cassazione, per inchiodare i dipendenti che “timbrano” e poi vanno a posteggiare l’auto. Chi conosce Roma e le adiacenze del “Palazzaccio” sa bene cosa significa trovare un parcheggio nell’area. Di più: oramai cosciente d’essere il megafono di uno sterile governo ombra, Repubblica si lascia andare a pruderie che credevamo soltanto appannaggio del Daily Mirror e della famiglia reale inglese:

“Filmati da Repubblica Tv, come la bella bionda che timbra, esce, riparte in auto con un accompagnatore e viene riportata in sede dopo 25 minuti.”

Tutti saranno rimasti incuriositi dalla fantomatica “bionda” che saliva sull’auto (non poteva essere una donna che era rimasta in panne con l’auto…che aveva avuto un’improvvisa urgenza…) no: si scatena la pruderie su cosa si “può fare” in 25 minuti. Viva i grandi giornalisti di regime, pagati con le nostre tasse, sia gli “ufficiali” che gli “ombra”.

Di rimbalzo, echeggia il buon Brunetta che si lancia in un’iperbole, di quelle che scuotono l’audience: basta! Licenziare tutti i fannulloni (che gli italiani, grazie al “giornale ombra” appena citato, identificano ovviamente con gli impiegati della Cassazione) e passare alle misure drastiche: “Colpirne uno per educarne cento”. Lo avesse mai detto Travaglio, lo avrebbe carcerato per fiancheggiamento delle BR.
Noi, però, siamo in piena sintonia con il vulcanico neo ministro veneto: ha ragione! Siamo qui per aiutarlo, per concorrere a trovare qualcuno che potrebbe essere “colpito” per educare. Siccome siamo “collaborativi”, e non “ombra”, ci permettiamo di segnalare una lista di persone che, forse, andrebbero “rieducate”. Poi, decida lui com’è giusto che sia:

1) Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’ENI: 10 milioni di euro.

2) Giancarlo Cimoli, che guidava Alitalia, una compagnia sull’orlo del baratro e intanto si portava a casa uno stipendio che valeva due milioni e 790mila euro, oltre a compensi vari finiti nel mirino della procura di Roma.

3) Roberto Poli, presidente dell’ENI: 2,8 milioni di euro.

4) Vittorio Mincato, presidente di Poste Italiane: 4,8 milioni di euro. Ricevette una buonuscita di 25 milioni di euro dall’ENI.

5) Elio Catania, ex presidente delle Ferrovie: 2 milioni di euro.

6) Piero Gnudi, Amministratore delegato dell’ENEL: 2,6 milioni di euro.

7) Alfio La Manna, vice presidente della società Esercizi aeroportuali di Milano: 2,26 milioni di euro.

8) Mario Draghi, Governatore della Banca d'Italia: 450 mila euro l'anno. Sembra quasi un poveraccio.

9) Corrado Calabrò, Presidente dell'Autority delle Telecomunicazioni: 440 mila euro.

10) Pierfrancesco Guarguaglini, Finmeccanica: 2,6 milioni di euro.

Forse i dati non sono aggiornatissimi, ma è difficile tenere il ritmo con questi signori che si spostano da una scatola cinese all’altra, da una holding di Stato ad una “consociata”, per poi ritornare dalla “mamma” e ripartire.
Cos’hanno concluso, questi signori, con le loro retribuzioni milionarie (in euro)? Poco o nulla, e qualcuno di loro ha condotto l’azienda che guidava nel baratro.
A fronte, troviamo i comuni lavoratori a 20.000 euro l’anno, i ricercatori pagati 800 euro il mese con contratti a termine, i precari che non arriveranno mai a mettere insieme una pensione decente per campare, nemmeno a 65 anni.

Ora, tutti sappiamo che la pubblica amministrazione non è certo un modello d’efficienza, che ci sono gli scansafatiche e chi s’accontenta di fare il poco che gli viene richiesto.
Qualcuno, però, si domanda: cos’hanno di fronte queste persone?
Gli esempi che osservano tutti i giorni non sono tanto i dieci signori citati, bensì migliaia, decine di migliaia di parvenu che occupano quei posti soltanto perché hanno ricevuto una raccomandazione, perché sono figli o nipoti di politici e cardinali.
Come reagiscono queste persone, osservando per decenni il teatrino di “chi tutto puote”, scorrendo la lista dei dipendenti RAI nei quali non ce n’è quasi uno che non sia riconducibile ad una parentela, familiare e politica?
E, se la pubblica amministrazione non funziona, la colpa è ovviamente degli impiegati di quarto livello?
Se in un azienda i risultati non sono quelli previsti – visto che si tira in ballo sempre il settore privato – chi perde il posto per primo, centinaia d’operai o i manager? Purtroppo, spesso entrambi, quando le responsabilità maggiori sono sempre di chi comandava, non certo di chi doveva eseguire.

Non prendiamo però troppo sul serio Brunetta, anche se lui ama definirsi un “professore bravo”: Brunetta, lasci che siano gli altri a dirlo, l’autoreferenzialità potrà essere segno di distinzione nella Casta, ma nel Paese reale è sinonimo di sicumera e spocchia. Non prendiamolo troppo sul serio le boutade di Brunetta, perché non è il solo a conoscere le strategie di marketing.
Dopo una vendita – e le elezioni, oramai, non sono altro, visto che non eleggiamo realmente più nessuno – c’è una fase nella quale l’acquirente deve essere convinto che ha fatto la scelta giusta. Così, Bossi tuona con la Libia, Maroni con i romeni, Brunetta con gli impiegati pubblici…e compagnia cantante.
Berlusconi & soci li lasciano fare, perché sono soltanto le comparse del grande circo veltro-berlusconiano: i veri attori, sono altrove.

Per questa ragione abbandoniamo Brunetta alle sue farneticazioni, mentre ci interessa molto sapere cosa farà Epifanio di fronte ai contratti triennali, alla maggior precarizzazione del lavoro, alle “semplificazioni” invocate da Montezum…pardon…Montezemolo, alle pressanti richieste di de-regolamentazione del lavoro, in un paese che si ritrova a contare ogni giorno quattro morti nelle fabbriche e nei cantieri.
Questo, perché – anche se non tutti se ne sono accorti – meno della metà degli elettori ha votato l’attuale governo e oramai un terzo degli italiani – vuoi per astensione (in gran parte cosciente), vuoi per i meccanismi della legge elettorale – non ha più rappresentanza politica.
Sono le stesse persone che hanno inviato, senza biglietto di ritorno, chi le ha tradite nelle isole degli ignavi: Epifanio ci mediti, perché le isole non mancano. Oggi a me, domani a te.

09 maggio 2008

Quando ce vo’, ce vo’

Vorrei segnalare la bella puntata di “Annozero” di Giovedì 8 Maggio: spesso sono stato critico con Santoro, e proprio per questa ragione voglio segnalare il merito di chi sa ancora fare del buon giornalismo televisivo. Quando si ricorda di farlo.
La puntata non era soltanto dedicata all’assassinio di Nicola Tommasoli, ma – proprio come nel miglior giornalismo – partiva dall’evento per “allargarsi” a 360 gradi.
Intendiamoci: nessuno sostiene che Santoro ci abbia spiegato l’arcano – questo è pessimo giornalismo al quale siamo, purtroppo, abituati – mentre ha saputo presentare una realtà variegata, più opinioni a confronto, molti “input”, che qualificano un prodotto editoriale.
Forse un po’ carente l’analisi in Studio – fra una Assunta Almirante fuori luogo in quel contesto, ed una Titta de Simone (ex parlamentare PRC) ancora troppo legata a schemi ideologici – ma la composizione giornalistica della puntata era veramente encomiabile, per come sapeva trasmettere l’incertezza di fondo e l’insicurezza del mondo giovanile, che s’espande e si sostanzia nei comportamenti descritti.
Ciò dimostra che il servizio pubblico – quando lo vuole fare – ha strumenti e mezzi per fare dell’ottimo giornalismo: a quando la “pulizia” dello studio dai pessimi politici che lo ingombrano da decenni, e l’invito ai tanti, ottimi giornalisti/blogger che c’informano sulla Rete? In pratica: quando torneremo alla vecchia Samarcanda – dov’era la gente a parlare – e non i loro pessimi “dipendenti”?

07 maggio 2008

Buonanotte, Nicola

Mi domando che madri avete avuto.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Pier Paolo Pasolini, Ballata delle madri


Ho cercato per tutta la sera un’immagine di Nicola Tommasoli, e non l’ho trovata; forse un comprensibile riserbo dei parenti: auto della Polizia, Carabinieri nella notte e poi le foto dei cinque “bravi ragazzi” che lo hanno ammazzato. Nient’altro.
Sì, perché tutti si sono sperticati ad urlarlo ai quattro venti: erano bravi ragazzi. Un po’ “fascisti”? Forse. “Nazisti”? Può darsi, ma bravi ragazzi comunque, nell’attesa d’essere interrogati per omicidio preterintenzionale.
Tutti cercano analisi e spiegazioni per capire: una sigaretta, non ce l’ho, t’ammazzo a calci.

Massimo Cacciari, dalle colonne del “Corriere della Sera”, compie un’iperbole. Che ha un senso, non è certo campata in aria, poiché Cacciari è lo scomodo enfant prodige cacciato: nei salon de la musique ou de la philosophie, ma cacciato. Troppa grazia, sant’Antonio, recitano dai loft del PD. Meglio lasciarlo dov’è.
Anche Cacciari, però, diventa un minimalista quando afferma che tutta la vicenda ha radici nella scomparsa della DC, la Balena Bianca che tutto riusciva a contenere ed a metabolizzare. Eh sì, perché la DC era solo un partito politico, mica la Madonna scesa in terra per mettere a posto tutto il sistemabile.
Se la DC, nel Veneto, poteva acquietare il troppo fermento anticomunista e le intemperanze di qualche fondamentalista, non si può far carico, alla scomparsa della Balena Bianca, chi ammazza con la scusa di una sigaretta. Bisogna andare oltre.

“Oltre”, significa guardare negli occhi quei cinque ragazzi e capire perché. La prima istanza, legittima, è quella di chi li considera “figli del sistema”, coerenti con le istanze pubblicitarie: ogni giorno, per scacciare i demoni di quello precedente, deve inventare un nuovo credo. Ad una Doretta Graneri che, oramai 30 anni fa, uccise i parenti per l’eredità hanno fatto seguito i Pietro Maso per la stessa ragione. Qui, però, non c’erano eredità e soldi, bensì una sola sigaretta. Il nuovo credo – o fatto, avvenimento, evento…quasi perversa saga – è mostrare l’inconcepibile agli occhi altrui, sbalordire, proprio come nella pubblicità, con qualcosa che – agli occhi del gruppo, clan…popolo – sia segno di grandezza, ancorché perversa, ma incoerente nel segno e nel volgere con qualsiasi pretesa di “normalità”. Uno spot assolutamente vincente, verrebbe quasi da dire.

Il Veneto, oggi, è nell’occhio del ciclone: le foto dei ricercati campeggiano su tutti i giornali ed i siti Web, Verona è nella polvere della sua arena. Non si cheta il primo colpo che, da Viterbo, ne giunge un secondo.
Qui, per fortuna, non c’è il morto ma c’è il video di un ragazzo al quale arrostiscono i capelli con l’accendino, in una scuola media. Si vede che va di moda: bisogna farne “una” sempre più eclatante rispetto a quella del giorno prima, come nella pubblicità. Altrimenti, nessuno ti nota.
Il colpevole, quattordicenne, è stato affidato ai “servizi sociali”. Lo immagino in un cascinale dell’Etruria che pascola caprette, al massimo che trasporta qualche carriola di letame: ai cavalli non lo lasciano avvicinare. Avesse mai conservato l’accendino, con quelle criniere e quelle code…

Mi chiedo, senza arrivare ad appendere la gente per i piedi, se non si potrebbe far di meglio: ma, veramente, qualcuno pensa che basti qualche colloquio (pur necessario) con lo psicologo per “rimettere in sesto” un quattordicenne che dà fuoco ai compagni?
Anzitutto, non sarebbe meglio fargli capire che c’è una relazione fra l’atto e le pena? Poniamo che, invece d’essere affidato ai servizi sociali, lo avessero precettato per qualche lavoretto da poco, qualcosa che non presenti pericoli, del tipo: vai a grattare, col raschietto, la colla che rimane nei tabelloni pubblicitari. Un mesetto, tutti i pomeriggi, sole o vento, gratta e taci: se a scuola trovavi il tempo per bruciare i capelli ai compagni, ne troverai dell’altro per studiare la sera. Poi, passa pure dallo psicologo – ne hai senz’altro bisogno – ma c’è un imprinting che resta: faccio il bullo? Gratto per un mese, fino ad avere i calli nelle mani. Non ti va di grattare? Bene: al carcere minorile c’è una branda che t’aspetta.

Invece, la cultura giuridica permissiva degli ultimi decenni (riflettiamo sul concetto pentito/sconto di pena, che ha scardinato l’ordinamento giuridico e annichilito i percorsi investigativi che non contemplano “pentiti”), ritiene il perdono prima panacea per ogni male. Al massimo, qualche pena pecuniaria (che rimpingua sempre le casse di qualche amministrazione) o amministrativa. Il carcere è riservato per lo più agli extracomunitari ed ai tossicodipendenti, e quindi non è il luogo più adatto per sanare chi ha queste pulsioni: mai sentito parlare di pene alternative?
Se ne sente parlare quasi come barzellette, trovate geniali di magistrati fantasiosi ed invece sono proprio quello di cui abbiamo bisogno: prima che si arrivi ad uccidere, a rubare, a terrorizzare. Ci sono moltissime possibilità d’applicare pene alternative, il problema è volerlo. La società permissiva non è solo figlia di una pessima sinistra: è alimentata anche da potenti soffi di destra, laddove si considerano “degni” del carcere soltanto i cittadini italiani di serie B e le serie inferiori, tossici, rumeni, marocchini, ecc. In fondo, anche se stuprano ed ammazzano, si continua ad affermare che “erano bravi ragazzi”. No, erano delinquenti mascherati della peggior risma, che da tempo erano conosciuti dalle Forze dell’Ordine, le quali non li avevano segnalati come avrebbero dovuto fare alla Magistratura, che sarebbe stata in grado (volendo) d’applicare una serie di pene alternative.

Dov’è il vulnus?
Sono più d’uno.
Il primo, come ricordavamo, è l’appellativo, desueto, che sono “bravi ragazzi”. Lo erano anche Izzo, Guido e gli altri mazzolatori del Circeo di trent’anni fa. Non basta appartenere alla classica “buona famiglia” per avere la licenza d’uccidere: ad oggi, il capo d’accusa per i mazzieri di Verona è omicidio preterintenzionale. Non volevano uccidere! Non lo desideravano! Ma, quando prendi a pugni e calci una persona anche a terra, non ti rendi conto che la puoi uccidere?
Il secondo vulnus è più sottile, tanto che non viene quasi menzionato.
Stiamo diventando una società dove la permissività è diventata un valore e l’autorità un disvalore: il pater è oramai dimenticato e considerato terribilmente demodè, solo il perdono collettivo – magari ritualizzato in un talk show – è la catarsi collettiva di salvezza. Fino al prossimo morto: oramai sono troppi i casi (vedi quello di Sanremo) di gente che ammazza dopo aver compiuto, indisturbata, un primo omicidio.
Ecco come si esprimevano i magistrati di Genova[1] nei confronti di Luca Delfino, prima che uccidesse la fidanzata Maria Antonietta Multari, quando era solo “sospettato” dell’uccisione di Luciana Biggi:

“Una personalità disturbata, un uomo socialmente pericoloso”: questa la definizione data di lui dagli investigatori genovesi. Al pm, Enrico Zucca, fu presentata “una marea di indizi” a carico di Delfino, come dice il capo della mobile, Claudio Sanfilippo, ma mai prove concrete di colpevolezza, “la pistola fumante”, come lui stesso la definisce. Anche se, insiste l'investigatore, “gli elementi per metterlo in carcere c'erano tutti”. L'indagato ha sempre ammesso di avere passato quella serata finita in tragedia insieme alla donna, ma ha ostinatamente negato di averla assassinata: “L'ho lasciata pochi minuti prima che venisse uccisa”.

Se questo è il Paese che non ha saputo trovare colpevoli per Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus e treni vari, la stazione di Bologna (una sentenza che non ha mai convinto nessuno), Ustica…fino al Moby Prince – ed avrò senz’altro dimenticato qualcosa e qualcuno – non possiamo credere che, nello spicciolo ed immediato incedere delle indagini per la gente comune, le cose vadano meglio.
Non starò a tediare il lettore con statistiche fuori luogo in questo momento, ma tutti sappiamo che gran parte dei delitti rimangono impuniti: uno sberleffo, per quel milione di persone che dovrebbero occuparsi della nostra sicurezza. Riflettiamo che la più lunga catena d’omicidi seriali, in Italia, ha avuto come protagonisti quelli della “Uno bianca”, il che è tutto dire. Si fa un gran parlare di “poliziotti di quartiere” e di “prevenzione”, ma li vediamo materializzarsi soltanto quando ci scappa il morto. Quando non sono loro a farlo.

La “sicurezza”, allora, viene abilmente triturata per essere somministrata – via ago e fleboclisi pubblicitario – nelle campagne elettorali: a nessuno importa un fico secco se domani ci saranno altri morti ammazzati, anzi. Meglio se la “tensione” rimane alta, perché la tensione alimenta l’attenzione, e l’attenzione ben diretta ed orchestrata finisce per scaricarsi come deve nella scheda elettorale.
Un romeno, ubriaco, uccide quattro ragazzi con l’auto impazzita, e tutti gridano alla forca per i romeni: poche settimane dopo, sono italiani ubriachi a far strage, ma in quel caso non si citano, nei TG, nemmeno i nomi dei colpevoli. L’antidoto all’insipienza non deve essere messo in commercio.

I tromboni di regime si sperticano, allora, nell’assegnare responsabilità, o peggio colpe, a destra ed a manca. La scuola: ecco dove non si fa abbastanza, ecco qualcuno che ha delle colpe. Chi sostiene tesi del genere, non comprende – perché non sa – come funziona l’oramai smarrita scuola italiana.
A Viterbo, com’è stato possibile dar fuoco ai capelli di un ragazzo in una scuola?

Anni fa, nell’Italia che era ancora un paesello di provincia, appena un insegnante telefonava per comunicare che era malato, partiva la telefonata al Provveditorato e, spesso, il supplente arrivava nella stessa mattina.
Poi, s’iniziò a considerare – per risparmiare – che potevano sostituirlo i colleghi nelle ore libere, le cosiddette “ore a disposizione”, che nascono dalla non coerenza fra l’orario di servizio (18 ore) con quello di cattedra (che può essere di 16 o 17, ad esempio). Detto fatto: risparmi ottenuti, ed il supplente viene chiamato solo dopo 14 giorni di malattia.
Arrivò la Moratti e – sempre per risparmiare – rimise “ordine” nelle cattedre: hai due ore libere? Vai ad insegnare Geografia in una prima: altri denari del contribuente risparmiati.
Va da sé che, se tutti hanno un orario di cattedra che coincide con l’orario di servizio, ore a disposizione non ne restano, o ben poche. Ma si risparmia.
Il “risparmio” – e questo è bene che i genitori lo sappiano – lo pagano i loro figli, che restano a scuola, talvolta, in situazioni sempre più precarie: “siamo usciti prima”, “non abbiamo fatto niente perché non c’era il prof”, “ci hanno messi in tre classi a guardare un film”.
E la sorveglianza? Sempre meno persone – docenti ed ATA – per sorvegliare i ragazzi durante l’intervallo: quando una persona deve sorvegliare un intero corridoio, come può prevenire qualcosa? Il più delle volte, arriva a cose fatte.

Anche a scuola, la sanzione è diventata un optional evanescente. Un tempo, dopo un’ammonizione sancita dal Preside, giungeva automatica la prima sospensione. Non ti bastava? Bene, “beccati” la seconda, così vai con tutte le materie a Settembre. Ci si pensava non due, bensì tre volte.
Oggi, complici la permissività dilagante (mai compresa, dalla sinistra, come disvalore e sempre cavalcata senza nessun provvedimento dalla destra), la mancanza di sanzioni e la ridicolizzazione del ruolo del pater, s’arriva a dar fuoco ai capelli del compagno. Il premio è la “passerella” su Youtube, che ti fa salire nell’Olimpo dei famosi per qualche ora: non sei più un signor nessuno, sei uno che ha dato fuoco ad un compagno a scuola.
Anche sul concetto di autorità, sarebbe meglio darsi una lavatina di capo e, a mente fredda, ripensarci un poco. Un conto è l’autoritarismo vuoto e bieco, quello di chi ti vessa soltanto perché ne ha il potere, un altro è quello di chi comprende che devi essere – in qualche modo – avvisato del tuo pessimo comportamento.

Purtroppo, nel Bel Paese, conosciamo molto il primo e quasi nulla il secondo. In gioventù, fui fermato dalla Polizia Stradale francese (insieme ad un amico facevo autostop) per un controllo: non ero certo, dopo giorni sulla strada, un damerino.
Scherzando, dissi al flic: “Adesso ci portate in prigione?” Il poliziotto rispose “Se avete combinato qualcosa, sì, altrimenti no” e parve sorpreso dalla mia domanda. Chiamò con la radio della moto (anno 1972…) una centrale, dove chiese conto dei nostri documenti. Poche parole, poi restituì i documenti: “Monsieur, bon voyage” e diede il classico “calcio” alla motocicletta. Mi tornarono alla mente le provocazioni dei poliziotti italiani in borghese, i quali – mentre eri tranquillamente seduto su una panchina dei giardini – ti appellavano: “Capelli lunghi, sei ricchione?”

Infine, non dobbiamo dimenticare che la “sciatteria” italiana in termini di giustizia (i tempi di Matusalemme per una sentenza…), di sicurezza (proprio stasera, a Brescia, hanno scarcerato quattro kosovari, colpevoli di rapine in ville, per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva) ed infine nell’educazione, sono funzionali ad una società autoritaria, non liberale.
La mano che ci consegna sudditi – e non cittadini – nelle mani di poliziotti incapaci d’indagare, e di giudici non sempre solleciti nel giudicare, è la stessa che nega diritti essenziali come la salute (con la chiusura degli ospedali, le riduzioni di personale, ecc) e che non vuole una scuola magistra vitae, bensì un’azienda che produce cervelli all’ammasso.
Di conseguenza, il povero Nicola – che immagino intento a disegnare pezzi meccanici con il CAD – è stato utile a tutti: della sua vita, a nessuno è fregato un accidente. Si potranno riempire i palinsesti televisivi, nell’attesa che sia nominato il governo e, finalmente, voltare pagina.
Nel silenzio che calerà, la sentenza di primo grado sarà forse “esemplare”, poi – siccome sono “bravi ragazzi”, e dunque ricchi – ci penseranno “buoni avvocati” a fare in modo che fra Appello, Cassazione e legge Gozzini, fra qualche anno siano nuovamente liberi. Come i massacratori del Circeo per i quali, dove non giunse la legge, arrivò la “fuga” dal carcere.

Rimani tu, Nicola, che credevi, quella sera, di passarla tranquilla a passeggio con gli amici, magari una ragazza: chissà…
Di te non è apparsa nemmeno una foto: ti hanno fatto a pezzi ed hanno pure donato gli organi. Non sia mai che si butta qualcosa.
Spero che al tuo funerale nessuno applauda – stupida catarsi per esorcizzare la morte – e che qualcuno pianga. Non i parenti, gli amici: che la gente pianga, per te e per noi, per come siamo ridotti, impotenti, di fronte a questa barbarie di Stato.
Che una canzone dolce t’accompagni, Nicola, nel tuo cammino fra le ombre: non voltarti per cercare dei perché. Almeno tu, guarda avanti.

[1] Fonte: La Repubblica, 10 Agosto 2007