28 gennaio 2008

Per qualche dollaro in più

Sembra che l’attuale crisi di governo si debba concludere con le inevitabili elezioni anticipate – lo stesso Presidente Napolitano ha affermato che può solo garantire “l’ordinato procedere delle consultazioni”, come a dire che non s’intravedono scenari praticabili – eppure, questo non era l’esito che desiderava chi la crisi l’ha scatenata.
Torniamo indietro di qualche settimana, quando la “bomba” Mastella non era ancora esplosa: qual era l’orizzonte politico del centro sinistra?
Dopo aver concluso la fase di “macelleria sociale” silenziosa – pensioni e welfare, soprattutto – ed aver ricondotto il bilancio dello Stato alla normalità (spremendo tasse come nessuno mai), si poneva il dilemma di come proseguire.
Era evidente che l’ala sinistra dello schieramento non sarebbe potuta resistere ancora molto – nel vedere il proprio elettorato massacrato da Prodi, Padoa Schioppa e Damiano – ed iniziava a temere tracolli che avrebbero finito per minare in profondità i loro apparati. A tutto vantaggio dei centristi dello schieramento.
Non si comprende come Diliberto e Giordano non siano riusciti a comprendere il rischio che correvano nell’appoggiare il “rientro” dell’Italia nei parametri di Maastricht in un solo anno. Dopo, secondo le promesse, sarebbe iniziata la fase di “re-distribuzione”.
Già alcuni segnali di totale indisponibilità erano giunti dai centristi – PACS, DICO, rendite finanziarie, ecc – ma i due compari non riuscirono a comprendere quello che stava avvenendo. Il piano di aggregazione centrista va avanti da tempo, e misi in guardia la sinistra da facili entusiasmi già durante le elezioni del 2006, in un pezzo intitolato “La domanda delle cento pistole”.
Fra l’altro, non fui certo l’unico a criticare la completa sudditanza ai potentati economici del centro sinistra: il giudizio politico sui due compari non può quindi che essere tranchant: come si suol dire, o lo sei o la fai. Poi, scegli tu se preferisci passar per scemo o per venduto.

Per capire meglio cosa sta succedendo, però, è utile spiccare un altro salto all’indietro, alla campagna elettorale del 2006, e più precisamente a Vicenza, all’incontro fra Confindustria ed i due leader che si sfidavano per assumere la leadership.
Come forse alcuni ricorderanno, quell’incontro fu assai tempestoso, con alcuni imprenditori più vicini al centro sinistra che si presero fischi, ecc. Di là delle solite risse, quella contrapposizione indicava che in Confindustria le due “ali” – quella della piccola/media impresa ed il grande capitale industriale – erano praticamente allo scontro. I primi con Berlusconi, i secondi con Prodi.
Ridurre tutto ad una semplice contrapposizione in chiave di benefici attesi è, a mio avviso, riduttivo: queste cose si possono contrattare con qualsiasi governo.
La differenza nasceva dai rispettivi orizzonti delle due correnti di Confindustria: la piccola/media impresa è più “sensibile” a scenari di riduzione fiscale, pochi controlli ed un’evasione fiscale – se non proprio esplicita – silenziosamente accettata. Questo scenario, il “Berlusconi-Tremonti”, però, conduce nel tempo ai noti problemi di bilancio, ad uno scontro con le burocrazie europee e con le grandi banche d’affari.
L’altro settore di Confindustria, invece, guarda di più all’internazionalizzazione del capitale ed ai grandi affari internazionali: è sì sensibile a riduzioni fiscali ed ai copiosi “regali” dello Stato, ma in un quadro che non comporti troppi scossoni alle finanze pubbliche, altrimenti la credibilità italiana sui mercati internazionali va a farsi benedire ed il quadro del commercio internazionale si complica.

Un piccolo esempio di queste richieste è il viaggio compiuto a Mosca da Prodi, nell’autunno del 2006, per cercare di ricondurre alla ragione Russia ed Ucraina per la “guerra” del gas, che rischiava di procurare parecchi guai sul fronte energetico: ricordiamo che, nei primi mesi del 2006, giungemmo ad avere pochi giorni di riserve strategiche di metano. La “spedizione” di Prodi in Kazachistan aveva il medesimo obiettivo, così come i viaggi in Cina: energia, merci, scambi.
Per mantenere un buon livello di scambi (e d’esportazioni) – in un quadro di euro “forte” e di petrolio “fortissimo” – bisogna ricevere energici appoggi dalla diplomazia del proprio Paese.
Ovviamente, per mantenere l’Italia nei parametri di bilancio europeo, non si poteva cedere sul fronte dell’imposizione fiscale, che negli ultimi due anni ha toccato livelli da record, giungendo ad impoverire 1/3 delle famiglie italiane.
La FIAT, in questi anni – però – ha esportato moltissimo ed ha consolidato la sua posizione nel mercato dell’auto, solo per citare la più grande azienda italiana.
In definitiva, la scelta di privilegiare l’apparato produttivo ha condotto sì a dei benefici, ma solo per i grandi gruppi industriali, mentre l’artigiano ed il piccolo imprenditore si sono visti soltanto aumentare le tasse. Per non scontentare troppo il potenziale elettorato dell’opposto schieramento, Prodi non ha esitato a fare macelleria sociale: la legge Damiano, quando andrà a regime nel 2012, chiederà ai lavoratori un anno in più di lavoro rispetto alla legge Maroni: 62 anni + 37 di lavoro, al posto di 61 anni e 36 di contributi. Con buona pace dei tre Re Magi sindacali cosicché, i lavoratori dipendenti che avevano votato Prodi, sono stati i veri “cornuti e mazziati”.
Tutto ciò è passato sotto gli occhi di Giordano e Diliberto, e non hanno proferito parola. S’attendevano forse qualche forma di gratitudine? La gratitudine, l’onore e la parola data sono merci assai rare in politica.
Torniamo allora alla strana crisi – della quale si è incolpata la scarsa coesione dell’Unione – senza considerare che quello schieramento aveva retto a prove ben più ardue: pensioni e welfare, solo per ricordarne alcune.
In quell’occasione, non furono solo calpestati i lavoratori ma gli stessi fondamenti della democrazia: le cosiddette “parti sociali” – da tutti indicate come il sancta sanctorum da seguire senza fiatare – non sono altro che le vecchie corporazioni fasciste. Il governo Prodi ha avallato un concetto che non è previsto nel nostro ordinamento: le leggi, non si fanno più in Parlamento, bensì sono decise dalle “fantomatiche” parti sociali. I rappresentanti liberamente (si fa per dire…) eletti devono sottostare al volere di ciò che è stato deciso in un accordo separato fra Governo, Confindustria e Sindacati (abbondantemente venduti per un piatto di lenticchie).
Perché, allora, quando questi importanti risultati (ovviamente, per banchieri, industriali & Co.) erano stati raggiunti, scatenare la crisi? Per qualche dollaro in più.

Con la finanziaria per il 2007, Confindustria aveva già ricevuto consistenti sgravi fiscali: il “taglio” di 5 punti del cuneo fiscale, prevedeva una ripartizione di 2/3 per gli imprenditori e di 1/3 per i lavoratori. Il terzo destinato ai lavoratori, con un escamotage, è servito per alzare i contributi familiari, ossia non viene più distribuito ai lavoratori, ma “spalmato” su una base più ampia che comprende anche chi ha redditi bassi perché dichiara solo una parte del proprio reddito. Il solito trucco, grazie al quale certi imprenditori riescono ad avere redditi inferiori ai propri lavoratori.
Viene la finanziaria per il 2008 e non ci sono specifici provvedimenti per affrontare la questione salariale: dichiarazioni di buona volontà, ordini del giorno, impegni per il futuro. La solita aria fritta.
La questione, però, è oramai nell’aria e non si può eluderla con le solite nozze con i fichi secchi. Montezemolo gioca una carta: chiede un altro taglio del cuneo fiscale, questa volta al 50% fra imprese e lavoratori. Siamo riconoscenti per l’interesse mostrato, Vostra Grazia.
Il governo non risponde (oramai è alle prese con la querelle scatenata da Mastella) e tutto passa nel dimenticatoio. Ovviamente, farcito dalle solite dichiarazioni d’interessamento; certo: faremo, saremo, vorremo…

Viene da chiedersi, allora, perché si scateni la questione di Mastella così, all’improvviso. Perché Mastella è veramente l’anello debole della coalizione di governo. Intendiamoci: il buon Clemente si è comportato come si comportano i vari potentati emiliani targati PCI-PDS-DS-PD, le coop rosse e tutto il resto. Oppure, come la Moratti a Milano che, appena eletta sindaco, ha “pre-pensionato” decine di dirigenti per far posto ai suoi attacché elettorali. Lo spoil system è la regola, mica l’eccezione.
Mastella, però, ha di certo oltrepassato il segno: troppo sfacciato il suo potere da signore feudale, troppo evidente. Non ha certo lo charme di Damiano né il pragmatismo di Bersani. È un potere feudale alla mozzarella, senza nemmeno le minime precauzioni del caso.
Oltretutto, il buon Clemente non ricorda nemmeno che i Sanniti hanno un triste destino: già a Roma, quando c’erano turbolenze interne, una guerra nel Sannio rimetteva le cose a posto.
Il buon Mastella, però, non è stato così determinante per la caduta del governo: solo due suoi senatori hanno votato contro Prodi, mentre quelli di Dini non hanno avuto dubbi. E qui c’è forse un’altra “radice” della vicenda.
Potremmo semplificare tutto adducendo il fatto che la signora Dini non è stata solo inquisita, bensì condannata per truffa, ma sarebbe una strada fuorviante.
Domandiamoci: chi è Lamberto Dini? Da dove viene?
Uomo di destra, molto vicino al FMI, viene dalla Banca d’Italia.
La matrice del suo piccolo partito non deriva dal cattolicesimo: in altre parole, non fa parte della diaspora democristiana. Almeno, non ne porta i valori in punta di lancia.
E’ invece molto attento alle questioni economiche: se il Parlamento non riuscì ad intervenire sui protocolli del welfare e delle pensioni – abdicando così ad un suo naturale diritto/dovere – lo si deve in gran parte ai “paletti” posti dal senatore: se si tocca anche solo un’unghia, io non voto nemmeno la finanziaria.
Ottenuto così il successo di schiaffeggiare di fronte al Paese la sinistra dell’Unione – tre miseri senatori contro decine – quando ha avvertito l’aria di concessioni per i lavoratori, ha dato forfait.
Lamberto Dini meditava di ricevere in cambio la poltrona di Primo Ministro in un governo tecnico? Dopo quel che è successo, Dini potrà tornare solo alla “casa madre”, ossia dal suo padrone Berlusconi.
Per chi ha lavorato, allora, Lamberto Dini?

Per il capitalismo delle grandi imprese, certo, per i grandi poteri bancari – altrettanto vero – ma, in fin dei conti, non farà altro che regalare l’Italia a Berlusconi, a “folletto” Tremonti e ad un trombone sfiatato come Fini, che parla oramai solo quando il Cavaliere tira le briglie. A meno che…
Nessun leader di un partito di centro ha oggi il carisma per assumere l’incarico di Primo Ministro: né Casini e né Veltroni riuscirebbero a mettere insieme una maggioranza.
Dall’altra parte, siamo oramai alla completa follia: Berlusconi ha una concezione della politica che è carnascialesca. Per il 72 enne “Unto dal Signore”, la vita politica si riduce ad una sorta di Albero della Cuccagna, da salire per vincere in premio un prosciutto a forma di Stivale tricolore. Poi, qualche santo sarà: controlleremo le TV, magari ci proveranno anch’essi con Internet, diremo che “la colpa era d’Alfredo”. Una parte degli italiani ci crederà, e l’altra che vada a farsi fottere.
Per accontentare i suoi clientes, Berlusconi dovrà ridurre il carico fiscale e, allo stesso tempo, mantenere i vincoli di bilancio: nell’arco di un anno, al massimo due, saremmo di nuovo alle prese con le procedure per infrazione di bilancio, ai richiami da Bruxelles, ecc. Insomma, il solito copione già visto. A meno che…

A meno che Napolitano non cerchi una terza via, l’unica che forse potrebbe avere qualche possibilità di successo: affidare l’incarico ad un uomo esterno al Parlamento, ad un “tecnico”. Dovrebbe, però, essere un “tecnico” al quale dovrebbe risultare difficile dire di no.
L’unico “papabile” sulla piazza è – e qui il cerchio si chiude – l’uomo con il quale, tante volte, Luca di Montezemolo si è detto “in piena sintonia”. Quell’uomo, non può essere che Mario Draghi, il Governatore della Banca d’Italia.
Il centro sinistra – completamente allo sbando – direbbe di sì anche a Benigni o a Pippo Baudo: porrebbe forse qualche “paletto” per un’eventuale candidatura di Cicciolina ma, una volta chiarito che la signora non sosta più di fronte alla macchina da presa, anche i TeoDem s’acquieterebbero e finirebbero per appoggiare un suo governo.
Per Berlusconi la scelta sarebbe più ardua, poiché l’uomo di Arcore è oramai giunto a metà del Palo della Cuccagna: ancora un po’ di gesso, per contrastare il grasso che cola dal Quirinale, ed il gioco è fatto. Il Quirinale, a sua volta, potrebbe affermare d’aver giocato tutte le carte che erano in suo possesso.
Dire di no a Mario Draghi sarebbe, per Berlusconi, una scelta ardua: non dimentichiamo che il presidente di Forza Italia è anche banchiere, imprenditore, ecc. Insomma, deve garantire il suo impero economico.
Ora, mettersi contro un personaggio come Draghi – con le sue “aderenze” nella city londinese e, più in generale, nell’alta finanza – potrebbe rivelarsi troppo azzardato. Un rischio da calcolare bene, poiché potrebbe costar caro.
Non crediamo che siano sufficienti le operazioni di “maquillage” che Silvio Berlusconi ha operato sul suo impero finanziario: le “scatole cinesi” servono solo per noi, per dire che non ci si può far nulla ma, se a muoversi è il mondo della finanza internazionale, ti trovano anche una scatoletta di fiammiferi.

La soluzione Draghi consentirebbe di procedere ancora più speditamente nella Macelleria Sociale Italiana – un’azienda allo sfascio dalla quale succhiare il poco sangue che resta – per poi abbandonare la carogna alle iene.
D’altro canto, siamo oramai terra di conquista: le grandi distribuzioni straniere (Auchan, Lidl, ecc) la fanno oramai da padrone. Alitalia diventerà una costola di AirFrance, la Banca d’Italia è già oggi controllata in gran parte dal Crédit Agricole francese.
C’è ancora qualche “boccone” che fa gola – Fincantieri sarà la prossima preda – ma il grosso del lavoro è oramai compiuto: ce ne siamo accorti, negli ultimi vent’anni, per quanto è diminuito il nostro potere d’acquisto.
Le grida d’allarme, lanciate da parecchi esponenti del centro e della sinistra, non sono prive di senso: si stanno rendendo conto che i giochi stanno finendo, la crisi economica attraverserà anche l’Europa ed il vaso di coccio chiamato “Italia” finirà in frantumi. Poltrone dorate comprese.
Che fare?

Beppe Grillo ha annunciato che partiranno finalmente le Liste Civiche. Inizieranno dai comuni, per poi approdare (non si capisce bene se è questa l’intenzione, e quali saranno i tempi) ad una lista nazionale.
Per carità, niente di sbagliato sul piano della democrazia ma, se aspettiamo un simile progetto per avere una nuova classe dirigente, ci metteremo almeno un decennio. Possiamo aspettare tanto? C’è il rischio di non ritrovare più l’Italia.
Non capisco perché non si voglia percorrere il sentiero inverso: grazie al Web, sarebbe possibile selezionare – in modo completamente democratico, con forme di voto alle idee ed ai progetti – una classe politica per contrastare gli estremi sussulti della Casta. I quali, altro non sono che l’ennesimo ed estremo scippo della sovranità popolare.
I due processi – locale e nazionale – potrebbero avanzare in parallelo: l’unica cosa che mi lascia molto perplesso è una nuova classe politica locale che non si prenda responsabilità a livello nazionale. Riflettiamo che, ponendo questo limite, finirebbe per creare da sé l’arma per delegittimarla. In fin dei conti, potrebbero sempre dire: partecipa pure alla vita politica nei comuni, ma lascia perdere la “stanza dei bottoni”, perché non l’hai nemmeno chiesta. Fatti da parte, ragazzino: lasciami lavorare.
E, senza avere una solida classe politica da contrapporre, sarebbe difficile controbattere.
Se qualcuno pensa che giungeranno ad una sorta di “resa” per manifesta incapacità, rammentiamo che un “governo Draghi” sarebbe una sorta di “commissario” per “l’emergenza Italia”: se non abbandoneremo la strada finora percorsa (con pessimi risultati) dalla sinistra – ossia del lassez faire – ci ritroveremo sempre più in basso.
La crisi della classe politica italiana non nasce solo dall’economia: gli ultimi anni hanno visto il Web gridare – in mille modi diversi – che il Re è nudo. Ora, la crisi si farà più dura ed aspettiamoci pure provvedimenti restrittivi, molto peggio del Decreto Levi.
Se non riusciremo ad attaccare, ed a presentare una nuova classe politica in tempi ragionevoli, la sconfitta questa volta sarà totale.

21 gennaio 2008

Storia di lucidatori di sedie

Noi siam vissuti come abbiam potuto, negli anni oscuri senza libertà…”
I Gufi, Non maledire questo nostro tempo, dall’album: Il cabaret dei Gufi, volume 2.


Mentre tutti hanno preso posto sui migliori palchi, per osservare come andrà a finire l’ennesimo scontro fra galletti: politica-magistratura, Mastella-Di Pietro, Prodi-Berlusconi, ecc…la doccia fredda giunge dall’ISTAT e dall’EURISPES, che fotografano ancora una volta il malessere italiano sul fronte dei prezzi, delle retribuzioni e della fiducia nelle istituzioni. Sconfortante.
Dopo decenni di “crescita” economica, scopriamo che una consistente parte della società italiana non sa come far fronte ad una spesa imprevista di 600 euro: attenzione, non si tratta del conto di un dentista o di un carrozziere, ma di un semplice intervento d’idraulica nel bagno o di meccanica sull’autovettura!
D’altro canto, a forza di “austerità” salariali, i risultati non possono che essere questi. Se si rinnovano contratti con – poniamo – il 5% d’aumento su base biennale, e poi s’attende un anno ancora per cacciare veramente i soldi, s’ottiene questo risultato: tre anni d’inflazione al tasso ufficiale del 2% (quella reale è circa il doppio) fanno il 6%, che viene compensato con un 5%. Ogni tre anni, il potere d’acquisto decresce dell’1% se consideriamo l’inflazione ufficiale, e del 7% circa se consideriamo quella reale. Altre ricerche, affermano che la perdita del potere d’acquisto è più vicina al valore reale che a quello ufficiale, ma già perdere solo l’1% l’anno significa, in vent’anni, ridurre del 20% (che è una voragine!) la potenzialità di spesa.
Il tentativo di portare a rinnovi triennali dei contratti è un ulteriore passo per impoverire la popolazione: facendo “slittare” i pagamenti reali, giungerebbero a dare i soldi in busta paga dopo quasi quattro anni.
A questo, va aggiunto il terribile salasso delle mille gabelle che tutti i governi impongono per gli Enti Locali, per l’immondizia e tutto il resto. Solo per Regione e Comune, pago 53 euro il mese in busta paga: non mi pare che ci sia da aggiungere altro.

Mario Draghi si unisce al coro che chiede migliori trattamenti salariali, ma al prezzo della solita maggior “produttività”, ovvero: lavora di più, produci di più ed avrai più soldi. Il che, è come dire che le cose rimarranno come sono, perché il problema italiano non è produrre di più, bensì produrre altro e meglio, creare qualcosa che sia appetito dai mercati. Vorrei ricordare che la Germania occupa circa 400.000 persone nella nuova industria energetica, e sono tutti posti a tempo indeterminato e con buone retribuzioni.
Anche le recenti sciagure sul lavoro, disgrazie non sono, ed è inutile stracciarsi le vesti con i soliti pianti da coccodrilli: sono soltanto il frutto di anni di “risparmi” sul fronte della sicurezza; il parallelo aumento dell’orario di lavoro (con la pratica degli straordinari “coatti”), e la costante paura di perdere il posto di lavoro, fanno il resto. Risultato: si muore perché qualcuno ha risparmiato sulla ricarica di una bombola d’Ossigeno, perché un’impalcatura – sempre per risparmiare – viene eretta in fretta e con poca cura, perché si deve “correre” sull’autostrada per consegnare le merci, visto che in Italia navi e ferrovie sono state cacciate nel Limbo.

Nello stesso giorno della sciagura di Porto Marghera, gli operai del comune dove insegno sono giunti trafelati, al termine delle lezioni, per avvisare di spostare immediatamente le auto dal posteggio: complice lo scioglimento della neve, le tegole stavano per precipitare, oltre che sulle auto in sosta, anche sulla testa degli ignari studenti ed insegnanti che uscivano da scuola. Dal bordo del tetto, si notavano (e sono ancora lì, hanno solo transennato la zona) decine di tegole oramai in bilico. Chiesi: «Ma, il tetto, non è stato rifatto due o tre anni fa?» Risposta del dipendente comunale, mentre osservava le tegole in bilico: «Sì, ma le avranno messe insieme con lo sputo.»
Ecco una risposta sintetica e chiara: le cose, vengono “messe insieme” con lo sputo, ossia cacciate lì, tanto che sia, per dire d’averlo fatto. Prendi i soldi e scappa: tanto, per arrivare ad una sentenza definitiva, ci vorranno vent’anni, e a quel tempo avremo già cambiato ragione sociale tre volte.

E’ inutile continuare ad ammantare con il velo delle “emergenze” tutte le cose che non vanno: è “emergenza” la situazione dei rifiuti in Campania, se non piove arriva “l’emergenza” idrica, se piove troppo quella del dissesto idrogeologico. L’Italia è in perenne “emergenza” energetica, meteorologica, per il traffico…
Ora, se m’accorgo che un trave del tetto presenta una pericolosa fessura, che s’ingrandisce a vista d’occhio, non posso, dopo, definire una “emergenza” il crollo del tetto. E’stata incuria: avrei dovuto pensarci prima.
Bisognerebbe allora chiedersi chi dovrebbe “pensarci prima” e, se ci sono così tante “emergenze”, perché non ci pensa. Si fa presto a dirlo: politici ed amministratori non s’interessano più del Paese, ma soltanto della loro sopravvivenza. Già lo sappiamo.
Stupisce che Massimo D’Alema, in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera lo scorso 19 Gennaio, non assegni troppa importanza all’attuale “scontro” fra politica e magistratura, ma a ben altro:

“Io credo, viceversa, che ci sia una crisi della classe dirigente del Paese, un prevalere di particolarismi, a volte un venir meno della misura che è anche un venir meno del senso della responsabilità. Il problema, dunque, mi pare più ampio e profondo.”

Mano male che lo ammette – e bisogna almeno riconoscergli l’onestà di dirlo a chiare lettere – ma il Massimino nazionale si dimentica che lui stesso fa parte di quella classe dirigente, e sa benissimo quali furono, in anni lontani, i “parametri” che condussero alla selezione dell’attuale classe dirigente.
Tutta l’attuale classe dirigente è “figlia” degli accordi di Yalta, almeno fino agli attuali cinquantenni. Qual era il parametro essenziale? Fedeltà, fedeltà e poi ancora fedeltà. Capacità? Innovazione? Senso critico? No: fedeltà alla bandiera e basta.
Le “bandiere”, ovviamente, erano quasi solamente due: quella rossa e lo scudo crociato.

Dalla parte “rossa” si cercavano nuove leve soprattutto nel sindacato, ma la pratica del nepotismo era forse ancor più seguita: c’è una foto, oggi quasi ironica, che ritrae Giuliano Ferrara e il fratello in fila di fronte al mausoleo di Lenin, nell’attesa di porgere omaggio al padre del socialismo sovietico. Lo crediamo bene: il padre dei due rampolli era il direttore dell’Unità e il buon Giuliano – oggi transitato su altre sponde – negli anni ’70 era diventato – solo per censo – segretario del PCI a Torino. Se non basta ancora, scorriamo l’elenco dei giornalisti di RAI3: troppi nomi parlano chiaro.
Quelli che, invece, non avevano “santi in Paradiso” ma mostravano delle doti, erano immediatamente inviati alla scuola di partito (se ben ricordo…) ad Ariccia: tornavano dopo alcuni anni in giacca e cravatta, valigetta ventiquattrore, ad occupare una poltrona in una delle tante federazioni. I loro compiti? Tradurre in pratica il “verbo” che giungeva da Roma, che a sua volta era coniato – nei termini essenziali – dal PCUS di Mosca.
A sua volta, Mosca non desiderava chissà quali rivolgimenti nell’italico stivale: se qualcuno ha dei dubbi, ricordiamo la (implicita) risposta di Stalin ai comunisti greci dopo la “rivoluzione” del dopoguerra: “Statevene buoni buonini, perché voi siete stati assegnati al campo occidentale. Non sia mai che, a causa vostra, ci tocchi ridiscutere la posizione della Germania Est o della Polonia.”
C’erano sì dei “territori di caccia”, ma erano perlopiù in Africa e nel Terzo Mondo: il Cile – da un lato – fu una sorta di “scheggia impazzita”, così come lo fu sull’altro versante la Jugoslavia (mai entrata nel Patto di Varsavia), che finì per pagarlo a caro prezzo.
Ben si addice, quindi, la definizione del PCI che dà Costanzo Preve, ossia il “bestione metaforico”. “Bestione” perché grande apparato, e “metaforico” perché completamente avulso dai valori che propagandava. Il compito del PCI – di là delle roboanti affermazioni – era quello di mantenere lo status quo.
Mantenere lo status quo significa premiare l’immobilismo, cassare qualsiasi critica o nuovo progetto: non a caso, D’Alema (con Mussi & compagnia cantante) fu uno degli “estensori” della “bolla di scomunica” per gli eretici del Manifesto.

Se, dalle parti delle bandiere rosse regnava una soporifera gagliardia, sul versante delle bandiere bianche l’identico placido ardore era santificato sugli altari.
Cambiare?!? E cosa? Il pericolo del comunismo con le zanne ed i forconi è dietro l’angolo – miei diletti – e noi dobbiamo usare tutto ciò che abbiamo a disposizione per impedirlo. Ovviamente, il fine giustifica i mezzi, e se il fine è sconfiggere l’armata dei “senza Dio”, ci giunge dall’Empireo stesso il lasciapassare per qualsiasi iniziativa. Anche quelle che la mano destra non dovrà mai conoscere, da Piazza Fontana in poi.
Ovviamente, “L’Empireo”, era quasi sempre l’ufficio del Segretario di Stato USA.
In questo stano”balletto” degli ignavi si sono formati personaggi come Casini, Mastella, Buttiglione…e la compagnia è vasta.
Oggi, grazie all’embrassons nous del Partito Democratico, alcuni ex rappresentanti di Mosca potranno gloriarsi d’esser nati (si fa per dire…) sulle barricate e di morire nelle sacrestie. Allo stesso modo, gli ex spazzini di sacrestie potranno concludere d’aver portato a termine il loro compito: Peppone e Don Camillo – dal Paradiso degli Jedi – osservano, plaudono e si commuovono.
Noi, intanto, andiamo in malora.

Negli stessi anni, il Partito Socialista cercava più spazio e potere: Bettino Craxi fu senz’altro un abile politico, spregiudicato, ma bravo. Dall’altra, c’era il “mondo imprigionato” del Movimento Sociale, con le sue revanche e le sue nostalgie.
Come cercavano – le forze politiche minori – di creare una classe dirigente? Presto detto.
Fui chiamato con una scusa – primi anni ’70 – a casa di un dirigente locale socialista: formalmente, avremmo dovuto organizzare un evento musicale. La proposta giunse presto, senza nemmeno visionare spartiti od altro: «Ti “prendi in mano” la Federazione Giovanile Socialista: in cambio, il “posto fisso” in Comune.» Rifiutai, e quello che accettò fece tutta la trafila, “gabbia” compresa per “Mani Pulite”.
Alcuni amici, dopo tanti anni, mi raccontarono – invece – cosa avveniva durante le riunioni della “Giovane Italia”, il movimento giovanile missino. Sotto il tavolo, mi dissero, erano piantati i classici pugnaletti da Ardito e un ex militare di Salò li magnificava del “tradimento” italiano e della grandezza del Duce. Per fortuna nessuno si fece male con quei coltelli.

Chi invece si fece tanto, troppo male fu la generazione che si sfidò nelle piazze italiane al grido di “Morte ai fascisti!” e “Onore ai camerati uccisi!”. Mentre la schiera degli apparatcik bianchi, rossi e rosa lustrava le sedie, nell’attesa d’occupare le poltrone, una parte importante dei giovani italiani – che erano sì più idealisti, ma in realtà ideologizzati e finiti nel cul de sac di recitare una parte che non era la loro – si scannavano senza remore. Perfettamente coerenti ai desiderata del potere, schiere di “rossi” e di “neri” – invece di criticare l’immobilismo delle classi al potere – furono usati per mostrare che gli ideali sono pericolosi veicoli di violenza e non generano altro che sangue. Tutti gli ideali: allora, meglio continuare a lustrar sedie ed a bramare poltrone. Una volta giunti nella “sala dei bottoni” – senz’altro qualcuno avrà pensato – cambieremo le cose che non vanno. Non avevano sondato abbastanza le loro menti.

La caratteristica vincente della mente umana è la sua permeabilità, la capacità d’assorbire ed elaborare messaggi – siano essi una battuta od anni di studio – per metabolizzarli e fruirli in un processo evolutivo. Questa è la storia della civiltà.
In un siffatto panorama, quali input giungevano?
Da un lato il rassicurante immobilismo degli apparati di potere, dall’altro la rappresentazione “sul campo” del fallimento ideologico, oramai ridotto ad una sorta di guerra di clan.
Qualcuno tentò una “terza via”, cercò di compiere il proprio dovere d’eletto nelle amministrazioni favorendo l’innovazione ed il buon senso, ma entrò immediatamente in contrasto con la gran maggioranza dei “lucidatori di sedie”, i quali – vigorosamente appoggiati dalle oligarchie di regime – ebbero la meglio e li isolarono. La vicenda del “Manifesto” (ma anche nelle ACLI tanti non se la “passarono” molto bene…) fu esemplare.

Venne la cosiddetta “Seconda Repubblica” e giunsero nuove aggregazioni politiche. Dove trassero le classi dirigenti?
Il deficit più evidente è in Forza Italia: un partito creato dalla sera alla mattina, cacciando nelle liste personaggi televisivi, avvocati di “casa” Mediaset, transfughi d’ogni lido…per giungere oggi ad una ragazzina dai capelli rossi spacciata come nuova “mente” del movimento di Silvio Berlusconi. Personaggi come Bondi sarebbero ottimi: per girare il prossimo “Vacanze di Natale” con il quasi omonimo Boldi. Sarebbero una coppia vincente dell’avanspettacolo. Classe dirigente? Ma non facciamo ridere…
L’altra novità è la Lega, ma pochi ricordano chi fu il vero fondatore della Lega Nord, il deus ex machina che manovrava dietro le quinte: il sen. Miglio. Vicinissimo agli ambienti della Bundesbank, l’astuto senatore “lavorava” per staccare il Nord dal resto d’Italia ed aggregarlo all’Europa “a due velocità” sognata a Berlino: identico “lavoro” portato avanti dal ministro degli Esteri tedesco Kinkel nei Balcani.
Nel momento stesso che quel progetto svanì, sfumarono completamente le speranze della Lega Nord di una separazione dal resto del Paese: qualcuno, in quegli anni, avvertì pesantemente che “l’esercito italiano è composto in larga parte da meridionali”.
Per questa ragione, la Lega Nord (oramai residuo politico di un’iniziativa fallita almeno dieci anni fa) “tira avanti” illudendo i suoi seguaci di una separazione che – gli stessi dirigenti – sanno impossibile. In un certo senso, una nuova “bestiolina” metaforica. Sulla classe dirigente della Lega, poi, meglio stendere pietosi veli: Borghezio e le provocazioni sui treni, Calderoli e le sue “porcate”…mamma mia…
Non parliamo poi dei cosiddetti “partitini”: Di Pietro che raduna senatori i quali, appena eletti, passano all’opposto schieramento, oppure che – come Franca Rame – in un anelito di onestà intellettuale si dimettono.
E, attenzione, Franca Rame ha presentato le dimissioni citando Sciascia: un altro “grande” dell’arte italiana chiamato sui seggi parlamentari, che se ne andò dopo aver verificato la completa inutilità di rimanere a scaldare una sedia.
Su Mastella è inutile infierire: non si spara sul pianista. Insieme a Dini, fonderà il nuovo PCCI, Partito Consorti Condannate e Inquisite.
Si termina con coloro che vorrebbero portarsi a casa la salma di Lenin, e con un’accozzaglia di zapatisti perduti nella nebbia europea, che – sognando il Chiapas – votano leggi antipopolari: un panorama desolante.

Ecco com’è stata selezionata e si è affermata quella classe dirigente, della quale D’Alema lamenta i “deficit” in termini di capacità progettuali: riflettendoci un poco, Massimo non avrebbe certo bisogno di queste righe.
Dall’estrema destra all’estrema sinistra, scorgiamo soltanto personaggi che vivono il proprio tempo filtrandolo attraverso le lenti del loro passato. E basta.
Da Storace che se ne va – riproponendo, in qualche modo, i valori del Fascismo “movimentista” di Pavolini e Farinacci – a Fini, che invece cavalca la tigre che fu del Fascismo istituzionale e di regime, quello di Gentile e dei due Ciano. Si passa quindi ad un corpo vuoto, privo d’elaborazione politica, buono solo a riproporre minestre riscaldate di un’Italia che non esiste più, che trae sostentamento dall’acclamare un vendeur de soupe (venditore di minestre), come Chirac (uomo di destra!) definì Berlusconi. Il “grande centro” altro non è che il rinvangare i tempi nei quali i problemi politici si risolvevano nell’anticamera dei vescovi. Ah, il Todo Modo di Sciascia!
Infine, la variegata sinistra che piange/rimpiange il fallimento dell’URSS (senza averci capito nulla), oppure i “bei tempi” di Bettino Craxi, per concludere con i burattinai del marxismo che si credono comunisti.
In ciascuno di questi scenari, pur differenti, scorgiamo l’incapacità d’elaborare il lutto per un passato che è oramai Storia, di staccarsi dall’abitudine consolidata di lucidare, oggi, le sedie d’altri, per sperare d’occuparle domani. Null’altro.

Il dramma – se qualcuno ritiene d’essere alla fine o nel mezzo del guado – è che siamo appena all’inizio e non possiamo certo tornare indietro. Ciò che attende l’Italia è una deriva di tipo argentino, con l’aggravio di non essere cementata, come lo è il paese sudamericano, da forti legami nazionali.
Durante il precipitare della crisi economica argentina, pochi anni or sono, nei parchi di Buenos Aires alcuni psicologi radunavano la gente intorno alle panchine e cercavano d’intessere, gratis, una psicoterapia di gruppo per aiutare le persone a superare i momenti più tragici. Dubito molto che – operando un paragone con l’Italia, in simili condizioni – i “luminari” della Psicologia, che ci dilettano dalle bianche poltrone televisive, farebbero altrettanto. Manca un valore essenziale: il concetto di empatia collettiva. Qualcuno potrà dipingerlo con il termine “Patria”, altri “Collettività”, altri ancora “Socialità”, ma non sono certo le parole a mancare. E’ il comune “sentire”. Purtroppo, come ebbe a dire il CENSIS, è terribile ma vero: siamo “poltiglia sociale”.

Massimo D’Alema, di fronte a questo sfacelo, non fa che proporre come salvamento la nuova legge elettorale, le riforme istituzionali…e tutta la manfrina che ben conosciamo. Se raccontasse come stanno veramente le cose, per prima cosa negherebbe se stesso: possiamo comprendere.
Il vero rimedio sarebbe ovvio: selezioniamo una nuova classe dirigente più attenta alle vere esigenze della società italiana, strutturiamola in nuove aggregazioni politiche, presentiamoci al voto ed osserviamo come va a finire.
Per prima cosa, dobbiamo ricordare che fare politica costa. Non certo il fiume di soldi che ingoiano i nullafacenti che ingombrano le aule parlamentari, ma costa lo stesso.
Ne sanno qualcosa le Liste Civiche che – per un modesto incontro a Piazza Farnese di qualche mese fa – si sono trovate a dover affrontare, per le sole spese d’organizzazione dell’evento (i partecipanti viaggiavano a loro spese), l’esborso di decine di migliaia di euro, che tuttora stanno cercando.
La voragine finanziaria, creata dalla Casta per “lubrificare” i suoi apparati, non è solo amoralità politica, è anche lo strumento per attrarre tutte le risorse sugli apparati consolidati ed impedire ad altri di presentarsi all’attenzione dei cittadini. I “filtri”, abilmente orchestrati dalle reti televisive – non a caso sono zeppe di parenti ed amici – fanno poi il resto.

C’è, però, una smagliatura che da tempo sottolineo: il Web. Sanno benissimo del pericolo incombente, e ne hanno dato prova con il tentato “golpe” del Decreto Levi: non crediate che non leggano i principali blog, i siti di controinformazione, ecc. Li leggono, eccome, ci sono appositi apparatcik che tengono d’occhio “come vanno le cose” sul Web. Tentano a loro volta di creare siti e blog, ma nessuno dà loro retta: l’ultimo che ha chiuso è quello di Rutelli.
Appena, però, metti il naso fuori da Internet, sei assalito da costi improponibili. Talvolta mi chiedono di presenziare a convegni ed incontri, e sono quasi sempre obbligato a rifiutare: costa troppo.
Se l’aggregazione nel mondo reale ci è preclusa, i costi del Web sono irrisori: con poche decine di euro l’anno, si ha a disposizione un sito. I blog sono addirittura gratis.
Sia chiaro che non sto proponendo soluzioni salvifiche – secondo me, dovremo scendere ancora più in basso prima che qualcuno inizi a levare la testa – però un’aggregazione che partisse dal Web sarebbe già oggi possibile.
Qualcuno potrebbe obiettare che il blog di Grillo va già in questa direzione: poco probabile, perché – per com’è strutturato – è più un confessionale per rabbie e dolori collettivi che struttura d’elaborazione politica. D’altro canto, Grillo ha sempre affermato di non voler scendere in politica.
Ci sono, a questo proposito, parecchie opinioni: chi sostiene che Grillo sia in realtà controllato da poteri esterni, chi pensa ne faccia parte, e chi invece lo ritiene un semplice Masaniello elettronico. La cosa, m’interessa quanto conoscere le previsioni meteorologiche della Siberia Centrale per domani.
Quello che veramente conta è il processo che è stato messo in moto, che non potrà concludersi in altro modo che con la totale delegittimazione dell’attuale classe politica: la fiducia nella classe dirigente è in picchiata, e tutti gli studi lo mostrano. Potranno cercare di venderci riforme elettorali ed altra paccottiglia a iosa: sempre più italiani risultano oramai “vaccinati” contro questo virus, la politica/spettacolo/spazzatura sbattuta a fior di dobloni su tutte le reti. Sempre più amici mi raccontano che il televisore rimane perlopiù spento.
Quando saremo oramai alla frutta – non ci siamo ancora, credetemi – può darsi che qualcosa nascerà: sarebbe meglio prima, ma vedo ancora troppi indecisi, troppe persone pronte a saltare sul carro di chi promette paradisi per domattina. Sono ancora troppe le menti doloranti, che alla sola parola “politica” storcono il naso, come se si trattasse dell’AIDS. Il che, per cos’è oggi la politica, regge il paragone, ma è altrettanto vero che quell’AIDS ci minaccia ogni giorno che passa sulle buste paga, sulle tasse, sulla sicurezza, nella sanità, nei trasporti, nell’energia, ecc.

Cosa potrebbe fare, per raddrizzare la baracca, una nuova forza politica?
Per prima cosa riportare la sovranità monetaria allo Stato: è ora di finirla di raccontare che dobbiamo fare sacrifici per estinguere un debito pubblico inestinguibile. Iniziamo a dire che è ora di concludere l’insano rapporto che ci vede pagare la carta dei banchieri con il nostro lavoro.
Sarebbe l’unica riforma che consentirebbe all’Italia d’avere un welfare veramente europeo, non la paccottiglia caritatevole che cercano di spacciarci.

Ugualmente, dovrebbe riportare la sovranità energetica allo Stato – perché, fra i tanti ministeri inutili, non esiste un dicastero per il più pressante problema nazionale? – poiché se lo Stato non la esercita, altri la esercitano in sua vece. Dal grattacielo dell’ENI, all’EUR. Poi, non sarebbe così difficile sottrarci all’abbraccio mortale dei petrolieri.
Tutta la questione, ruota intorno ai 46 miliardi di euro che paghiamo ogni anno per l’energia: ogni KW sottratto a quelle fonti – avendo l’Italia come unica risorsa le energie naturali – sarebbero centesimi che rimarrebbero nelle tasche dei cittadini.
Non ci sono problemi di natura tecnica – questo è bene metterselo in testa, tutti lo sanno, dalle migliori università ai governi – ma solo di natura politica. I grandi apparati (siano essi termoelettrici o nucleari) sono soltanto coerenti con la necessità di controllare pochi centri di produzione, così da essere – allo stesso tempo – strumenti per nutrire il sottobosco politico e fonti di sostentamento per gli apparati. Dove ci sono ciclopiche colate di cemento ed acciaio, i numeri sono grandi. Anche le piccole percentuali.

Infine, dovrebbe ridisegnare la struttura dello Stato: non esiste nazione che abbia sei (dico sei!) livelli decisionali: Stato, Regioni, Province, Comuni, Circoscrizioni e Comunità Montane.
I modelli sono essenzialmente due: quello prevalentemente federale (Stato, Regione, Comune) come in Germania, e quello di matrice napoleonica (Stato, Provincia, Comune.) E basta.
Personalmente, sarei per il primo, con la precauzione d’aggregare i Comuni sotto una certa soglia (7-10.000 abitanti), così da rendere più snello l’apparato.
La necessità di tanti livelli decisionali si giustifica soltanto con l’esigenza d’avere ampie aree di parcheggio per i politici “trombati”: le amministrazioni locali sono soltanto la palestra e la “panchina” della prima squadra, null’altro.
Sopprimere i piccoli comuni non significherebbe lasciare i cittadini senza uno sportello per l’anagrafe o un cantoniere, giacché queste strutture potrebbero tranquillamente rimanere. Ciò che andrebbe enormemente ridotto è l’apparato amministrativo dei livelli superiori, che con gli attuali mezzi informatici potrebbe essere drasticamente ridotto.
Tutto ciò non significa gettare in strada chi oggi lavora nelle amministrazioni pubbliche, bensì re-distribuire le competenze ed ottenere sensibili risparmi a fronte di migliori risultati: le nazioni più solide, hanno apparati pubblici efficienti. Un cantoniere, solo, può fare ben poco: una squadra di cantonieri, coordinati da un ufficio tecnico e dotata d’attrezzature idonee, può operare con successo invece d’appaltare i lavori all’esterno. Ma, sugli appalti esterni, sappiamo che si regge l’apparato politico del malaffare.
Il “piatto forte”, però, sarebbe la dismissione di circa la metà delle amministrazioni comunali (5.000 consigli!), 110 consigli provinciali, delle comunità montane e delle circoscrizioni. Quanto si risparmierebbe? Difficile fornire cifre esatte, ma siamo nell’ordine di parecchi miliardi di euro l’anno. Tutti soldi che servono soltanto a garantire l’apparato dei partiti che formano la Casta.

Con il ritorno della Banca d’Italia allo Stato, la parallela creazione di una nuova industria energetica (più i trasporti) e una riforma delle amministrazioni locali cosi fatta, l’Italia potrebbe guardare al domani con ottimismo e fiducia. Forse, inizieremmo a non essere più “poltiglia sociale”, perché gli occhi tristi della gente – che cerca solo, nei discount, il prezzo più basso – raccontano questo. Il Presidente Pertini, affermò che “la democrazia inizia con la pancia piena”. Non scordiamolo.
Quando avverrà? Per ora, la società italiana è suddivisa in tre segmenti, quasi equipollenti: chi non ha problemi finanziari, chi ne ha di pressanti e chi sta nel mezzo. A quella parte mediana dovremo porre attenzione, perché il suo precipitare sempre più in basso sarà l’ago della bilancia che non consentirà più alchimie politiche. Un tempo, il processo era chiamato “proletarizzazione dei ceti medi”: chiamatelo come desiderate, significa soltanto che, chi povero non era, inizierà a contare i soldi prima di mettere piede in un negozio.
In quel momento, si potrà pensare di proporre queste riforme, dove nessuno ci perderebbe niente: ci sarebbero solo tanti, pessimi politici a spasso. Dei quali, non sentiremmo minimamente la mancanza: possiamo comprendere il lutto, non l’alibi di chi lo fomenta per miseri scopi di bottega.

16 gennaio 2008

In un paese normale

Clemente Mastella cita Fedro: “Gli umili soffrono, quando i potenti si combattono.”

In un paese normale, la Magistratura indaga. Su chiunque.

In un paese normale, quando la Magistratura indaga, non ci si dimette per ricattare il governo.

In un paese normale, finché non c’è una sentenza, si è innocenti come l’acqua di fonte.

In un paese normale, è inopportuno inserire i propri familiari nei posti chiave delle amministrazioni.

In un paese normale, deputati e bidelli rispettano in egual modo le sentenze definitive.

In un paese normale, prima di riciclare i politici trombati, si ricicla l’immondizia.

In un paese normale, l’immondizia non brucia nelle strade.

In un paese normale, riciclando l’immondizia, si evita che pessimi politici se ne giovino per tornaconto personale.

In un paese normale, non si confondono le biomasse con l’immondizia.

In un paese normale, non si fa pagare una tassa sulla fornitura elettrica per incenerire l’immondizia, raccontando che è una biomassa.

In un paese normale, quando una sentenza definitiva dice che una frequenza televisiva non ti appartiene, quella TV va sul satellite.

In un paese normale, non è il proprietario della stessa emittente a definire le leggi della comunicazione.

In un paese normale, non si fanno scambi fra le leggi sulla comunicazione e quelle elettorali.

In un paese normale, una legge elettorale permette ai cittadini di scegliere i candidati.

In un paese normale, non si fanno leggi elettorali con il solo scopo di cassare gli altri.

In un paese normale, si preserva la democrazia come un dono prezioso.

In un paese normale, queste cose è inutile dirle, perché tutti le sanno.

Caro Mastella,
visto che ricordi Fedro – a dire il vero in modo poco appropriato: chi sarebbero gli “umili”? Un Ministro?!? – ti voglio ricordare un altro, piccolo brano di un autore a me più caro. Medita un po’, per capire quale dei due “c’azzecca” meglio.

Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, mentre i nostri ci stanno dietro.” Lucio Anneo Seneca.

Cordialità

10 gennaio 2008

Nel paese dei monnezzari

Bande di teppisti senza una strategia complessiva”, ecco come un Ministro dell’Interno ex socialista, e nominato da un governo di centro-sinistra, definisce il malessere degli abitanti del napoletano. E, questo, dopo aver “sentito” il Capo della Polizia Manganelli (basta il nome…) ed aver nominato De Gennaro (Genova 2001?) Commissario Straordinario per la Monnezza.
L’Italia è un “paese fotocopia”. Ogni anno che passa, potremmo “riciclare” le notizie di quello precedente: come nel 2007, 2006, 2005…anche quest’anno è scoppiata “l’emergenza rifiuti”. Anche le notizie fanno monnezza.
Come andrà a finire? Come tutte le “emergenze” italiane: dapprima si criminalizza chi protesta per il sacrosanto diritto alla propria salute (le cifre sull’incidenza dei tumori riportate da Saviano parlano chiaro), poi partirà una strategia formata da promesse (tante), soldi (a chi di dovere), tanto per rientrare in quell’ordinaria “normalità” che, a Napoli, significa non avere la monnezza che arriva al primo piano. Poi, spegneranno i riflettori delle TV, e tutto tornerà “normale”. Fino alla prossima emergenza.

Intanto, montagne di rifiuti s’accumulano nelle strade, mentre colonne di camion cariche di spazzatura s’avventurano – scortate dalla Polizia – fra paesi in guerra e popolazioni al limite della sopportazione. Dove vanno? Tentano di raggiungere l’ennesima discarica “temporanea”, nell’attesa che si trovi l’ennesimo “sito” per l’interramento definitivo: ovviamente, nell’attesa che sia definito dove e se costruire un inceneritore, un termovalorizzatore o comunque lo si voglia chiamare. Intervistati dai solerti TG nazionali, sudaticci funzionari affermano di “lottare contro il tempo”, “contro gli immobilismi”, “contro le eco-mafie”, contro…insomma, un’emergenza apocalittica!
Ora, “un’emergenza” deriva – per definizione – da un evento straordinario ed imprevisto: nessuno prevedeva che, anche quest’anno, avremmo gettato nella spazzatura le bucce dei mandarini e i cartocci del latte?
Negli altri paesi europei, si nominano commissari straordinari per i terremoti e per le alluvioni; nel Bel Paese, alti funzionari dello Stato sono insigniti dell’ambita carica: Commissario per la Monnezza. L’ultimo ad essere insignito dell’Alta Carica fu Bertolaso. Adesso tocca a De Gennaro. La prossima volta, toccherà ad un Ammiraglio poi, a rotazione, Esercito ed Aeronautica.

Tutto l’andazzo è finalizzato ad un solo scopo: trovare qualcuno disposto ad accettare sul suo territorio una discarica, un’amena valletta (meglio se un po’ nascosta) da riempire di spazzatura. Almeno, per quest’anno “tiriamo il fiato”. Le riunioni “politiche” si sprecano: sindaci di quel partito incontrano governatori dell’altro, ma c’è di mezzo qualche “potente” dell’opposto schieramento, e si torna da capo. S’interpella Roma, ma Roma ha ben altro cui pensare…elezioni, fusioni di partiti, grandi riforme istituzionali…no, Roma nomina il Gran Commissario e…che se la sbucci lui, fra le bucce delle patate e delle arance!
Se riduciamo all’osso la questione, siamo come un gatto che deve “farla” ed osserva con circospezione il terreno: dietro a quel cespuglio? Sotto l’albero? Sì, sotto l’albero va bene: un po’ di lavoro con le zampe anteriori – quindi l’atto – e lo zampettare con quelle posteriori per ricoprire il tutto. Anche per oggi, il problema è risolto. Nel terzo millennio del silicio e delle tecnologie spaziali, il Gran Commissario osserva il gatto. E impara.

Proviamo a salire di un misero scalino ed osservare altre soluzioni?
Per prima cosa dobbiamo sfatare il mito che la spazzatura, in discarica, non inquini: inquina pesantemente e definitivamente il terreno, e non solo.
Nonostante ci raccontino che sono state seguite alla lettera le “norme”, e prese tutte le opportune “precauzioni”, vorremmo sapere cosa genereranno montagne di spazzatura interrate dopo decenni di piogge. Nessuno può fermare l’acqua, che s’intrufola, scava, scende: gutta cavat lapidem – affermavano i latini, la goccia scava la pietra – figuriamoci la monnezza.
Risultato: dopo qualche anno, metalli pesanti e molecole d’ogni forma s’espandono ben oltre i confini della discarica e vanno ad inquinare le falde acquifere. La preziosa, e sempre più scarsa acqua che abbiamo a disposizione, dobbiamo prelevarla sempre più lontano dalle città, perché le falde più vicine sono inquinate da Cromo, Mercurio, Piombo e molecole d’ogni tipo sparse a pioggia. Addio agricoltura biologica. Finito? Manco per idea.
Le molecole organiche (carta, legno, residui alimentari, materie plastiche, ecc) sono costituite da lunghissime catene formate da atomi di Carbonio. Tutto cambia – panta rei, affermavano già i Greci – ed il Carbonio può seguire due strade per “mutare”: l’unica cosa che non può assolutamente fare è rimanere così com’è, perché la chimica è un continuo mutare, trasformare, rinnovare.
Se il Carbonio si lega con l’Ossigeno (tipicamente, una combustione) forma l’anidride carbonica – responsabile dell’effetto serra – mentre se è interrato cambia per fermentazione anaerobica. I batteri, sempre presenti, spezzano le lunghe catene di atomi e formano metano: a prima vista, sembrerebbe una buona soluzione.
Invece no, perché il metano che si forma è difficile da recuperare ed è – per gli usi energetici – di scarsissima entità, mentre – se liberato nell’atmosfera – inquina, e parecchio. Una molecola di metano riflette una quantità di radiazione infrarossa (l’effetto serra) pari a 21 volte quella riflessa da una molecola d’anidride carbonica! Quindi, dal punto di vista dell’inquinamento, le discariche sono la peggior soluzione: incrementano enormemente l’effetto serra ed inquinano definitivamente terreni e falde acquifere.

L’altra soluzione è bruciare i rifiuti in appositi impianti, per ottenere la miglior combustione possibile e ridurre il rilascio di prodotti di combustione indesiderati.
Qui bisogna sfatare un mito: i termovalorizzatori producono sì energia elettrica, ma è sbagliato pensare ad essi come ad un metodo di produzione energetica. Più seriamente, dovrebbe essere chiarito che sono mezzi per eliminare i rifiuti, dai quali è possibile recuperare un po’ d’energia.
La distinzione è importante perché, se pensassimo ad essi come al toccasana della produzione energetica, potremmo cadere nell’errore di generare più rifiuti: tanto ci penseranno i termovalorizzatori!
I termovalorizzatori, però, bruciano il materiale più composito che possiamo immaginare: pur trasformando preventivamente i rifiuti nel CDR (Combustibile Da Rifiuti) mediante complesse operazioni chimico-fisiche, rimane un composto formato da legno, plastica, coloranti, vernici, ecc.
All’estero, la tecnologia per bruciare i rifiuti è più avanzata che in Italia, e si riescono ad ottenere rilasci molto contenuti di sostanze inquinanti, tanto che gli impianti sorgono anche in aree urbane.
In Italia – e questo è un altro mistero che dovrebbero spiegarci – anche i più moderni impianti sono almeno un paio di “generazioni” indietro rispetto a quelli d’oltralpe.
I timori delle popolazioni – quindi – sono pienamente giustificati: perché un sindaco dovrebbe concedere la costruzione di un termovalorizzatore, quando non ha garanzie sul futuro inquinamento?
Discariche e termovalorizzatori sono mezzucci per risolvere il breve ed il medio periodo ma, se vogliamo veramente salire un ulteriore “scalino” e cercare soluzioni radicali, non possiamo che partire dalla “catena” del rifiuto: in definitiva, si brucia ciò che s’immette nella “filiera” del rifiuto.

I rifiuti organici naturali (scarti di cucina, ad esempio) non producono inquinanti: il vero problema sono i materiali prodotti dall’uomo mediante la manipolazione chimica. Una cassetta di legno può bruciare tranquillamente: la stessa cassetta, costituita da materiale plastico, è un problema.
Qui nasce il problema dei rifiuti: quando s’arriva al cassonetto, la frittata oramai è fatta.
La raccolta differenziata dei rifiuti è ottima cosa, ma è lenta ad affermarsi e sembra non riuscire a superare la metà, forse il 60% della produzione di rifiuti, anche nelle migliori condizioni.
Le proposte sono molte: dalla raccolta “porta a porta” (molto costosa) ad un generale abbattimento della quantità d’imballaggi, che formano gran parte dei rifiuti.
Dobbiamo, però, sfatare un mito, ovvero il ritorno al trasporto dei materiali sfusi: chi ha vissuto nel mondo dove si rifornivano i negozi con i sacchi di pasta, sa benissimo che quel metodo necessitava di tanta mano d’opera in più per realizzare la distribuzione.
In questo senso, la grande distribuzione è un passo in avanti, non indietro: in termini d’efficienza – sia energetica, sia per le ore di lavoro necessarie – il mondo “polverizzato” dei piccoli esercenti condurrebbe a nuovi rincari delle merci. Già oggi è possibile, non ovunque, ordinare direttamente le merci via Internet, e questo è un altro progresso: risparmi di tempo e carburanti.
Va da sé che, se si devono rifornire i supermercati con merci imballate (giacché chi acquista compra una confezione, mentre un tempo c’era un addetto che confezionare i pacchi), aumenterà la massa degli imballaggi.

Gli imballaggi sono dunque i materiali che generano più problemi per un loro eventuale uso energetico: enormi masse di materie plastiche, nylon, coloranti. E’ proprio necessario costruirli con queste sostanze?
Se i contenitori per il trasporto e l’imballaggio delle merci vengono recuperati, allora possiamo costruirli con qualsiasi materiale, ma se vanno a finire nel cassonetto – quante volte abbiamo notato cataste di cassette per la frutta in plastica accanto ai cassonetti? – sarebbe meglio farli di legno. E per gli imballaggi, non sarebbe meglio utilizzare il cartone? Ancora: è proprio necessario colorare il cartone, cosicché rimane intriso di coloranti chimici che inquinano pesantemente?
I sacchetti potrebbero essere di carta, oppure fabbricati con polimeri dell’amido di mais, i coloranti usati potrebbero essere d’origine naturale: certo, forse non si riuscirebbe ad ottenere quel meraviglioso rosa shocking, ma val bene la pena se dopo non si genera diossina!
Ci sono milioni d’interventi per intervenire nella “filiera” del rifiuto: perché non viene proibita la vendita delle batterie (pile) tradizionali, così utilizziamo solo quelle ricaricabili? Se si possono ricaricare anche solo 200 volte, significa ridurre allo 0,5% la quantità di batterie esauste! Idem per le lampadine.

Il 5% del petrolio che importiamo non viene usato per generare energia, bensì per usi petrolchimici: sono circa 10 milioni di tonnellate l’anno, il carico di 25 superpetroliere. Con quel petrolio saranno sintetizzati medicinali, materie plastiche, gomme, fibre tessili, coloranti, inchiostri, ecc.
Questo mare di composti, in gran parte, finirà in discarica nel volgere di pochi anni. Perché?
Poiché la monnezza sta diventando il terminale d’ogni attività umana: senza monnezza, il capitalismo non ha futuro!

Mi sono piaciuti parecchio alcuni passaggi di un articolo comparso sul Web, dal titolo “L'impero della rumenta” di Gianluca Freda, perché metteva il dito proprio sulla genesi della monnezza, sul mal primigenio del problema.
Citando Maurizio Pallante in “La decrescita felice” – laddove afferma che “La produzione è un’attività finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve, allo stato di merci” – Freda conclude che “La merce, in quest’accezione, non è altro che monnezza grezza che va raffinata al più presto, affinché si possano ricavare dal prodotto finito i meritati e lucrosi profitti imprenditoriali.
Correttamente, Freda identifica nella monnezza il prodotto finito del lavoro capitalista, perché soltanto dalla distruzione del bene sarà possibile ottenere la vendita di un nuovo bene! Tragico, ma è così.

Se spicchiamo un salto nel tempo di parecchi secoli, troviamo artigiani tessili preoccupati: per i prezzi? Per trovare un acquirente ad una camicia in ruvida lana?
No, il problema era avere la lana per filare, per tessere, per confezionare la camicia! Dopo, c’erano stuoli di pretendenti, pronti a scucire monete d’oro oppure a barattare il proprio lavoro in cambio.
Per avere più lana, s’iniziò ad acquistarla in posti sempre più lontani, in quantità crescenti, con l’impiego di sempre più risorse, i capitali.
Il capitale – e tutto la panoplia dei primi mezzi finanziari, lettere di credito, cambiali, ecc – aveva il precipuo scopo di soddisfare una impellente necessità umana: non crepare di polmonite.
L’interesse bancario, richiesto su ogni prestito, aumentò a dismisura le dimensioni dei capitali originari, tanto che – alla fine del ‘400 – i banchieri fiorentini si permettevano di finanziare le spedizioni nel Nuovo Mondo. Mica per interesse filantropico: per trovare altra lana e spezie, che erano necessarie giacché non erano solo il pepe e la cannella, bensì tutta la chimica e la farmacopea dell’epoca.
Finché il lavoro rimase manuale, la quantità d’energia che il “sistema” poteva gestire era limitata dalle masse muscolari di uomini ed animali, ma con l’avvento del vapore aumentò esponenzialmente. Più camicie, più soldi: il problema è che ogni persona può indossare una sola camicia la volta. Ne potrà tenere 50 in un armadio, ma oltre le 50 non si sa più dove metterle.
Ecco, allora, che la camicia – per continuare ad incrementare il capitale – deve durare di meno: non c’è altra soluzione.

La scrivania sulla quale ho appoggiato il computer è una scrivania “da soci” (probabilmente da architetto) degli anni ’20: è costruita in quercia, con incastri a coda di rondine e pochi inserti metallici. La pagai 100.000 lire da un rigattiere, la restaurai e la sto usando da molti anni: quando me ne sarò andato, potrà rendere gli stessi servigi a mio figlio, ai miei nipoti, bisnipoti, ecc. Basterà una mano di vernice e un po’ di cera ogni tanto: la mia scrivania è un minuscolo soldatino del movimento anti-capitalista.
Se avessi acquistato, ad un prezzo certo maggiore, una moderna scrivania in truciolato, oggi l’impiallacciatura inizierebbe a staccarsi, le gambe ad indebolirsi, i cassetti a perdere i fondi. Accanto ai cassonetti, ci sono spesso cataste di mobili in truciolato: il truciolato è un grande alleato del capitalismo.
Un enorme quantitativo di rifiuti è costituito la mobili: anzi, ex mobili. Per costruire i mobili, deforestiamo immense aree, scacciamo con la forza popolazioni che vi abitano da millenni, trituriamo il legno e lo ricomponiamo con colle sintetiche. Con i pannelli, quindi, costruiamo i mobili.
I mobili moderni saranno pure lisci e senza la minima fessura, ma dopo qualche decennio – inevitabilmente – le colle si de-polimerizzano ed i pannelli di truciolato vanno letteralmente in polvere: perché non usare il legno?
Un mobile in legno – se protetto dai tarli – può durare alcuni secoli: ne sono testimoni i mobili antichi giunti sino a noi. Curandoli con della semplice cera d’api, i nostri progenitori hanno usato gli stessi mobili per generazioni: certo, ci sono preferenze dovute alle mode od agli stili, ma tutto questo cela soltanto la nostra ansia del dover cambiare tutto ciò che ci circonda, frequentemente, per mascherare la nostra incapacità di cambiare il nostro pessimo stile di vita. Dalla produzione al consumo, tutto deve vorticare celermente per donarci l’illusione della felicità. Effimera.

Ovviamente, il capitalismo alimenta ad arte – grazie alla pubblicità – la sete di mutamento: sei depresso? Comprati un paio di scarpe nuove: per un paio d’ore scaccerai il male ai piedi, osservando le tue nuove zampe sontuosamente calzate.
La stessa molla del consumo inconsapevole ci spinge ad acquistare il cartoccio dei pomodori che ha la confezione più appariscente e colorata: nastrini dorati, nylon che riflettono la luce, scritte accattivanti che richiamano paradisi della natura.
In realtà, quei pomodori sono probabilmente cresciuti sotto una cappa di concimi chimici e diserbanti, e sono stati raccolti da uno schiavo nero – che oggi chiamiamo “extracomunitario” – per pochi centesimi: nell’estate del 2006, le Forze dell’Ordine scoprirono – in Puglia – una vera holding della schiavitù, con tanto di “caporali” armati che sorvegliavano i “lavoratori extracomunitari”. Peggio dei campi di cotone dell’Alabama.
Se fossimo consapevoli dell’abisso d’infelicità nel quale siamo precipitati, probabilmente acquisteremmo la metà dei prodotti che compriamo: perché non si costruiscono automobili che durano trent’anni? Sarebbe possibile e vantaggioso, sia economicamente e sia per gli aspetti energetici ed ambientali.
La risposta è: perché nessuno si terrebbe la stessa auto per trent’anni! Vorrebbe cambiare, non entrare nella stessa “forma” per tre decenni. Ci chiediamo perché ci disturba tanto? Perché quel “cambiare” acquieta la nostra sete di mutamento interiore, perché ci rendiamo conto che stiamo costruendo un mondo alla rovescia: campagne spopolate e città invivibili, ricchi straricchi e poveri strapoveri, felicità effimere e depressioni dilaganti.

Difficile stabilire dove sia iniziato questo circolo vizioso: possiamo soltanto affermare che è perfettamente coerente con i desideri di chi guadagna un euro a camicia, e pare acquietare le ansie di coloro che – se non acquistano una camicia nuova ogni mese – cadono in depressione.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto ciò con la politica spicciola: possiamo discutere all’infinito sulla convenienza della raccolta differenziata, sugli inceneritori, sul riciclo dei materiali – ed è giusto farlo – ma se non mutiamo le nostre abitudini – ovvero se non diminuiamo la colossale quantità di beni che consumiamo nei paesi ricchi, senza trovare felicità – saranno soltanto pannicelli caldi per curare un tumore.
Siamo così fessi, stupidi, inconsapevoli? No: c’è chi alimenta ad arte questa tendenza e ci campa allegramente. Ovviamente, chi produce un bene vorrà produrne di più per arricchirsi: la nota teoria dello “sviluppo senza limiti”, che rischia seriamente di mettere in crisi l’intera specie umana, ma c’è chi ha trasformato il rifiuto in un cespite di ricchezza e di potere.
Tutti paghiamo la tassa sulla spazzatura. Quanto? Dipende, ma una cifra vicina ai 200 euro a famiglia è vicina alla realtà.
Questa tassa (le sole famiglie) genera annualmente un capitale pari a circa 5 miliardi di euro (altri forniscono cifre ben maggiori, ma non ha soverchia importanza). Chi lo gestisce? Gli assessori incaricati di gestire i rifiuti, che si servono d’aziende municipalizzate o private per “risolvere” il problema.
Qui entrano in gioco le cosiddette “eco-mafie”, che non sono eserciti d’individui con coppola e lupara: più semplicemente, sono distinti signori in doppiopetto che ricevono appalti per la gestione della spazzatura i quali, a loro volta, li re-distribuiscono in una jungla di subappalti.
Sulla monnezza campa un esercito di camionisti, raccoglitori, funzionari…e su tutti, come un sovrano, regna il nostro assessore che, con una delibera, può cambiare il destino di centinaia di persone. Le quali, ovviamente, mostreranno riconoscenza alle elezioni. Proviamo a riflettere su qualche milione di euro da gestire per raccogliere voti: la spazzatura può anche fare tre volte il giro dello Stivale (difatti, la spediscono in Sardegna, che è proprio dietro l’angolo), basta che alla scadenza elettorale caschi tutta sullo stesso nome!
Perché, soprattutto al Sud, la raccolta differenziata non decolla? Poiché manderebbe in crisi il sistema, “l’affare monnezza”. Del resto, la politica-spazzatura, la TV-spazzatura e l’informazione-spazzatura, su cosa potrebbero reggersi?

C’è modo d’uscirne?
Senza uno Stato che si riappropri di quei poteri che la cosiddetta “deregulation” ha generato, potremo discutere all’infinito su discariche e termovalorizzatori, ma rimarremo sempre nella m…pardon nella monnezza. E non si venga a raccontare che il problema è solo napoletano; ho visto personalmente intere vallette, al Nord, riempite di spazzatura, che non hanno ripari a valle: prima o dopo, quella monnezza finirà inevitabilmente sulla testa di chi sta sotto. Magari fra cent’anni: e chi se ne frega di cosa avverrà fra cent’anni! Nomineranno un Commissario per le Monnezze Cadenti.
Un primo passo verso la decrescita, passa proprio per uno Stato che torni a difendere la salute ed il buon livello di vita della popolazione. Come? Stabilendo, per legge, più tutele sulla produzione dei beni.

Mia suocera ha un frigorifero Bosh che acquistò nei primi anni ’60: funziona tuttora, ed è costruito con un acciaio che ci potreste fare una lama di Toledo. Una cara amica ha ancora un monumentale frigorifero FIAT, che ha attraversato tutte le stagioni della tecnologia ed oggi ha già valore nel mercato del modernariato. E funziona.
Ovvio che, quando la concorrenza scivola nel monopolismo, nel cartello dei produttori e lo Stato si estingue, l’interesse generale sarebbe quello di darvi un frigorifero che dura due mesi.
Perché, un’auto, deve avere soltanto due anni di garanzia?
Se, ipoteticamente (ma conosco situazioni che si avvicinano parecchio all’esempio), dopo due anni ed un giorno si rompe la pompa dell’acqua e si “fonde” il motore? Oppure, il parabrezza – inspiegabilmente – si fessura (“cancro del vetro”, lo chiamano, ma facessero il piacere…), una gomma scoppia dopo poche migliaia di chilometri – eh sì, “capita” – chi vi risarcisce?
L’auto che avete acquistato – quei 20.000 euro, poniamo – per quanto tempo deve durare?
Se dopo pochi anni inizia ad andare letteralmente in pezzi (qualcuno ricorda le Alfasud che lasciavano una scia di ruggine dopo pochi anni?), questa è truffa, soltanto che le leggi non la riconoscono come tale.
Ovvio, perché andrebbe ad intaccare il comma numero uno: tutto deve essere funzionale all’accumulazione del capitale. Il comma due, invece, recita: qualsiasi legge che contrasta con il comma uno è automaticamente abrogata, e deve essere immediatamente gettata nella monnezza. Fine.

06 gennaio 2008

Uomo della Provvidenza o Cavallo di Troia?

Scorrendo sul monitor le immagini di Barak Obama, viene da chiedersi cosa cerchino gli americani in questo giovane avvocato dell’Illinois. Oppure, cosa intravedano in lui i grandi potentati internazionali, palesi ed occulti: forse, quasi le stesse cose. Il che, non significa che domani gli statunitensi saranno felici d’esser governati da Obama. Sempre che vinca, ovviamente. Anche se non vincerà, vale la pena ugualmente di soffermarsi sulla vicenda di questo astro nascente della politica USA che non è, d’altro canto, una scoperta dell’ultima ora.

Che gli Stati Uniti siano oramai giunti al redde rationem con se stessi, lo indicano un’infinità di fattori: la crisi di una moneta che è stata per mezzo secolo sicuro ancoraggio per qualsiasi operazione finanziaria, oppure la perdita di gran parte dell’apparato industriale a favore dei paesi orientali. Ancora: lo sberleffo d’osservare il nemico di un tempo – ieri l’URSS, oggi la Russia – risollevarsi dalla polvere e camminare diritta, ed il grande fallimento delle operazioni militari in Medio Oriente.
C’è sempre la “spina nel fianco” dell’Iraq, ma nella campagna elettorale pare ci sia stato quasi un gentleman agreement per non trascinarlo nella mischia. Le notizie che giungono dall’Oriente sono abilmente “anestetizzate” dai media: pare quasi che, l’interesse delle varie fazioni irachene, sia più puntato sulla campagna elettorale americana che sul contrasto interno alle forze d’occupazione. D’altro canto, nessuno spreca cartucce se sa che potrebbero essere – appena dopodomani – risparmiate.
L’aria di smobilitazione s’avverte oramai ovunque, dalla Baghdad angosciata dopo anni d’inferno, fino alla Virginia, dove la depressione ha un diverso codice: quello dell’inevitabile sconfitta, di un secondo dopo-Vietnam da gestire.

Curioso che, molti cittadini statunitensi, vorrebbero affidare questa eredità da brivido proprio ad un giovane nero, che fa di nome Barak, Hussein, Obama. Il nome dell’ultimo negoziatore israeliano, quello dell’uomo che impiccarono un anno or sono nella prigione di Baghdad e, per una sola consonante di differenza, il nome del famoso “sceicco del terrore”: che strani scherzi fa la Storia!
Pur appartenente ad una chiesa cristiana, il giovane Obama è cresciuto in Indonesia e, pare, abbia addirittura frequentato una scuola coranica. Ottima preparazione per fare, oggi, il Presidente USA!
Se le vicende internazionali sono più avvertite all’estero, negli USA ha un considerevole peso (com’è ovvio che sia) la politica interna: a ben vedere, s’incontrano parecchie difficoltà nel trovare differenze fra i programmi dei candidati democratici e, con appena qualche “limatina” di unghie, anche con quelli di Mc Cain e di Giuliani. Mormoni e predicatori vari eccettuati, ovviamente.
La battaglia è dunque un confronto d’immagine e nulla più: nessuno crede veramente nelle promesse sulla sanità per tutti e su un nuovo gold rush, oppure che lo strapotere tecnologico ed economico cinese svanisca come una Fata Morgana. Gli americani avvertono, sentono il momento di pericolo e cercano – probabilmente – di fare una cosa che ritengono sensata: non affidarsi più alla vecchia via, cambiare radicalmente, a new way. E’ nello spirito della “frontiera”.
In altre parole, sembrano quasi coscienti che il nuovo Cesare non sarà più un Cesare (l’ultimo che hanno provato, non ha dato gran prova di sé): è tardi anche per le alchimie dei Churchill – o forse no – ma di certo non del Churchill del 1940. Quello del ’45, forse.
Serve pazienza, tanta pazienza per cercare almeno un atterraggio “morbido”, in un paese che ha giocato troppo con il Monopoli, creando bolle finanziarie e speculative che sono passate da un’amministrazione ad un’altra, che ha visto i salari minimi sindacali (6,5 $ l’ora circa) dilagare ovunque, un paese dove il lavoro lo trovi, ma a fare il lavapiatti o la cameriera in un fast-food.
Un decennio infernale ha visto gli statunitensi pagare l’energia dieci volte tanto (per noi europei, circa sei volte tanto), perdere talvolta la possibilità di pagare l’assicurazione sanitaria e, ciliegina sulla torta, essere infinocchiati con la speculazione dei subprime.

Ce n’è abbastanza per avere poca fiducia nel futuro, ed in questi casi non si cercano più le soluzioni “ragionevoli” dei Clinton o dei Giuliani, bensì maghi, taumaturghi e predicatori – oppure, senza sbilanciarsi troppo – giovani avvocati neri dell’Illinois.
Ci sono, inoltre, altri fattori interni che sembrano convogliare consensi su Obama, che a noi europei sembrano meno importanti, ma che negli USA sono – stelle o stalle che siano – di prima grandezza.
Leggevo recentemente un articolo di Carpentier de Gourdon dove – con grande sagacia ed approfondita conoscenza storica – narra l’eterno abbraccio/contrasto fra le due Americhe, quella a Nord del Rio Grande e quella a Sud, che pare interminabile, fino al lontanissimo Capo Horn.
Eppure, entrambe sono Americhe, anche se quando la citiamo al singolare intendiamo – quasi sempre – gli Stati Uniti.
L’ultimo decennio ha visto grandi rivolgimenti a Sud del Rio Grande: una piccola isola dimenticata, nello sprofondare del socialismo reale, ha gettato un pollone che ha attecchito in terraferma e, paradossalmente, in uno dei luoghi più ricchi di petrolio della terra. La pipeline fra Caracas e La Habana è, forse, la più importante arteria per Chavez.
Non basta: le alchimie finanziarie di un ministro economico argentino – un tal Cavallo: ma, la finiamo di non prestar attenzione ai nomi? Voi, pronipoti di Caligola, affidereste le vostre fortune a un cavallo? – che sognava di far volare il dollaro fra la Pampa ed il Chaco, portò l’Argentina al collasso economico. L’unica soluzione che a Buenos Aires ritennero sensata, quando si presentarono gli ispettori del Fondo Monetario Internazionale, fu quella d’accoglierli con un caloroso “vaffa”, affermando che palanche per ottemperare ai debiti non ce n’erano. Se avevano già il biglietto per il ritorno, bene: altrimenti, si facessero venire a prendere.
E poi, Evo Morales, Lula da Silva…la Bachelet…insomma, a parte la Colombia, non c’è più nessuno che ci dia ascolto a Sud del Rio Grande, nessuno che voglia più sentir parlare dei gringo. C’è toccato pure di “ritoccare” un poco le elezioni messicane, altrimenti vinceva quel maledetto castrista di Obrador, e la partita finiva ancor prima di cominciare.

Per osservare il mutamento dell’America Latina, possiamo fare una semplice constatazione: l’11 settembre 1973, quando fu ucciso Allende, l’unico paese che non aveva un governo pienamente supino ai desideri statunitensi (a parte la solita Cuba…) era il Cile. Con la mentalità e gli schemi della guerra fredda, il legittimo governo cileno fu liquidato in un amen, bombardato – ironia della sorte – proprio da quei Mig-21 che l’URSS aveva prontamente fornito alle forze aeree cilene, per renderle indipendenti dalle forniture USA.
Trentacinque anni dopo, solo Bogotá continua ad inviare i suoi ufficiali ad addestrarsi nei campus militari statunitensi, e la presenza militare di Washington è praticamente sparita a Sud del Rio Grande.
Così, al NAFTA (l’accordo di cooperazione economica guidato dagli USA) s’è sostituito il MERCOSUR, gestito direttamente dai paesi centro e sudamericani. Anche qui, notiamo che la scelta del nome fu infelice: quale auspicio trarre da un simile acronimo, con i prezzi odierni del gasolio?

Tutto ciò parrebbe appartenere soltanto alla sfera della politica estera, e invece ha degli importanti risvolti interni, che toccano – in qualche modo – il candidato Barak Hussein Obama.
La tradizionale suddivisione, che è sempre stata proposta per gli USA, è quella dei paesi ad Est o ad Ovest delle Montagne Rocciose, oppure le “cinture” agricole del grano, del mais e del tabacco, seguendo i paralleli. Mai nessuno avrebbe pensato ad una suddivisione diagonale: eppure, se osserviamo la composizione sociologica degli USA, oggi potremmo suddividere il paese fra chi sta a Sud-Ovest di una immaginaria linea che collega la Florida all’Oregon (sopra San Francisco) e chi, invece, abita la parte a Nord-Est.
Man mano che ci si avvicina al vertice di San Diego, oppure ci si allontana, cresce o decresce la percentuale di popolazione d’origine ispanica che vive oramai stabilmente nel Paese. Si tratta di un fenomeno migratorio che ha caratteristiche assai diverse da quelli europei: emigranti che vanno a vivere in città “yankee”, le quali portano nomi come San Diego, Los Angeles, San Antonio, San Francisco, Corpus Christi, Mesa, Las Vegas…
Nell’ultimo secolo, la concomitanza fra la potenza economico/militare degli USA, ed una demografia in espansione, fermarono al Rio Grande la sempre presente pressione demografica che giunge dal Sud, causata dalla maggior prolificità latina.
Oggi, entrambi questi presupposti non esistono più: l’America WASP (White Anglo Saxon Protestant) è sempre meno reale. Certamente la si ritrova nel Massachusetts o nel Rhode Island, ma in California le due etnie sono oramai equipollenti, considerando anche una notevole immigrazione asiatica. E un governatore austriaco.
La politica di Bush si è dimostrata fallimentare anche in questo settore: inutile costruire muri lunghi migliaia di chilometri, che finiscono per “fare acqua” da tutte le parti. I grandi flussi migratori – la Storia insegna – sono inarrestabili ed incomprimibili, e questa è una lezione anche per la vecchia Europa. I maggiori network statunitensi – più pragmatici – hanno semplicemente creato molti canali espressamente dedicati alla popolazione ispanica.
Così, paradosso dei paradossi, città che portano nomi latini tornano ad essere colorate da lingue latine, proprio nei luoghi dove, la superiorità della cavalleria USA e degli obici Dahlgren, s’imposero sulle truppe del generale di Santa Ana.

Come intercettare i consensi della parte ispanica della popolazione statunitense, oramai stabilmente residente nel paese, che lentamente acquisisce la cittadinanza e che, domani, potrà diventare l’ago della bilancia negli equilibri interni?
Non esistono politici di prima grandezza d’origine ispanica, e forse sarebbe azzardato (e controproducente) presentare un simile candidato. D’altro canto, nel melting pot statunitense, non è assolutamente certo che gli italiani votino un italiano, i neri un nero, ecc.
La figura di Obama sembra incarnare una sorta di american dream “cucito” per i neri: senza ricorrere a penose operazioni di lifting – come Michel Jackson – il nerissimo avvocato dell’Illinois si presenta così com’è, con la sua strana vita trascorsa prevalentemente all’estero, ma anche con la sua laurea ad Harvard.
Ecco allora che la figura del giovane nero vincente può, nell’immaginario dei nuovi immigrati, rappresentare una sorta di possibile, futuro punto d’arrivo per tutti: la riedizione dell’american dream, nella versione per i diseredati. Siano essi neri, asiatici od ispanici.
Obama gioca poi, contemporaneamente, su due tavoli e li sa interpretare bene: se, da un lato, ha saputo raccogliere più fondi elettorali di Hillary (che gli consentono una “macchina elettorale” tradizionale), dall’altra è un candidato – se non proprio “tutto Web” – almeno “prevalentemente Web”. E, questo, è un dato che dovrebbe far riflettere anche in Italia.
Inoltre, Barak non appartiene alle grandi dinastie della politica USA – paradossalmente, la Clinton potrebbe pagare il legame troppo stretto con l’establishment, ed essere (ricordiamo che, là, stanno giocandosi quasi tutto sull’immagine) “accomunata” alla dinastia Bush – e questo apre ad Obama una serie di “porte” che altri non possono aprire. Ricordiamo quanto poco giovò, a “mollaccione” Kerry, gloriarsi di quelle iniziali – J.F.K. – quasi fossero un mantra da recitare per sconfiggere Bush. Di là dei brogli e del potere del Presidente in carica, quelle iniziali gli preclusero di contendere a Bush gli stati delle pianure centrali, quelli più tradizionalmente repubblicani.

Sappiamo, però, che il sistema elettorale statunitense è facilmente “permeabile” alle intrusioni esterne: sin dalle primarie, dove contano soprattutto soldi, appoggi ed alleanze, fino allo scontro finale, dove entrano in gioco le infernali macchinette della Diebold.
E’ però altrettanto vero che gli Stati Uniti non possono essere paragonati all’Ucraina o alla Georgia: un risultato elettorale può essere abilmente pilotato, anche ribaltato, ma quando la situazione è abbastanza vicina all’equilibrio. Inoltre, questa volta hanno poche possibilità di rientrare in gioco le grandi “dinastie”: in un certo senso, anche i poteri forti (e, talvolta, occulti) devono fare i conti con quel che passa il convento.

Sul potere dei grandi gruppi economici, sui vari think tank statunitensi, si è parlato molto: dalle abili regie del vecchio Kissinger – il cosiddetto “gruppo” di Havard – fino agli agrarians del Sud.
E’ indubbio che importanti personaggi del sistema abbiano appoggiato i neocon – pensiamo a Samuel Huntington – ma non confondiamo quei gruppi con i neocon stessi.
New American Century – la “madre” dei neocon – era ed è un gruppo di pressione politica, ma non è perfettamente sovrapponibile agli interessi dei Nashville Agrarians o della lobby delle armi.
Possiamo, risalendo la storia dei neocon, giungere fino a Leo Strass ed ai legami con i residui del Terzo Reich (la nota vicenda Thyssen-Bush…), ma, proprio la spregiudicatezza di fare affari con il nemico in guerra, ci dovrebbe far riflettere che – a quella gente – assai poco importa di nomi, gruppi o sigle. In altre parole, se i neocon sono un cavallo perdente, chi se ne frega dei neocon.
Il che, sembrerebbe confermato dalla strana “defenestrazione” di Wolfowitz dalla Banca Mondiale: quando mai, un potente, viene accusato di una misera questione di raccomandazioni per una collaboratrice (o amante che fosse), fino a cadere nella polvere?
Ancora: le pressioni dei militari, al Pentagono, furono così potenti da “disarcionare” Rumsfeld? Oppure, qualcuno assicurò quei militari – che non volevano finire dalla padella nella brace con una guerra all’Iran – che sarebbero stati in ogni modo garantiti?
Una sotterranea guerra è andata in scena, almeno dal 2004 in poi, fra la Casa Bianca ed il Pentagono: non si contano quasi i generali deposti (con succose pensioni e posti sicuri in altrettanto redditizie organizzazioni), il tourbillon di cariche ai vertici delle Forze Armate, i frequenti “cambi della guardia” in Iraq, fino alle dimissioni di Rumsfeld, ufficialmente “dovute” per la sconfitta nelle elezioni di mezzo termine del 2006.
L’ultima “cambiale” concessa ai neocon fu la sostituzione di Powell con Condoleeza Rice agli Esteri: dopo, il silenzio dei grandi gruppi di pressione è diventato assordante.
Non si poteva far nulla, per un’anatra zoppa che non era riuscita a volare nemmeno quando aveva avuto il controllo d’entrambe le ali ed il vento in poppa: non c’era niente da fare perché non ci si improvvisa grandi statisti, nemmeno se hai alle spalle tutto l’apparato di Nixon/Reagan/Bush Primo Il Vecchio.

Oggi, stranamente, emerge un giovane avvocato democratico – che, però, ha studiato ad Harvard – e che raccoglie più fondi elettorali della “patentata” Clinton. Potenza del Web o dei grandi gruppi?
Si può credere che gli USA vogliano voltar pagina – e lo dovranno fare in ogni modo, vista la disperata situazione economica nella quale si trovano – e, probabilmente, anche i grandi gruppi di pressione si sono accorti che è necessaria una sferzata.
Ovviamente, questo non migliora le condizioni economiche e strategiche degli USA nel mondo: la guerra in Iraq è sempre una ferita aperta, l’indebitamento – pubblico e delle famiglie – rimane una voragine alla quale è difficile trovare soluzioni. Il dollaro è in picchiata da anni, e la FED non sa più quali pesci pigliare.
In una prospettiva di graduale ritiro dai grandi scenari internazionali – che sono costati, in questi anni, una montagna di soldi all’amministrazione USA – lo scenario di un “atterraggio morbido” si può, per lo meno, intravedere.

Tutto ciò costerà, e parecchio: dalla redistribuzione dei contratti petroliferi in Iraq – lo strano “riavvicinamento” di Parigi di qualche mese fa? – alla cessazione degli appoggi “arancione” alle repubbliche ex-sovietiche, fino alle velleità degli Scudi Stellari e dei viaggi su Marte.
In altre parole, il ritorno ad una fase isolazionista potrebbe essere necessario per distrarre risorse – finora dedicate ai ruoli internazionali – al fine d’irrobustire gli interventi interni: senza i quali, gran parte degli americani rischieranno, nel prossimo decennio, la povertà vera, quella delle grandi recessioni economiche.

La figura di Barak Hussein Obama potrebbe essere proprio quel necessario compromesso d’immagine, fra la continuità dell’establishment e le esigenze, pragmatiche ed oramai non eludibili, di un ritorno al sostegno della domanda interna. Dopo un trentennio di politiche liberiste, una nuova fase rooseveltiana.
Una re-interpretazione di Roosevelt, non una riedizione, giacché qui si tratta di gestire (con ben minori risorse!) una fase di contrazione della politica estera, e non un’espansione, come avvenne dopo la Grande Depressione: insomma, finita la fase imperiale, si tenterebbe di “scendere” ad un più credibile Commonwealth di marca statunitense. Cosa, peraltro, che non è assolutamente facile da gestire e, per alcuni aspetti, è persino difficile immaginare.
Ma, tant’è, altre vie – per il gigante statunitense – non sembrano essercene: se un vecchio Churchill non è presente nella politica USA, un giovane promettente, abile oratore, preparato ed in grado di coalizzare fra di loro etnie apparentemente lontane e dagli interessi stridenti, può essere l’unica soluzione praticabile.
Forse non è l’optimum al quale aspiravano generazioni di statunitensi, ma è ciò che passa il convento: dovendo proprio trovare, fra i vari candidati, quello che meglio potrebbe ricoprire questo ruolo, egli corrisponde proprio al ritratto di Barak Hussein Obama. Sia per l’immaginario popolare, sia per i poteri forti, abbacchiati e delusi dagli sproloqui di New American Century: fare di necessità virtù è, nei periodi bui, il massimo che ci si può concedere.

Ricordo una frase del primo San Francesco della Cavani. Quando Francesco riuscì finalmente a farsi ricevere dal Pontefice, gli spiattellò tutte le sue rimostranze per la corruzione del clero dell’epoca. Un cardinale, chiese allora al Papa se lo dovesse imprigionare, ma il Pontefice rispose, tranquillo: «No, lasciatelo andare fra la gente: riporterà i poveri a noi.»

02 gennaio 2008

Nella terra dei Pinocchi

Cortigiani, vil razza dannata…”
dal Rigoletto, di Giuseppe Verdi

Dev’essere stata dura, si capisce subito, appena si legge il testo del messaggio agli italiani del Presidente della Repubblica per il 2008. Non sappiamo chi abbia lavorato al documento, se il Presidente stesso o altri collaboratori, ma il risultato è veramente apprezzabile: con i “chiari di luna” che circolano, era veramente difficile far di meglio.
In questi casi – quando la realtà che ci circonda è a dir poco agghiacciante – si richiamano i buoni sentimenti, gli “aspetti eloquenti dell’Italia che vuole crescere”, i “centri di eccellenza”. Tutte cose che esistono, nulla da eccepire. Un po’ meno quando si citano non meglio precisate “realtà di istituzioni indubbiamente vitali”: cos’avranno mostrato al Presidente Napolitano?
Viene da chiedersi quale Italia mostrino al Presidente, oppure quale Italia Napolitano desideri vedere: il risultato mediatico del messaggio raggiunge sì la sufficienza, ma è drammaticamente avulso dalla realtà che tutti viviamo. Si fa qualche concessione: “l’allarme per l’aumento del costo della vita…l’incertezza del lavoro…l’insufficiente tutela del lavoro…”: vogliamo ben credere, con una città (Torino) che ha visto l’Avvento del Natale scandito dalle morti dei suoi figli in un rogo in fabbrica. C’è veramente poca “trippa per gatti” per chi deve scrivere discorsi.
Il Presidente può permettersi il lusso di sorvolare sull’attività politica – è un limite che deve rispettare – ed è la sua fortuna: guai se dovesse farlo. Cosa potrebbe raccontare?

Potrebbe iniziare a raccontarci come mai un governo, che ha una risicata maggioranza al Senato, sia tenuto in ostaggio da un’esigua pattuglia di senatori, capeggiati da un tal Lamberto Dini, ex FMI, ex Banca d’Italia, ex berlusconiano di Forza Italia, ex ministro degli Esteri, attuale marito di Donatella Zingone, condannata – lo scorso 3 Dicembre 2007 – in primo grado a due anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio. Poi condonati, ovviamente, con l’indulto voluto da Mastella.
Ora, che nella famiglia Dini la mano destra non sappia cosa fa la sinistra, non riusciamo proprio a crederlo: il continuo “alzare la posta” di Dini su questo o su quello, non ci sembra dovuto al suo sfrenato desiderio di prendere il posto di Prodi in un governo “tecnico”, quanto alle vicende personali. Sulle quali, ad onor del vero, non riusciamo proprio a dar torto marcio al povero Lamberto.
Eh sì, perché se è stata rimossa la Forleo per non “andar giù” pesante su Consorte (D’Alema & Fassino?), se De Magistris sarà inviato ad indagare solo più sugli incidenti stradali (quelli veri, ovviamente, non quelli di “dubbia” fonte) – per non colpire certe logge di San Marino (Prodi & Mastella?) – non si capisce proprio perché si debbano fare figli e figliastri.
Ma – mi chiedo – non era possibile richiamare il giudice di Roma, che ha condannato la signora Dini, ed inviarlo ad indagare sul prossimo Carnevale di Venezia? Anche là, magari, qualche reato ci sarà…
Bisogna riconoscere che il buon Lamberto ha ragione da vendere: perché solo io non ho le tutele che abbondano per altri – sembra affermare – forse perché sono piccolo e nero?
Non sappiamo se il nostro Calimero sia proprio nero o – come il simpatico pennuto della pubblicità di un tempo – solo un po’ sporco ma, al suo posto, chiunque di noi, in cambio dell’appoggio al governo, avrebbe perlomeno chiesto l’annessione delle Canarie all’Italia, la vendita delle Tremiti alla Baviera e il divieto per qualsiasi parlamentare di fare festini alla cocaina. Altro che abolizione delle Province.
Si percepisce chiaramente che il buon Dini è stato colto da un po’ di stizza, perché ha steso una “lista della spesa” che comprende provvedimenti eterogenei, come la valutazione scolastica unica su base nazionale: ne avrà parlato con Fioroni? Lì non c’è problema, perché basterebbe una circolare del Ministero, mica usa più passare per il Parlamento, come la Costituzione raccomanda: la vicenda degli esami di riparazione insegna…
Se la nostra solidarietà a Dini è quindi fuori discussione (!) – e ci aspettiamo quindi che Mastella intervenga in fretta per sanare l’ingiustizia – non comprendiamo certe intemperanze della cosiddetta “sinistra radicale”.
Qui, bisogna fare una premessa.

E’ chiaro a tutti che, “scapolata” la Finanziaria e le altre leggi-capestro (pensioni, welfare, ecc), per i nostri parlamentari si apre una lunga stagione di riposo, praticamente fin quasi alla prossima Finanziaria, sempre che non ci siano provvedimenti urgenti da varare, ai quali è dedicata, in genere, l’ultima decade di Luglio e la prima di Agosto. Così, gli italiani – soprattutto quelli che “soffrono” (a detta dello stesso Presidente…) – non s’accorgono di niente e non s’aggiunge sofferenza alla sofferenza. La pietas, anzitutto.
Il prossimo Autunno raggiungeranno finalmente la metà della legislatura, così avranno pieno diritto alla futura pensione senza dover mettere mano al portafogli, con fastidiosi versamenti di tasca propria.
Il problema è giungere all’Autunno: come attrezzarsi per superare la piovosa Primavera e la canicola estiva?

Normalmente, in casi come questi, tornano molto utili le cosiddette “verifiche” dell’attività di governo: cosa sono?
Una serie di riunioni dove si cerca di contentare chi, per qualche disguido, non ha ricevuto abbastanza: si consulta la lista delle cariche in scadenza nelle varie società dove lo Stato ha uno o più zampini, si cancella con il pennarello chi può andarsene per età e chi deve andarsene perché inviso all’uno o all’altro.
Talvolta, siccome non si sa mai chi governerà dopodomani, conviene mantenere al loro posto anche personaggi dell’opposizione: l’8 settembre 1943 è la regola, mica l’eccezione.
La fase di “verifica”, quindi, a forza di pennarelli, evidenziatori, cartelle triturate perché oramai inservibili, nuove fotocopie, altro lavoro di pennarello e matita copiativa, non è una fase né corta e né semplice dell’attività di governo. Bene che vada, qualche mese se lo prende.
Quello che non comprendiamo – soprattutto riferendoci ai “rossi” rivoluzionari come Giordano, Diliberto & compagnia cantante – è cosa c’entriamo noi. Siccome tutte le nefandezze che questo governo doveva compiere le ha già concluse nel 2007, a cosa serve chiedere dell’altro? Prodi ha già detto che dei PACS non se ne farà nulla, tanto meno si può sognare la tassazione delle rendite: in quanto al problema “salariale”, già ringraziamo adesso per i (probabili, futuri, speriamo) 20,57 euro lordi che troveremo in busta paga, che “passeremo” subito al benzinaio per gli aumenti dei carburanti.

Sinceramente, con tutto i fastidi che già abbiamo per sbarcare il lunario, non abbiamo tempo da perdere per scervellarci con pennarelli ed evidenziatori. Per loro, però, è importante guadagnare tempo.
Tornano utili allora i mille argomenti da tirar fuori dal cappello a cilindro, per litigare un po’ e raggiungere l’autunno: con il nucleare si possono innescare discrete liti e l’aborto può sempre tener banco. Si passerà quindi alle liti su chi dovrà eleggere il Presidente del Consiglio, quello della RAI, il Gran Mogol delle Giovani Marmotte e l’arbitro per Milan – Inter. E qualche rivelazione “inedita” su Togliatti o Mussolini? Eh, tutto serve…
Se proprio non sapranno come trascorrere il tempo, ci sono sempre dei simpatici nobilastri di nome Savoia che, per pochi spiccioli, sono disponibili a dare spettacolo in Italia e all’estero. Si rivolgano a loro, all’occorrenza.
I due compari, sono in grado di presentare in breve tempo una serie di rappresentazioni tragicomiche di prima grandezza: si va dalle puttane alle truffe, dai risarcimenti (e per che cosa?) ai casinò. Ed ai casini.
Con l’aiuto di un professionista dell’informazione – un tal Vespone – si potranno portare in scena altre 58 puntate del processo di Cogne: tutti i misteri d’Italia – meno quelli che devono rimanere tali – potranno essere indagati dalla coppia vincente Augias/Lucarelli, che sono oramai ampiamente attrezzati in materia. Ci raccontassero, una volta e per davvero, chi ha buttato giù l’aero di Ustica: altrimenti – signori miei – non cazzeggiate sui misteri dell’acqua calda.
Ci piacerebbe tanto conoscere i retroscena delle mille logge segrete che hanno condotto la politica italiana per decenni, dei loro trait d’union con i grandi finanzieri e con i boiardi di regime. Non raccontateci i segreti di Pulcinella: li conosciamo da anni.
In alternativa, quando la bisaccia rischierà d’esser troppo leggera, potranno sempre ricorrere ai collaudati dibattiti fra Coscialunga Santanché è la musulmana velata di turno: arbitra Vladimir Luxuria.

Con questo ed altro, riusciranno a scapolare la Primavera: ah, dimenticavo, per Marzo-Aprile è prevista una rappresentazione straordinaria all’estero. Difatti, il Presidente richiama:

L’interesse generale esige un pieno sostegno all’azione internazionale dell’Italia, al suo impegno, innanzitutto, nell’Unione europea per favorirne il rilancio e l’iniziativa comune sui temi cruciali della pace e della sicurezza internazionale.”

Per chi non lo sapesse ancora, per la Primavera è stata decisa la definitiva indipendenza del Kosovo, che farà saltare per aria ancora una volta i Balcani, dacché anche le repubbliche serbe di Bosnia – e forse la parte “croata” dell’Erzegovina – se ne andranno, per ricongiungersi alle “case madri”.
La cosa è oramai certa ed inserita nei palinsesti: d’altro canto, D’Alema – come Bush – è uno che “vuol finire il lavoro”.
Non sappiamo quali saranno i “risvolti” dell’avventura – l’ultima volta costò 127.000 morti – ma sappiamo che è in programma per la prossima Primavera, fuori dunque dai “ricatti” energetici di Putin: noi, le guerre possiamo permettercele solo nella buona stagione, quando non dobbiamo scaldare il bagno per fare la doccia. Altrimenti: niente guerra, oppure doccia fredda.

Forse, con questa rappresentazione fuori programma, potranno arrivare all’estate, quando la situazione si farà più delicata: a causa della crisi economica americana (Napolitano non dice nulla al riguardo, eppure è appena stato a Washington…), si dovrà mettere mano ai conti per il DPF e programmare come spartirsi i futuri “tesoretti”. A proposito, qualcuno sa dov’è finito quello del 2007? Noi, del pubblico impiego, non abbiamo ancora visto un soldo per i contratti scaduti il 1° Gennaio 2006 (sì, due anni fa!): se qualcuno lo avvista, per favore, faccia un fischio.
Tornerà all’uopo, allora, la canicola estiva: fra un tuffo in mare – rigorosamente dalle poche “spiagge libere”, perché gli italiani non possono più permettersi cabina ed ombrellone – e lo scialacquio di una pizza per il compleanno del figlio, gli italiani – stufi d’ascoltare cazzate e mestizie – spegneranno la TV.
Ne approfitteranno, allora, per “limare” alcuni provvedimenti finanziari e “risparmiare” qualche soldo da destinare – bisogna pensarci per tempo – alla prossima campagna elettorale.

Eh sì, perché un comitato di “saggi”, nel frattempo, avrà steso una nuova legge elettorale, nella quale ci saranno elementi tedeschi – un bello sbarramento, se a qualcuno saltasse in mente d’intromettersi nei loro equilibri – e spagnoli, per salvaguardare i territori d’oltremare. Che, in Italia, non sono le isole, bensì la terra dei Sanniti – che ha come capitale Ceppaloni – e quella degli Apuli e dei Bruzzi – che ha come centro Montenero di Bisaccia.
Ci saranno, ovviamente, “interpretazioni” nazionali: un bel ritorno alla preferenza, così – con il consueto trucco della combinazione di numeri e nomi – potranno controllare anche l’ultima scheda elettorale. La mafia ringrazia.

Con quest’ultimo provvedimento, s’arriverà a Settembre: qui, le avanguardie rivoluzionarie rifondarole e comunisto-democratiche, diranno basta. E’ ora di finirla d’appoggiare i governi delle borghesie liberiste! E’ ora di tornare all’opposizione e di gridare il nostro, ostinato “No” a tutte le proposte liberal borghesi! Dopo aver detto di “Sì” a tutte le nefandezze di questo governo per due anni.
Così, avranno compiuto con dovizia il loro compito: dire di sì quando arriva il comando da via Nazionale, e ritirarsi in buon ordine quando potrebbero infastidire la pennichella dei banchieri.
Il Presidente se n’è accorto del pessimo andazzo, e conclude con un avvertimento, quasi un ammonimento, che le forze politiche terranno sicuramente (!) in considerazione:

“…dobbiamo risolutamente ancorarci ai suoi principi (della Costituzione, N.d. A.), anche e non da ultimo ai suoi valori morali, e in special modo a quei suoi indirizzi che non vediamo abbastanza perseguiti e tradotti in atto.”

“Perseguiti e tradotti”. Mamma mia: ci vuole veramente un gran coraggio. Buon 2008 a tutti.