21 gennaio 2021

Covid e Clima: una lezione da non scordare

 

La storia dell’Uomo, se espansa fino ai primordi, non supera i 20 milioni di anni: la Terra come pianeta, invece, ha 4,5 miliardi di anni. A dire il vero l’Uomo che conosciamo – ossia l’Homo Sapiens – ha appena 200-300.000 anni mentre gli ominidi che già erano bipedi e sapevano scheggiare qualche pietra non superano i 5 milioni di anni: siamo giovani, giovanissimi.

Il Covid-19 è un bruscolino, se confrontato alle tragedie che ha vissuto la vicenda umana nel suo svolgersi per milioni di anni, eppure – nonostante siamo la specie che è giunta agli apici della conoscenza – non siamo nemmeno in grado di gestire un bruscolino come il Covid.

Non siamo nemmeno in grado, a livello planetario, di gestire una pianificazione dei vaccini che risponda ad una domanda semplice: cosa serve per la sopravvivenza della specie?

Il Covid, nel suo comportamento, ci ha mostrato di non essere in grado di sterminare l’umanità: però, se lasciato libero di circolare come vuole, sappiamo essere in grado di sterminare facilmente una grossa fetta del genere umano. In realtà, non siamo nemmeno così certi che, una volta uccise le persone più anziane, non sia in grado – con qualche mutazione – di rivolgersi ai più giovani. Il virus della Spagnola, ad esempio, ebbe un comportamento simile.

Eppure, una quota importante della popolazione umana ha scelto di non comprendere, di non capire i rischi alla quale è esposta: sono i comportamenti infantili dei negazionisti, i rifiuti fra il personale sanitario alla vaccinazione, fino alle “rivolte” dei ristoratori, che non comprendono che il virus non è “diverso dalle 8 del mattino alle 8 di sera” (come affermano), bensì che il virus infetta per vicinanza, e se non c’è distanza fra gli esseri umani, infetta.

Detto questo, vediamo come affrontiamo il problema del clima – che è senz’altro più grave del Covid – pur essendo la nostra civiltà la più evoluta che mai ci sia stata sulla Terra: almeno, secondo le nostre conoscenze.

Il grafico che ho mostrato, deriva da uno studio delle temperature sulla Terra eseguito con un “carotaggio” in Antartide e ci fornisce dati per gli ultimi 800.000 anni: è stato eseguito con il metodo di rilevazione sugli isotopi dell’Ossigeno, che fornisce risultati validi. Dunque, per un periodo nel quale il genere umano era già presente.

Osservando il grafico, scopriamo che le aree nelle quali la temperatura media del Pianeta è stata superiore a 0° gradi centigradi, rappresentano circa il 10% del totale, mentre quelle inferiori a 0° gradi centigradi sono il 90%: la Terra risulta, in genere, un pianeta freddo: solo eccezionalmente temperato, per brevissimi periodi caldo.

Eppure, siamo sopravvissuti.

Infatti, i reperti più importanti e significativi che siamo riusciti a trovare negli scavi paleontologici si trovano quasi tutti in Africa e tutti nella fascia equatoriale: proprio le aree dove il clima, durante le glaciazioni, era almeno tollerabile, consentendo la caccia e la raccolta di frutti ed ortaggi selvatici.

Perché questo squilibrio di 90 : 10 a favore del freddo?

Anzitutto, il clima sulla Terra è ciclico ed il freddo è favorito sul caldo dalla velocità di reazioni termodinamiche: il freddo giunge in fretta e si stratifica, mentre il caldo – per affermarsi – richiede un tempo più lungo, per rompere i legami cristallini dell’acqua ghiacciata.

Ci sono poi altri motivi legati ai cosiddetti feedback: fenomeni complessi, che possono essere positivi o negativi, secondo il feedback. Uno su tutti, ad esempio, è che le superfici ghiacciate riflettono verso l’infinito la maggior parte della radiazione solare, un fenomeno chiamato albedo. Siccome l’unico apporto esterno d’energia è la radiazione solare, è ovvio che se viene riflessa verso l’infinito non può riscaldare.

Ma, anche col clima più caldo, ci sono rischi di freddo: le grandi masse di nuvole generate dall’evaporazione schermano la radiazione solare, impedendogli di giungere a terra: ecco perché il freddo prevale sul caldo.

Vero è che l’effetto serra – fino ad un certo punto – consente una radiazione più calda, a causa della rifrazione che alcune molecole provocano nella luce, trasformandola in radiazione infrarossa, ma stiamo giocando una partita da apprendisti stregoni con – in aggiunta – interessi di cassa che cercano di “deviare” il corso delle conoscenze scientifiche delle quali siamo certi.

In fin dei conti, non rischiamo solo una desertificazione bensì, in un periodo più lungo, una glaciazione.

E, su questo problema, lavorano alla grande gli avvocati delle compagnie petrolifere, come nel Covid lavorano gli avvocati dei ristoratori: l’unica nazione che è riuscita a (quasi) sopprimere la presenza del virus sul suo territorio è la Cina, il meno democratico, che quindi non permette le gazzarre degli avvocati di parte.

Una nuova glaciazione si presenta abbastanza rapidamente – tenendo conto dei tempi geologici – ossia poche migliaia di anni: l’umanità sarebbe in grado di sopravvivere in quelle condizioni climatiche? Sopravvivere certamente, vivere assolutamente no: altro che la bagarre dei ristoratori per il Covid!

La sfida non è tanto quella di eliminare i gas che generano l’effetto serra, quanto di dosarli, il che è francamente molto difficile. Questo non significa non intervenire sul sistema d’approvvigionamento energetico ma di farlo con sapienza, senza eccedere da un estremo ad un altro per motivi semplicemente ideologici.

Se non riusciamo ad eliminare un bruscolino come il Covid – semplicemente con norme igieniche da far rispettare e vaccini distribuiti con saggezza alle categorie che più ci proteggono – pensiamo di riuscire a mantenere la concentrazione di gas serra senza finire in uno dei due estremi?

La vedo dura.

06 gennaio 2021

Sanità e Recovery Plan: che fare?

 

Harley-Davidson 1947

La novità che il Covid-19 ci ha portato non è stata soltanto l’epidemia in sé, bensì prender atto che siamo esposti – e lo saremo ancor più in futuro – a malattie nuove, portate dall’incommensurabile miscuglio di molecole che stanno tutte nel posto dove non dovrebbero stare, ossia nell’acqua, nell’aria e sulla terra.

Per troppi anni ci siamo illusi che i parametri di “massima allerta” – fissati dal genere umano – potessero salvaguardarci da guai futuri ma, anche per la leggerezza con la quale sono stati by-passati con un’alzata di spalle, la realtà, oggi, ci sbatte contro il muso tutte le nostre boriose sentenze.

E, premetto, qui non si tratta solo della tanto vituperata C02, bensì di una marea di composti che viaggiano, indisturbati, intorno a noi e che rilasciati nel “brodo primordiale” degli oceani finiscono per essere in contiguità con le più semplici molecole che possono entrare in contatto con il nostro metabolismo: i virus.

 

Se torniamo indietro nel tempo – non tanto, solo dall’inizio dell’ultimo periodo interglaciale, circa 10.000 anni fa – scopriamo che soltanto da un secolo, massimo un secolo e mezzo ad esser “larghi”, abbiamo iniziato questo perverso percorso.

Per 10.000 anni l’equilibrio fra la specie umana e le malattie è stato sempre il medesimo: sappiamo che in epoca augustea la peste dilagava nel quartiere greco di Roma, e per secoli e secoli – insieme al colera, al vaiolo, al tifo ed alle malattie esantematiche – le malattie condussero più volte verso il limite dell’estinzione. Ci vollero due secoli, ad esempio, perché Torino tornasse al numero d’abitanti che aveva prima del 1629, quando iniziò la celebre epidemia di peste citata dal Manzoni.

 

A metà Ottocento, però – dopo un secolo di lavoro complicato da informazioni frammentarie e talvolta errate – finalmente Pasteur riuscì a togliersi dalla mente tutte le superstizioni sui “miasmi” che portavano malattie e comprese che gli agenti erano loro, quei minuscoli organuli che osservava al microscopio. Erano stati definiti i Batteri, e vaccini ed antibiotici furono i passi successivi.

Che vi fosse qualcosa d’ancora più minuscolo Pasteur lo capì dal “virus del tabacco”, un virus dei vegetali che fu intuito, più che scoperto, intorno al 1870. Troppo piccolo per poterlo individuare, però, sentenziò il grande vecchio della Biologia: bisognò attendere il 1931, anno di scoperta del microscopio elettronico, per definirlo meglio.

 

Questo breve excursus storico (che, spero, mi perdonerete) era necessario per comprendere come la Medicina si sia evoluta, lentamente, soprattutto nell’Ottocento e poi nel Novecento per poi evolversi ulteriormente nella Medicina Elettronica, come andremo a scoprire, dimenticando un poco alcune vecchie tradizioni e “posture” che sovrintendono al rapporto del medico col suo paziente.

Come potrete notare, non è necessario esser medici per disquisire di questi problemi, giacché si tratta di un argomento di base filosofica, ossia capire i nessi dell’indagine, per chiarire i termini del loro rapporto dialettico il quale, se inesistente, non può originare nessun tipo di risposta razionale giacché – parafrasando Hegel – condurrebbe ad un universale irrazionale e, dunque, irreale.

 

Il Covid-19 ha negato, per la sua essenza, un anti-Covid-19 compreso nella sua singolarità ed ha mostrato l’incapacità di contrastare una malattia in assenza di specifici mezzi: finora, per ogni malattia conosciuta, c’era sempre stato un antibiotico od un antivirale. A dire il vero, già Sars, Mers ed (in parte) AIDS avrebbero dovuto metterci in guardia, ma così non è stato ed è inutile piangere sul latte versato.

 

I mezzi che la Medicina ha messo in campo sono stati soprattutto tesi ad evitare la polmonite interstiziale che ha condotto alla morte milioni di persone nel Pianeta e dunque, trattandosi di “polmonite”, hanno usato gli antibiotici. Un secondo pericolo era la formazione di trombi nelle arterie e, dunque, antiaggreganti piastrinici: infine, cortisonici per ovviare a risposte allergiche ed infiammatorie ed antipiretici per combattere la febbre.

Non esistendo il farmaco univoco rispetto al virus, i medici sono stati obbligati a dosare molto attentamente un mix di farmaci che tendevano a ridurre gli effetti del contagio, pur sapendo di non possedere un agente univoco il quale – per chi è guarito – è stato il buon funzionamento del suo sistema immunitario.

Rimangono alcuni dubbi, ad esempio perché non indirizzarsi verso gli anticorpi mono-clonali ricavati dal sangue dei guariti, ma non vogliamo entrare in campi che esulano la nostra indagine, ossia finire in una disputa fra virologi della Domenica Sportiva: se non l’hanno fatto, avranno avuto le loro buone ragioni.

 

La grande confusione, derivante dal terribile stress che hanno provato i sanitari, certamente non ha aiutato a sondare per il singolo paziente il bilanciamento dei farmaci: pratica difficile alla quale non tutti i nostri sanitari sono allenati e le responsabilità non sono ad personam, perché riposano in decenni di pratiche sì più veloci, ma che di fronte ad un attacco sconosciuto mostrano il fianco con troppa facilità. Chiariamo.

 

Era il 1970 – lo ricordo bene – quando ebbi una discussione quasi “feroce” con due ragazze, entrambe “matricole” di Medicina.

Il dissidio nasceva da due posizioni inconciliabili ed era impossibile trovare una sintesi: è di primaria importanza il rapporto con il paziente oppure è sufficiente una immagine del paziente, ricavata dai mezzi diagnostici?

 

Conoscevo le pratiche mediche di quegli anni – nei quali erano già molto comuni gli antibiotici, ad esempio – ma i medici di vecchia formazione non esulavano mai dall’approfondire il rapporto con il loro paziente, di qualsiasi malattia si trattasse.

Il mio medico – che era anche un amico di famiglia – mi confessò che, una volta la settimana, una vecchietta lo veniva a visitare, lui l’ascoltava per qualche minuto e poi le faceva l’iniezione. Di cosa? Acqua distillata, 1 cc, rispose laconico. Perché?

Poiché aveva solo bisogno di un rapporto di fiducia, di sentirsi “importante ed amata” soprattutto dalla persona più importante del borgo, ossia il medico. E così andò avanti per anni ed anni. Quel medico – che “volava” in mille posti diversi ogni giorno, in sella ad una Harley-Davidson tre marce (leva sul serbatoio) – salvando ora uno che aveva bevuto accidentalmente varechina (io), chi s’era tagliato con la sega mezzo braccio, fino al contadino che lo pregava, disperatamente, d’aiutarlo a far nascere un vitello – non dimenticava mai il giorno dell’appuntamento per l’iniezione d’acqua distillata.

 

Le due ragazze – prim’anno di Medicina, ma già parlavano come due primari – mi presero (neanche poi tanto garbatamente) in giro, dileggiandomi con veemenza. Tu non capisci niente…(loro sì: eravamo negli stessi banchi solo pochi mesi prima…) perché la Medicina si sta evolvendo e queste forme “paternalistiche” nel rapporto col paziente non avranno più senso.

La Medicina – questo era il succo del loro punto di vista – si evolverà mediante la diagnostica per immagini, che ci consentirà diagnosi rapide ed esatte fino a divenire una Scienza. Cosa che mi lasciava un poco scettico, giacché la Medicina è definita Arte, a volte Pratica, ma mai Scienza poiché le Scienze sono esatte e la Medicina mai potrà esserlo, poiché nasce proprio dal quel rapporto dialettico medico-paziente che sopra ricordavamo.

 

Eppure, avevano in parte ragione: nessuno qui nega l’importanza di una TAC o di una Risonanza, solo che a fidarsi soltanto delle immagini si finirà con l’avere solo una immagine del paziente, che è molto diversa dalla sua realtà, e  che quindi non servirà più visitare ed auscultare, basterà una telefonata. Che, ovviamente, la sua immagine farà quando avrà un problema.

Telefonata di esempio (ante Covid): “Ho la febbre e mi fanno male tutte le giunture, le ossa…” “Quanta febbre?” “38 e mezzo” “Prendi la Tachipirina e, se vedi che non passa, l’antibiotico per cinque giorni”. Fine del rapporto diagnostico.

Magari per il 70% dei casi la cosa va a posto, ma il restante 30%?

Il restante 30% avrebbe avuto bisogno di un’ispezione a bronchi e polmoni, magari uno “sguardo” all’apparato digerente…insomma: una visita diagnostica.

I nostri medici, oggi, per la gran parte non si fidano più dei loro mezzi di percezione per stabilire il malanno: senza la diagnostica per immagini perdono gran parte della loro capacità diagnostica e brancolano nel buio.

 

Il dottor Riccardo Munda (1) – un medico giovane, non ancora specializzato, uno che (parole sue) aveva bisogno di lavorare – nell’inferno della pandemia nelle valli bergamasche, ha accettato di fare il medico lassù, partendo dalla Sicilia.

Si è trovato 1400 pazienti, parecchi malati di Covid-19 e ne ha perduti e/o ospedalizzati…nessuno!

A chi gli domandava come aveva raggiunto un simile risultato, rispondeva:

 

Me lo spiego con una ragione semplice: l’assistenza domiciliare. Andare a casa di un mutuato non è la stessa cosa che fare il medico stregone via cavo. Tanto per cominciare andare significa fare una visita accurata, capire se ci sono problemi respiratori e quanto sono seri, valutare lo stato generale del paziente, prescrivere i farmaci giusti...”

 

Che è, esattamente, quanto sostenevo poco sopra.

Un secondo aspetto da rivedere, per le professioni sanitarie, è togliere quel maledetto numero chiuso all’iscrizione, permettendo una sana competizione basata sulle competenze per chi acquisisce la laurea.

Vorrei ricordare – sono stato insegnante nei Licei – che in tanti anni di carriera ho conosciuto un solo figlio di medico che avesse scelto una facoltà diversa da Medicina. Chissà come mai? Per trovare già la “pappa fatta”? Senz’altro, ma anche per godere dei vantaggi che l’ordine dei Medici, qui e là, su e giù, non manca mai di fornire ai figli degli amici, magari “segnalandoli” a qualcuno nella Commissione Medica per l’ammissione.

 

Voglio chiarire che la mia non vuole essere un’accusa, bensì un semplice sospetto: non tocca a me, bensì ad altri (Giustizia) valutare se esistono questi comportamenti. In altre parole, la Medicina si sta trasformando in un affare di famiglia e non è assolutamente detto che il figlio di un medico abbia quella “scorza” che gli consente d’iniziare una professione così difficile.

E, se togliamo il numero chiuso, ci troveremo con medici in soprannumero? Se sono bravi possono andare all’estero, altrimenti andranno a fare gli informatori per le case farmaceutiche: non è sufficiente sedersi alla sedia che fu del padre, se mancano le precise motivazioni per seguire quel percorso di formazione.

 

La figura del medico “telematico”, inoltre, è quanto di più gradito possa esistere per le case farmaceutiche: il sistema è veloce – telefonata, diagnosi “telematica”, farmaco – in modo da rendere immediata una scelta che ha rapporti precisi con la produzione di farmaci e la loro distribuzione. In alcuni studi medici, già esiste una segretaria che ha praticamente “potere di firma” per tutti i farmaci che il paziente usa normalmente, ma questo allontana sempre di più il rapporto medico/paziente che prima ricordavamo e che il dott. Munda, così chiaramente, esplicitava.

In futuro, potremo recarci negli ipermercati ed acquistare semplicemente i farmaci che sono elencati in una carta elettronica: giunti a quel punto, saremo molto vicini al metodo americano di gestione della Sanità, che non ci sembra funzioni così “alla grande”. Guardatevi Sicko, di Michael Moore se non ci credete.

 

Per ultima cosa, ricordo che anni fa ci fu la proposta – non ricordo di chi e di quale governo – di raggruppare i medici in studi: cosa che già hanno fatto per risparmiare sui costi, ma che non sempre è così comoda per i pazienti. Ricordiamo che, a Cuba, esiste una precisa legge che prevede l’abitazione di un medico a non più di 15 minuti a piedi (al massimo 1,5 Km) da qualsiasi paziente.

La proposta che ricordavo, però, conteneva anche un aspetto positivo: quegli studi medici dovevano essere dotati di semplici apparecchiature di diagnostica per immagini (tipicamente: ecografia) le quali avrebbe consentito ai medici di fare subito una ricognizione e, dunque, una diagnosi. In questo modo, molte strutture ospedaliere sarebbero state meno “compresse” da code e file interminabili, che portano a due fattori diversi: o il paziente se ne frega e cerca altre soluzioni, oppure – invece di prendere appuntamenti distanti mesi dalle sue necessità – si rivolge alla sanità privata o convenzionata.

L’ordine del Medici, ovviamente, non appoggiò quella soluzione: c’era da meravigliarsi? Continueremo a fare i segretari per le case farmaceutiche, con tanto di segretarie pagate dallo Stato.

 

Poi è arrivato il Covid e siamo nelle prime posizioni mondiali per decessi rapportati alla popolazione: di chi è la colpa?

Del Governo, ovvio, recitano tutti in coro ma sono decenni che la Sanità italiana va a rotoli – pensiamo solo ai tanti ospedali “privatizzati” e su una gestione regionale che fa disgusto quando non fa paura – eppure, quasi tutti dimenticano che le leggi sono scritte e/o approvate dal Parlamento.

 

Signori parlamentari, che vi lamentate ad ogni piè sospinto d’essere by-passati dai decreti governativi, in questi decenni, dov’eravate?

 

1) https://www.corriere.it/cronache/20_novembre_01/medico-siciliano-nembro-che-va-casa-pazienti-torino-brescia-6fd89d92-1c79-11eb-a718-cfe9e36fab58.shtml?refresh_ce-cp