06 settembre 2006

Il piano monco

Continuano blandamente gli incontri fra i rappresentanti dell’UE e dell’ONU con la diplomazia iraniana: i resoconti di queste trattative sono avvincenti come potrebbe esserlo un cartone giapponese di pessima qualità trasmesso in prima serata.Alle richieste europee Teheran ha già risposto: il nodo cruciale della questione – l’arresto dell’arricchimento dell’Uranio – non è più in agenda per il governo iraniano. Ora, dopo che Russia e Cina si sono pronunciate contro le sanzioni all’Iran, per gli USA rimane solo l’opzione militare. L’opzione militare contro l’Iran, però, prevede soltanto un attacco atomico: non esistono altre possibilità, né semplici attacchi aerei (causerebbero pochi danni alle infrastrutture iraniane, in gran parte sotterranee) né un impraticabile attacco via terra. Il piano americano si doveva svolgere con la consueta tattica del “salto della rana”, ossia con la conquista di primi capisaldi nell’area per poi completare il puzzle: il primo doveva essere il Libano (con estensione alla Siria) e sappiamo com’è andata a finire. Un attacco all’Iran dovrebbe fare i conti con un apparato di difesa in grado di colpire le navi americane, con i nuovi velivoli che l’Iran costruisce utilizzando avioniche di provenienza russa (Mig-29) e con un apparato di difesa antiaerea superbo. Ci vorrebbero mesi per mettere in ginocchio l’Iran e, con la situazione irachena che esploderebbe ancor più (il 65% degli iracheni sono sciiti, e quasi tutti gli ayatollah ed i mullah sono iraniani), Bush finirebbe in un girone infernale ancor più basso di quello che attualmente occupa. I generali al Pentagono – con in testa il gen. Abizaid, comandante in capo delle forze armate USA – si sono espressi contro un attacco nucleare all’Iran, poiché sarebbero loro, dopo, a “goderne” i frutti in Iraq ed in Afghanistan. Dall’altra parte Rumsfeld e la sua cricca di neocon: in mezzo, un presidente che non conosce nemmeno l’ABC della strategia internazionale. La situazione ricorda molto la fine del Terzo Reich, con i vecchi generali prussiani schierati contro Hitler e la sua ghenga, i quali facevano accordi sottobanco con i russi per ritirarsi in pace e che tentarono anche d’uccidere il dittatore con un attentato, che fallì. Non mi piace insistere troppo su paragoni storici che trovano i loro limiti nel continuo mutare della storia stessa, ma questo Libano del 2006 mi ha rammentato Stalingrado: non una limpida vittoria, bensì la fine dell’avanzare incontrastato del nemico. Se gli USA non attaccheranno l’Iran – in quel caso si tratterebbe di un azzardo anche difficile da ipotizzare, per gli sconvolgimenti che creerebbe – non rimarrà loro che la ritirata dall’Iraq e dall’Afghanistan, nell’attesa che una nuova classe politica americana prenda il posto degli sciagurati che oggi comandano a Washington. Oggi gli USA possono ancora tentare di “salvare il salvabile” con una politica d’apertura al resto del mondo, come richiesto oramai da molti esponenti politici americani: domani, potrebbero trovarsi – metaforicamente – prigionieri nel bunker di Berlino.