30 ottobre 2009

E se fosse l’Olandese Volante?


Gentile Ministro Prestigiacomo,
quella che può osservare nella fotografia, sarebbe il relitto scovato dalla nave oceanografica “Mare Oceano” al largo di Cetraro, in Calabria. Molto probabilmente lo è, perché la nave “Città di Catania” (all’epoca si apponeva sempre, prima, la locuzione “Città di”) fu affondata nel Marzo 1917 da un sommergibile tedesco – all’Ufficio Storico della Marina lo confermeranno di certo – e siamo dunque felici che la “Città di Catania” (proveniente dall’India e diretta a Napoli) sia stata finalmente ritrovata.
Siamo un po’ più freddi, invece, al riguardo della “cessata emergenza” diramata ai quattro venti poiché – a nostro avviso – la conclusione ci sembra cozzare contro le più elementari regole della logica. Soprattutto della logica delle costruzioni navali.
Partiamo dall’inizio.

La presunta “nave dei veleni”, individuata dalla ricerca finanziata dapprima dalla Regione Calabria, doveva essere la Kunsky (che risultava, invece, demolita in Oriente ma, sulle pratiche di demolizione in quelle aree, meglio non fare troppo affidamento) ed invece si scopre che è un relitto italiano risalente alla Prima Guerra Mondiale. Le vendite di pesce sono crollate dell’80%, ed è dunque un bel sollievo sapere che si tratta di un innocente piroscafo italiano.
Ci sono, però, alcune discrepanze fra le due descrizioni, che saltano agli occhi.
Nelle risultanze pubblicate sui primi rilevamenti – quelli ordinati dalla Regione Calabria – si dice che:

E' lei. E' la nave descritta dal pentito di mafia Francesco Fonti. E' come e dove lui aveva indicato. Sotto cinquecento metri di acqua, lunga da 110 a 120 metri e larga una ventina, con un grosso squarcio a prua dal quale fuoriesce un fusto. Si trova venti miglia al largo di Cetraro (Cosenza). I fusti sarebbero 120, tutti pieni di rifiuti tossici[1].

Ci sono dei fusti. Fusti in metallo, ovviamente. Peccato, Ministro Prestigiacomo, che lo stivaggio di materiali in fusti metallici non fosse assolutamente in uso agli inizi del ‘900: all’epoca, tutto veniva stivato in barili di legno, tanto che le tabelle d’armamento, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, prevedevano che a bordo vi fosse almeno un mastro bottaio con alcuni aiutanti. Controlli, la prego.
Ci sono dei fusti nei pressi della “Città di Catania”? Approfondisca.

Altro capitolo che non ci convince riguarda le dichiarazioni della “Grande Silenziosa”, la Regia Mar…pardon, oggi Marina Militare Italiana:

Di certo i misteri che hanno sempre avvolto questa vicenda non lasciano sperare bene. Come aveva già confermato la Marina Militare, nella zona – siamo a venti miglia al largo di Cetraro (CS) – non ci sono relitti bellici né della prima né della seconda guerra mondiale.[2]

Ohibò, vuoi vedere che alla gloriosa Marina Italiana era sfuggita la povera “Città di Catania”? Oppure qualcuno se n’era scordato? Per di più: una nave che porta il nome della sua città natale…
Insomma: furono oppure no affondate navi, per eventi bellici, nel mare di Cetraro? Controlli, la prego: se desidera, posso inviarle i riferimenti dell’Ufficio Storico della Marina, ma sono certo che lei già li possiede.

Se il mistero dei fusti e dei barili, più le incertezze della Marina, ancora non la convincono, le sottoponiamo la relazione stesa durante i primi rilevamenti:

L’epoca della costruzione della nave affondata, secondo quanto emerso dai primi rilievi, risalirebbe agli anni `60-´70. Secondo quanto riferito dal procuratore Bruno Giordano, infatti, non sarebbe visibile la bullonatura, il che indurrebbe a pensare che sia stata costruita in quegli anni. Il relitto è coperto da numerose reti da pesca[3].

Non vorremmo tediarla con inutili dissertazioni sulle costruzioni navali, ma vorremmo ricordarle – questa è Storia, non invenzioni – che le prime navi a non avere bulloni per collegare le lamiere alle ordinate furono le corazzate “tascabili” tedesche della classe Admiral Graf von Spee (più precisamente, Admiral Graf von Spee, Admiral Scheer e Deutschland, poi Lützow), le quali – dovendo sottostare ai limiti imposti dalle Conferenze Navali di Londra e Washington – non potevano dislocare più di 10.000 tonnellate.
I tedeschi, per risparmiare il peso dei bulloni, “inventarono” la saldatura della lamiere alle ordinate, il che consentì di costruire navi con cannoni di maggior calibro (280 mm) al posto dei 203 mm dei “classici” incrociatori pesanti da 10.000 tonnellate.
Tutto questo, per dirle che – come afferma il Procuratore di Paola – se la nave in questione non ha bulloni nello scafo, non può essere la “Città di Catania” (varata nel 1906, quando si “bullonava” sempre, da non confondere con l’omonima nave affondata in Adriatico durante il secondo conflitto mondiale), ma un’altra. Che la Kunsky sia solo un poco più in là? Perché chiudere così frettolosamente le indagini? “Caso chiuso”: così in fretta?

Rimane il mistero del Cesio 137 ritrovato nei molluschi[4], proprio in quel mare: siccome il Cesio 137 non si trova in natura, chi ce lo avrà messo? Lei ha un’idea? Che siano stati gli iraniani?

Le ricordo, infine, che le precedenti rilevazioni stabilirono che – nel mare di Cetraro – il SONAR aveva individuato ben sette “macchie scure”, che non indicano necessariamente una nave, ma che forniscono alte probabilità che lo siano.
Ciò che insospettisce, è che la notizia fu pubblicata da AdnKronos e – proprio mentre scrivevo questo articolo – è sparita! Sì, ritirata dal circuito!
Credo che, anche per lei, la cosa risulterà assai strana.
Non vorremmo che, per correre dietro all’urgenza economica di garantire la pesca, per ovviare alle proteste dei pescatori e per tacitare chi fa “allarmismo”, aveste semplicemente scambiato una nave per un’altra. Capita. In fin dei conti, quel che conta è la verità mediatica: il resto…

Provi a rifletterci un poco; se mai, chieda lumi a Bertolaso ed alla Marina: vedrà che – con un poco di calma e di riflessione – tutto si chiarirà. Come sempre, in Italia.

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

28 ottobre 2009

Cronache dalla barbarie

Se “l’imbarbarimento” della vita politica italiana fosse solo l’inciviltà che abbiamo sotto gli occhi, potremmo ridere allegramente e nutrirci di sole vignette, che sono – talvolta – esilaranti. Si va dalla carta d’identità di Brunetta, nella quale si vedono solo i capelli, a quelle “meteorologiche” su Berlusconi, il quale – non contento delle mille baggianate che fa raccontare dalle sue TV – s’inventa pure una tempesta di neve su Mosca per non incontrare il suo Ministro dell’Economia. Di questo passo, il nuovo Fascismo Mediatico ci racconterà pure che l’Umbria ha dichiarato guerra alle Marche, e qualcuno ci cascherà.

Non è nemmeno troppo “barbaro” che il Presidente del Consiglio vada a puttane, facendole pagare da un faccendiere della Sanità pugliese, il quale ha probabilmente ricevuto quei soldi dalle commesse di un’amministrazione di centro-sinistra dopo, chiaramente, aver fornito “carne fresca” anche nelle Puglie di “sinistra”.
In questa barbarie casereccia, c’è anche un rispettabilissimo Presidente di Regione che non va a puttane, perché preferisce i trans, e non si sa se li paga con soldi suoi o con mazzette, se ci va con l’auto di servizio oppure con la sua “Panda”, e se i carabinieri che lo scoprono sono delle “mele marce” oppure sapientemente imbeccati. Da chi? Perché?
Ecco, allora, che puttane e trans s’incrociano quando il Presidente del Consiglio telefona al Presidente di Regione:

«Attento Presidente, c’è un video che circola dove sei ritratto mentre te la spassi con “una” che ha un bel batocchio fra le gambe.»
«Non mi dica, Presidente: ma…come ha fatto a saperlo?»
«Me lo ha raccontato – Presidente – un caro amico giornalista – un Direttore, caro Presidente, sia chiaro – il quale s’è visto offrire la “merce” in cambio di denaro.»
«Ma…Presidente, spero che il Direttore non abbia accettato…»
«Certo, Presidente, io sono un uomo d’onore: visto che quel giornale è mio e che quel Direttore è un mio dipendente, puoi stare tranquillo, in una botte di ferro. Come Attilio Regolo.»
«Non so come ringraziarla, Presidente»
«Beh, non farlo sapere i giro – sai – perché non mi piace avere a che fare con quelli che se la spassano con i “batocchi”…io, le mie pulzelle, le faccio urlare di piacere tutta la notte. Come faccio? Una pastiglia, una doccia gelata e via, con il mio medico personale a disposizione nella stanza accanto.»
«Ma, adesso – Presidente – come posso fare?»
«Eh, caro Presidente, stacca qualche assegno dal tuo carnet per tacitare la cosa.»
«Mah, Presidente, e se la cosa non funzionasse, se il ricatto…»
«In quel caso – da Presidente a Presidente – giungerò in tuo soccorso e partirà l’indagine interna dei Carabinieri: le chiameremo “mele marce”, le cacceremo dall’Arma…e via. Ah, solo un’ultima cosa: se staccare gli assegni non dovesse funzionare, alla fine della questione ti toccherà staccare la spina che ti lega alla Regione Lazio.»
«Certo, Presidente: si tratta di una rinuncia che…»
«Non preoccuparti: ti faremo Presidente di una nuova fondazione, quella delle Pari Opportunità Sessuali: oggi una femmina, domani un trans, dopodomani un uomo barbuto, la settimana prossima una giovanetta, poi una capra…tutti uguali di fronte al sesso!»
«Non so come ringraziarla, Presidente…»
«Eh, caro Presidente, quando si è nella stessa barca…oddio, proprio la stessa…con quei “batocchi” no, però…ci si deve pure dare una mano fra di noi, altrimenti, se si sfalda la nostra casta…ci rendiamo conto di dove potremmo andare a finire? Lo sa quanti comunisti con le zanne sono pronti ad assalirci, nascosti nelle cantine di Roma, nelle foreste alpine, sotto i mari? Lo sa? Lo sa che ho dovuto appioppare una bella “tassa” agli italiani – sotto forma di decoder, cavi SCART, antenne e TV da sostituire, quella baggianata della Legge Gasparri e del digitale terrestre… – per consentire loro d’ascoltare Emilio Fede, per continuare la crociata anticomunista? Lo sa?»
«Eh sì, lo so Presidente: sapesse che fatica ho dovuto fare per togliermi di torno qualcuno di quei comunisti dalla Regione…erano della sottospecie domesticus, per fortuna, non i ferox da lei indicati…però…»
«Certo, Presidente, la capisco: resistere!resistere!resistere!»
«Grazie, grazie ancora Presidente.»

Se la barbarie fosse solo questa, potremmo sorridere (amaro) e passar oltre, senza curarci troppo di quanto avviene fra “pulzelle e batocchi”. Oppure credere al minuetto fra Bossi, Berlusconi e Tremonti…al partito “nuovo” che Bersani ha appena battezzato, e che già invecchia e si sfalda mentre è ancora sullo scalo…no…sarebbe soltanto il consueto corollario di una civiltà morente, che rovinerà da sola, senza nemmeno il classico “dito” per la spinta finale. Come dite? Che, crollando, ci trascineranno nell’abisso? Eh, qui no: permettetemi di dissentire, perché nell’abisso ci siamo già oggi.

Il 16 Ottobre 2009, un giovane romano – Stefano Cucchi di 31 anni – viene arrestato per la detenzione di una “modesta quantità di droga”: non viene specificato di quale droga si trattasse. Grazie alla legge partorita dall’oggi “Illuminato” (per qualcuno) Gianfranco Fini e dal compare Carlo Giovanardi (rimasto un ninnolo parlante da sacrestia), quel ragazzo poteva avere anche solo pochi grammi d’hascisc. Destinazione: Regina Coeli.
I genitori – immaginiamoli come tutti i genitori, preoccupati, ansiosi – chiedono subito un colloquio con il figlio in carcere, e lo ottengono per il 23 Ottobre: una settimana per avere il colloquio, eh, l’amministrazione carceraria è lenta…si deve avere pazienza…
Dove, invece, la Giustizia è rapidissima è nel comminare la pena di Morte, come abbiamo ricordato nel nostro “Il Miglio Verde Italiano[1], ed i genitori – che, immaginiamo, attendono trepidando di parlare con il figlio, di chiedere spiegazioni, sapere come sta… – sono immediatamente “dirottati” all’obitorio dell’Ospedale Pertini (reparto carcerario), perché – quando si dice la sfortuna! – Stefano è improvvisamente spirato nella notte fra il 22 ed il 23 Ottobre. Perché era in ospedale?
Aveva improvvisamente avvertito dei “dolori alla schiena” ed i premurosi carcerieri s’erano immediatamente allertati per farlo ricoverare, affinché ricevesse le necessarie cure. Come no.
I “dolori alla schiena” che il figlio aveva manifestato, si trasformano – meraviglia di una transustanziazione carceraria – in un viso tumefatto, distrutto, quasi irriconoscibile per i poveri genitori che devono, invece di parlare con il figlio, ottemperare all’obbligo del riconoscimento. Qualcuno si rende conto della sofferenza che c’è dietro ad una storia del genere?
E questo caso è solo uno fra i tanti.

Aldo Bianzino, un falegname umbro di 44 anni, viene arrestato in piena notte il 12 Luglio 2007 per la stessa ragione: Bianzino, forse uno degli ultimi hippies, aveva delle piantine di marijuana nell’orto. Condotto nel carcere di Capanne (PG), viene trovato morto nella notte fra il 13 ed il 14 Luglio dello stesso anno, due giorni dopo l’arresto[2].
Nel caso di Bianzino, il “lavoro” è stato eseguito bene: il povero falegname è morto per traumi interni, emorragie invisibili dall’esterno, costole rotte, ecc. Un “lavoro” che solo dei “professionisti” del crimine possono eseguire, gente che ha a disposizione tutto il “necessario” ed ha tempo per farlo.
La vicenda è stata pubblicata anche sul blog di Beppe Grillo, perché è l’apoteosi della disgrazia, di un Fato perverso che sembra allearsi a questi massacratori d’innocenti: la moglie di Branzino – Roberta Radici – muore pochi mesi dopo – ricordiamo, forse, che i nostri “vecchi” dicevano “è morto di crepacuore”? – e lascia solo il figlio Rudra, minorenne.
Non ci dilunghiamo in altri casi, perché sarebbero soltanto delle fotocopie con lievi differenze: chi colpito in modo “professionale” da qualcuno che è stato ben preparato per quelle evenienze, oppure s’utilizza il laissez faire carcerario d’antica memoria. Si muore in una cella, soli, pestati a sangue da qualcuno che non sai se è un detenuto od un agente in borghese, si muore sputando l’anima con un punto interrogativo che serra lo stomaco, che chiede incessantemente perché?perché? perché proprio a me?
Bianzino, Cucchi e tutti gli altri che lasciano la pelle nelle carceri, nelle strutture psichiatriche come Mastrogiovanni, sulla strada come Aldrovandi non sono altro che il manifestarsi – evidente! Solo chi non ha occhi può accampare scuse! – che il “Garage Olimpo” italiano sta funzionando a meraviglia. Uccidono, senza remore, chiunque caschi nella loro rete, facendo ben attenzione a salvare quelli che non devono morire.

Sabato notte, 24 Ottobre 2009, un giovane torna ad Ostia dopo aver trascorso la serata a Roma: non c’è nulla di strano nel suo comportamento – forse, affermano i giornali, “è solo elegantemente vestito” – e ciò basta a tre pezzi di merda (scusate il necessario turpiloquio), che sono appoggiati al muro della stazione Lido Nord per assalirlo, pestarlo a sangue (costole rotte, setto nasale, ecc) al grido di “Frocio, Comunista”[3].
Il commento del sindaco Alemanno è che si tratta di “una vicenda preoccupante” e che ci vuole “più lavoro nelle periferie”. Alla prossima dirà che si tratta di un gesto “esecrabile”, e poi via con tutti i sinonimi dello Zingarelli: finché ci sono aggettivi, c’è speranza.

Da più parti si sostiene che il Belpaese ben si presti per le “sperimentazioni”: qualcuno, addirittura, lo chiama il “Laboratorio Italia”. E, allora, di cosa vi meravigliate? Stiamo qui a discutere se sia meglio andare a puttane od a trans, e se sia lecito esigere – sempre – il rispetto della privacy?
Chi ha rispettato la “privacy” di farsi uno spinello per Aldo e per Stefano? Gli stessi che vanno a puttane e poi sentenziano a morte – sì, perché le leggi le fanno loro – dagli scranni del Parlamento? E qualcuno parla ancora di rispetto per gli energumeni che ci governano?
Per caso, qualcuno rammenta il caso del deputato UDC Cosimo Mele[4], sorpreso durante un festino a “luci rosse” e cocaina in via Veneto: in quel caso, non era tanto una questione morale, quanto l’accusa di spaccio. Ebbene? Cosimo Mele ha ricevuto lo stesso trattamento di Cucchi e Bianzino? E qualcuno, ancora, invoca una “pietosa” e molto anglosassone privacy per questi signori?

Si può parlare a vanvera del Trattato di Lisbona e poi, quando i suoi prodromi – il “Laboratorio Italia” – si manifestano sotto i nostri occhi, non vederli, oppure continuare con un’alzata di spalle facendo i “superiori”, in nome di una morale che dovrebbe essere condivisa, e viene invece derisa?
Gli assassini di Cucchi, Bianzino, Mastrogiovanni, Aldrovandi e tanti altri sono la ferita inferta da questa classe politica di mefitici saltimbanchi ai grandi principi di garanzia del Diritto, dall’Habeas Corpus alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. In quale Paese, un simile stillicidio d’omicidi di Stato non avrebbe suscitato indignazione, ribellione, dimissioni?
In tutti, salvo nel “Laboratorio Italia”, quell’appendice di terra slanciata nel Mediterraneo dove le condizioni sono “ottimali” per sperimentare i frutti del Trattato: una sorta di “Garage Olimpo”, trasposto dall’Argentina dei generali all’Italia dei pretoriani.
E qualcuno, ancora, si “scalda” per difendere il diritto di questa gente ad avere una “privacy”? La loro libertà d’uccidere mentre si garantiscono lusso e piaceri a iosa? Lo faccia pure, ma non s’aspetti d’avermi al suo fianco.

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

19 ottobre 2009

E bravo Giulio!

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia”
William Shakespeare – Amleto – Atto Primo – Scena Quinta.

Continuando di questo passo, siamo certi che Giulio Tremonti scoprirà che le galline fanno le uova e che le rose profumano. Dandogli ancora tempo, arriverà a capire come facciano le mucche e fare il latte e, magari, perché il Sole scalda.
L’uomo del Monte x 3 non la smette mai di stupirci; va là – italiani! – ve lo dico io come si vive meglio: con il posto fisso[1]! Lo crediamo bene: lui ce l’ha!
Adesso che abbiamo risolto tutto con il posto fisso, forse non ha più senso parlare di reddito di cittadinanza, d’energia rinnovabile, di truffa sulla moneta…non serve più a niente…oppure sarebbe meglio proporre schede gratis per i telefonini e una moratoria per tutte le infrazioni stradali causate dall’alcolismo? Dai, Giulio.
Ma…sbagliamo o questo Giulio Tremonti è la stessa persona che, solo un anno fa, firmò i famosi decreti dei “100 giorni”, quelli che hanno visto nascere, nella scuola, le classi di 30-40 persone e che hanno cacciato sulla strada decine di migliaia d’insegnanti? O abbiamo sognato? Il sospetto che ci siano in giro dei replicanti – signori miei – a questo punto non è più fantasia.

Oppure, nel miglior stile sovietico, Giulio ha fatto autocritica. Comprendiamo.
Non va più di moda sbattere la gente in Siberia…no…però – a questo punto – vorremmo vedere i fatti. Altrimenti, il replicante che parlava al convegno della Banca Popolare di Milano – facendosi credere il Ministro dell’Economia della Repubblica – in una baita sopra Sondrio dovrebbe andarci da solo. E restarci.
Il lavoro non è un argomento “gettonato”, eppure trascorriamo spesso più tempo al lavoro che con i nostri familiari: ora, se a parlare di lavoro è uno scrittore, passi, ma quando a farlo – ed in modo così esplicito! – è un Ministro dell’Economia, dovrebbe trarne le conseguenze. Oppure scegliere la parte d’Amleto e recitarla fino in fondo, sempre che riesca a reggere il ruolo.
Siccome non crediamo una parola delle riflessioni del nostro bel Amleto da Sondrio, proveremo noi a parlare di lavoro: come sappiamo farlo, visto che non siamo ministri economici.

Come si può parlare di lavoro, di quel che è diventato il lavoro, di cosa potrebbe (e dovrebbe) essere il lavoro, sul perché lavoriamo, per quanto tempo, come…
Quante ore fai? Quanto prendi? Ti fai il culo?
Ecco, forse in questo modo tutti capirebbero – come fanno in TV, che la vincono sempre – però il Web è il luogo dove pochi, fra quelli che non sanno leggere un grafico, arrivano: dunque, parlare di lavoro senza le pelli di salame agli occhi, dovrebbe essere ancora possibile. Sempre che s’abbandoni la triplice domanda appena esposta.

Il primo aspetto da valutare, per quanto riguarda la natura del lavoro, è il fabbisogno energetico: più è elevato, meno lavoro manuale esiste. Le immagini dei cinesi che costruivano le strade a forza di braccia sono oramai storia, come le nostre di quasi un secolo fa: difatti, anche il loro fabbisogno energetico è schizzato alle stelle.
La gran parte dell’energia consumata va a sostituire la forza muscolare umana ed animale, mentre una quota certamente minore viene utilizzata per sostituire l’intelligenza umana, dai semplici computer alla miriade di schede elettroniche utilizzate nelle macchine di processo, ossia nell’enorme “cascata” tecnologica che, partendo dalla macchina che vernicia automaticamente le autovetture, giunge alla macchina che ha costruito quella macchina.
Il fenomeno è noto e possiamo analizzarlo meglio partendo da un dato relativo agli ultimi 30-40 anni: l’occupazione nelle grandi imprese è scesa all’incirca di un punto percentuale l’anno, mentre la produttività è cresciuta pressappoco del medesimo valore.
Senza spilluzzicare i decimali, potremmo semplicemente affermare che le macchine fanno le cose più in fretta dell’uomo e costano di meno: perciò, gli uomini dovrebbero lavorare sempre di meno. Non me lo invento io: basta rileggere Marx, invece ci viene chiesto di lavorare sempre di più. E poi manca il lavoro: per forza! Se lo fanno le macchine…

L’equilibrio ha retto fin quando il capitalismo di matrice keynesiana ha vissuto, ossia fino alle grandi ristrutturazioni industriali degli anni ’70, giacché la “spinta” sindacale era sorretta da molti fattori, quali il gran numero di lavoratori sindacalizzati, l’assenza di un’informazione pianificata in modo spietatamente orwelliano, la presenza di 160 divisioni sovietiche di là dell’Oder.
Ciascuno di quei fattori aveva il suo peso e contribuiva a destinare ai lavoratori una quota consistente dell’aumento di produttività, che si trasformò per decenni in diminuzione dell’orario di lavoro ed in aumento reale delle retribuzioni, mentre il trattamento previdenziale ed assistenziale era sicuramente più favorevole rispetto all’oggi ed a quello che il futuro prospetta.
Se vogliamo scendere un attimo fra gli esempi, ricordiamo che la sanità era praticamente gratuita, che in ospedale s’andava anche “per analisi”, ossia per stilare una diagnosi precisa, e non solo per nascere, per morire o per qualche accidente improvviso. Oggi, ti fanno correre come un pazzo fra le varie strutture, e ti paghi praticamente tutto.

Il trattamento previdenziale era diversificato fra il settore pubblico e quello privato, ma in ogni modo molto vantaggioso rispetto all’oggi: nel pubblico, le famose “pensioni baby” erano un espediente della classe politica per salvaguardare la fedeltà dei ceti medi, mentre chi aveva lavorato nel settore privato – ed aveva iniziato a lavorare presto – a circa 50 anni terminava la propria vita lavorativa, giacché bastavano 35 anni di contribuzione.
Da ultimo, la generazione nata negli anni 20-30 del ‘900 riuscì spesso ad acquistare o costruire una casa, a far studiare i figli, a concedersi quello che oggi è considerato quasi un lusso: due o tre settimane di vacanza, magari in tenda o roulotte, ma vacanze erano.
A fronte di quella situazione – idilliaca, se paragonata all’oggi – il debito pubblico era attestato intorno al 60% del PIL: quindi, quando narrano che sono stati lavoratori le “idrovore” del bilancio pubblico, raccontano solo frottole.

Il punto di “viraggio” di quella situazione possiamo allocarlo fra il 1980 ed il 1990: l’elezione di Ronald Reagan non fu la causa scatenante del processo di mutamento, bensì il suo giungere a maturazione.
La “Guerra Fredda” aveva concesso enormi investimenti alla ricerca militare, soprattutto per quanto riguardava la miniaturizzazione dell’elettronica (missili, ecc), la quale fu gran dispensatrice di una nuova gestione del lavoro, nel quale la fatica umana diventava un nemico da sconfiggere non tanto per questioni etiche, quanto perché meno redditizia. Difatti, proprio negli anni ’80, la FIAT assorbì la COMAU (robotica industriale) e, dopo pochissimi anni, segmenti importantissimi delle catene di montaggio (si pensi alla verniciatura, con quel che si trascinava appresso per problemi di nocività) furono completamente automatizzati.
Fin qui l’aspetto tecnologico e produttivo, che toccava ogni ambito del lavoro, dall’agricoltura ai servizi, passando – ovviamente – per l’industria, i trasporti, la sanità, ecc.
Rimaneva il problema di non cedere più i benefici della maggior produttività ai lavoratori, e non era faccenda così semplice da risolvere.

L’aspetto internazionale del problema è stato, a nostro avviso, poco valutato: ricordiamo che Enrico Berlinguer, prima delle elezioni del 1976, candidamente affermò che «se il PCI avesse vinto le elezioni, l’Italia sarebbe stata naturalmente schierata nel Patto di Varsavia
Ovvio che quella frase non può essere presa per oro colato – i mezzi per ovviarla erano molti, il Cile insegna – però la presenza sovietica nel Pianeta richiedeva sempre attenzione sul fronte interno.
Il grande “sogno” di un nemico sconfitto e nella polvere fu realizzato dall’amministrazione Reagan, mentre – precedentemente – la “trappola afgana” di Brezinskji ne aveva creato i prodromi. La fulminea, nuova impostazione americana della difesa – ricordiamo la “Marina delle 600 navi” – condusse l’URSS ad aumentare le spese militari fino al 16,5% del proprio PIL, mandando a catafascio la programmazione sovietica. Zeppi d’armi di tutti i tipi, con l’industria pesante completamente assorbita a costruire “bisonti” di cielo, mare e terra, i russi attendevano per mesi il motore di ricambio per il frigorifero, ed imprecavano.
Terminiamo qui la trattazione dell’aspetto geopolitico del problema – non perché manchino gli argomenti! Le spese militari che giunsero al 7% del PIL statunitense (UE circa 1-2%) con inevitabili ricadute, la “liberazione” al capitalismo selvaggio di tante nazioni prima legate al carro di Mosca, che si rivelò un boomerang proprio per l’industria a stelle e strisce, ecc… – e ci fermiamo qui soltanto perché ci condurrebbe lontano dai nostri obiettivi.

Gli eventi di quegli anni – l’avvento dell’elettronica a basso costo, il crollo dell’URSS, la nuova “informazione libera”, che solo oggi osserviamo nella sua completa acquiescenza al potere – crearono le basi per il passaggio a quello che viene definito “Turbocapitalismo”, “Liberismo selvaggio”, eccetera.
La differenza precipua, rispetto al capitalismo di matrice keynesiana, risiede in un semplice principio: il lavoratore non è più considerato un attore del processo produttivo, non deve accampare diritti, le rappresentanze sindacali possono essere comperate un tanto al chilo od ignorate, nel nome del supremo interesse nazionale. Il che, incrina quella “repubblica fondata sul lavoro” che recita il primo articolo della Costituzione, giacché i Costituenti pensarono al mondo del lavoro come ad un universo dialettico, non un diktat determinato dal “supremo interesse nazionale”, che sa tanto di Ventennio.
Ovvio che questo “interesse nazionale” è un pio eufemismo: si tratta della somma fra gli interessi delle classi dominanti (finanza, industria, ecc) e di quelli dei loro lacché, la Casta politica. Il che, apre uno scenario che riguarda il debito pubblico.

A metà degli anni ’70, il debito pubblico iniziò a “correre”: ovviamente, la colpa fu addossata ai lavoratori (scala mobile, ecc), mentre sfuggì completamente che l’Italia aveva moltiplicato a dismisura la spesa pubblica non nella fornitura di servizi alla collettività, bensì per creare un vasto elettorato – fedele poiché retribuito – mediante la de-localizzazione.
La riforma regionale del 1970 doveva decretare la fine delle Province – della serie: o l’impianto di stampo napoleonico (Province), oppure quello di matrice tedesca (Regioni), poiché mantenerli entrambi sarebbe stato troppo costoso – ed invece avvenne il miracolo. Le Province furono “salvate” assegnando loro una “quota” del personale scolastico (un vero e proprio non sense) ed altre competenze che riguardavano la caccia e la pesca. Di più: nacquero le comunità montane e le circoscrizioni, altre idrovore di soldi pubblici.
Per citare un solo esempio, prima della polverizzazione delle competenze, sul fiume Po aveva voce in merito un solo ente: il Magistrato del Po. Oggi, sono 28 diverse amministrazioni, con il gran caos che ne consegue.
Infine, poiché ancora non bastava, ecco spuntare una miriade di fondazioni ed enti – alcune già esistenti, altre creati ex novo – per avere una sorta di “cassa di compensazione” per i “trombati” oppure per parenti, amici, mammasantissima di turno. Tutto ciò, lo possiamo osservare ogni anno nel consueto “assalto alla diligenza” che è la Finanziaria: ridotti al lumicino i provvedimenti d’assistenza sociale, si moltiplicano le “fondazioni” che ricevono denaro, la stampa pagata direttamente dalla politica, ecc.

Si tratta del necessario frutto per nutrire un elettorato fasullo, certo della propria sicurezza sociale soltanto grazie al voto ed all’appoggio politico: anche le famose pensioni d’invalidità, di democrista memoria, sono tornate a crescere.
In fin dei conti, solo 30 italiani su 100 si sono recati, alle ultime elezioni europee, a sorreggere i partiti di governo: sommiamo tutta la Casta con i suoi aggregati (fondazioni, enti inutili, consulenze, ecc) famiglie, parenti ed amici e capiremo che una buona fetta di quei voti sono comprati.
E il lavoro? E i lavoratori?

Il primo passo, sconfitto l’orso sovietico, fu quello di fare man bassa per tutto ciò che c’era d’appetibile: la famosa “riunione” sul Britannia è storia nota, meno le condizioni di quello che fu “appetito”.
La Società Autostrade – finanziata per decenni dall’ANAS, soldi pubblici, di noi tutti – era una fiorente società pubblica: basso indebitamento, occupazione in calo dell’1% l’anno (tessere autostradali al posto degli esattori, poi Telepass), bilancio ampiamente in attivo: passata di mano per un piatto di lenticchie.
La barzelletta che hanno raccontato per decenni fu che lo Stato, in economia, era uno sfracello: difatti, si guardarono bene dal privatizzare ciò che non conveniva o doveva mantenere un ruolo sociale. Oggi, tentano nuovamente la stessa carta, con le continue pressioni per privatizzare Italcanieri, un’azienda pubblica, florida ed in espansione. Zeppa di “posti fissi”, quelli che oggi – 19/10/2009, teniamolo a mente, magari domani cambiano replicante… – piacciono tanto a 3Monti.

Dopo quelle belle trovate – siccome lo Stato s’era privato di fonti di reddito, ed i boiardi di Stato reclamavano ampia “libertà d’impresa” – giunsero gli accordi sindacali del 1993, i quali sancirono anch’essi il principio del “supremo interesse nazionale”.
Il recupero salariale dell’inflazione fu affidato alla cosiddetta “inflazione programmata”, la quale fu una presa per i fondelli come mai se n’erano viste: “programmo” un tasso d’inflazione (lo desumo dalle analisi dei “guru” economici, me lo faccio dire dal Mago di Forcella, lo invento di sana pianta…) e la differenza sarà – in seguito (!) – recuperata. Ovvio che, quel “seguito”, assommava altra inflazione ed altre perdite di valore delle retribuzioni le quali, dalla fine della scala mobile, hanno perduto circa il 30%, forse più, del loro valore reale.
Tutti gli attori di quella sciagurata rapina ai danni dei lavoratori furono sontuosamente premiati: l’artefice (Ciampi) con la Presidenza della Repubblica, mentre quelli che facevano il “palo” (i sindacalisti venduti) con le presidenze di “succosi” enti. Ma non bastava ancora.

Si narra che l’appetito vien mangiando: ecco allora – benedetto da tutti: Treu, Maroni, Bassanini, Sacconi, ecc – il grande escamotage per privare i lavoratori dell’ultimo appiglio che rimaneva loro per mettere insieme il pranzo con la cena: il contratto di lavoro. Entra in scena la “flessibilità”: come?
Si prende un accurato studio sul lavoro svolto da un docente universitario (Biagi), si opera un sapiente “taglia ed incolla” per prendere tutto ciò che può essere favorevole agli imprenditori e s’eliminano tutte le garanzie per i lavoratori. Quando, poi, il professore si lamenta che il suo lavoro è stato stravolto, che non era quello il frutto del suo pensiero, lo si abbandona e gli si toglie la scorta. Lui, ancora si lamenta perché ha ricevuto minacce: a quel punto, delle “provvidenziali” Brigate Rosse lo ammazzano e, quello che è oggi Ministro delle Attività Produttive (Scajola), lo definisce un “rompicoglioni”. In qualsiasi Paese europeo, un simile elemento – dopo un’uscita del genere – non sarebbe mai più entrato in un’aula parlamentare, ma siamo in Italia.
Ha così inizio l’odissea di tanti giovani, i quali non hanno più ferie pagate, accantonamenti pensionistici, liquidazioni: il bello della faccenda è che, sulla carta, questi diritti ancora esistono mentre, nella realtà, sono stati completamente depotenziati. Quale sarà la pensione di un lavoratore a progetto? Ha solo da sperare nell’assegno sociale.
A quel punto, il disegno d’appropriarsi totalmente degli incrementi di produttività era quasi completato: mancavano ancora due tasselli.

Il primo è la necessità di un vasto sottoproletariato, qualcuno che sia ancor più ricattabile e sul quale (possibilmente) scaricare la rabbia e la frustrazione: ecco all’orizzonte le barche dei migranti, i nuovi schiavi non si devono più rastrellare nella savana! Basta dar fuoco alla savana: arrivano da soli!
Nell’agro casertano e nel foggiano, in agricoltura, si sono consumate pagine da piantagione dell’Alabama del secolo scorso, con tanto di guardiani armati. La stampa qualcosa ha riportato[2], ma basta qualche velina, più il solito rumeno delinquente (al pari del delinquente italiano), per saldare tutti i conti. Mica i giornalisti delle testate di regime e delle TV di partito li strapagano per niente.
Una volta trovato qualche milione di capri espiatori, ecco la nuova puntata: bisogna aumentare l’età della pensione! I conti sono in rosso!

In realtà, prima della controriforma Damiano, l’INPS era in attivo per la parte previdenziale di 1 miliardo di euro l’anno, dopo la riforma Damiano (dati 2007) per ben 17 miliardi di euro. Eppure, altre nubi s’addensano sui lavoratori: l’ultima “puntata” del reality pensionistico è stato portare (da oggi al 2018) a 65 anni l’età di pensionamento delle dipendenti pubbliche. Perché solo quelle pubbliche? E’ ovvio che, giuridicamente, non sta in piedi. La risposta di Sacconi (ma…parlerà con Tremonti? Con quale dei replicanti? Boh…) è stata molto interessante e ci apre uno scenario che, per la definizione odierna di “lavoratore”, è quasi un incubo.
«Perché hanno un lavoro sicuro.»
Ora, stabilire che chi ha un lavoro sicuro debba lavorare più di altri ci sembra un poco stiracchiato, giacché – con questa bella uscita – si fa passare il concetto che un lavoro sicuro sia quasi un privilegio. Da oggi, grazie al buon Giulio, sappiamo che è tornato una buona cosa. Ne siamo felici.

Eppure, lavorare semplicemente tutta la vita (se lo si desidera) in un’azienda, non ci sembra chissà quale concessione: milioni d’italiani delle generazioni precedenti l’hanno fatto. Erano anch’essi privilegiati?
Il furbo Sacconi vuole far credere che il lavoro “normale” – quello che tutti dovrebbero avere, perché “giusto”, “coerente” con lo sviluppo infinito della spirale produzione/consumo, utile a mantenere “giovane” il lavoratore perché vive stimoli sempre nuovi, ecc – sia quel claudicare fra un lavoretto di qualche mese ed un “progetto” di settimane. Il tutto, ovviamente, inframmezzato da periodi di disoccupazione: chi non gode di questo trattamento è un privilegiato, e dunque deve pagare dazio. Purtroppo, questa è stata la vulgata imperante fino a ieri, giacché tutti i media e le forze politiche lo sorreggevano, ma da oggi...
La Costituzione Italiana prevede ben altro per il lavoratore, e pare che il buon Giulio – recatosi da Napolitano per altre questioni – ne abbia ricevuto una copia in omaggio e, finalmente, l’abbia letta. Sentitamente, ce ne rallegriamo.
Ecco quel che Tremonti deve aver scoperto:

Art. 35. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la liberta di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.

Art. 36. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa e stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Art. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Art. 38. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera.

A leggere questi articoli, c’è da chiedersi in quale Paese viviamo. Signor Presidente della Repubblica: cos’ha da dire al riguardo dei contratti di flessibilità, con l’art. 36 – “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi” – correlato con gli attuali ritmi del lavoro “flessibile”, nel quale le ferie sono, spesso. semplice disoccupazione?
Signori giudici della Corte Costituzionale, cos’avete da dire riguardo all’art. 38 – “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” – in special modo per chi rimane disoccupato? E ancora, l’art. 35 – “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa” – dov’è finita la dignità di mantenere la propria famiglia con 800 euro il mese?

Adesso, caro Giulio, affermi che “la Costituzione non è stata pienamente applicata”: scusa, da una ventina d’anni a questa parte, dove hai vissuto? E le pensioni?

Le riforme pensionistiche italiane (sempre con la scusa del debito pubblico, da loro creato ad hoc, sul quale campano tutti: politici, imprenditori e banchieri) sono peggiori di quelle francesi e tedesche, le quali hanno sì l’età della pensione a 65 anni, ma sono completamente diverse come impianto generale.
In Francia, ad esempio, si può andare in pensione a 60 anni (uomini e donne) scegliendo un minor assegno, mentre in Germania, chi ha avuto periodi di disoccupazione, può andarci a 61 con una riduzione della prestazione. Ovviamente, queste riduzioni sono calcolate sulle loro retribuzioni, ben diverse dalle nostre.
Qualcuno sa, ad esempio, che la maternità in Europa rientra nel calcolo previdenziale, con la riduzione dell’età pensionabile (in genere, un anno per figlio)? Che in Spagna si va in pensione a 61 anni con 30 anni di contributi?

Porre de iure un numero d’anni di lavoro, altrimenti non si potrà andare in pensione – in Italia! – è una barzelletta: quanti anni di lavoro perso, in nero, con truffe d’ogni genere hanno subito gli italiani? Dopo aver chiuso un occhio su tutte le nefandezze del passato, nel 2007, Damiano pose l’asticella a 37 anni di contribuzione per il 2012. Mettere insieme 37 anni non è proprio da tutti, e così si lavora fino a 65: un bel trucco delle tre carte. Se qualcuno, nel frattempo, crepa è tutto grasso che cola per le loro pensioni da nababbi, maturate in 36 mesi, non anni. Compresa quella di Giulio.
Dunque, privare il lavoratore della possibilità di scegliere – almeno nell’arco 55-65 anni, con diverse opzioni sulla fuoruscita: orario ridotto negli ultimi anni, assegno decurtato, ecc – ci porta fuori dal concetto di previdenza e ci fa entrate in quello di “fine pena”, che ha a che fare più con una condanna penale che con il “lavoro” immaginato dai Costituenti.

Senza quasi rendercene conto, per foraggiare i ceti che li sostengono, ci hanno condannati – tutti – a 37 anni: perché? Non avendo mai affrontato, colpevolmente ed in mala fede, la separazione della previdenza (pensioni) dall’assistenza (ad esempio, la cassa integrazione), è ovvio che nei periodi di “vacche magre” si deve allungare la vita lavorativa per far cassa, da destinare ai miseri sussidi che percepiscono i disoccupati.
Quando, poi, tornano periodi di vacche…diciamo “non fameliche”, perché “grasse”…l’appetito del ceto politico reclama la sua parte, e viene immediatamente compensato trasferendo gli aumenti di produttività al gran calderone della spesa pubblica (soprattutto periferica), mediante la quale – con la consueta pratica tangentizia – campano tutti, imprenditori e politici.
Di là degli aspetti morali o delle pruderie, cos’ha mostrato la vicenda di Berlusconi, delle “escort” e di Tarantini? Che, nel “libro paga” sessuale del faccendiere pugliese della sanità, c’erano tutti: assessori di Vendola compresi. E chi ha pagato migliaia di euro alla D’Addario? Noi, con le nostre tasse: per questa ragione tutti devono essere “soddisfatti”, perché una voce fuori del coro farebbe saltare la baracca.

L’ultimo afflato è quello di legare l’età della pensione all’aspettativa di vita, perché qui s’oltrepassa un altro limite.

"Art. 600 (Riduzione in schiavitù o in servitù):
Chiunque riduce una persona in schiavitù o in servitù è punito con la reclusione da otto a venti anni. Agli effetti della legge penale si intende per schiavitù la condizione di una persona sottoposta, anche solo di fatto, a poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, o vincolata al servizio di una cosa. Agli effetti della legge penale si intende per servitù la condizione di soggezione continuativa di una persona costretta mediante violenza, minaccia o abuso di autorità all'accattonaggio o a rendere prestazioni sessuali o lavorative. La pena è aumentata se i fatti di cui al primo comma sono commessi a danno di minori di anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione".[3]

Riflettiamo un attimo sui termini dell’art. 600: Agli effetti della legge penale si intende per servitù la condizione di soggezione continuativa di una persona costretta mediante…abuso di autorità…a rendere prestazioni…lavorative.
Se in Italia esistesse ancora un sindacato – ossia, se tutte le forze sindacali avessero pari dignità, e non solo la “Triplice” + l’UGL le quali, a parte la CGIL, sono soltanto dei centri servizi e non hanno quasi più seguito sindacale – queste decisioni dovrebbero derivare da accordi stipulati fra le controparti. E non potremmo sostenere quel “abuso di autorità”.
Se, invece, gli accordi sono una truffa, i referendum confermativi pure – al referendum per l’approvazione della “Riforma Damiano” non riuscii a votare, perché aprirono i seggi solo in luoghi “sicuri” – rimane solo l’imposizione de iure, appena camuffata.

Quando il bel faccione di Bonanni compare in televisione – “segretario della CISL” – nella vulgata imperante quello è un segretario sindacale: nel loro database[4] indicano gli iscritti alla CISL nel 2008 in un numero spropositato: 4.427.037. Se fosse vero quel dato, un quarto dei lavoratori dipendenti italiani sarebbero tesserati CISL! Ma chi credono di prendere in giro? Per mettere insieme un simile numero, non basta conteggiare i morti: si deve aggiungere anche il cane del morto!
Se, invece, credete che queste siano balle, guardate i collegamenti in nota su Youtube[5], con una precisazione che riguarda la oramai “nota” imparzialità di questo network: un paio d’anni or sono, erano presenti filmati tratti dalle assemblee interne della FIAT Mirafiori, dove si vedevano i sindacalisti della “Triplice” fuggire dalla presidenza dell’assemblea, incalzati dagli insulti degli operai. Ovviamente, quei filmati sono oggi introvabili, mentre campeggiano decine di filmati “embedded” dei sindacati di regime.

Per il disastro del sindacalismo italiano vale lo stesso discorso fatto per i politici: la grande finanza li ha fatti accomodare nel salotto buono, dove se ne stanno tranquilli e buonini, mentre a prendersi le randellate del liberismo ci vanno altri, quelli che dovrebbero difendere. Stessa cosa per i servizi legali della “Triplice”, che riescono a farti perdere anche le cosiddette “cause vinte in partenza”.
La componente sindacale attiva, oggi in Italia, è rappresentata soltanto da una minoranza della CGIL e, soprattutto, dai COBAS-SdL: l’unica voce che ancora parli il linguaggio dei lavoratori.
Per finire, ricordiamo che Guglielmo Epifani faceva parte della “componente socialista” della CGIL – e lo ha ricordato recentemente Gianni de Michelis “Alla Cgil c’è Epi­fani, che nel PSI è sempre stato alla mia destra, prima demartiniano poi craxiano[6] – accomunandolo per appartenenza politica ad altri “socialisti” dell’epoca: Brunetta, Sacconi, Cicchitto. C’è bisogno d’aggiungere altro? Con quale spirito il buon Epifani affronterà una trattativa, avendo come controparte gli amici di un tempo?

Per queste ragioni, che sono soltanto la somma di combine economico-politiche del medesimo ceto, si calpestano i diritti del lavoratori e la Costituzione – caro Giulio, che oggi cerchi di fare lo gnorri – precipitando chi lavora nell’incubo di chi è oramai senza diritti e senza nessuno che possa farli valere: un servo.
Legando la vita lavorativa all’aspettativa di vita, non apparteniamo più all’universale dei lavoratori – ossia diritti e doveri, codificati ed accettati dalle parti – bensì a quello dei servi, e gli oligarchi potranno (fosse la prima volta, ricordiamo i falsi dati promulgati da Brunetta sulle assenze nel pubblico impiego, smentiti dall’ISTAT stessa) “inciuciare” per bene i dati per farci lavorare quanto desiderano.
Indicare un numero di anni fisso per accedere alla pensione, non tiene in conto le differenze fra gli italiani: c’è chi preferirebbe andarci prima con un assegno minore, chi dopo con più soldi. Da cosa dipende? Da moltissimi fattori: avere oppure no una casa di proprietà, le condizioni di salute, figlio o non figli e di quale età, problemi personali, desideri personali, ecc. In fin dei conti, si riduce la diversità fra gli esseri ad una tabula rasa, nella quale tutti devono scontare la stessa pena. E, non dimentichiamo, con uno sviluppo tecnologico che tende a ridurre fortemente la forza lavoro.
E, questa, in che altro modo si può chiamare se non servitù?

Dopo aver fatto a pezzi anche la Costituzione, c’è stato qualche risultato positivo? Il debito pubblico è tornato a correre (andiamo verso il 120% del PIL), l’industria italiana è a pezzi, manca totalmente la capacità di promuovere la ricerca e l’innovazione – che, ricordiamo, era in gran parte patrimonio delle grandi aziende pubbliche (nomi come Ansaldo e tanti altri non dicono nulla?) – mentre, un Paese di vecchietti al lavoro e di giovani disoccupati, affonda.
La totale acquiescenza ai desideri dei poteri industriali e finanziari, non produce migliorie: sicuri di poter ottenere sempre una “revisione” al peggio degli accordi, gli imprenditori italiani guardano più all’accordo con la Casta politico-sindacale che a cercare nuove vie. In altre parole, invece di percorrere la via dell’innovazione – la quale è praticabile solo con personale di qualità, e dunque ben trattato[7] – scivolano a far concorrenza alla Cina od all’India. Il che, è una battaglia persa dall’inizio: difatti, Francia, Germania, e oggi anche la Spagna, non si curano troppo della concorrenza sui beni di scarso contenuto tecnologico od artistico, bensì cercano nuove vie, ossia vendere bene il primato tecnologico, proprio ai Paesi che producono beni di largo consumo.

La cosiddetta opposizione, poi, sul lavoro – che, ricordiamo, è uno degli aspetti più importanti della vita – ha partorito tanti topolini da riempire una fogna. Nessuno degli “oppositori” si pone il problema di fondo: è possibile pensare ad uno sviluppo sempre in crescita, nei secoli dei secoli? Gli infiniti sono soltanto astratti concetti matematici: nella realtà, le Scienze non ammettono processi infinitamente in crescita, giacché il primo fattore limitante (energia, popolazione, cibo, ecc) fa crollare il castello di carte.
Il problema concettuale che gli eredi del PCI si trovano ad affrontare è la revisione del loro pensiero, che da dogmatico non è mai riuscito a diventare dialettico, aperto alla critica: crollata l’URSS, la “chiesa” sovietica, tutto quello che riguardava quel mondo era da dimenticare. Bisognava, ovviamente, trovare una nuova “chiesa” alla quale appartenere: la trovarono nelle ricette liberiste, che tutti sposano da Vendola a D’Alema, da Ferrero a Bersani.

E, per concludere, vorrei proporre una riflessione ai “sancta sanctorum” del signoraggio come unico male: spero di non scatenare un dogmatismo pari a quello dei sostenitori della “crescita infinita”.
Nessuno nega la truffa sulla moneta e, se qualcuno non la conosce, troverà molti siti[8] che la spiegano (meglio sarebbe leggere ciò che scrisse il prof. Auriti): il problema è un altro.
Stabilito che l’emissione monetaria concede un privilegio, oggi goduto dai banchieri, qualora l’emissione tornasse totalmente allo Stato, esso sarebbe goduto da Berlusconi, Fini, Casini, D’Alema, ecc. Contenti così?
Si porta ad esempio Hitler, che effettivamente riportò la potestà monetaria allo Stato, ma come usò quelle risorse? Qualcuno ricorda, per caso, che condusse la Germania al peggior disastro della sua Storia?

Se il debito pubblico, schizzato alle stelle dopo la riforma regionale, il Britannia, la cessione della Banca d’Italia alle banche private, gli accordi sindacali del 1993, ecc, fosse soltanto un dato economico, potremmo chiederci come risolvere il problema del debito per uscirne definitivamente. In realtà, il debito è stato artatamente creato come una spada di Damocle da presentare, ogni giorno, nel piatto degli italiani. In altre parole, se non ci fosse, lo inventerebbero: l’hanno fatto. E’ un dato politico, non economico.
Nel nome del debito, l’oligarchia riesce a far passare ogni bruttura: possiamo credere che la sanità gratuita degli anni ’70, le pensioni d’anzianità con 35 anni di contributi, l’età pensionabile a 55-60 anni (donne e uomini) dipendessero dall’assenza del debito? E se così fosse, chi ha creato quel debito? Perché?
Qui, bisogna intendersi: nessuno nega che l’espropriazione dell’emissione di moneta abbia creato una voragine, ma la ragione di quella scelta è anzitutto l’arma di ricatto che, nelle generazioni, potranno esercitare sui lavoratori. Perché, ad esempio, non si toccano mai le succose “consulenze”, le missioni di guerra all’estero, gli stanziamenti per le “fondazioni”…e si finisce sempre per limitare il potere d’acquisto dei lavoratori e per togliere loro dei diritti?

Perciò – pur concordando che il problema della moneta esiste, e che deve essere sempre più conosciuto – qualsiasi rivoluzione che ci liberi da questa cappa d’oligarchi non potrà che partire dalla ribellione su due temi convergenti: riportare il lavoro alla sua dignità, sancita dalla Costituzione, e ricondurre i lavoratori alla loro, che significa tornare a sedersi intorno ad un tavolo per avere un rapporto dialettico fra esseri umani, non fra feudatari e servi della gleba. L’alternativa?
Andarsene. Oppure, credere all’ennesimo affabulatore: San Giulio da Sondrio.

Copyright 2009 © Riproduzione vietata, salvo assenso scritto dell'autore da richiedere a info@carlobertani.it

[1] Fonte: http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/economia/occupazione/tremonti-postofisso/tremonti-postofisso.html
[2] Vedi : http://www.peacelink.it/migranti/a/22949.html
[3] Fonte: http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_2_1.wp;jsessionid=3DADEBD010FFA8A602627B6D6A9D3C91.ajpAL01?previsiousPage=mg_1_2&contentId=SAN31048
[4] Fonte: http://www.cisl.it/Sito-Iscritti.nsf/PagineVarie/Iscritti%5E2008R
[5] http://www.youtube.com/watch?v=MbSmaj7qj2Q oppure http://www.youtube.com/watch?v=Fcr6PTqGYJ4
[6] Fonte: http://www.corriere.it/politica/09_settembre_23/demichelis_57f058c4-a803-11de-94a2-00144f02aabc.shtml
[7]Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.” Reinhold Würth, imprenditore tedesco che ha costruito, partendo da una ferramenta, un’azienda di levatura mondiale, che occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari.
[8] Vedi, ad esempio: http://www.signoraggio.com/index2.html

13 ottobre 2009

Vita da banchiere

«Sono spaventoso, Jane?»
«Molto, signore: lo siete sempre stato, e lo sapete.»

Charlotte Brontë – Jane Eyre.

Dobbiamo riconoscere che Mario Draghi ci ha sempre incuriosito, con il suo aplomb decisamente anglosassone, la sua passione per le crociere in compagnia della real casa britannica e la sua ossessione per aumentare l’età pensionabile degli italiani.
Osservando quel viso, quella sfinge sempre ripresa con il medesimo angolo d’osservazione, viene da chiedersi se Mario Draghi esista per davvero o sia soltanto un replicante. Forse, la soluzione non è tanto nella sua natura, quanto nella sua sovrastruttura: è oramai nostra solida convinzione che il viso di Mario Draghi non sia un viso, bensì la replica della Maschera di Ferro, ovviamente ritoccata con i migliori ritrovati di Hollywood.
Ci domandiamo anche se, per caso, gl’abbiano inserito un chip con relativo pulsante di comando – probabilmente dalle parti della nuca: avete mai visto Draghi ripreso di spalle? Eh… – con il quale s’aziona il loop che con voce atona ripete: aumentare l’età pensionabile, aumentare l’età pensionabile, aumentare l’età pensionabile…
Così, non ha più molto senso parlare di “dichiarazioni” od “esternazioni” del nostro Governatore: al massimo, di “compito” o “missione” se si tratta di un replicante, oppure di “manifestazione” se è controllato dall’esterno, mediante il sopraccitato pulsante.
Chi potrà essere il misterioso agente che lo controlla?

Tendiamo sempre di più a pensare che si tratti di una agente, una femmina, poiché solo una buona governante potrebbe far sopravvivere un tal Governatore, privo di qualsivoglia anelito umano e sprovvisto dei comuni mezzi che, i mortali, usano tutti i giorni per arrabattarsi.
Senza una misteriosa replicante di Jane Eyre, appena uscita anch’essa dalle grinfie della temutissima zia, dubitiamo che il nostro pallido Mr. Rochester…pardon, Mario Draghi…sopravivrebbe un sol giorno, dall’alba al tramonto.

Già la mattina, recandosi al bar, avrebbe seri problemi a relazionarsi con il cameriere:
«Un cappuccino ed un cornetto allo zabaione.»
«Spiacente signore, i cornetti allo zabaione sono terminati.»
«Allora, mi dia un caffé ed un cornetto allo zabaione.»
Come per l’ossessione delle pensioni, il povero Mario è impossibilitato a trasgredire il programma che gli è stato inserito – quasi certamente in una discreta Priory delle Midland – e continuerebbe all’infinito. Con ogni probabilità, il pulsante “Abort” è inserito sulla natica sinistra, cosicché la nostra Jane – con una languida pacca, che potrebbe essere avvertita dai più come un trasgressivo messaggio erotico – può disinserire il loop. E gli danno una fetta di panettone.

Ogni tanto, però, siccome il programma non sopporta troppi “Abort” in sequenza – pena il deteriorarsi del software – lo devono condurre in luoghi asettici, accoglienti e privi di pomodori. Da lanciare.
Uno dei compiti della nostra Jane è proprio quello di scovare luoghi sempre nuovi, poiché una reazione non diciamo violenta, ma soltanto normale – della serie: an vedi ‘sto fiio de… – rivelerebbe l’assoluta incapacità relazionale del povero Mario, il quale potrebbe riprendere altri loop a casaccio: cornetto allo zabaione, cornetto allo zabaione, cornetto allo zabaione…mi lasci sul London Bridge, mi lasci sul London Bridge, mi lasci sul London Bridge…
Il problema è serio.

L’ultima esposizione del replicante è avvenuta al (Real) Collegio Carlo Alberto di Torino, poiché la povera Jane tribola sempre di più a scovare luoghi adatti: da fonti attendibili, siamo riusciti a sapere che l’esposizione sarebbe dovuta avvenire presso la sede torinese delle Dame di San Vincenzo. Purtroppo, all’ultimo momento, la presenza di Rosy Bindi – in visita alle consorelle cisalpine – ha costretto Jane a mutare scenario. Troppo pericoloso.
In questi casi, scatta il “Piano B”, che è sempre una sede di provata fiducia: anche perché, data la stagione, i pomodori iniziano a rarefarsi, con le brume mattutine della collina torinese.

Forse il lettore non-piemontese avrà bisogno di qualche chiarimento, d’essere timidamente introdotto in questo ambiente elitario, ove tutto è rimasto come quando “Il Principe” (Umberto) passava da quelle parti, accompagnato dalle note della Marcia Reale.
Purtroppo, pur avendo studiato a Torino, le mie ascendenze non erano tali da consentirmi l’ingresso in quelle sale tappezzate con ricchi broccati, nel luogo dove fu confinato sotto falso nome l’illegittimo figlio di Benito Mussolini e che ancora respira – piano, per favore, non fate rumore – i fasti del tempo.
Non so se lo spadino ancora adorni la divisa dei cadetti del Real Collegio, ma ricordo quei bei giovini in atletiche posture nel tratto di spiaggia, loro riservato, dal Comune di Noli. Giocavano a pallavolo senza nemmeno un urletto, nemmeno “qui”, “mia”: partite silenziose, in perfetto aplomb britannico, un mirabile incrocio araldico fra la Casa Savoia e quella di Windsor. Fu dopo aver visionato un incontro di rugby interno al Collegio – giocato in pigiama e pantofole – che Jane diede l’assenso.

Ci si chiederà chi sia l’estensore del programma che controlla il Governatore: non possiamo, ovviamente, sapere con quale sistema sia stato compilato ma sappiamo che l’algoritmo di riferimento è semplice e sicuramente redatto in lingua inglese.
Ad ogni peggioramento del debito pubblico, per ogni banca che rasenta il fallimento, qualora la bilancia dei pagamenti vada in “rosso” oppure l’umore dei banchieri viri verso il nero, il sistema indirizza automaticamente all’aumento dell’età pensionabile.
Paradossalmente, con l’età pensionabile intorno agli 85 anni – maschi e femmine – il sistema sarebbe in perfetto equilibrio, e potrebbe compensare tutte le follie dei banchieri, degli imprenditori e dei politici: anche quella che, sommando dei debiti, si realizzino ricchezze.
In effetti, con la pensione ad 85 anni, ci sarebbero sufficienti risorse per pagare le pensioni: per questa ragione è stato creato il “sistema Draghi”, per avere un testimonial ineccepibile del perfetto equilibrio fra il sistema bancario, quello economico e quello politico. Ma…fa qualche differenza?

Il problema, che i buoni ingegneri britannici devono ancora risolvere, è come aumentare la memoria residente nel “sistema” Mario Draghi: per ora, nella natica destra sono stati alloggiati 64 GByte. Ulteriori aggiunte nella medesima natica condurrebbero ad un rigonfiamento che gli esteti della comunicazione hanno sconsigliato: ad un occhio attento, potrebbe sembrare che il Gran Governatore della Banca d’Italia porti il pannolone e questo no, è disdicevole, anche se si tratta solo della Banca Centrale dell’unica Repubblica delle Banane europea.
Come già ricordavamo, la natica sinistra è occupata dal pulsante “Abort” – utilissimo, vista l’instabilità del sistema – e per ora, con le poche risorse hardware disponibili, le uniche uscite in programma sono le visite ai Reduci delle Guerre d’Indipendenza, all’Associazione per la Salvaguardia dei fiordi toscani e, più importante, una conferenza rivolta agli Schützen altoatesini. L’unica lingua supportata dal sistema – ricordiamo – è l’italiano.

Qualcuno può essere stato tratto in inganno dalle comparse del “sistema Draghi” al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, oppure all’Aspen Institute: in quelle situazioni, il sistema viene assistito in modalità Wi-Fi con un hard disk esterno. Ovviamente, per supportare quella modalità, le interferenze esterne devono essere pari a zero: avrete certamente notato, in quelle occasioni, l’assenza della fidata Jane.
Nessuno stupore, quindi, se Draghi dovesse comparire a “Porta a Porta” oppure nel TG1 di Minzolini: in quei casi, viene effettuata nientemeno che un’accurata derattizzazione preventiva, per non correre il rischio che qualche topo comunista, squittendo, disturbi la trasmissione.
Speriamo, con queste poche righe, d’aver tranquillizzato i lettori riguardo l’emendamento presentato dal sen. Valditara per anticipare l’età di pensionamento dei docenti di due anni, per il solo 2010, poiché si sono accorti che, allungando la permanenza dei docenti anziani, perdevano il posto i docenti giovani, per i quali era necessario provvedere con forme di sostegno al reddito: insomma, si finiva in una partita di giro e tante chiacchiere inutili.

Quella di Mario Draghi – dormite sonni tranquilli, buona gente – è solo una risposta automatica, come una segreteria telefonica:
«Buon giorno, questa è la segreteria telefonica di Mario Draghi. Il Governatore è oggi assente, poiché s’è dovuto recare urgentemente nelle Midland per un aggiornamento al software. Se siete per un allungamento dell’età pensionabile schiacciate il tasto uno, se desiderate allungare la vostra permanenza al lavoro, premete il tasto due, se dichiarate la vostra disponibilità a lavorare per sempre, schiacciate il tasto tre. Se, invece, desiderate andare in pensione, schiacciatevi le palle.»
E se siete femmine? Jane non ha ancora provveduto.

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

08 ottobre 2009

Scacco matto

La concomitanza della sentenza della Corte Costituzionale e del maxi risarcimento (750 mln) per l’affaire Mondadori, più la presentazione dell’associazione “Italia Futura” di Luca di Montezemolo e, in aggiunta, l’apertura della procedura d’infrazione per l’Italia per deficit eccessivo – che comprende anche altri Paesi, ma che per l’Italia è stata motivata per “problemi strutturali” – non sono certo casuali. E’ uno di quei momenti nei quali la storia gira di boa: solo lo skipper attento se n’avvede.
Il destino di Silvio Berlusconi – delle sue televisioni, delle sue battute e delle sue puttane – francamente, giunti a questo punto, c’appassiona ben poco.
Starà a lui decidere se accettare un compromesso che preveda una clausola di salvaguardia per il suo patrimonio, oppure decidere di salire con Bossi fino alla “Ridotta della Valtellina”.
Rimanendo in metafora, il 7 Ottobre 2009 è paragonabile allo sbarco in Sicilia del 10 Luglio 1943: il 25 Luglio, l’8 Settembre ed il definitivo 25 Aprile furono solo le ovvie conseguenze.

Uscendo di metafora, è oramai chiaro che la parabola di Berlusconi s’avvia al definitivo declino: i prossimi mesi ci riserveranno infiniti tira e molla giudiziari, convocazioni per i processi, opposizioni per “motivi istituzionali” e via discorrendo. Il destino, però, è segnato.
Qualcuno si domanderà quale sia stata la causa scatenante: le puttane d’alto bordo sono sempre esistite, eppure non hanno mai condizionato la vita di un governo. Lo scandalo Profumo? Sì, ma Christine Keeler era molto vicina ai servizi sovietici e nemmeno la Lewinsky riuscì a scalzare Clinton: non ci risulta che la D’Addario sia una “pedina” di chissà quale servizio segreto, tanto meno che lavori per un’opposizione inesistente.
Il problema di Silvio Berlusconi è che la sua condotta morale, il suo agire nel panorama economico ed il suo carattere sbruffone offrono migliaia di pretesti per attaccarlo. Lui stesso, che non lo riconoscerà mai pubblicamente, se ne sarà reso conto.

Dove cercare, allora, le ragioni di questo scacco, il quale avviene con motivazioni che la Corte non prese nemmeno in esame per il precedente “Lodo Schifani”, ossia la non costituzionalità della legge?
Bisogna scendere un poco dai titoli roboanti, da partita di calcio: capire che – in fin dei conti – quel che conta è il denaro, l’economia.
Se la sentenza della Corte ed il risarcimento per il processo Mondadori possono essere circoscritti all’ambito nazionale – sottolineo, possono – la procedura d’infrazione per l’Italia (soprattutto la motivazione) e “l’apertura” di Montezemolo non sono fatti interni.
La famosa “pista inglese”, che portava a Mario Draghi, è svanita poiché Fini ha messo le mani avanti: niente governi tecnici o istituzionali. Dello stesso tenore le dichiarazioni d’altri politici.

Il problema dell’Italia è che, se essa fosse semplicemente la Grecia od il Portogallo, non sarebbe un problema. Ecco ciò che spaventa Bruxelles.
Invece, l’Italia è un grande Paese in Europa, una nazione popolosa con un apparato produttivo diversificato in molti settori: l’industria, però, che non tira più, crisi o non crisi finanziaria, perché “imballata” da troppi anni di non-governo. I “numeri” negativi italiani sono alti ed impressionano poiché non sono stati generati dalla crisi finanziaria internazionale, se non di riflesso, bensì da un andazzo che va avanti da un ventennio e che non riesce a trovare soluzioni.

Silvio Berlusconi s’è sempre piccato (insieme a Bossi) d’essere il paladino della piccola e media impresa, quella che dovrebbe (a dir loro) “resuscitare” l’Italia dallo stato d’abbandono nel quale si trova.
Governi di varia natura hanno messo a disposizione dell’apparato produttivo italiano, polverizzato in mille realtà sul territorio, provvedimenti legislativi da brivido: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anni nei quali è mancata totalmente ogni forma di programmazione economica, vissuti “pericolosamente”, ammettendo l’inammissibile. Tanto per citarne una, lo scempio di una legge (30 o Biagi, come vi pare) che ha consentito d’abbattere i costi della manodopera a livelli di Terzo Mondo. Ha prodotto qualche effetto? Nessuno. Perché?

Poiché l’imprenditoria italiana ha utilizzato quelle norme non per creare imprenditoria d’avanguardia, al fine di trasformare quei posti in lavoro sicuro, bensì per tentare di produrre cinturini per orologi ad un centesimo in meno della Malaysia. Fallendo.
In questo senso, l’Italia sì che s’è staccata dal resto d’Europa, finendo in una deriva che nessuno riesce più a capire: l’istruzione è ridotta a classi di 40 persone – sì, è giusto! – gli infortuni sul lavoro sono uno stillicidio di morti – sì, è normale! – le esportazioni languono: sfiga.

Ovviamente, questo quadro – lo rammento a chi, come chi scrive, crede fermamente che le ricette europee siano soltanto un diverso aspetto del turbo-capitalismo, niente che possa donarci un futuro onorevole – è tutto interno ad un dibattito delle borghesie: noi, i paria, non c’entriamo niente. Saremmo fessi, però, a non mettere questi processi sotto la lente d’ingrandimento, perché ci riguardano.
In quale ottica, allora, dobbiamo considerare “l’uscita” (ampiamente prevista) di Montezemolo: il nuovo Signor Fiat cosa ci vuole raccontare?

Dopo il fallimento della piccola e media impresa, Montezemolo torna sulla scena per riunire il “salotto buono” della grande borghesia, quello che un tempo si radunava sotto le insegne del Partito Liberale.
In buona sostanza, ad un capitalismo bislacco lasciato in mano ad incompetenti, Montezemolo oppone una visione del “futuro” che è nuovamente appannaggio della grande impresa, la sola che può competere negli scenari internazionali poiché ha “fiato” per promuovere la ricerca, ha “tempi” che le consentono la perdita, nell’attesa di tornare a conquistare mercati.
Lo schieramento politico non-berlusconiano (Fini compreso, presente alla presentazione di “Italia Futura”) sembra sposare in toto le prediche di padron FIAT: vai, Luca, mostraci la strada, saremo con te fino alla vittoria! O alla morte.

Sì, perché si tratterà soltanto di un nuovo modo per “adattare” gli schemi berlusconiani – nessun diritto per i lavoratori, chi s’oppone è comunista, chi scrive contro è un “nemico”, ecc – al nuovo scenario: avremo così dei Fini, dei Casini e dei Bersani che ci racconteranno le medesime solfe un’ottava più alte o più basse, a scelta.

La vera riflessione che dovremmo porci è che questo sistema – il capitalismo – non funziona più, perché siamo in grado di produrre ogni bene in quantità incommensurabili, ma non troviamo sufficienti acquirenti.
Ecco, allora, aprirsi la strada della decrescita: produrre quel che serve, riportare indietro l’orologio alle comunità legate da reali vincoli d’appartenenza, senza cedere – parallelamente – ai localismi.
Le sperimentazioni, nel Pianeta, esistono ed hanno dato risultati più che confortanti: auto-produzione d’energia e di prodotti alimentari di qualità, gestione comunitaria dell’educazione, interazione cosciente e consapevole con il territorio.

Queste sarebbero conquiste, veri passi in avanti per tentare di consegnare ai nostri figli un futuro migliore: invece, sembra che il match sia tutto centrato sui processi, sui Galli, sulle parole vuote e sulle puttane.
Osserviamo pure, ma restiamone fuori.
Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

01 ottobre 2009

Il Miglio Verde italiano

Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare.”
Leonardo Sciascia

Per chi è contrario alla pena di morte, è motivo di gioia quando s’accendono le luci del Colosseo, giacché una condanna alla pena capitale è stata trasformata nell’ergastolo, oppure un Paese ha rinunciato ad applicarla.
Ma, nel Belpaese, è stata realmente abolita la pena di morte? Ossia, de iure e de facto? Non ci sembra proprio.
Dal punto di vista giuridico, la pena di morte è stata abolita: dal 1994, anche dal Codice Penale di Guerra. E nella realtà?
Nel terzo d’Italia governato dalle mafie, la pena di morte viene decretata senza troppi ripensamenti; non confondiamo gli ammazzamenti delle mafie come semplici “regolamenti di conti”: per la gran parte, sono decisioni prese da ben definiti consessi.

Le esecuzioni decretate dalle mafie sono state – ad esempio nel periodo 1999-2003, nemmeno fra i più cruenti – 666[1], che significa poco meno di 133 morti l’anno. Sono gli unici?
I morti in carcere nel 2008 sono stati 142[2], un dato vicino alla media dell’ultimo decennio, giacché si va da un minimo di 123 nel 2007 ad un massimo di 177 nel 2001.
Sommando gli uni agli altri, otteniamo la bella cifra di 275 morti: sparati, strangolati, suicidi, “suicidati”.
Se confrontiamo le 5.000 esecuzioni annue cinesi alla popolazione (1,3 miliardi), otteniamo un rapporto di una esecuzione ogni 260.000 abitanti, mentre in Italia (275 contro 60 milioni) siamo ad un rapporto di 1 a 218.000: più “esecuzioni” che in Cina!
E finisce qui? No:

Omicidio Mattei
Strage di Piazza Fontana
Omicidio Mauro De Mauro
Strage di Gioia Tauro
Omicidio Feltrinelli
Strage di Peteano
Strage alla questura di Milano
Strage di Piazza della Loggia
Strage dell'Italicus
Omicidio Pasolini
Strage di Via Fani e omicidio Moro
Omicidio Pecorelli
Strage di Ustica
Strage di Bologna
Omicidio Italo Toni e Graziella De Palo
Omicidio Roberto Calvi
Strage del rapido 904
Strage di Pizzolungo
Omicidio Mauro Rostagno
Attentato dell'Addaura
Strage del Moby Prince
Strage di Capaci
Strage di via d'Amelio
Omicidio Ilaria Alpi[3]

E, questi, sono soltanto quelli più conosciuti giacché riguardarono personaggi noti o perché furono tragedie di notevole dimensione mentre, per quelli “minori”, spesso non si sa nulla. Nella lista, ad esempio, non compaiono quelli impiccati “in ginocchio” – ricordiamo, uno fra i tanti, il colonnello del SISMI Mario Ferraro – ma ce ne sono stati altri. E gli omicidi “strani” e senza colpevoli? L’Olgiata? Il mostro di Firenze? Perché lo Stato uccide senza remore a destra ed a manca? Perché, se si ritiene innocente, non fa nulla?

Non è qui il caso di spilluzzicare sui numeri: le cifre comunicate sulle esecuzioni cinesi potrebbero essere state ridotte per non scatenare la stampa internazionale, mentre parecchi morti delle mafie – per contro – potrebbero non essere stati identificati come tali. Insomma, il dato che c’interessa evidenziare è che lo Stato Italiano, sotto varie forme, commina una quantità di sentenze capitali paragonabile, per numero, a quelle della Cina, considerata la grande “assassina” di Stato.
E non si venga a dire che le morti in carcere sono casuali: negli altri Paesi europei il fenomeno non ha simili riscontri, mentre le “morti di Stato” nemmeno esistono, salvo rari casi.
Per capirne qualcosa di più – chi è lo “stato” che condanna a morte? chi la decide? chi la attua? come? – seguiremo una doppia via: la recente morte di un anarchico calabrese e la vicenda delle navi affondate dalla ‘ndrangheta, perché ci riserveranno, entrambe, delle sorprese.

In morte di Francesco Mastrogiovanni
(e di Federico Aldrovandi, Franco Serantini, Giuseppe Pinelli…)

Non è che tutti i giorni un poliziotto spara e uccide, ma un solo giorno è di troppo. Così come non è un fatto usuale crepare sputando l’anima con i denti, legati mani e piedi (probabilmente con il filo di ferro) ad un letto di contenzione, in una struttura sanitaria pubblica – una di quelle che dovrebbero guarire i poveracci, e non essere usate come lager – nel generale menefreghismo delle vacanze italiote, dove tutto passa in cavalleria nel nome di Santa Grigliata Di Pesce, e benedetto dai Santi Spaghetti Allo Scoglio.
Mentre tutti gozzovigliano – chi nei ristoranti per ricchi, chi nelle baracchette di fronte al mare – si compie l’ennesimo scempio italiota, che ha affondato definitivamente la vita di Francesco Mastrogiovanni, insegnante di 58 anni, dopo che – più volte – già avevano cercato di silurarlo.
La vicenda è stata divulgata solo dalla stampa locale e, soprattutto, sul Web: e, questo, la dice lunga sull’infimo livello toccato dal giornalismo italiano, dal giornalismo d’inchiesta italiano, quello che – oramai – s’occupa solo più di contare con dovizia i “pilu” sparsi nelle ville sarde.

Sono dunque da onorare i giornalisti Antonio Manzo (Il Mattino, edizione di Salerno) e Daniele Nalbone di Liberazione per la carta stampata, poi Doriana Goracci, Sergio Falcone ed il sito Nazione Indiana (ed altri) che ha ripreso la notizia, “catapultandola” sul Web[4] (mi scuso se ho dimenticato qualcuno), mentre sono da precipitare nell’Inferno dei mendaci ben 9 canali televisivi nazionali, più qualche centinaio di TV “libere” che godono soltanto più della libertà di tette e culo, l’unico passepartout che tutte le porte apre nell’italico stivale.
Non ci sarebbe dunque bisogno d’aggiungere altro, se il tempo che scorre – come perfido giardino zeppo d’erbe velenose – non generasse ogni giorno un vomitevole germoglio, da raccogliere con i guanti spessi, per non farsi impestare.

Il nuovo nato viene alla luce nella vicina Calabria, dove il “pentito” Francesco Foti – per motivi che rimangono ignoti – decide di raccontare la verità sugli affondamenti d’almeno una trentina di navi colme di rifiuti tossici – forse radioattivi – colpendo al basso ventre l’ambiente, la salute ed il turismo italiani[5].
Il povero cittadino italiano – ignaro del Mare Nostrum violato come una donna in un androne di periferia, poi avvelenato – si riparava, per quelle vicende, dietro i cadaveri di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, massacrati a Mogadiscio perché avevano scoperto un’autostrada costruita sui bidoni tossici sbarcati dall’Italia, portati là con i “pescherecci” della “cooperazione” italiana: come usare il sacchetto delle elemosine per coprirsi il capo e compiere una rapina. Si credeva al sicuro, il povero italiano, ed affondava la forchetta nel piatto.
Ma cosa c’entrano Francesco Mastrogiovanni – uno stimato maestro elementare – e Francesco Foti, un ex appartenente alle cosche, il quale affondava a colpi di dinamite navi cariche di veleni di fronte alle nostre coste? C’è qualcosa che li lega?
I due non sapevano l’uno dell’esistenza dell’altro, fuor di dubbio, però c’è qualcuno che ha provveduto in qualche modo a riunirli, minuscole pedine da usare, oppure insetti da schiacciare, all’occorrenza, con un distratto movimento del piede. Ma procediamo con ordine: un po’ di cronologia.

Perché muore Francesco Mastogiovanni?
Non ha nessun senso che il sindaco di Pollica/Acciaroli disponga per Mastrogiovanni il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) – per di più psichiatrico! – giustificandolo con una semplice guida contromano in area urbana! Non ci risulta che il Presidente della Regione Liguria – Claudio Burlando – sia stato colpito da identico provvedimento e, si noti, Burlando guidava contromano in un raccordo autostradale! Finì con un buffetto e, se non ci fosse stata la solita rivolta del Web, non gli avrebbero nemmeno comminato la sospensione della patente. Cosa che, per Burlando, non significò nulla: auto blu a gogò.
Anche il presunto tamponamento di ben quattro autovetture – citato per emanare il provvedimento – è alquanto dubbio: l’auto di Mastrogiovanni non presentava nessun danno. Dopo quattro “tamponamenti” contromano? E poi, come si può “tamponare” – a voler spilluzzicare nella lingua italiana – “contromano”? Andava contromano in retromarcia? Mistero.
Eppure, tutto ciò consente al sindaco del comune Pollica/Acciaroli di spiccare un provvedimento per il TSO: probabilmente, il primo cittadino avrà letto la Legge 180/1978 prima di scrivere la condanna a morte per Mastrogiovanni. Resta un dubbio: sarà solo guercio o del tutto orbo?

Legge 180/1978
Art 1
Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.”

Art 2
“(omissis)… la proposta di trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.”

Gli omissis non celano nulla d’importante, e chiunque potrà prendere visione della legge tramite il collegamento in nota[6].
Insomma, secondo il sindaco di Pollica/Acciaroli, Francesco Mastrogiovanni era in condizioni di tale “disperazione psichiatrica” da dover essere urgentemente internato in una struttura ospedaliera.
Tralasciamo una serie di dubbi di natura giuridica – la extraterritorialità del provvedimento? la certificazione medica richiesta per simili atti, c’è stata? la conferma dell’urgente necessità di ricovero, che per legge deve essere prodotta dalla struttura ospitante, è stata consegnata? la “scomparsa” delle misure di contenzione dalla cartella clinica, accertate dall’autopsia (legacci ai polsi ed alle caviglie), ecc…poiché ci rammentano lontani deja vu, con Franco Serantini che agonizza per quattro giorni nel carcere di Pisa… – ma ci fermiamo qui, poiché c’è un’inchiesta in corso, ed un magistrato ci sta lavorando.

Noi, però, visto che desideriamo appoggiare il magistrato nella sua ricerca della verità, non molleremo, ed iniziamo col dire che Francesco Mastrogiovanni – nella sua “disperazione psichiatrica” – s’era recato tranquillamente al mare, presso un campeggio a Castelnuovo Cilento, dove aveva preso in affitto un piccolo appartamento.
Comportamento ben strano – dobbiamo riconoscerlo – per una persona giudicata, oramai, non più in grado di “intendere e volere”, come dovrebbe essere quella che riceve un tale, gravissimo provvedimento. No: fino all’arrivo dei Carabinieri, con tanto di “rastrellamento” a terra e motovedetta a mare, Francesco Mastrogiovanni fa i bagni e prende il sole.
Ma – difficile capire il motivo – un sindaco lo giudica così pericoloso per sé e per gli altri da inviare i Carabinieri in quel camping, per far eseguire un atto che è in sé terribile, e che la legge permette solo in casi d’evidentissima ed urgente gravità.

Vennero in sella due gendarmi, vennero in sella con le armi…[7]” verrebbe da dire, e giungono sotto forma di auto e motovedette dei Carabinieri.
Alla vista dei Carabinieri, Mastrogiovanni scappa ingenuamente in mare: là, dalla motovedetta, l’altoparlante avverte i bagnanti allibiti «Operazione di polizia, cattura di ricercato in corso.» Manco si trattasse di Al Capone. Perché scappa?
Poiché Mastrogiovanni è stato perseguitato dallo Stato più volte: nel 1999 per “resistenza a pubblico ufficiale”. Motivo? Aveva contestato una multa. Ovviamente, tutti quelli che contestano una multa – avrà forse anche alzato la voce, ma chi lo conosce afferma che era un tipo tranquillo, per niente violento – vengono arrestati per resistenza a pubblico ufficiale, condannati e schiaffati in galera. Condannato a tre anni senza la condizionale: sembra incredibile, ma le cose stanno proprio così.
Come nelle vicende epiche, un dio bonario assume le forme di un magistrato d’appello di Salerno e, in seconda istanza, Mastrogiovanni viene assolto con tanto di scuse: lo Stato viene addirittura condannato a rifondere un risarcimento per il periodo trascorso in carcere.
Ma perché – chiederete voi – così tanto accanimento?

Poiché Mastrogiovanni aveva già avuto a che fare con la giustizia, in un Paese nel quale – se capiti fra le grinfie della legge, e qui lo ricordo ai tanti che parteggiano tout court “per i giudici” – la cosa più sensata che puoi fare è scappare. Lo affermano noti penalisti:

«Soltanto chi e' innocente deve avere paura della giustizia: vero o falso?» Rispondono due “principi” del foro. Domenico Pisapia: «E' vero. Ma aggiungerei: non soltanto l' innocente». Vincenzo Siniscalchi: «La frase più giusta è questa: un innocente deve avere paura della giustizia.[8]»

Se lo dicono loro…

La sera del 7 Luglio del 1972, Francesco Mastrogiovanni passeggia per Salerno in compagnia di Giovanni Marini ed altri anarchici. Vengono dapprima provocati e poi aggrediti da un gruppo di neofascisti, capeggiati da Carlo Falvella: nasce una breve colluttazione, nella quale Mastrogiovanni viene ferito ad una gamba con una coltellata. Il coltello, però, rimane infitto nell’arto: Giovanni Marini lo raccoglie ed uccide Falvella.
Al processo viene riconosciuta l’innocenza di Mastrogiovanni, mentre Marini è condannato a 12 anni (9 scontati) che gli segneranno la vita. Morirà nel 2001, dopo un calvario trascorso nei penitenziari italiani[9].
Perché Mastrogiovanni viene aggredito? In realtà, Mastrogiovanni è sfortunato – è solo Patroclo finito in mezzo alla bega fra Achille ed Agamennone, e ne seguirà il destino molti anni dopo – poiché l’obiettivo dei neofascisti non è lui, bensì Marini. Perché Favella e gli altri sono così determinati ad offendere, spaventare, forse deliberatamente uccidere Marini?
Poiché il gioco delle parti c’oscura il vero ruolo dei protagonisti: Giovanni Marini è un antesignano della controinformazione, mentre Favella (o chi per esso) non è un semplice “neofascista”, bensì qualcuno che probabilmente lavora per il “re di Prussia”, come capiremo dal seguito della vicenda.

A quel tempo, Giovanni Marini stava lavorando per ricostruire un evento fra i tanti di quegli anni bellissimi e terribili: la vicenda di cinque giovani partiti dalla Calabria con una Mini Morris e mai giunti a Roma, loro meta. Soprattutto, mai giunse a Roma il risultato delle indagini che avevano svolto sulla rivolta di Reggio Calabria, il cosiddetto “boia chi molla”.
Se fossimo superficiali, potremmo concludere che i cinque giovani – Gianni Aricò, Annalise Borth (moglie di Aricò), Angelo Casile, Franco Scordo e Luigi Lo Celso – siano state vittime del clima di scontro fra diversi estremismi, come sarebbe successo più volte negli anni a seguire.
Chi conserva invece un minimo di memoria storica, ricorderà che il 1970 non fu ancora un “anno di piombo”: la mattanza fra estremisti di destra e di sinistra iniziò qualche anno più tardi: Lo Russo e Giorgiana Masi morirono nel 1977, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta nel 1978.
La questione è spinosa – sono il primo a riconoscerlo – però anche gli storici tendono a suddividere quel periodo in una prima fase (o dello “stragismo”) ed in una seconda che potremmo definire, semplificando molto, di scontri fra opposte fazioni (BR, NAR, ecc)[10].
Sta di fatto che, nel 1970, non s’era ancora instaurato quel clima di “caccia all’uomo” che poi degenerò negli anni seguenti: insomma, cazzotti sì, ma non erano ancora saltate fuori le pistole. E, soprattutto, quell’omicidio non ha i connotati dello scontro fra opposte fazioni: è roba di Stato.

Sarebbe lungo e non è questa la sede per approfondire il fenomeno della rivolta di Reggio Calabria di quegli anni: chi non la conosce e vorrà investigare, troverà il collegamento in nota[11].
Più interessante, invece, indagare sull’attività dei cinque anarchici – chiamati il “Circolo della Baracca”, dal luogo dove si riunivano, una sorta di centro sociale ante litteram – perché erano straordinariamente all’avanguardia nel loro lavoro d’informazione. Avevano acquistato una fotocamera sofisticata (probabilmente una reflex, rare e costose all’epoca) ma, soprattutto, avevano capito che il coacervo d’interessi che si nascondevano dietro il “boia chi molla” non si portava alla luce con le botte e gli scontri, bensì con un paziente collage fatto di dati, personaggi, situazioni, prove.
Cosa potevano aver scoperto?

Che spezzoni del neofascismo dell’epoca erano coinvolti nei fatti di Reggio? Acqua calda. Che la ‘ndrangheta ci marciasse? Acqua tiepida, tanto che la “rivolta” s’acquietò quando furono promessi soldi e investimenti (mai realizzati), ossia il centro siderurgico di Gioia Tauro e la SIR di Rovelli, una vicenda che giunge fino ad oggi[12].
E se avessero scoperto non dei mammasantissima e nemmeno degli uomini coi gagliardetti neri, ma che pezzi dello Stato – proprio dei dipendenti dello Stato – tramavano con le cosche? Se in quelle immagini fossero rimasti immortalati – a guidare cortei fra le barricate – “pezzi” dello Stato, uomini dei servizi?
Oggi è facile dirlo, ma siamo nel 2009, mille cose ci sono state raccontate da Saviano e da altri: e nel 1970? Che la mafia difendesse gli interessi agrari, oppure qualche traffico sporco…sì, ci stava…ma nessuno poteva – allora – immaginare lo stretto connubio che oggi è sotto i nostri occhi.
Se ci fu una ragione per far fuori deliberatamente – con l’intervento sul posto della squadra politica romana! – quei cinque ragazzi, non potevano essere bazzecole, perché non ci si scomoda così tanto per poco, e la mafia sa risparmiare anche le pallottole e l’esplosivo, quando occorre.
Qualcuno, però, forse meditava di tornare su quella vicenda, come Marini nel 1972, oppure (come Mastrogiovanni) era l’ultimo anello di una catena ancor vibrante: la mafia, in questi casi, vuole essere certa della sua intangibilità, e non lesina pallottole, esplosivo e Trattamenti Sanitari Obbligatori.

Se una ragione c’è stata – e deve esserci stata – per assassinare in un modo così brutale ed istituzionale Mastrogiovanni, deve essere stata qualcosa d’importante: vendette personali, acrimonia politica ed altro non reggono quando s’uccide tramite le istituzioni. In caso contrario, potremmo solo affermare che il sindaco di Pollica/Acciaroli ed i medici dell’ospedale di Vallo di Lucania siano dei folli – loro sì, da internare con un TSO – e dovremmo concludere che le istituzioni sono presidiate da folli sanguinari.
Riflettiamo che il sindaco Pollica/Acciaroli, nell’ordinare quel TSO, si prende una bella gatta da pelare. I “sanitari” – ci schifa non virgolettare il termine – di Vallo di Lucania s’assumono una bella responsabilità quando lasciano morire Mastrogiovanni lentamente, per quattro lunghissimi giorni, imprigionato nel letto di contenzione, fin quando non esala l’ultimo respiro.
E’ una morte istituzionale, avvenuta in una struttura pubblica: lo stato italiano, che non è attrezzato per iniezioni letali, si prodiga in questo modo. Il nostro “miglio verde” è ben nascosto, ma esiste: quanti l’hanno già percorso?

C’è quasi una ritualità nella morte di Mastrogiovanni, al punto che lui già sembra capirlo quando lo arrestano, quella mattina di fine Luglio 2009 nel campeggio: «Se mi portano a Vallo di Lucania» confida ad un’amica, prima di salire in ambulanza «non ne esco vivo.» Perché Mastrogiovanni ha quella convinzione? Solo perché è depresso (tutto da dimostrare)?
Mastrogiovanni è l’ultima pietra miliare di un strada che parte da lontano: anche la morte dei cinque anarchici calabresi doveva essere terribilmente importante (come per il tentato omicidio di Marini), da eseguire subito, al punto che – per quello che fu definito un semplice incidente stradale – dieci minuti dopo erano già presenti presso Ferentino, a 60 Km da Roma, uomini della squadra politica della Questura di Roma.
I quali, non sono stupiti che i due camionisti coinvolti nell’incidente siano alle dipendenze del “principe” Junio Valerio Borghese – altra “anima nera” di Reggio Calabria – e che l’auto dei giovani, che ufficialmente ha “tamponato” il camion, non sia rimasta incastrata sotto il rimorchio il quale – miracolo italiano – ha i fanali posteriori intatti, mentre presenta danni alla fiancata.

La vicenda viene immediatamente chiusa – ovvio, un semplice incidente – ma la documentazione che i giovani dovevano urgentemente consegnare all’avv. Eduardo Di Giovanni – coautore de “La strage di Stato”[13] – non verrà più ritrovata. Documenti che ci avrebbe fatto fare, probabilmente, un passo enorme, considerando gli anni che ci abbiamo messo dopo per iniziare a capirci qualcosa.
Di più: qualcuno telefona dalla squadra politica di Roma (un amico? un parente?), la sera precedente e chiama a casa di Lo Celso, avvertendo il padre di “non far partire, il giorno seguente, il figlio per Roma[14].
Se i sospetti fossero solo quelli riguardanti l’attentato al treno Palermo-Torino del 22 Luglio 1970 (6 morti e 66 feriti), probabilmente lo Stato non avrebbe colpito così duro: Marini condannato ad una pena esemplare, nonostante fosse stata legittima difesa, i cinque ragazzi ammazzati mediante un falso incidente, Mastrogiovanni condotto a morire a Vallo di Lucania. Probabilmente, c’è dell’altro.
Torniamo indietro di pochi mesi: la sera del 12 Dicembre del 1969, scoppiano le bombe a Piazza Fontana.

Per l’Italia è una mazzata senza precedenti, una sorta di “9/11” ante litteram: ancora ricordo lo sgomento diffuso, i punti interrogativi che veleggiavano sui visi della gente.
La storia è nota e non è il caso di riproporla: chi vorrà, potrà prenderne visione dal documento riportato in nota[15].
Ciò che risulta interessante è che, dopo la scarcerazione di Valpreda e la scoperta della cosiddetta “pista nera” (per inciso, i cinque anarchici calabresi s’occuparono anche della vicenda Valpreda), entra in scena un personaggio che c’entra poco con la “cellula” veneta di Freda e Ventura: Guido Giannettini.
Personaggio apparentemente di secondo piano, Giannettini è una sorta di “Travèt” dei servizi, un “tuttofare”, come vedremo in seguito. E, appena la “pista nera” prende forma, il processo viene spostato a Catanzaro.
Finché l’imputato è Valpreda, il processo può rimanere a Milano: quando entrano in scena Freda e Ventura (e, soprattutto, Giannettini), deve “migrare” (come il parallelo processo per le bombe di Roma). Potevano trasferirlo a Teramo, Aosta o Brindisi e invece no: il processo (che, per inciso, terminerà in una palude senza fine né costrutto) viene condotto proprio a Catanzaro, Calabria, dove s’è appena spenta l’eco dei roghi di Reggio!
La vicenda di Piazza Fontana continua a lasciare vittime nel “Miglio Verde” italiano: l’ultima ad occuparsene, pochi anni or sono, è il GIP di Milano Clementina Forleo, la quale rinvia a giudizio Delfo Zorzi (protetto e “blindato” in Giappone) ed ottiene la sua condanna all’ergastolo, poi vanificata dall’assoluzione in Appello.
Ma, il 28 agosto 2005, i genitori di Clementina Forleo muoiono in uno strano incidente automobilistico, che la Forleo stessa è obbligata a riconoscere – obtorto collo? – come “fortuito”, quando aveva, invece, ricevuto precise minacce ed avvertimenti, come potrete leggere nelle note[16]. Altri due innocenti finiti nel “Miglio “Verde”?
Il 3 Maggio dello stesso anno, la Corte di Cassazione aveva definitivamente confermato l’assoluzione per Zorzi e per gli altri imputati. Solo l’affair delle scalate bancarie? Può essere, ma non tralasciamo il resto.

Non vorremmo scatenare antiche rivalità fra “rossi” e “neri”, poiché siamo stati tutti presi sonoramente per il sedere, di là delle nostre idee politiche. La vicenda dello stragismo che parte da Piazza Fontana è soltanto un gioco delle parti, nelle quali i primattori sembrano avere sempre valenza politica, mentre i gran suggeritori sono sempre legati ai servizi: il ruolo è ricoperto da Mario Merlino per la pista anarchica e da Guido Giannettini per la pista nera. Ed è di Giannettini (e di qualche altro) che ci sembra opportuno occuparci.

Dietro ad ogni scemo c’è un villaggio

Prendiamo a prestito a sproposito il sottotitolo della canzone di De André – Il Matto – presentandolo quasi come un ossimoro, giacché in ogni “villaggio” italiano della recente storia – gli omicidi eccellenti, gli attentati, fino al recente sfregio delle navi affondate – c’è sempre uno “scemo”, che scemo non è. Anzi, tutt’altro.
Dietro a tutta la vicenda di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, s’agita un personaggio che definire “inquietante” è fare uno sberleffo ad Edgar Allan Poe: Giancarlo Marocchino.
Elemento che sembra uscire più da un romanzo di spionaggio che dalla realtà, Giancarlo Marocchino trascorre gran parte della sua vita in Somalia. Cosa fa? L’imprenditore. Quali sono le “imprese” che si possono intraprendere dapprima nella Somalia di Siad Barre, poi nel terrificante tourbillon della guerra civile?
Ufficialmente, Marocchino gestisce qualcosa nel porto di Mogadiscio, ma è veramente difficile stabilire cosa. Per sua ammissione, dovrebbe essere una sorta di spedizioniere, un factotum del porto: carico, scarico, tutto sembra pendere dalle labbra di Marocchino.
Giancarlo Marocchino diventa famoso dopo l’omicidio dei due giornalisti italiani: per qualcuno è un angelo, per altri un demonio.
Ascoltiamo cosa racconta, alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, Antonietta Motta Donadio, dirigente della DIGOS di Udine, citando confidenze raccolte da un testimone attendibile, “coperto” dalla stessa Donadio grazie all’art. 203 del Codice di Procedura Penale, per salvaguardarne l’incolumità:

riuscimmo a definire esattamente il quadro dell'omicidio, individuando addirittura gli esecutori materiali, con nomi e cognomi, accertammo che si trattava di un gruppo di fuoco di sette persone che erano state portate sul luogo dell'eccidio da Giancarlo Marocchino, che nell'abitazione di Ali Madi e Moussa Bogor, che era sultano di Bosaso, il capo della polizia somala, tale Gilao e Marocchino, erano state individuate queste sette persone ed erano state portate sul luogo dell'eccidio dallo stesso Marocchino, che poi si allontanò; ritornò dopo che la giornalista e l'operatore erano stati uccisi ed aveva strappato dal block notes di Ilaria Alpi tre foglietti scritti che erano stati poi consegnati a Mugne e successivamente ad Ali Madi.[17]

Giancarlo Marocchino sembra sapere tutto, riporta addirittura in Italia l’autovettura dove trovarono la morte i due giornalisti, e si dichiara sempre innocente. Durante l’ennesima convocazione in Commissione Parlamentare (Presidente Carlo Taormina), Marocchino si lascia scappare che “Avvertì il Sis…” del pericolo di un attentato contro giornalisti italiani, poi gli ufficiali italiani a Mogadiscio. Gli unici che non furono avvertiti furono le due vittime.
Antonietta Motta Donadio, dopo quelle rivelazioni, fu accusata di aver gestito “male” la sua fonte e fu trasferita dal suo incarico.

Sempre e solo “faccende”

Mi sono sempre chiesto perché in Italia non esista un apposito corso di laurea in “Faccendierato”, con relativo Master in “Faccende internazionali dubbie, sporche e da occultare”. Eh sì, perché da decenni sembra che, fare il “faccendiere”, sia la professione più remunerativa. Schiere di personaggi esercitano questa professione con successo: perché non conferire loro ufficialmente il titolo che ben meritano?
Uno di questi faccendieri, affaccendato in faccende che trasudano rifiuti e robaccia nucleare, è Giorgio Comerio. Anch’egli con una biografia pressoché anonima, fonda e gestisce “società” che hanno come obiettivo “smaltire” residui tossici: il nostro, vuole specializzarsi nel nucleare.
Pensa così, per risolvere il problema, di sistemare i rifiuti radioattivi in capaci “siluri”[18] che penetrano nel fondale marino e sono garantiti per 1.500 anni. Ossia, per 1.500 anni non rilasceranno sostanze radioattive: e dopo 1.500 anni? Cavolacci loro.
Ovviamente, sul fatto che viene indagato per queste faccende, Comerio minimizza e nicchia: ecco come si esprime in un’intervista a Panorama Economy nel 2004[19]:

D) Il suo nome uscì per la prima volta nel 1995, quando Greenpeace denunciò che la sua società, la ODM, voleva seppellire scorie nucleari in Sud Africa violando le convenzioni internazionali.
Comerio: La questione ODM è sempre stata una bufala pompata da Greenpeace alla ricerca di pubblicità e di argomenti contro il nucleare. Bisognava fare notizia. Il primo articolo apparve sul settimanale Cuore, «infartatosi» qualche anno dopo, e fu ripreso dalla stampa nazionale.

Siccome seguiamo il vecchio adagio che recita “le parole sono pietre”, ci ha subito incuriosito quel termine – infartatosi – poiché ci conduce dritti dritti ad un’altra vicenda, quella della Jolly Rosso, arenatasi sulle coste calabre il 14 Dicembre del 1990.
Nella plancia della Jolly Rosso furono ritrovati documenti che conducevano proprio a Comerio, ma fu prontamente chiamata un’impresa “di pulizie” olandese che provvide a…a che cosa? Nessuno sa cosa fecero gli olandesi, e la nave rimase a poche centinaia di metri dalla costa ancora parecchio.
Chi invece si “infartò” veramente – e questo getta una luce sinistra sul termine usato da Comerio nell’intervista (perché proprio quello? Attenzione: questa è gente che non parla a vanvera e concede interviste solo per avvisare “per interposta persona”) – fu il Capitano di Fregata Natale De Grazia, l’uomo che seguiva come un segugio le tracce di 180 navi “scomparse” nei Sette Mari.
Purtroppo…quando si dice la sfiga…Natale De Grazia partì un bel mattino da Reggio Calabria per recarsi a La Spezia – dove ha sede l’Archivio Storico della Marina (e per interrogare l’equipaggio della Jolly Rosso) – e chiarire una volta per tutte la storia di quel naviglio…a Nocera Inferiore bevve un caffé, mangiò un dolce è morì d’infarto!
Tutti possono morire d’infarto, ma non tutti – dopo un infarto – ricevono la Medaglia d’Oro al merito dal Presidente della Repubblica (Ciampi), soprattutto se la motivazione è a dir poco “sinistra”:

Il Capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della Procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina Militare Italiana.[20]

Certo…il senso del dovere, la professionalità…però non è che le medaglie d’oro si concedano tutti i giorni, soprattutto per simili motivazioni. Ecco, di fronte allo strapotere delle mafie, l’unica cosa che può fare un Presidente della Repubblica, Capo Supremo delle Forze Armate (sic!): virgolettare “Arresto cardio-circolatorio”. Capito?

Un signorino per bene, innamorato dei colonnelli greci e dei carri armati

Stupisce che su Guido Giannettini, personaggio di spicco nella strategia della tensione, non esista una pagina in italiano su Wikipedia. Che strano, esiste persino su Flavio Briatore. Sarà per la scarsa propensione anglofona degli italiani.
Esiste però nell’edizione inglese[21], ed in quelle poche righe c’è un condensato di storia: tutta la storia, nascosta, degli intrighi internazionali del Secondo Novecento.
Eppure, nella vulgata imperante, Giannettini è considerato un povero Travèt dei servizi, uno che avvisava se qualcuno meditava di fare scritte sui muri o, al massimo, far scoppiare un petardo da qualche parte.
Tutti i maggiori responsabili della strategia della tensione, ma anche le storie d’imprenditoria “vigliacca”, hanno invece a che fare con lui: chi lo conobbe? Chi se ne servì? Chi lo aiuto? Presto detto.
Andreotti, Pecorelli, Ciarrapico, Aloia, Miceli[22]…la lista potrebbe continuare a lungo.
E’ così “insignificante”, il Giannettini, che quando l’Esercito Italiano deve provvedere alla sostituzione dei suoi mezzi corazzati, nel 1966, nella delegazione che va in Germania a visionare i carri armati Leopard1 c’è anche lui, il “Travèt” dei servizi. Un affare colossale per l’epoca. Eppure, tutti fanno finta di non ricordarlo: Giannettini, dopo la vicenda di Piazza Fontana, sparisce? Dopo la fuga in Francia ed in Argentina, va in pensione a coltivare prezzemolo?

Tutto ruota, e ritorna

Il pentito Valentino Foti, l’uomo che ha squarciato il velo d’omertà sulle navi cariche di rifiuti ed affondate nei mari italiani, ha anche chiarito quali erano i metodi utilizzati. Pressappochismo? Dilettantismo? Forse, nella gestione degli affondamenti.
Per quanto riguarda la gestione del traffico, invece, sembra un orologio svizzero: tutto concordato, pianificato con incontri fra lui ed esponenti dei servizi segreti, rapporti che Foti aveva coltivato sin dagli anni ’70, quando in Calabria imperava il “boia chi molla” e lui era già più che ventenne. Che caso.
Chi sono i suoi referenti? Ascoltiamolo[23]:

Funzionava così: l’agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all’hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: “Sono Ciccio e devo parlare con Pino? Poi venivo chiamato al numero dell’albergo, e avveniva l’incontro.”

Chi è l’agente “Pino”, questa persona senza volto che gli comunica quando sarà pronta la nave, che prende accordi per il pagamento…insomma, la lucida mente – a questo punto possiamo affermare “dello Stato” – che è in comunicazione con le cosche calabresi? Lo confessa, candidamente, lo stesso Foti:

Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all’indietro, presentatomi nella capitale da Guido Giannettini…”

Non possiamo, per concludere, che ricordare le parole – anzi, i versi – di Pino Corrias[24]:

Tutte le schegge di questa storia – “dopo che le vetrine gonfiandosi esplosero" – sono rifluite sui marciapiedi del tempo. Ma il lampo che ne scaturì ancora ci riguarda. E' sempre posteggiato lì, nell'anello che fa da spartitraffico lungo le molte traiettorie di questa piazza milanese e i sotterranei della Repubblica.”

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

[1] Fonte : http://www.antimafiaduemila.com/content/view/4698/78/
[2] Fonte : http://www.ristretti.it/
[3] Fonte: http://paolofranceschetti.blogspot.com/2009/04/delitto-di-stato.html
[4] Vedi : http://www.nazioneindiana.com/2009/08/19/morte-occidentale-di-un-anarchico-2/
[5] Vedi : http://carlobertani.blogspot.com/2009/09/fottuti.html
[6] Fonte : http://www.tutori.it/L180_78.html
[7] Fabrizio de André – Il Pescatore.
[8] Fonte : http://archiviostorico.corriere.it/1992/novembre/28/innocente_giustizia_primo_scappare_secondo_co_0_92112812165.shtml
[9] Per approfondire: http://www.socialismolibertario.it/marini.htm
[10] Vedi : http://it.wikipedia.org/wiki/Anni_di_piombo
[11] Vedi : http://it.wikipedia.org/wiki/Fatti_di_Reggio
[12] Vedi : http://www.repubblica.it/2006/04/sezioni/cronaca/imi-sir/tappe-imi/tappe-imi.html
[13] Per chi vorrà approfondire: http://www.uonna.it/libro.htm
[14] Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Anarchici_della_Baracca
[15] Vedi: http://www.archivio900.it/it/documenti/doc.aspx?id=30
[16] Vedi: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=14651 e http://blogs.it/0100206/categories/openWorld/2008/01/11.html#a7470
[17] Fonte: http://www.ilariaalpi.it/index.php?id_sezione=2&id_notizia=1129
[18] Fonte: http://www.zonanucleare.com/tecnologie_sperimentali_progetti_alternativi_smaltimento/A_fondali_oceanici_odm.htm
[19] Fonte: http://www.zonanucleare.com/dossier_italia/navi_affondate_rifiuti_radioattivi/H_intervista_panorama_economy_comerio.htm
[20] Fonte: http://www.facebook.com/topic.php?uid=103656166686&topic=9790
[21] Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Guido_Giannettini
[22] Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/09/ho-affondato-tre-navi-veleni.shtml?uuid=6c2e45b0-a391-11de-9cb7-ea7a81dfc3bd&DocRulesView=Libero
[23] Fonte : http://www.calabrianotizie.it/2009/09/18/complotto-sotto-il-mare-rifiuti-tossici-inabissati-in-mare-con-coperture-eccellenti-in-un-giro-di-auto-diplomatiche-e-soldi-in-svizzera-le-nuove-rivelazioni-del-pentito-della-ndrangheta-che-ha/
[24] Fonte: http://cicciobandini.splinder.com/archive/2006-04