“La sofferenza è l’unico motivo della coscienza. E sebbene abbia dichiarato che secondo me la coscienza è per l’uomo la più grande disgrazia, so però che l’uomo l’ha cara e non le scambierebbe colle maggiori soddisfazioni.”
Feodor Dostoevskij
Nel lungo serpente marino che corre sul fondo del Mediterraneo – il metanodotto che porta il gas dall’Africa all’Europa – la pressione cala, è lampante: Sergio, con l’occhio incollato al manometro, segue con apprensione i bar che diminuiscono, la lancetta che, lentamente ma inesorabilmente, cammina verso lo zero.
Non c’è niente da fare – Sergio lo sa – perché, eseguiti i controlli di routine, non c’è nessuna perdita od altro accidente: laggiù, da qualche parte del deserto, oppure nelle stazioni di pompaggio sulla costa, qualcuno ha chiuso qualche valvola oppure ha definitivamente isolato il potente polmone sotterraneo, che alimenta riscaldamenti e centrali elettriche, dalla sua arteria, il grande gasdotto sottomarino.
Sergio non può fare altro che avvisare, come le procedure prevedono, i suoi superiori: da quel momento in poi, la pressione che cala non sarà più affar suo, bensì dei capoccioni che, dall’alto dei grattacieli dell’energia, dovranno trovare una soluzione per stare al caldo anche domani, per accendere la televisione anche dopodomani.
Se la pressione scende, in questo punto della rete, dovrà aumentare da qualche altra parte, nel groviglio delle serpi sottomarine che portano metano e petrolio, poiché la grande macchina della produzione e del consumo non si può arrestare: sarebbero necrosi, gelo, morte.
Anche nella città sulla costa africana la pressione cala, cala a vista d’occhio nelle arterie di Said, steso a terra.
Solo pochi istanti prima, correva in mezzo alla folla verso qualcuno o qualcosa che non aveva ben chiaro: un pensiero che, nella sua mente, significava “libertà”, ossia poter dire quel che pensava in qualsiasi momento, senza temere che una mano t’afferrasse con forza il polso e ti chiedesse di seguirla.
Poi, era accaduto qualcosa di strano: una luce, un rumore…tutto era iniziato a vorticare e s’era trovato disteso a terra, con un cielo infinito che riempiva gli occhi ed un bruciore lancinante all’addome, qualcosa che gli mangiava le carni come un ferro rovente e che non demordeva, che sembrava cercargli l’anima per vaporizzarla.
Anche questa volta il suo polso era stretto da qualcuno, ma dolcemente: erano due occhi sconosciuti a fissarlo, perché lui non sapeva che quegli occhi appartenevano a Mohammed, un giovane studente in Medicina, e dalle sue labbra non riuscivano ad uscire che lamenti, suppliche, preghiere…tutte rivolte all’animale che gli stava frugando ed azzannando le carni, pezzo per pezzo, istante dopo istante.
Tutto era tornato a vorticare, all’improvviso, mentre braccia robuste lo sollevavano ma non erano braccia nemiche – riusciva a capirlo, anche con la belva in corpo – perché i toni delle voci erano sommessi, amici, erano senza dubbio dalla sua parte ed erano nemici della bestia.
Adesso, c’era ombra ed era disteso su una stuoia: da una finestra, un blu infinito tornava a riempirgli gli occhi, ma non era più cielo.
Era al mare, sulla spiaggia e quel blu s’increspava in deboli onde che gli lambivano appena le ginocchia. Era bambino ed aveva freddo, tanto freddo, ma sua madre lo invitava ad andare avanti ed a bagnarsi: gli occhi di sua madre erano scuri e mansueti, invitanti come la panna e dolci come i datteri, e lo chiamavano. Lentamente, Said s’incamminò fiducioso, verso le braccia di sua madre che l’aspettavano.
Mohammed prese ancora per un istante il polso di Said fra le sue dita, guardò quasi per abitudine l’orologio pur sapendo che non avrebbe avuto più nulla da contare. Fece un cenno agli altri ragazzi che l’avevano aiutato a trasportare Said, un cenno che valeva mille preghiere, poi sollevò il lenzuolo sul viso del ragazzo e maledì, maledì il luogo dov’era nato, che non ti consentiva nemmeno di condurre un ragazzo in ospedale, poiché c’era il rischio d’essere arrestati. O peggio.
Si chiese perché avesse trascorso così tante notti sui libri, così tanti giorni nelle aule universitarie: ora che gli occhi di quel ragazzo erano vitrei e spenti, si sentì come un calice sbreccato, inutile a sé ed al mondo.
Marina è lontana e non sa neppure come sia fatta un’arteria, di sangue o di gas, perché è seduta di fronte ad un computer in una saletta appartata del Palazzo della Borsa, in una città nebbiosa dove il sole è una benedizione per poche ore il giorno ed il cielo non è quasi mai azzurro.
Anche Marina tiene sott’occhio un indicatore, un semplice valore numerico, il quale indica il numero degli acquisti e delle vendite su un pacchetto di titoli del comparto energetico: le vendite fanno la parte del leone sugli acquisti, ed il valore del fondo scende.
Appostati, come leoni fra i massi ed i cespugli della savana, i grandi gruppi d’investimento ancora aspettano, attendono che quel valore sia così basso da poter acquistare, con una sola azione del comparto telefonico, tre azioni di quello energetico. Come, da qualche parte dell’Africa Equatoriale, le leonesse attendono che il gruppo delle gazzelle all’abbeverata cresca, che s’aggiungano i piccoli, i quali rallenteranno la corsa delle madri oppure finiranno loro stessi fra le fauci.
Marina, al termine dell’orario, genera il report della giornata e lo invia al suo capo: poi, spegne il computer. Ha conosciuto Fabio due sere prima a casa d’amici e le è appena giunto un messaggio, proprio di Fabio, nel quale le chiede se desidera andare a cena con lui, proprio quella sera. Beh, è carino Fabio, è stato gentile due sere fa…perché no?
Per Hamida, invece, non è proprio una giornata tranquilla, poiché ha avvertito sin dal primo mattino lo sbattere delle pale, gli elicotteri in volo, e quando le nere libellule volano non portano mai niente di buono, solo guai e dolore.
Eppure, s’è dovuta recare al lavoro perché sa che ci sarà del lavoro importante, uno di quei lavori che solo poche persone esperte riescono a fare. Hamida è solo un’esecutrice, ma sa fare bene il suo lavoro: segue con apprensione il flusso delle mail che arrivano da Georgetown e da Castries, poiché le hanno detto che non ci si può più fidare di Zurigo e di Montecarlo.
E le mail arrivano, con proposte che sanno di strozzinaggio – perché a Georgetown sanno che qualcuno sta per essere predato, e dunque non ha tempo per aspettare – ed Hamida le vaglia attentamente, le suddivide nelle rispettive cartelle. E’ un’asta, un’asta al ribasso nella quale il suo compito è cercare il minor ribasso, ossia la piazza più conveniente. Ma in fretta.
Oltre la vetrata, può osservare il viso di Youssuf che segue le agenzie ed il listino di borsa: oltre la seconda vetrata, c’è l’ufficio dove siedono il signor Verrini e sir Jones, che le è sempre parso il vero capo della banca. Solo loro possono decidere, quanto e quando spostare centinaia di milioni dollari per ogni operazione, da una banca europea ad una dei Caraibi, da un fondo americano ad una consorziata russa o brasiliana.
Nell’atrio, due uomini armati dei servizi di sicurezza controllano che tutto sia portato a termine nel tempo prefissato: prima che la situazione precipiti, quella montagna di denaro dovrà riposare, sicura, nei lontani forzieri elettronici e, sin dal giorno dopo, iniziare a fornire latte in abbondanza, come una capra nutrita con freschi germogli.
Vassili Gregorienko, invece, era allibito: come? Non dovevano più condurre gli aerei giù, oltre il Caucaso, nel solito aeroporto sul Mar Nero dove i piloti africani sarebbero giunti per prenderli in consegna?
Il colonnello Darinov fu sintetico ma elusivo: no, gli aerei sarebbero stati temporaneamente presi in consegna dall’Armata, fin quando la situazione non si fosse chiarita.
Dovevano decollare e seguire il nuovo piano di volo, che li avrebbe condotti ad un aeroporto nei pressi del lago Bajkal, dove i prestigiosi cacciabombardieri sarebbero stati custoditi negli hangar sotterranei.
Mentre Vassili radunava la squadriglia per discutere il nuovo piano di volo, il colonnello Darinov salutò e salì sull’auto dove lo attendeva il Generale di Squadra Aerea Salinovic, l’ufficiale che svolgeva i compiti di raccordo fra la struttura militare e l’apparato industriale, la prestigiosa azienda produttrice dei velivoli da caccia e per il bombardamento.
Darinov sapeva che non era il caso di fare troppe domande, ma il generale Salinovic capì e volle tranquillizzare il collega: no, la prestigiosa fabbrica di velivoli non correva nessun pericolo, anche se le esportazioni avrebbero senz’altro subito un rallentamento. Perché?
Perché, in prima battuta, erano già stati attivati – nella capitale – i canali diplomatici dell’Estremo Oriente e dell’America Latina: quei caccia piacciono ed il prezzo è allettante – si tranquillizzi Darinov – e non resteranno tanto tempo lassù, sul Bajkal.
E poi – ma queste erano notizie riservate – se la crisi perdurava…beh…gli europei si sarebbero trovati di fronte alla solita crisi energetica, ai miliardi di metri cubi di metano che sarebbero mancati all’appello…perciò, Darinov, perché angosciarsi? Nella capitale sanno il fatto loro e gli emissari delle compagnie energetiche sono già al lavoro: se venderemo meno aerei, daremo loro del metano…non stia in pensiero…a proposito, ha telefonato all’amico che le avevo indicato per quella dacia? Ha visto che il prezzo era veramente interessante?
George N’Ghila stava, invece, aspettando ansiosamente, ma non una mail o chissà quale diavoleria elettronica, bensì una semplice telefonata, nel retro del bar: lo stesso bar dove, per tante sere, era andato con i suoi compagni a giocare a carte.
Aveva con sé 800 dollari americani e 1.200 euro europei – frutto dei suoi risparmi – ed un inutile telefonino, giacché la rete GSM funzionava oramai a sprazzi, con i quali sperava che quella jeep, promessagli da un funzionario della compagnia dei trasporti, potesse diventare realtà.
C’era silenzio nell’ombroso retro del bar, ed anche nel bar gli avventori erano rari come gli arbusti per nutrire le capre laggiù, nel suo villaggio in Senegal.
I suoi compagni, i suoi compagni…chissà dov’erano…no, non aveva remore per essere fuggito: sulle prime, aveva meditato di passare il mare e tentare la fortuna in Europa, ma quei soldi non bastavano per pagare il passaggio sui barconi per lui, per sua moglie e per la figlia. Solo poche settimane prima, sarebbe bastato vendere un rene ed il passaggio sarebbe stato sicuro: poche settimane prima, però, George non pensava minimamente a fuggire.
Era stato fortunato, per tanto tempo, troppo fortunato.
La mambo, la veggente del suo villaggio, prima della loro partenza aveva scatenato per lui l’Ararà – la danza rituale – per ingraziarsi Afra, Asojano…e tutti gli altri Dei, affinché vegliassero sul suo destino. Così era stato.
Non gli era parso vero che, giunto sulle sponde del Mediterraneo, invece del barcone avesse incontrato quell’arabo ricco, ben vestito, che gli aveva promesso molti soldi se era disposto ad imbracciare un fucile ma senza guerra, solo per mantenere l’ordine. La mambo era stata brava, potente, veloce.
Era diventato una specie di poliziotto: con la sua squadra, si spostavano da una zona all’altra per scortare altri neri come loro verso i campi di raccolta ai margini del deserto: George non s’era chiesto come e perché, quando e dove. Solo, ogni settimana, ritirava la paga e contava insieme a sua moglie i soldi, che erano tanti, oltre ogni loro attesa.
Raramente era stato costretto ad usare il fucile e quasi sempre per sparare in aria: tutto sommato, molto di meno di quel che aveva visto in Senegal, nel Burkina-Faso od in Ciad, per un sacco di farina o qualche pollo.
Ma era giunta quella maledetta alba.
S’era accorto che la situazione era cambiata perché, nella grande città, i passanti erano rari e volavano gli elicotteri in cielo, come gli avvoltoi che attendono la preda, quel che resta del pasto del leone.
Avevano radunato la sua squadra e l’avevano inviata fuori città, in un villaggio che appena si distingueva dall’ocra della terra: là, qualcuno aveva sparato. George non sapeva chi avesse sparato ma dei colpi erano sibilati per l’aria: s’erano gettati a terra. Poi, un arabo che li comandava, aveva ordinato di correre verso le case, d’entrare nel villaggio: era andata bene, non c’erano stati altri spari.
Tutto finito – pensò George – anche questa volta si torna a casa e, alla fine della settimana, arriveranno altri soldi da nascondere nella sacca che conservavano nel materasso.
Invece.
Gli ordini erano stati chiari: entrare nel villaggio e radunare tutti gli uomini. Perché? Dove li dovevano condurre?
Non c’erano altri camion che il loro, non c’erano pullman né carri…no, bastava radunarli nella piazza del villaggio.
Non si fece intimidire dalle donne che urlavano, che quasi strappavano gli abiti ai loro mariti per trattenerli, ai figlioletti che piangevano perché, si sa, ovunque le donne urlano ed i figli piangono.
Quando, però, l’arabo aveva ordinato di sparare su quelle decine d’uomini inermi, allineati lungo un muretto di cinta, un groppo gli aveva strozzato la gola ed il sangue s’era gelato nelle vene. Aveva guardato di sottecchi verso l’arabo ed aveva notato che non era più solo: altri arabi erano giunti e li tenevano sotto tiro con i loro fucili mitragliatori. Al secondo ordine, secco, dell’arabo, qualche raffica era partita: poi via, in un crescendo di colpi – anche i suoi – che avevano triturato quella carne allineata come birilli, fin quando i caricatori s’erano svuotati ed il frastuono s’era trasformato in un fruscio di lamenti.
Mentre tornavano in città, sul camion, da una macchia d’alberi erano partiti dei colpi e Karim aveva avuto come un sussulto, poi aveva iniziato a vomitare sangue: in pochi attimi era morto. L’arabo aveva ordinato di non fermarsi ed avevano scaricato il cadavere di Karim giù dal camion, nella polvere della strada.
L’immagine di Karim, raggomitolato come un sacco di grano caduto da un camion, il corpo dell’amico che svaniva nella polvere gl’ingombrava ancora gli occhi quando squillò il telefono: sì, il posto non era lontano. Aveva i soldi? Certo. Dollari? Dollari ed euro.
Sì, forse, forse ce l’avrebbero fatta a scendere nel deserto fino al Ciad, per tornare al villaggio…avrebbe chiesto alla mambo di fare una nuova Ararà…i soldi bastavano, ne aveva ancora abbastanza…questa volta per puntare direttamente all’Europa, lontano dalle vie polverose e dai camion militari, lontano dal cadavere di Karim, che continuava ad allontanarsi nella polvere…
Feodor Dostoevskij
Nel lungo serpente marino che corre sul fondo del Mediterraneo – il metanodotto che porta il gas dall’Africa all’Europa – la pressione cala, è lampante: Sergio, con l’occhio incollato al manometro, segue con apprensione i bar che diminuiscono, la lancetta che, lentamente ma inesorabilmente, cammina verso lo zero.
Non c’è niente da fare – Sergio lo sa – perché, eseguiti i controlli di routine, non c’è nessuna perdita od altro accidente: laggiù, da qualche parte del deserto, oppure nelle stazioni di pompaggio sulla costa, qualcuno ha chiuso qualche valvola oppure ha definitivamente isolato il potente polmone sotterraneo, che alimenta riscaldamenti e centrali elettriche, dalla sua arteria, il grande gasdotto sottomarino.
Sergio non può fare altro che avvisare, come le procedure prevedono, i suoi superiori: da quel momento in poi, la pressione che cala non sarà più affar suo, bensì dei capoccioni che, dall’alto dei grattacieli dell’energia, dovranno trovare una soluzione per stare al caldo anche domani, per accendere la televisione anche dopodomani.
Se la pressione scende, in questo punto della rete, dovrà aumentare da qualche altra parte, nel groviglio delle serpi sottomarine che portano metano e petrolio, poiché la grande macchina della produzione e del consumo non si può arrestare: sarebbero necrosi, gelo, morte.
Anche nella città sulla costa africana la pressione cala, cala a vista d’occhio nelle arterie di Said, steso a terra.
Solo pochi istanti prima, correva in mezzo alla folla verso qualcuno o qualcosa che non aveva ben chiaro: un pensiero che, nella sua mente, significava “libertà”, ossia poter dire quel che pensava in qualsiasi momento, senza temere che una mano t’afferrasse con forza il polso e ti chiedesse di seguirla.
Poi, era accaduto qualcosa di strano: una luce, un rumore…tutto era iniziato a vorticare e s’era trovato disteso a terra, con un cielo infinito che riempiva gli occhi ed un bruciore lancinante all’addome, qualcosa che gli mangiava le carni come un ferro rovente e che non demordeva, che sembrava cercargli l’anima per vaporizzarla.
Anche questa volta il suo polso era stretto da qualcuno, ma dolcemente: erano due occhi sconosciuti a fissarlo, perché lui non sapeva che quegli occhi appartenevano a Mohammed, un giovane studente in Medicina, e dalle sue labbra non riuscivano ad uscire che lamenti, suppliche, preghiere…tutte rivolte all’animale che gli stava frugando ed azzannando le carni, pezzo per pezzo, istante dopo istante.
Tutto era tornato a vorticare, all’improvviso, mentre braccia robuste lo sollevavano ma non erano braccia nemiche – riusciva a capirlo, anche con la belva in corpo – perché i toni delle voci erano sommessi, amici, erano senza dubbio dalla sua parte ed erano nemici della bestia.
Adesso, c’era ombra ed era disteso su una stuoia: da una finestra, un blu infinito tornava a riempirgli gli occhi, ma non era più cielo.
Era al mare, sulla spiaggia e quel blu s’increspava in deboli onde che gli lambivano appena le ginocchia. Era bambino ed aveva freddo, tanto freddo, ma sua madre lo invitava ad andare avanti ed a bagnarsi: gli occhi di sua madre erano scuri e mansueti, invitanti come la panna e dolci come i datteri, e lo chiamavano. Lentamente, Said s’incamminò fiducioso, verso le braccia di sua madre che l’aspettavano.
Mohammed prese ancora per un istante il polso di Said fra le sue dita, guardò quasi per abitudine l’orologio pur sapendo che non avrebbe avuto più nulla da contare. Fece un cenno agli altri ragazzi che l’avevano aiutato a trasportare Said, un cenno che valeva mille preghiere, poi sollevò il lenzuolo sul viso del ragazzo e maledì, maledì il luogo dov’era nato, che non ti consentiva nemmeno di condurre un ragazzo in ospedale, poiché c’era il rischio d’essere arrestati. O peggio.
Si chiese perché avesse trascorso così tante notti sui libri, così tanti giorni nelle aule universitarie: ora che gli occhi di quel ragazzo erano vitrei e spenti, si sentì come un calice sbreccato, inutile a sé ed al mondo.
Marina è lontana e non sa neppure come sia fatta un’arteria, di sangue o di gas, perché è seduta di fronte ad un computer in una saletta appartata del Palazzo della Borsa, in una città nebbiosa dove il sole è una benedizione per poche ore il giorno ed il cielo non è quasi mai azzurro.
Anche Marina tiene sott’occhio un indicatore, un semplice valore numerico, il quale indica il numero degli acquisti e delle vendite su un pacchetto di titoli del comparto energetico: le vendite fanno la parte del leone sugli acquisti, ed il valore del fondo scende.
Appostati, come leoni fra i massi ed i cespugli della savana, i grandi gruppi d’investimento ancora aspettano, attendono che quel valore sia così basso da poter acquistare, con una sola azione del comparto telefonico, tre azioni di quello energetico. Come, da qualche parte dell’Africa Equatoriale, le leonesse attendono che il gruppo delle gazzelle all’abbeverata cresca, che s’aggiungano i piccoli, i quali rallenteranno la corsa delle madri oppure finiranno loro stessi fra le fauci.
Marina, al termine dell’orario, genera il report della giornata e lo invia al suo capo: poi, spegne il computer. Ha conosciuto Fabio due sere prima a casa d’amici e le è appena giunto un messaggio, proprio di Fabio, nel quale le chiede se desidera andare a cena con lui, proprio quella sera. Beh, è carino Fabio, è stato gentile due sere fa…perché no?
Per Hamida, invece, non è proprio una giornata tranquilla, poiché ha avvertito sin dal primo mattino lo sbattere delle pale, gli elicotteri in volo, e quando le nere libellule volano non portano mai niente di buono, solo guai e dolore.
Eppure, s’è dovuta recare al lavoro perché sa che ci sarà del lavoro importante, uno di quei lavori che solo poche persone esperte riescono a fare. Hamida è solo un’esecutrice, ma sa fare bene il suo lavoro: segue con apprensione il flusso delle mail che arrivano da Georgetown e da Castries, poiché le hanno detto che non ci si può più fidare di Zurigo e di Montecarlo.
E le mail arrivano, con proposte che sanno di strozzinaggio – perché a Georgetown sanno che qualcuno sta per essere predato, e dunque non ha tempo per aspettare – ed Hamida le vaglia attentamente, le suddivide nelle rispettive cartelle. E’ un’asta, un’asta al ribasso nella quale il suo compito è cercare il minor ribasso, ossia la piazza più conveniente. Ma in fretta.
Oltre la vetrata, può osservare il viso di Youssuf che segue le agenzie ed il listino di borsa: oltre la seconda vetrata, c’è l’ufficio dove siedono il signor Verrini e sir Jones, che le è sempre parso il vero capo della banca. Solo loro possono decidere, quanto e quando spostare centinaia di milioni dollari per ogni operazione, da una banca europea ad una dei Caraibi, da un fondo americano ad una consorziata russa o brasiliana.
Nell’atrio, due uomini armati dei servizi di sicurezza controllano che tutto sia portato a termine nel tempo prefissato: prima che la situazione precipiti, quella montagna di denaro dovrà riposare, sicura, nei lontani forzieri elettronici e, sin dal giorno dopo, iniziare a fornire latte in abbondanza, come una capra nutrita con freschi germogli.
Vassili Gregorienko, invece, era allibito: come? Non dovevano più condurre gli aerei giù, oltre il Caucaso, nel solito aeroporto sul Mar Nero dove i piloti africani sarebbero giunti per prenderli in consegna?
Il colonnello Darinov fu sintetico ma elusivo: no, gli aerei sarebbero stati temporaneamente presi in consegna dall’Armata, fin quando la situazione non si fosse chiarita.
Dovevano decollare e seguire il nuovo piano di volo, che li avrebbe condotti ad un aeroporto nei pressi del lago Bajkal, dove i prestigiosi cacciabombardieri sarebbero stati custoditi negli hangar sotterranei.
Mentre Vassili radunava la squadriglia per discutere il nuovo piano di volo, il colonnello Darinov salutò e salì sull’auto dove lo attendeva il Generale di Squadra Aerea Salinovic, l’ufficiale che svolgeva i compiti di raccordo fra la struttura militare e l’apparato industriale, la prestigiosa azienda produttrice dei velivoli da caccia e per il bombardamento.
Darinov sapeva che non era il caso di fare troppe domande, ma il generale Salinovic capì e volle tranquillizzare il collega: no, la prestigiosa fabbrica di velivoli non correva nessun pericolo, anche se le esportazioni avrebbero senz’altro subito un rallentamento. Perché?
Perché, in prima battuta, erano già stati attivati – nella capitale – i canali diplomatici dell’Estremo Oriente e dell’America Latina: quei caccia piacciono ed il prezzo è allettante – si tranquillizzi Darinov – e non resteranno tanto tempo lassù, sul Bajkal.
E poi – ma queste erano notizie riservate – se la crisi perdurava…beh…gli europei si sarebbero trovati di fronte alla solita crisi energetica, ai miliardi di metri cubi di metano che sarebbero mancati all’appello…perciò, Darinov, perché angosciarsi? Nella capitale sanno il fatto loro e gli emissari delle compagnie energetiche sono già al lavoro: se venderemo meno aerei, daremo loro del metano…non stia in pensiero…a proposito, ha telefonato all’amico che le avevo indicato per quella dacia? Ha visto che il prezzo era veramente interessante?
George N’Ghila stava, invece, aspettando ansiosamente, ma non una mail o chissà quale diavoleria elettronica, bensì una semplice telefonata, nel retro del bar: lo stesso bar dove, per tante sere, era andato con i suoi compagni a giocare a carte.
Aveva con sé 800 dollari americani e 1.200 euro europei – frutto dei suoi risparmi – ed un inutile telefonino, giacché la rete GSM funzionava oramai a sprazzi, con i quali sperava che quella jeep, promessagli da un funzionario della compagnia dei trasporti, potesse diventare realtà.
C’era silenzio nell’ombroso retro del bar, ed anche nel bar gli avventori erano rari come gli arbusti per nutrire le capre laggiù, nel suo villaggio in Senegal.
I suoi compagni, i suoi compagni…chissà dov’erano…no, non aveva remore per essere fuggito: sulle prime, aveva meditato di passare il mare e tentare la fortuna in Europa, ma quei soldi non bastavano per pagare il passaggio sui barconi per lui, per sua moglie e per la figlia. Solo poche settimane prima, sarebbe bastato vendere un rene ed il passaggio sarebbe stato sicuro: poche settimane prima, però, George non pensava minimamente a fuggire.
Era stato fortunato, per tanto tempo, troppo fortunato.
La mambo, la veggente del suo villaggio, prima della loro partenza aveva scatenato per lui l’Ararà – la danza rituale – per ingraziarsi Afra, Asojano…e tutti gli altri Dei, affinché vegliassero sul suo destino. Così era stato.
Non gli era parso vero che, giunto sulle sponde del Mediterraneo, invece del barcone avesse incontrato quell’arabo ricco, ben vestito, che gli aveva promesso molti soldi se era disposto ad imbracciare un fucile ma senza guerra, solo per mantenere l’ordine. La mambo era stata brava, potente, veloce.
Era diventato una specie di poliziotto: con la sua squadra, si spostavano da una zona all’altra per scortare altri neri come loro verso i campi di raccolta ai margini del deserto: George non s’era chiesto come e perché, quando e dove. Solo, ogni settimana, ritirava la paga e contava insieme a sua moglie i soldi, che erano tanti, oltre ogni loro attesa.
Raramente era stato costretto ad usare il fucile e quasi sempre per sparare in aria: tutto sommato, molto di meno di quel che aveva visto in Senegal, nel Burkina-Faso od in Ciad, per un sacco di farina o qualche pollo.
Ma era giunta quella maledetta alba.
S’era accorto che la situazione era cambiata perché, nella grande città, i passanti erano rari e volavano gli elicotteri in cielo, come gli avvoltoi che attendono la preda, quel che resta del pasto del leone.
Avevano radunato la sua squadra e l’avevano inviata fuori città, in un villaggio che appena si distingueva dall’ocra della terra: là, qualcuno aveva sparato. George non sapeva chi avesse sparato ma dei colpi erano sibilati per l’aria: s’erano gettati a terra. Poi, un arabo che li comandava, aveva ordinato di correre verso le case, d’entrare nel villaggio: era andata bene, non c’erano stati altri spari.
Tutto finito – pensò George – anche questa volta si torna a casa e, alla fine della settimana, arriveranno altri soldi da nascondere nella sacca che conservavano nel materasso.
Invece.
Gli ordini erano stati chiari: entrare nel villaggio e radunare tutti gli uomini. Perché? Dove li dovevano condurre?
Non c’erano altri camion che il loro, non c’erano pullman né carri…no, bastava radunarli nella piazza del villaggio.
Non si fece intimidire dalle donne che urlavano, che quasi strappavano gli abiti ai loro mariti per trattenerli, ai figlioletti che piangevano perché, si sa, ovunque le donne urlano ed i figli piangono.
Quando, però, l’arabo aveva ordinato di sparare su quelle decine d’uomini inermi, allineati lungo un muretto di cinta, un groppo gli aveva strozzato la gola ed il sangue s’era gelato nelle vene. Aveva guardato di sottecchi verso l’arabo ed aveva notato che non era più solo: altri arabi erano giunti e li tenevano sotto tiro con i loro fucili mitragliatori. Al secondo ordine, secco, dell’arabo, qualche raffica era partita: poi via, in un crescendo di colpi – anche i suoi – che avevano triturato quella carne allineata come birilli, fin quando i caricatori s’erano svuotati ed il frastuono s’era trasformato in un fruscio di lamenti.
Mentre tornavano in città, sul camion, da una macchia d’alberi erano partiti dei colpi e Karim aveva avuto come un sussulto, poi aveva iniziato a vomitare sangue: in pochi attimi era morto. L’arabo aveva ordinato di non fermarsi ed avevano scaricato il cadavere di Karim giù dal camion, nella polvere della strada.
L’immagine di Karim, raggomitolato come un sacco di grano caduto da un camion, il corpo dell’amico che svaniva nella polvere gl’ingombrava ancora gli occhi quando squillò il telefono: sì, il posto non era lontano. Aveva i soldi? Certo. Dollari? Dollari ed euro.
Sì, forse, forse ce l’avrebbero fatta a scendere nel deserto fino al Ciad, per tornare al villaggio…avrebbe chiesto alla mambo di fare una nuova Ararà…i soldi bastavano, ne aveva ancora abbastanza…questa volta per puntare direttamente all’Europa, lontano dalle vie polverose e dai camion militari, lontano dal cadavere di Karim, che continuava ad allontanarsi nella polvere…
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.
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La stagione della libertà – schizofrenia dell’intellettuale arabo
Nella città sulla costa africana la pressione cala, cala a vista d’occhio nelle arterie di Said, steso a terra.
Solo pochi istanti prima, correva in mezzo alla folla verso qualcuno o qualcosa che non aveva ben chiaro: un pensiero che, nella sua mente, significava “libertà”… eh sì, libertà.
Il rumore di quel pensiero riecheggiava nelle orecchie più forte dello slogan che i suoi compagni, in mezzo alla folla, urlavano: “Asscia’b yureed iskat al Nizam”. Zaccaria, fratello minore di Said, aveva notato la distrazione di costui. Gli lanciò uno sguardo polemico. – Yalla Said, che fai? Non canti? Chiese Zaccaria. “Già, - Asscia’b yureed iskat al Nizam” cominciò a gridare macchinalmente con un accento orientato intenzionalmente verso quello egiziano. A differenza del fratellino, Said sa che questo slogan lo cantavano i giovani del movimento “6 aprile” in Piazza Tahrir. Sapeva che era più adatto alla situazione egiziana. Significava letteralmente: il popolo vuol far cadere il sistema! La pronuncia egiziana, che sorprendeva Zaccaria, voleva quindi eternare i valori della rivoluzione nordafricana. “Nordafricana” per la stampa europea – “araba” per Said.
Amer, Mahmoud, Jaafar e Masoud, che manifestavano nella Piazza di Bengasi, notarono Said. Volevano chiamarlo, ma la folla glielo impediva. Lo ricordavano come il primo della classe. Egli raccontava loro, dopo le noiose lezioni d’inglese, le novelle di Pirandello. Gli diceva: “gettate pure via questo librino d’inglese. Noi siamo i figli della cultura italiana. Me lo diceva sempre mio nonno, che masticava bene l’italiano”. Tirò fuori un libricino, con scritto sopra in arabo: “Voce nel silenzio. Novelle di Luigi Pirandello. Traduzione di: Khalifa Tellissi” e glielo prestò. Ma cosa è successo a Said? Perché ha smesso di ammirare Pirandello? “Narrava … narrava e basta. Stette zitto di fronte al fascismo. Era leale al regime”. Gli disse una volta Giacomo Antoni, il suo professore di Italiano all’ateneo di Palermo.
Said non si era accorto degli ex compagni di scuola. Era così distratto che aveva perso di vista pure il fratellino. Era solo nella folla. Eh sì, una lunga assenza, otto anni per la precisione, durante i quali era stato in Italia a studiare, la città era cambiata … la gente era cambiata. - Avevo appreso molto. E molto mi era sfuggito. Pensò. La solitudine in mezzo alla folla non gli dispiaceva affatto: era abituato a vivere, a studiare ed a riflettere da solo. Si sentiva “diverso” dagli altri. Ecco, egli forse non era solo, ma diverso. Anche a Palermo era “diverso” – un “extracomunitario”. Quanto lo infastidiva questa “etichetta”! Rammentava quel suo collega, Henrik, uno studente Erasmus danese, il quale, prendendolo in giro di fronte alle belle ragazze siciliane, gli diceva: “ehi extra, vieni a ballare con noi? O la tua religione non te lo permette?” Senza mostrare la minima reazione emotiva, Said ricordava ad Henrik che quel palazzo, in cui si trovava la sala da ballo, l’avevano costruito gli arabi. Ma Said, inutile nasconderlo, si offendeva tanto. Nella sua stanza, a volte, lacrimava.
Solitudine e diversità lo avevano allontanato un po’ dai manifestanti. Sapeva che c’era da fare i conti, una volta per tutte, con quel pensiero che continuava a girare nel suo cervello: la libertà. Aveva studiato questa parola al corso di Filosofia all’Università. Ascoltava con interesse, ma senza prendere appunti, le varie idee di Aristotele, Plotino, Cicerone, Kant e Hegel. Si ricordava bene di quelle lezioni e particolarmente di quello spiacevole episodio che lo irritava fino a quel momento: quando una bella ragazza, mora con gli occhi azzurri, protagonista di alcuni suoi sogni erotici, si alzò in piedi per intervenire: - Si è detto fino qui che per “libertà” s’intende la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi ed agire senza costrizioni. Abbiamo osservato ciò in ambiti diversi, morale, religioso, giuridico ed economico. Che ne è dell’ambito politico? Seguì quelle parole una leggera timidezza negli occhi che Said aveva notato. Il professore dovette perciò aprire una lunga parentesi per spiegare il concetto richiesto. Ciò che Said rammentava della risposta del prof erano le frasi: “la libertà è il pilastro della nostra civiltà occidentale; il cittadino nei nostri Paesi è libero; la libertà è un obiettivo e non solo un mezzo; abbiamo tentato di esportare libertà negli ‘altri mondi’ tramite quel che chiamano i francesi mission civilisatrice ma abbiamo fallito – prendete per esempio l’Africa o il Mondo Arabo”. Gli sguardi dei colleghi, pronunciata l’ultima frase, andavano cercando Said, il quale abbassava gli occhi per quel miscuglio di sentimenti che oscillava tra rabbia e vergogna. Chiusa parentesi, il professore disse: “ora torniamo al nostra sfera filosofica. Dove eravamo? Ah – Kierkegaard. Ha qualcosa da dirci, Henrik?”. Lo studente danese cominciò a parlare del filosofo connazionale e Said non poté non notare l’ammirazione con cui la ragazza dagli occhi azzurri lo ascoltava. Said si sentiva in quel momento proprio un “extra-comunitario”.
Said ora, in mezzo alla folla, sapeva che la sua esperienza nel lontano occidente, a qualche miglia a nord dalla sua città natale, gli aveva fatto aprire gli occhi su tante menzogne. Quel che il suo professore chiamava “mission civilisatrice” aveva un altro nome: colonialismo – sfruttamento economico – isterilimento delle risorse e della cultura. Quel che rendeva il suo Paese così importante, in quel momento storico, era il metano. Tutti i suoi amici in Italia che gli dicevano che la Libia “ha un meraviglioso deserto” sono bugiardi. All’occidente non piace il deserto. A loro piace il nostro petrolio. Said, il bravo studente, lo scettico ricercatore, pareva sicuro di quel che gli girava per la testa.
“Libertà”. Parola con cui sembrava in lotta, che lo aveva sempre tormentato: durante l’infanzia a Bengasi; nelle città italiane, ogni volta che vedeva una coppia camminare sul lungomare; ogni volta che guardava Canale5; ogni volta che vedeva, negli Autogrill, i libri della Fallaci; ogni volta che pensava, nel suo intimo, alla ragazza dagli occhi azzurri.
“Anche la libertà è una menzogna.” Pensò. Non era sicuro questa volta. L’urlo di alcuni giovani “La ilaha illa Allah” interruppe le sue riflessioni. Spari. Qualcuno deve essere stato colpito. Said vedeva sangue sotto i propri piedi. Si era accorto finalmente della ferita alla gamba. Zaccaria lo aveva avvertito di non allontanarsi dalla folla. Era circondato da alcuni giovani accorsi ad aiutarlo. Gridavano scandendo le parole: “Asscia’b yureed iskat al Nizam”. Said sentiva il ritmo di questo slogan più di ogni altra volta. Capì che era la fine. Guardò l’orizzonte ed in uno stato tra la vita e la morte vide stormi di uccelli che si dirigevano verso nord. Si ricordò che la stagione della migrazione a nord era giunta. Sorrise. Comprese che la filosofia racconta fantasie e la fisica racconta verità. Ad ogni azione corrisponde una reazione di uguale intensità e di direzione contraria. Così, il desiderio coloniale, descritto dal ridicolo professore come “missione civilizzatrice” nel sud, viene sfidato dai meridionali con il moto verso nord. La migrazione è libertà. “La libertà è la verità”. Questa fu l’ultima frase che pronunciò Said. Zaccaria gli teneva, piangendo, la testa tra le mani, cercando invano di capire quei sussurri.
Mahmoud, Giordania
Per chi volesse approfondire un aspetto della rivista:
http://www.youtube.com/watch?v=zYm_BQdq2Gs&feature=fvw
C'è una pubblicità all'inizio, poi arriva.
Carlo
Ha ancora senso nominare la parola libertà? Immaginare e vivere storie come quelle ci avete raccontato ( Mahmoud e Carlo) è alquanto difficile, perché non vissute sulla propria pelle. Anche in Italia oramai la libertà di "espressione" è limitata.Nei posti di lavoro è meglio evitare certi argomenti ci potrebbero relegare ad una posizione ancor più subalterna di quella che occupiamo.In un ospedale si entra per grazia ricevuta ed è meglio non fare certe considerazioni altrimenti saremo spostati ad ultimi della fila. In ultimo, ma non in ordine di importanza, è meglio non raccontare la storia di Karim o di Said ,passeremmo per stupidi idealisti che nascondono dietro delle storie lontane la propria insicurezza snobbando il vero problema del globo: "come far crescere l'economia". Io sono certo che molti di noi comunque continueranno a farlo (fortunatamente) ma non so quanto questo messaggio sarà recepito visto che quella parola agognata e sognata, "libertà", ha perso il suo valore e nessuno sa dargli più il giusto significato, specie qui in occdente dove la Tv e il telefonino di ultima generazione ci hanno smembrato il cervello.Bellissima l'intervista di Pasolini e le sue parole semplici che danno ancor più senso a un progetto che potrebbe nascere semplicemente dal fatto che ognuno di noi, incontratoci non per caso su questo blog , abbiamo qualcosa da dire.Per quanto riguarda la lingua mi permetto di dire che il limite di Pasolini fu proprio la lingua, non perché lui non la conoscesse, bensì, perché la usava in modo troppo articolato, con quel suo linguaggio criptico difficilmente interpretabile, che poi in seguito ( a mio modo di vedere) sostituì con le immagini dei suoi film, che forse furono capaci di arrivare al cuore delle gente più delle sue parole.
L’acqua scorre calda sul corpo nudo di Sabrina, la stanchezza le si scioglie scendendo lungo i fianchi in trecce trasparenti, giù, oltre l’inimagginabile mondo dei principi che regolano le dinamiche dei fluidi.
Il suo unico relax, dopo una giornata trascorsa a contattare clienti, entrando nelle loro vite attraverso un microfono e un auricolare.
Le gocce trovano, senza difficoltà, i tragitti sagittali che segnano i suoi zigomi e affiancano moti impercettibili sottocutanei provocati da pensieri reiterati, ossessivi: per quanto ancora lei e Marco riusciranno a pagarsi il mutuo per quei 45 metri quadrati a Barriera di Milano?
Se invece di indebitarsi, obbligando suo padre a fare da garante, avessero provato a mettersi in lista per la casa popolare?
Tanto le danno a loro, agli extracomunitari, era inutile tentare.
A volte pensava che Marco avesse avuto ragione a prendere la tessera della Lega, ma lei, no, cresciuta nei salotti domestici di una madre insegnante di lettere e un padre bibliotecario., non avrebbe dato il suo consenso a dei populisti barbari.
Mentre aspettava Marco in accappatoio, leggeva le notizie che scivolavano sotto la bella presentatrice del tg.
Distratta dall’ abbigliamento firmato e dal make-up della giornalista, si scopriva improvvisamente trasandata, portatrice sana dei primi segni della malattia che colpiva quasi tutta la sua generazione: la rassegnazione.
Le immagini delle rivoluzioni del Maghreb, le ricordavano un trailer hollywoodiano, lontane, disperate, ma non si sentiva coinvolta.
Doveva far fronte alle rate del mutuo, alle spese domestiche, al calo del desiderio di Marco, al rischio paventato di chiusura del call-center, alla fine del mese.
E poi c’era da affrontare l’alcolismo di suo fratello, che non ne voleva sapere della società e dei suoi schemi repressivi.
Una vita così era forse meno disperata dei profughi africani?
Le immagini delle proteste degli albergatori di Lampedusa, le ricordavano un’estate di dieci anni prima, un momento felice con Marco, prima dela loro convivenza, molto prima della condivisione delle loro frustrazioni.
Gli sbarcati, in un angolo dello schermo, avevano occhi scuri, mani agitate, sale e polvere sui vesiti: cosa le chiedevano? Che cosa ci poteva fare?
Marco era ritornato, un bacio freddo, i suoi occhi scuri, i suoi vestiti coperti di polveri sottili, ancora impregnati di odore di kebab della pausa pranzo.
“Come è andata oggi?”, nessuna risposta, la porta del frigo si apre, una luce giallastra trafigge la cucina, il regime di Gheddafi è appena crollato.
Il frigo si richiude, tutta una giovane esistenza si consuma insieme allo sfrigolare di una porzione di spaghetti surgelati saltati in una padella antiaderente.
Più tardi, privi di parole e di commenti, Sabrina e Marco si addormentano, sfiancati dalla loro esistenza, abbracciati sul divano: sono sbarcati improvvisamente in un onirico futuro, rifiutati dai suoi abitanti, senza permesso di soggiorno, in un sonno nervoso che li porterà alla corsa folle del prossimo mattino, in direzioni opposte alla loro relazione umana ormai fonadata sulla comune disperazione.
complimentandomi con Carlo e Jaran
blackskull
E dopo esattamente cent'anni le truppe italiane torneranno in Libia. Se Berlusconi farà questo manderà a morire molti dei nostri soldati. Magari segnerà la sua definitiva rovina e del suo piano di sottomissione dell'Italia a se e alla sua famiglia, però ci coinvolgerà in una guerra in cui sviluppi di scenario mondiale non sono prevedibili ma sicuramente saranno disastrosi per l'Europa.
Un neocolonialismo per la quarta sponda di matrice Berlusconiana sarà la fine del nano eroticus.
"Lassù qualcuno ci guarda"
Ci sono poche parole per esprimere il dolore,specie, quando si vive sulla propria pelle. Piovono bombe dal cielo ,la gente fugge alla ricerca di un improbabile riparo. Il mercato era pieno stamattina , anche se i banchi erano vuoti: patate, datteri e qualche arancia .
La povertà della merce non aveva tenuto lontano la gente e specie i bambini , alla ricerca di una improbabile elemosina o di uno scarto di ortaggio,una buccia di arancia, qualunque cosa, potesse placare quell’ eterno gorgoglio che scuoteva uno stomaco gonfio , ma vuoto di ogni essenza nutritiva.
Gli aerei cominciarono a bombardare alle 12 del mattino in barba ad ogni legge internazionale, volevano colpire il palazzo del governo, cosi dicono le alte sfere, coloro che premono il pulsante, che abbassano o alzano il pollice come in una arena Romana dove l’ imperatore decideva per la vita o la morte.
Peccato che il mercato si trovava a pochi passi dal palazzo governativo, probabilmente messo li scientemente per proteggersi vigliaccamente con scudi umani.
Ma non si poteva attaccare di notte?
Di notte? No impossibile a quell’ ora la gente dorme, l’ attacco non avrebbe avuto lo stesso effetto. Forse qualcuno crede che il rais, il grande capo, il più velenoso dei serpenti si sarebbe risentito per questo attacco.
Impossibile 30 anni di potere vissuti tra donne (malgrado la sua religione)e palazzi sontuosi facendo il bagno fra i petroldollari, avevano già ucciso il popolo, affamato e oppresso. oramai ridotto a un vegetale, piantato li nel bel mezzo del deserto in perenne attesa di ricevere quel poco di acqua che gli avrebbe permesso di superare la stagione.
Quanti bambini sono morti al mercato?
Quanti civili sono stati straziati dalle bombe?
Soprattutto, dove eravamo?
Forse eravamo a Bagdad o forse a Tripoli, no eravamo a Bengasi o forse al Cairo?
La storia è sempre la stessa in ogni luogo, l’ unica cosa che le accumunano sono l’ avidità che spinge sempre qualcuno a fare terra bruciata per sfruttare le risorse di queste terre, qualcuno direbbe che è indispensabile per fare economia.
Ma quando è tutto arido, ogni cosa è bruciata, i palazzi distrutti, i pozzi petroliferi bruciati cosa rimane?
Rimane l’ anima vacante di quei bambini che lassù dal cielo, giocando con i loro pezzetti di legno, ci osservano dicendo: Cosa fanno laggiù giocano alla guerra per fare gli eroi, si uccidono per denaro,sembrano tutti tristi ,avremmo tanto voluto giocare con loro, però, visto da quassù ,è meglio il nostro pezzetto di legno .
Questo è il mio umile modo per dirvi grazie di quello che mi avete insegnato.
Un plauso alla sensibilità di Marco.
Questo blog, è veramente un luogo non luogo, un notevole contributo all'unico spirito che dovrebbe animare i nostri corpi e le nostre menti: la compassione.
Sento che non stiamo scrivendo invano questi letterari commenti.
Sono espressione viva, migliore dei messaggi anodini e privi di emozione dei nostri affabulatori mediatici.
Tutto ciò conferma che l'uomo può essere umano, basta che ci creda e ci provi.
grazie Marco.
blackskull
Ghandi diceva: la prima cosa da ricercare è la verità perchè la bellezza e la bontà sono una conseguenza.
Uno strumento fondamentale per la ricerca della verità lo dà la matematica (scienza a cui sto cercando di tornare).
Lewis Carroll (alice nel paese delle meraviglie) è un maestro di di ricerca logica della verità.
Un esempio dei tanti presenti nel suo diario che poi e' stato riproposto in tante altre maniere è il seguente:
Un popolo ha di fronte due strade ma una sola e' quella giusta.
Il popolo deve andare nel paese dove tutti dicono sempre la verità e sa che nell'altro tutti dicono sempre la menzogna.
Intanto arriva un uomo su un cavallo bianco, dall'aspetto altero ma gentile: il popolo,rinfrancato, gli si avvicina e fiducioso sta per affidargli la sua domanda...
ma qualcuno cerca di frenarlo, di farlo riflettere, ricordando la difficoltà insita nella ricerca della verità. Finalmente in soccorso del popolo arriva Alice che metetndosi alla testa del Popolo dice: Popolo rifletti, hai già sofferto tanto ma le tue sofferenze potrebbero non finire mai se sbagli domanda/percorso;
ricordati che il modo giusto di vivere andando nel paese della verità esiste; c'è un solo modo per saperlo con certezza ma esiste una ben precisa domanda da fare all'uomo sul cavallo bianco per sapere quale e' la strada per Veritas...Non sbagliare, per favore!
Buon cammino verso Veritas
Donato
Una nota importante mancante nel "problema vero/falso" è il dato che il cavaliere è certamente un abitante o di Veritas o di Mentoloso.
Doc
A me sembra che tutto venga valutato secondo prezzi di mercato: la vita umana, il lavoro, la dignità.
Non è così!
Esistono cose senza prezzo, ma con un valore.
Beh, ragazzi, dopo aver letto i vostri commenti...sareste gente non in grado di scrivere su una rivista?
Date uno sguardo anche all'altra "faccia del Web" e prendetevi una vista del mare di c...che si raccontano, fuori dei soliti quattro o cinque siti.
Da parte mia ho poco da aggiungere, perché quando si narra è la narrazione stessa a veicolare i sentimenti ed i concetti.
Grazie a tutti
Carlo
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