31 gennaio 2017

Reddito di cittadinanza: se ne parla oramai ovunque, ma...(prima parte)


Ogni volta che qualcuno dice di non credere alle fate, una Fata muore.”
James Matthew Barrie – Peter Pan – 1902

Se ne parla, si scrive, si dibatte, si litiga...ma ciascuno per proprio conto, avendo un’idea del reddito di cittadinanza diversa dagli altri, senza una vera base sulla quale confrontarsi.
Cercherò, se ne sarò in grado, di fornire qualche indicazione in merito avendo come “faro” per questa analisi gli scritti di Domenico de Simone e le analisi del prof. Fumagalli dell’Università di Pavia. Gli unici, a mio avviso, ad aver centrato in pieno il problema, ossia che non si tratta di creare un nuovo assegno di disoccupazione, né una pensione riveduta e corretta.
Per questa ragione, partiamo da lontano.

Qualche riferimento storico

Se spiccassimo un salto nella Mezzaluna Fertile – circa 10.000 anni or sono – siamo certi di quel che incontreremmo: una albero di mele, selvatiche, poiché all’epoca non esisteva ancora la tecnica degli innesti.
C’erano, anzi, più alberi di mele...e poi pere, susine, ciliegie...e tutto il resto, che era a disposizione di chiunque le raccogliesse: forse c’era una rudimentale forma di proprietà? Non importa, perché gli alberi di mele (o simili) abbondavano, ed erano superiori alle possibilità umane di raccolta. Quando non lo furono più, si meditò come migliorarle: secondo Jared Diamond – Armi, acciaio e malattie – i primordi delle tecniche di miglioramento genetico presero vita nei cessi a cielo aperto dei villaggi. Ognuno cercava, per sé, i migliori frutti, le più rigogliose piantine da trapiantare: ecco la prima base della selezione genetica. In ogni modo, era disponibile un patrimonio di frutti per puro diritto di nascita: bastava raccoglierli.

Saltiamo a piè pari qualche millennio ed atterriamo nelle Pianure Centrali nord-americane nell’anno 1.500 D.C., cosa troviamo? Un popolo, i Nativi, che cacciano il bisonte a piedi (il cavallo fu introdotto, anzi, probabilmente re-introdotto, dagli europei) con l’arco e raccolgono verdure e frutta selvatiche. Una bella fatica, certo, ma le risorse erano a disposizione di tutti e superiori al possibile consumo.

Di qua dell’Atlantico, invece, i contadini potevano servirsi delle terre comuni, dove raccogliere verdure selvatiche, frutta, miele selvatico, funghi e legna. Al tempo del leggendario Robin Hood, ad esempio, i ribelli (veri) s’installarono proprio nelle terre comuni, che i feudatari dell’epoca non potevano controllare per mancanza...di controllori!
Appena la nobiltà si riorganizzò – siamo sotto Luigi XIV – presero il via le cartolarizzazioni, vale a dire la compravendita di patenti di nobiltà sulla base di cessione (vere o presunte) di terre: è facilmente comprensibile dove i feudatari andarono a scovare nuovi territori – le nuove colonie erano ancora lontane – ossia nelle terre comuni. Fine della proprietà comune di terre e beni agricoli: circa 4 secoli or sono. Le terre comuni furono lo stesso denominatore per le rivoluzioni inglese e francese.

Da quel momento in poi, ogni forma di proprietà comune è stata perseguitata e/o derisa: da ultimo, abbiamo subito un furto colossale, che ha riguardato le cosiddette “privatizzazioni”, ossia centinaia di miliardi di euro rapinati alla proprietà industriale pubblica e finiti in mano private. La crisi economica? Cercate (anche) da quelle parti (1).

Oggi, non è più possibile avere proprietà che non appartengano a qualcuno: per pura curiosità, all’isola di Tristan da Cunha (corona britannica) la proprietà privata è stata istituita nel 1999, senza che nessuno ne avvertisse il bisogno.
Anche ogni forma d’autosufficienza è ostacolata, almeno per ciò che riguarda lo “staccarsi” dalle comuni reti di rifornimento di beni: personalmente, coltivo l’orto, le olive per l’olio, raccolgo frutti da alberi abbandonati, funghi nel bosco, faccio il sapone con l’olio esausto ed ho costruito, da solo, un impianto per l’acqua calda ma non per questo posso dirmi autosufficiente.
I prelievi che lo Stato compie – spesso in cambio di nulla – sono eccessivi e moltiplicati da amministrazioni locali fameliche: non m’interessa fornire cifre sulla tassazione, perché sono tutte fasulle, basti pensare che ogni bene è gravato da imposte indirette per più del 20%.

In questo scenario, parlare di reddito di cittadinanza sembra una nota stonata: “chi non lavora non mangia” è un detto antico che sembra incontrovertibile. Per avvicinarci a questo concetto dobbiamo fare sforzi immani, per non convincerci – da soli – che stiamo progettando una pazzia. Eppure, non lo è – come vedremo in seguito – anzi, può essere la salvezza per questo mondo veramente pazzo.

Il dilemma di un diritto

Se desideriamo cercare nel diritto qualcosa che giustifichi il reddito di cittadinanza, per prima cosa dobbiamo pensare alla nostra nascita: siamo venuti al mondo senza sapere un perché – per volere di un Dio o per la legge del karma, non importa – ma la prima domanda che, probabilmente, ci siamo posti è stata: “Qual è la mia parte di tutto questo?” Io, sono arrivato a 49 anni per avere una casa di proprietà: beninteso, col mutuo da pagare fino alla pensione.
Qual è il senso di giustizia di una simile situazione? Che differenza c’è fra chi nasce con dieci case e chi con nessuna? Nel reparto di Maternità sembravamo tutti uguali.
Eppure, la discriminante della nascita ha posto un confine, un limite: e quando il limite era insuperabile? Non sei nobile? Peccato...una vita di m...ti aspetta. Confida in Dio o nella prossima vita.

Non si tratta, qui, di riscrivere il dibattito filosofico di 25 secoli, ma di estrapolare un nuovo mezzo che consenta un ulteriore passo in avanti (o la sopravvivenza) della nostra civiltà: dopo aver abolito i privilegi del sangue, riflettiamo su come far essere, almeno, garantiti quei neonati del reparto di Maternità.
Nei fatti, oggi, già lo sono: nessuno, in Italia, muore di fame e nemmeno mancano i soldi per la ricarica del telefono o per le sigarette: gran parte di questo compito spetta, ora, alle famiglie che non ce la fanno più a reggere il peso di una società che produce tantissimo e non ha mezzi per acquistare gli stessi beni. Difatti, dove non c’è una famiglia alle spalle, per molti non rimane che la Caritas ed i cartoni per opporsi al gelo.

Il guaio è epocale: per parecchi decenni tutti gli incrementi di produttività sono stati incassati dai capitalisti, i quali – oggi – constatano una nuova crisi dei consumi, come avvenne nel 1929. “Acceso” il fuoco sotto la “caldaia” cinese, incassati profitti e dividendi, ora che anche il mondo sembra andare stretto per l’espansionismo economico cinese, non si sa far altro che proclamare ai quattro venti lo scoppio di una crisi. Non dovrebbe essere il compito dell’economia quello di risolverle?
Sapevamo da almeno un secolo che le macchine avrebbero centuplicato ogni prodotto con facilità, eppure siamo rimasti legati ad un concetto medievale: “chi non lavora non mangia”, piuttosto si butta via il cibo, come fanno ogni giorno i supermercati italiani.

La Costituzione che abbiamo appena difeso, all’art. 4 recita:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

Come si nota, l’articolo è suddiviso in due sezioni: la prima dove si parla chiaramente di lavoro, mentre nella seconda i concetti sono più sfumati: “attività”, “funzione” che concorrano al “progresso materiale o spirituale”.
La prima parte richiederebbe una riflessione: oggi, la Repubblica non è in grado di riconoscere quel diritto, né riesce a “promuoverlo”.
Il motivo è semplice: siamo in mezzo a lupi famelici, che s’arrabattano con qualsiasi boccone per calmare la loro fame. Prova ne sia che, recentemente, persino la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo un licenziamento soltanto perché consentiva all’azienda “più profitti”.

Molti nemici, poco onorevoli

La miscela esplosiva dei “nemici” è composta dai membri dei consigli d’amministrazione industriali, bancari, assicurativi, ecc – gente che ha molto potere sui media – e, nonostante non siano in numero esorbitante, trovano nel denaro uno strumento per “languire” le coscienze univoco e determinante.
Difatti, la più comune obiezione al reddito di cittadinanza è sempre “nessuno più lavorerebbe” oppure (Elsa Fornero dixit) “gli italiani si farebbero solo più dei grandi piatti di pastasciutta”: messaggi semplici ed intuitivi, contro argomentazioni che passano dalla filosofia all’economia, che necessitano di un pubblico attento e responsabile.

Vorremmo chiedere a questa gente “dove” troveranno posti di lavoro quando una sola fabbrica con – poniamo – cento dipendenti passerà dal produrre 10.000 telefonini il mese a sfornarne 100.000 grazie a nuove macchine (Marx ha dimostrato che non tutti andranno a costruire nuove macchine: solo una piccola parte, è scritto nella storia stessa del capitalismo). Sono in grado d’assicurarci un incremento dei posti di lavoro pari a 10 volte? Eppure, questa è la storia del fordismo, delle macchine, lo sappiamo bene.
Il grande ostacolo, prima che tecnico od economico, si chiama “etica del lavoro”, come immaginarsi di parlare di abolizione della schiavitù in un mercato dell’antica Roma: le sassate erano certe.

Il senso comune di etica del lavoro risale a Marx ed Heidegger, mentre De Simone ne dà una lettura diversa, direi più “mediatica”, ossia l’esaltazione del lavoro come forma nobile di risposta alle avversità del mondo naturale, qualcosa a metà fra Stakanov che forgia l’acciaio e Mussolini che miete il grano: notate che le due figure sono molto simili, portano identico messaggio “lavorare è giusto e bello”. Appartengono, inoltre, agli stessi anni, quando i rispettivi regimi mostravano nel lavoro la risposta ai vari nemici esterni ed interni.
Perché nessuno ripropone, oggi, simili esempi? Perché sarebbero degli insuccessi pubblicitari, garantito.

Eppure, il lavoro ci mostra anche oggi la sua forma etica (o di esaltazione) nell’uomo con il casco giallo in testa che avvita un bullone in una torre di trivellazione, oppure in una donna in camice bianco che osserva una provetta...cambiano i modelli, gli schemi seguono i tempi, ma lo scopo è il medesimo.
Il lavoro ha bisogno di pubblicità per sopravvivere, giacché il lavoro obbligatorio è una sorta di pena, con “fine pena” intorno, oramai, ai settant’anni: come recepiscono il lavoro a voucher i giovani? Come una dannazione, una pena necessaria per vivere. Non è certo questo il lavoro immaginato in Costituzione, e ci confortano i Latini che usavano due termini distinti: labor ed opus.
Gran parte delle responsabilità di tutto ciò risiedono nella “vendita” di loro stessi che hanno preferito operare i sindacati, per i succosi “trenta denari” che ben conosciamo. Per questa ragione, non ci si deve infilare nei ragionamenti sindacati/confindustria/finanza – né immaginare sussidi di disoccupazione – perché questi mezzi sono viziati all’origine da una scelta obbligata, quella del lavoro. Bisogna rilanciare, perché ne abbiamo tutto il diritto: non è facile comprenderlo.

Anzitutto, dal fordismo in poi, cosa è cambiato? Con l’invenzione del telaio meccanico, della pressa, del tornio...cosa è mutato?
L’ingegno umano ha creato macchine che sostituivano, meglio e più in fretta, parte del lavoro manuale. Chi ne è stato l’artefice?
E’ quasi impossibile fornire questa risposta, l’unica che abbia senso è “le generazioni precedenti”, senza distinzione fra lavoro e capitale.

Oggi, questa eredità, a chi appartiene?
Ai successori: a noi, ai nostri figli e nipoti, non al Fondo d’investimenti di Vattelapesca, il quale sta alla finestra, osserva chi genera i più succosi profitti, investe i suoi capitali (frutto di un’anomala e sbilanciata ripartizione fra profitti e salari) e soddisfa, così, i propri “adepti”, che ringraziano con Rolex d’Oro e sontuose prebende chi s’adopera per questo mercimonio.
Perché, ragazzi cari, per ogni fondo che s’arricchisce c’è un intero quartiere che precipita nella povertà: questa è gente che non fa assolutamente nulla – dei veri mangiapane a tradimento – come la giuria di Miss Italia, solo lì per misurare fianchi e petti, nient’altro!
L’indice di Gini cresce sempre, ci racconta che la sperequazione dei redditi aumenta ogni giorno che passa, eppure parlare di una misura che porterebbe maggior equità sociale, consumi più “livellati” su beni necessari e meno spreco è vista come la peste. Per loro, indubbio: per questa ragione lo accusano d’ogni male!

Conclusioni (prima parte)

Qualcuno obietterà che ho sprecato tempo e spazio per dei concetti ovvi: buon per lui se questa è la sua opinione, ma non sono certo che le cose fossero così chiare per tutti. Il reddito di cittadinanza è un diritto dovuto, per l’incapacità degli economisti ad indicare un’alternativa, valida nel tempo, alla spirale impazzita automazione-produzione-consumo-rifiuti.
La sola via d’uscita per la società umana è una re-distribuzione dei redditi: ogni altro “rimedio” conduce inevitabilmente a guerre, sangue e disastri infiniti.
Quando lo capiranno?
Mai, risponde qualcuno. Non sarei così certo.
La notizia che la Cina sta spostando l’obiettivo del proprio apparato produttivo verso il mercato interno significa solo una cosa: le esportazioni languono rispetto ai “tempi d’oro”, quando qualsiasi bene veniva acquistato, in Occidente, solo per i bassissimi prezzi d’acquisto. E’ un segnale (per qualcuno) preoccupante, non certo per i disastrati europei ed americani, ai quali – detto fuori dai denti –  di quanto e come mangiano i cinesi non importa una mazza.
Per questa ragione anche gli apparati iniziano ad interessarsi, ad introdurre nel dibattito sui media la nuova parola, il nuovo termine “Reddito di cittadinanza”, a non considerarlo più un tabù, anche se gli studi ed i dibattiti datano oramai da almeno un secolo, mentre la codificazione ufficiale nella storia dell’economia è del 1795.
Hanno paura, una paura dannata che i rendimenti dei fondi d’investimento precipitino per mancanza di domanda: allora abbozzano, chinano la testa, soltanto un pochino. E’ solo carità pelosa: non illudiamoci.
Nella seconda parte proseguiremo, ampliando i concetti qui espressi ed “incrociandoli” con le varie proposte e le indicazioni in merito di economisti, politici, giornalisti, scrittori, ecc.
Non cediamo, però, ricordiamo che non si può monetizzare il diritto alla sopravvivenza: è un nostro diritto, non una carità dello Stato. Anzi, dovrebbe essere il suo compito primario.

28 gennaio 2017

Emergenza, Emergenza..tuut, tuut...



La cosa non mi riguarda dal punto di vista economico, giacché non ho mai voluto attivare Ad-Sense (la possibilità di guadagnare tramite la pubblicità), ma il mio è un piccolo blog gestito solo da me in modo artigianale. 
Le parole di Claudio Messora, però, "sono pietre", come ricordava Primo Levi, poiché sono un attacco concentrato a tutta l'informazione indipendente. E' il frutto della vittoria di Trump, di Brexit, del M5S...insomma, di tutto ciò che li spaventa e che mette in dubbio il loro potere.
Ascoltatelo, pochi minuti, ma importanti.

24 gennaio 2017

Terre di faglia


Basta osservare la cartina geologica, per capire chi è messo meglio e chi peggio: in Italia, i terremoti altamente distruttivi – solo dall’età Moderna in poi – sono stati perlomeno una ventina, nemmeno si contano quelli minori, tanto per capirci quelli dell’Aquila o di Amatrice. Solo “roba grossa”, come l’Irpinia (1980) o Avezzano (1915), per quel che possiamo ricordare personalmente o da qualcuno che ce ne ha parlato.
Sempre dall’età Moderna ad oggi, in Germania sono avvenuti circa 8 terremoti, di magnitudo minore, nemmeno paragonabili a quelli italiani o balcanici: basti pensare che, in Germania, non si contano vittime per terremoto dal lontano 1629.
Allo stesso tempo, vivere in una zona di “faglia”, per gli aspetti socioculturali, ci deve far pensare che Lampedusa si trova più a Sud di Tunisi e fa già parte della “zolla” geologica africana: un centinaio di km dalla Tunisia e 200 dalla Sicilia.
Per quanto riguarda la “faglia” socioculturale, invece, la Germania ha sempre potuto (oltre che saputo) regolare i flussi migratori secondo le richieste del suo apparato produttivo. Dal dopoguerra, mezza Turchia si è trasferita in Germania.

I morti per terremoto, nei secoli – in Italia – sono stati centinaia di migliaia: e i danni?
Non si possono quantificare i danni dei terremoti più antichi (ed altamente distruttivi): per avere qualche ragguaglio, basti pensare che “modesti” (su scala storica) terremoti come L’Aquila hanno condotto a danni per 14 miliardi di euro, mentre un “grande” terremoto come l’Irpinia (1980) causò danni pari (attualizzati) a 66 miliardi di euro, anche se – quasi certamente – vi furono eccessi e ruberie di varia natura.

La domanda che si pone è, allora (visto che facciamo parte dell’UE): una “Unione” – termine vago, che non precisa nulla – come può decidere, in termini economici, che una singola Nazione sovrana debba sottostare a dei vincoli comuni di bilancio? Soprattutto alla luce delle grandi differenze, sia in termini geologici, sia in termini di politica dell’accoglienza (solo per citare due esempi calzanti).
Vediamo i due tipi di Stato più comunemente citati: lo Stato Federale e quello Confederale.

La confederazione si basa sul principio della "rappresentanza degli Stati", non dei cittadini, e attribuisce infatti il voto solo agli Stati, escludendo in tal modo il popolo dalle decisioni che riguardano i rapporti interstatali.
l'Unione europea è già qualcosa di più di una confederazione, in quanto i suoi cittadini sono rappresentati al Parlamento europeo ma, dato che i suoi stati membri hanno ancora poteri in politica estera e nella difesa (che non sono neppure coordinate dall'Unione stessa, ma sono lasciate completamente agli stati), non è ancora la Federazione europea auspicata dai movimenti federalisti in Italia come nel resto d'Europa. In realtà è una via di mezzo tra confederazione e Stato federale.” (Wikipedia)

Si deve però aggiungere, alla definizione di Wikipedia, che il Parlamento Europeo ha sì potere legislativo, ma lì s’arresta tutto: nessuna “legge” può essere emanata direttamente dal Parlamento Europeo, perché i veri “padroni del vapore” sono i Commissari, nominati dai vari Paesi pesando tutti gli interessi nazionali con il bilancino del farmacista.
Quindi, l’UE è più correttamente una Confederazione di Stati Sovrani, un po’ come la C.S.I. del dopo URSS: una specie d’insalata mista, condita con misure di bilancio da gulag.

Perché l’UE non può essere considerata uno stato federale? Poiché lo stato federale ha, oltre i bilanci dei singoli Stati, un bilancio federale, mentre quello confederale non ce l’ha.
A cosa serve il bilancio federale?

Dal punto di vista puramente teorico, per le esigenze comuni di politica estera e difesa, ma così non è.
Ad esempio, il governo federale USA ha concesso recentemente uno stanziamento di 35 milioni di $ alla Aeros Craft per la costruzione del dirigibile Pelican, ritenendo il progetto d’importanza nazionale. A New Orleans, dopo l’uragano Katrina, Obama dichiarò lo stato di emergenza federale che consentiva lo sblocco di fondi federali per destinarli all’area colpita. Ci sono molti di questi esempi: identica situazione in altri, grandi stati federali quali la Russia o la stessa Germania (che, al suo interno, è diventata sempre meno “federale”).
Come si può notare, non è solo politica estera e difesa: lo Stato, centrale o federale, interviene in economia quando vuole imprimere una “accelerazione” in determinati settori, oppure rimediare a catastrofi naturali le quali, domani, assorbirebbero ugualmente risorse, depauperando aree della Nazione, anche se federale, poiché concepita di parti, ma di un solo insieme.

Oggi, (lunedì 23 gennaio 2017) Romano Prodi ha dichiarato che la Germania potrebbe anche “voler fare da sola” e per qualcuno sarebbe, questa, la sibillina risposta alle disperate grida d’aiuto del PD, che ha dovuto sfoderare addirittura un Gentiloni “nipote” per restare, almeno, a galla nel panorama politico internazionale. Oramai, conta la buona discendenza, lo ius sanguinis: sono veramente alla frutta.
Lasciando però perdere queste marcescenti vettovaglie, da mercato rionale della politica nostrana, si potrebbe ipotizzare un’uscita della Germania, prima o dopo: qui sta il punto. Potrà tirare la corda ancora, per essere ben certa che i competitori – Italia e Francia, soprattutto – siano ben cotti e stracotti: la Francia non lo è ancora, De Gaulle seppe imporre la potenza nucleare anche per la nazione sconfitta fra le vittoriose.

Ma è su quanto abbiamo prima sottolineato che l’Europa con tedeschi/senza tedeschi ha fallito e si è ritrovata in un cul de sac: perché l’Europa, è soltanto un’imputazione geografica.
Oh sì...ci hanno detto e ridetto che, con la riunificazione tedesca, un’Europa disunita sarebbe finita, inevitabilmente, verso le III Guerra Europea, con o senza partecipanti di corollario.
Fu una balla colossale: quel pod/simulatore nucleare, agganciato centralmente ai Mirage – che chiunque sia stato un poco in Francia non ha potuto fare a meno di notare – è ciò che garantisce da una futura “Sedan” nucleare.

La vera “ruina” – impossibile da scapolare – è stata l’impossibilità di un bilancio federale, ossia quello che avrebbe considerato l’Appennino Centrale Italiano una zona ad alto rischio sismico e pertanto – inevitabilmente – apportatore di sciagure “europee”, non solo italiane.
Sono trascorsi circa 20 anni dal terremoto in Umbria e Marche del 1997, ed il movimento delle faglie ha colpito quasi ovunque, da Perugia all’Aquila, in un territorio abitato da milioni di persone.
Come, del resto, è molto improbabile che i migranti che partono dall’Africa raggiungano su quei gusci di noce Kiel, Brema o Rotterdam: più facile che trovino approdo a Lampedusa, Pantelleria, oppure in Sicilia. O, ancora, in Grecia.

Sembrerebbe quasi una difesa, postuma, di Matteo Renzi: non è così. Nessuno doveva andare col cappello in mano ad elemosinare qualche 0, per un terremoto o per l’invasione da parte di 180.000 migranti in Italia e di 170.000 in Grecia: in totale, 350.000 persone che hanno preso terra in Europa, nel solo 2016.
Qualcuno, invece, doveva avere il coraggio di sbattere la porta ed andarsene, affermando a chiare lettere che quel concetto di “Unione” è vago e, sottilmente, fraudolento, perché non indica a chiare lettere qual è il significato di essere “uniti”.
Romano Prodi può sì lamentarsi perché l’Europa non sa parlare una sola lingua in politica estera ma, di controbalzo: sa parlare una sola lingua in politica interna? Facendo finta che quelle 350.000 persone siano approdate nella mitica Shangri-là, oppure che a tremare sia la catena degli Appennini Atlantidei?

Oltretutto, questo strano sovra-stato confederale costa, e costa parecchio. L’Italia (fonte: l’Inkiesta) paga a Bruxelles quasi 15 miliardi l’anno e ne riceve, sotto varie forme, 11. Quindi, ci costa 4 miliardi l’anno solo per il suo funzionamento: accipicchia che “paghetta”!
Un altro capitolo a tinte fosche è, invece, in parte italiano ma anche europeo: ci riferiamo ai famosi “finanziamenti” che riceviamo, ossia il Fondo di Sviluppo Regionale, Fondo di Coesione ed il Fondo Sociale Europeo.

Le istituzioni europee versano i fondi a strutture politico/amministrative italiane, le quali devono poi fornire rendiconti di come sono stati spesi: circa la metà ritorna in Europa, perché non viene spesa. Perché questa stranezza?
Poiché i fondi per i quali non si trova l’accordo politico di spartizione, semplicemente, tornano al mittente.
Personalmente, ho avuto esperienze del genere e mi è stato detto, sulla faccia: “Voi potrete chiedere quanto volete, ma noi avremo il finanziamento, voi no”. Era il solito presidente di cooperativa, mezzo bianco e mezzo rosso, che aveva tutti gli intrallazzi necessari. Seppi in seguito che, con i finanziamenti del FSE, furono acquistate anche due Jaguar d’epoca...eh...magari servivano per rappresentanza! So anche di stazioni radio-televisive mobili (furgoni attrezzati), mai usate da chi doveva adoperarle, e (penso) dormienti in qualche garage abbandonato: già, ma per i cingolati da neve i soldi non ci sono...eh, che sfortuna...
Ogni volta che qualcuno si reca presso associazioni di categoria con idee da realizzare, riceve sempre ampie rassicurazioni: la legge c’è...appena arrivano i fondi...i quali, appena giunti, finiscono subito perché già “prenotati” da chi aveva santi in paradiso. Capito mi hai?
L’Europa, fa finta d’esser pura come una vergine: siamo certi che sono molto, molto dispiaciuti quando tornano loro i miliarduzzi non usati dall’Italia...oh, come soffrono...

Senza considerare che le banche europee sono controllate con il contagocce da Francoforte, e non smenano un centesimo senza il placet dei soliti noti: sono queste le cose da sapere quando si disserta di Europa...restiamo, andiamo via...questa è materia nella quale il M5S dovrebbe fornire risposte precise, parole chiare, altrimenti è la solita fuffa. Solo dall’euro o via dall’Europa? Chiarezza ci vuole.


L’Europa dei mercanti anseatici, se questo è ciò che sottende la sigla “UE”, non c’interessa: ha già dato abbastanza prove fallimentari di se stessa: ora, è il tempo di richiudere le frontiere, di lasciar “lavorare” i dazi doganali e le limitazioni alla circolazione dei capitali, che ci hanno regalato – quelli sì! – cinquant’anni di pace e di prosperità, dal 1945 in poi.
L’Europa dei mercanti anseatici non c’appartiene, non è per noi: latini e luterani possono convivere, ma ciascuno a casa propria. A meno che qualcuno, per appoggiare Berlino, non sventoli ancora lo spauracchio, le vecchie bandiere di una guerra europea senza nessun senso, che soltanto delle menti malate possono concepire, un babau per allocchi.

Lasci perdere, Prodi, sarà stato un sogno per qualcuno ed una colossale truffa per altri, ma l’unica cosa saggia è metter fine a questa commedia europea: facciamolo tutti insieme, come fecero in Cecoslovacchia, senza sparare un colpo, senza inutili tiritere. Basta riabbassare la sbarra e non permettere le “giravolte” dei capitali.
Errare humanum est: perseverare, diabolicum.

17 gennaio 2017

E trovala una bella storia da raccontare!

Vorrei iniziare l’anno con una bella storia, perché di storie tristi e balorde ne ho raccontate troppe, però non la trovo, non ci riesco proprio: sarò un depresso cronico?
Allora sogno. Sogno di ritrovarmi sulle sponde di un fiume dalle acque chete dove, ogni tanto, un pesce guizza e disegna un cerchio nell’acqua che, mentre la corrente – al rallentatore – muove lo scenario, lentamente si cancella e scompare. Fino al prossimo pesce, fino a quella barca laggiù – ancora lontana – ma sono certo che, se aspetterò ancora, sfilerà proprio di fronte a me, alla mia lenza che scompare nell’acqua torbida.
Ma ecco, eccolo che arriva, ecco il pensiero disturbante che davvero intorbida – non le acque – ma i pensieri.

Il canale navigabile Padova-Venezia, della lunghezza di 27 chilometri e mezzo, è compreso tra l'area dell'Interporto di Padova (Zona Industriale) e termina in Laguna, in corrispondenza del preesistente canale Dogaletto. L'idrovia, incompiuta in quanto priva della parte centrale, oggi è visibile in due tratti, a valle di Padova, e nella parte terminale del suo percorso. Lungo il tracciato è possibile vedere i ponti stradali e gli unici due manufatti idraulici realizzati, la chiusa mobile a paratie in destra idraulica della Cunetta di Brenta, realizzata nel 1981, e la conca di navigazione Romea (o Gusso), nel tratto terminale (in località Gambarare). La storia dell'idrovia nasce nel 1955, sulla base di un'idea delle Camere di commercio di Padova e Venezia, con un progetto elaborato dal Genio civile di Venezia; la costituzione del Consorzio per l'Idrovia Padova - Venezia è del 1965. I lavori iniziano nel 1968, ma già nel 1977 sono fermi. Con ritardi e a singhiozzo i lavori proseguono, fino alla soppressione del Consorzio nel 1988.”

L’idrovia (1) “nasce” nel 1955, quando avevo 4 anni e la nonna m’accompagnava all’asilo, dalle suore: che bello andare all’asilo! Poche auto in circolazione...frotte di bambini, fiocchi rosa ed azzurri, sole, aria di Maggio.

Nel 1965 – anni torbidi, fra una improbabile “liberazione” e la cappa mefitica di un’adolescenza troppo stretta, esageratamente miope per occhi curiosi – finalmente, “la costituzione del Consorzio”.

1968, anno liberatorio, nella vulgata odierna. In realtà, solo sbuffi di alito tenue, un Fiorile rivoluzionario tenta di penetrare dalla Gallia Transalpina a quella Cisalpina, con scarso successo. Rimarrà la malinconia di due geni, i fratelli Taviani, che – proprio in Fiorile incorniceranno in chiave storica tutta la nostra disillusione d’italiani, nati dalla parte sbagliata? Ognuno la pensi come vuole. Ah, finalmente, finalmente cominciano i lavori: si fa il canale! Le chiatte torneranno a ritmare il tempo con i diesel lenti, “testa calda”, come già si muovevano – a colpi di remo, anch’esso ritmico e quasi musicale – sul Brenta, i veneziani coi parrucchini.

Scocca il 1977...una risata vi seppellirà...per qualcuno è già tardi, per altri è ancora presto e s’inizia ad avvertire un senso di vuoto, scricchiolii di paratie, colpi sordi di secche che rimbombano la carena. L’opera viva soffre: i lavori si fermano, nelle menti deluse di una generazione e sul canale. Perché? Ma quanti perché dovremmo spiegare in quest’Italia maledetta, non faremo mai  a tempo! Noi a spiegarli e loro a crearli!

Scorrono come un torrente in piena, fetido di veleni, gli anni ’80 e, nel 1990, De André pubblica “La domenica delle salme”, il suo testo più profetico ed ispirato, più lugubre e disincantato. A parer mio, ovvio, che magari si può anche dire che non ho mai capito un cazzo. Ah, nel 1988 i “consorzio” del canale – immaginato nel 1955 e nato nel 1965 – muore, ossia viene sciolto. Forse ascoltò le rime di Faber:

La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia...”

e decise d’andarsene, in silenzio, di traghettare nei soli luoghi dove potesse sopravvivere: affogò nel sogno.

Poi il ritmo riprese, aumentò d’intensità, si tinse di colori nuovi...si collega Milano al mare! Ma la storia nasce lontano.
Nel 1941, quando mio padre era solo un quindicenne ammarato, suo malgrado, in una faccenda chiamata “guerra”, fondarono il consorzio “Milano-Cremona Po” (2), ma c’era la guerra, e ci si buttò a costruire corazzate ed aeroplani, mica canali.
Tutto sonnecchiò per molti decenni...cullato da mamma FIAT e da Società Autostrade...fino a quando mio padre, oramai in pensione, lesse che si scavava, da Cremona verso Nord: noi tireremo diritto!
Ma si fermarono quasi subito, dopo appena 13 chilometri di canale: bello, largo, acque placide. 13 chilometri d’acqua nella Pianura Padana, gioia per i pescatori. Ah, sì...perché nel 2000 il consorzio fu sciolto: chissà se incontrò, nelle vie dell’Ade, l’altro, quello che doveva raggiungere Venezia da Padova.

Oggi, 15 Gennaio 2017, leggo che il futuro sarà l’auto elettrica. Che bello. Personalmente, preferirei avere ancora sotto il sedere la mia vecchia, cara Lancia Fulvia HF di un tempo, ma se mi daranno una Smart elettrica la guiderò lo stesso...mica m’impressiono...
Il problema è che, credere di risolvere il problema del trasporto parlando di auto elettriche e di colonnine di ricarica, è come pensare di risolvere i problemi della Sanità italiana discutendo sul diametro delle ruote delle sedie a rotelle.
E l’energia dove la vai a pescare? Sono le persone il problema? O le merci?

Leggo anche (fine 2016)  che l’UE – sì, quella cattiva, proprio quella roba là – ci ha spronato (accollandosi il 40% dei costi, a patto che noi, finalmente, riusciamo a scavare un canale completo), a completare l’opera, perché ogni nave fluviale “toglie” 85 TIR dalle autostrade, e muove un solo motore, per giunta molto parco nei consumi. Che domani potrà anche essere elettrico, ma intanto bisogna fare il canale. L’ultimo anelito “politico” italiano, sulla questione, l’ha generato Maroni: dopo attente riflessioni, ha proposto a tutti – per il canale, ovvio – un “tavolo di discussione”.

Nell’attesa di prossimi sviluppi, riascolto un altro brando del mio autore preferito, sempre lui, Fabrizio:

Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi...”

Perché? Poiché osservo che non serve a nulla, né scrivere articoli né pubblicare libri (3)...l’italiota medio non cambia...gli fai vedere una macchina elettrica e pensa che il futuro sia quello: alla guida di un mezzo che non consuma carbone o petrolio (cioè, lo consuma, ma è bruciato da un’altra parte) si culla nel suo sogno di salvare il pianeta. Per questo l’auto elettrica conta come la ruota della carrozzella nella Sanità.
 E chi sa trasfigurare i sogni in consensi, ci sguazza.

Le merci?
Sapete quanti TIR di farina devono entrare in Roma per portare il pane tutti i giorni? Almeno 45, una colonna di camion lunga più di un chilometro, e solo per il pane. V’immaginate quante colonne di camion devono arrivare, almeno in periferia, per scaricare farina, verdure, carni, vini, ecc?
Eppure, sarebbe facile rendere navigabile il Tevere almeno fino a Fiumicino, che è oramai la periferia di Roma.
Lo stesso a Milano, se non si fossero fermati a 13 chilometri da Cremona: in passato, data la pessima condizione delle strade (con il collasso delle vie consolari romane), si portava quasi tutto via fiume.
Avete mai percorso il tratto autostradale Savona-Genova? Tutte le merci che viaggiano dalla penisola iberica verso l’Est dell’Europa s’incanalano in un budello di due corsie, senza corsia d’emergenza!?! C’è da tremare a percorrerla.

E qui bisogna essere riflessivi e capire, anche le cose che non vorremmo sentire: come mai, mentre noi italiani fondavamo e chiudevamo consorzi per la navigazione fluviale, in Germania si portava il “tirante d’acqua” – ossia il pescaggio utilizzabile, la profondità certa – a 3 metri in tutti i tratti del Reno, utilizzando anche l’esplosivo nei tratti a fondo roccioso?
Come farebbero, i tedeschi, se non avessero dei canali, a circolare ancora fra Cologna, Duisburg, Essen, Dortmund, Hannover e Munster senza finire in un solo, colossale ingorgo senza fine?

Oggi – è vero – abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente, ma chi è in grado di crearla? Da una parte i ladri, dall’altra i sognatori.
Ma sì, compriamoci (se abbiamo i soldi per averla) una bella Smart elettrica e sogniamo beati: siamo fra i pochi, veri salvatori del Pianeta!

(3) http://www.macrolibrarsi.it/ebooks/ebooks-il-futuro-dei-trasporti.php

09 gennaio 2017

Golpe?

Giuseppe Grillo e Davide Casaleggio
La notizia del passaggio al gruppo liberale, a Bruxelles, del M5S non ha stupito soltanto i simpatizzanti o gli stessi deputati europei, ha destabilizzato l’universo grillino in Italia che si sono scoperti, da domani, alleati in Europa col gruppo di Mario Monti.
C’è da dire che le regole europee richiedono l’affiliazione ad un gruppo politico, pena la quasi “scomparsa” dal panorama parlamentare, ossia diritti d’intervento, votazioni e roba del genere. Con questa scusante, potremmo approvare la scelta di Grillo.
Ma, sull’opposto versante, c’è la constatazione che l’appartenenza ad un gruppo già c’era – ossia quello di Farage, che sarebbe sopravvissuto anche alla defezione degli inglesi – e, quindi, è da altre parti che dobbiamo cercare la risposta a questa, improvvisa, scelta di campo.
“Dillo a Bruxelles per farlo capire a Roma”, verrebbe da dire.

Forse non tutti sono informati degli effettivi poteri del parlamento di Bruxelless: nulli. Il Parlamento Europeo non nomina nessun governo, a questo ci pensano i “commissari” nominati dai capi di Stato delle varie nazioni. E’, in sostanza, un’istituzione di facciata, uno dei tanti non-sense di questa Europa, nata male ed invecchiata peggio.
Per farli star buoni, tutto ha l’apparenza di un vero parlamento, ossia si producono dei buoni documenti programmatici (“le famose “Carte” o “Libri Bianchi” dell’UE) che, successivamente, nessuno legge o adopererà più, e vengono passati, allo scadere, nel tritarifiuti (con recupero della carta, per carità!)
Nel tempo – dopo i regolamenti sulla curvatura delle banane, quella dei cetrioli, sul diametro di fragole e piselli (oh, ma sono tutti ortolani?) – hanno prodotto anche buoni documenti, come “Il libro bianco sui trasporti 2001-2010” che lessi attentamente prima di scrivere un libro.
Il problema è la colossale finzione che esiste nelle istituzioni europee, la cesura fra il segmento elettori/Parlamento e quello commissari/Nazioni: è qui che il potere economico si fonda per dettare le regole.

Ora, che Grillo non fosse a conoscenza di questi andazzi ci sembra perlomeno stravagante, e non ce la sentiamo d’accomunare il comico genovese al suo grande concittadino, Gian Domenico Fracchia.
Per questa ragione, pensiamo ad altro.

Le stesse modalità del voto sono state strambe: il destino europeo del M5S – per quel che vale, d’accordo – è stato deciso da 40.000 voti favorevoli (circa) su 60.000 (circa) votanti. Un movimento che dovrebbe rappresentare più di 8 milioni d’italiani e che è stato, alle ultime elezioni politiche, la forza che ha ricevuto più voti?
Anche i tempi sono stati sospetti: dalla sera alla mattina, due giorni per votare, nessun dibattito – anzi, nessuna informazione che la decisione fosse da prendere – al punto che gli stessi parlamentari europei non sapevano nulla. Spediti come francobolli, da una parte all’altra del parlamento, dal voto on-line che “uno vale uno”. A noi, sembra che uno + uno faccia due, ossia Giuseppe Grillo e Davide Casaleggio, che (forse) erano gli unici a sapere.

Una simile decisione ci sembra arruffata: oltretutto (dai commenti sul blog) si nota una decisa avversione di molti sostenitori per una forma di democrazia interna inesistente, ancora tutta da inventare. Non a caso, il gruppo Verde europeo, prima dell’accettazione dei liberali, ha motivato la negazione all’ingresso dei 5S nel suo gruppo proprio per i non chiari rapporti del M5S con la Casaleggio & Associati.
Sembra, dallo schema seguito, non tanto una scelta di campo (quella europeista) quanto un’affermazione di sovranità su un partito politico: è roba nostra, decidiamo noi (Beppe & Davide) come vogliamo e cosa vogliamo. Che è una posizione un poco assurda per chi pretende di governare un Paese.

Con questa scelta, Grillo ha voluto rimarcare l’inclinazione fideista del proprio (a questo punto, nel senso del “di lui”) movimento, lontano mille miglia da un’ispirazione democratica e da un dialogo interno. Vuote parole d’ordine: “uno vale uno”, ossia io e Davide decidiamo per tutti, la Raggi va bene, Pizzarotti no.
Poco importa l’appartenenza a questo o quel gruppo europeo: l’importante è stato rimarcare un concetto per la politica nazionale, il dopo-Raggi.
Con un colpo di testa, Grillo ha voluto scegliere fra la “destra” e la “sinistra” interne – ossia una possibile alleanza con la Lega o con le forze a sinistra del PD – compiendo una non-scelta, ossia pigiando ancora di più sull’acceleratore fideista.

Riflettiamo su un dato nuovo e dirompente (per un movimento come il M5S): un terzo degli “elettori certificati” (a questo punto, “Grandi Elettori”), ha votato contro il Capo. Perché Grillo ha compiuto questo passo?
Evidentemente, la partita delle prossime elezioni è cominciata e il M5S vuole tenersi le mani libere per future alleanze parlamentari, da decidere – ovviamente – con i soli Grandi Elettori nel volgere di ventiquattr’ore.
Così gli avranno raccontato gli spin doctor della Casaleggio & Associati, che la scelta meno dolorosa era una non-scelta, ossia porre soltanto il proprio carisma a garanzia delle future operazioni politiche del movimento. O del gruppo Casaleggio?

Sia come sia, il M5S ha compiuto ugualmente una scelta: ha perso probabilmente parecchi consensi – non fidatevi delle proiezioni elettorali...basta avere soldi... – e domani avremo, come classe dirigente, gli epigoni del no-euro confluiti nel gruppo con Mario Monti.
Per chi si accontenta...

03 gennaio 2017

Mi piace Fabio Scacciavillani: cliccalo anche tu!

Non tutti saranno d’accordo con me – d’altra parte, non lo pretendo! – ma “Il Fatto Quotidiano” è un prodotto editoriale che ha sopravanzato di un’incollatura gli altri giornali italiani, soprattutto perché gran parte dei contenuti editoriali sono prelevati da dei blog correlati (non so con quali regole ed accordi) al giornale.
Anche altri giornali lo fanno o incominciano a farlo, ma “Il Fatto” si nota, si vede che è più avanti in questa, nuova frontiera dell’informazione.
Così, in economia, spunta ogni tanto qualcosa da Loretta Napoleoni, da Albero Bagnai e da Fabio Scacciavillani, economisti dal vasto sapere, anche se accomodati su opposte poltrone.

Mentre i primi due sono abbastanza conosciuti nella galassia della nuova editoria digitale, il terzo è un solenne sconosciuto: si definisce “Capo economista del fondo d’investimenti dell’Oman”, ossia (presumo, dalla traduzione letterale dall’inglese, Scacciavillani non s’abbassa alla periferica lingua italiana) è un tizio che decide dove, come e quando i soldini dell’Oman (o di altri: che ne so?) debbano confluire su questa o su quell’azienda, su una certa obbligazione, eccetera, eccetera.
Un mestiere che, oggi, è comune nella galassia di questo mondo globalizzato, laddove gli unici interessi in gioco sono la remunerazione del capitale e la certezza degli stessi, almeno per tempi ragionevoli: del lavoro, delle persone, nemmeno una parola. L’economia è pensata e praticata come scienza a sé stante, differita in una diversa galassia rispetto alla sua menzione originaria: “oikos nomos”, ossia “governo della casa”. Nell’economia di Scacciavillani non vi è traccia di esseri umani, al massimo – ma proprio al massimo – sono destinati ad essere bruciati, esplosi nel “motore” capitalista (il carburante).
Ecco il prodromo di un dibattito che si svolse mesi or sono proprio su “Il Fatto”:

“Il motore della crescita economica sono le innovazioni; gli investimenti in capitale fisico e in capitale umano sono il carburante; il risparmio e quindi i capitali finanziari costituiscono il lubrificante; istituzioni, amministrazione pubblica, leggi e tribunali i pneumatici; il tachimetro è la produttività.”

Tutte le componenti dell’economia sono attentamente elencate in questa metafora automobilistica (sic!), manca il lavoro, un optional, una fanfaluca per la quale non serve nemmeno un accenno: per quel che si riesce a capire, Scacciavillani è un economista legato alla scuola di Milton Friedman e dei suoi “Chicago boys”, ovvero la punta di lancia del “turbo-capitalismo” odierno. Fin qui, nulla da eccepire: è un uomo che vive disconnesso dalla realtà economica complessiva (ossia, capitale, mezzi di produzione, lavoro, ecc) e, prono alle teorie economiche di una scuola, nega tutto il resto, altrimenti non potrebbe continuare a fare ciò che fa.
Se Scacciavillani visitasse una periferia italiana od una banlieu francese, non riuscirebbe a risolvere tutto con un’alzata di spalle, perché ad un uomo intelligente (come io penso sia) non sfuggirebbe la connessione sugli interessi di un fondo d’investimenti internazionale e le nuove povertà che si “accendono”, improvvisamente, in un’area del Pianeta.
E nemmeno si risolve tutto imputandolo a manager inefficienti: che ne possono, oggi, i dipendenti di Almaviva Contact, mica i manager sono figure elettive!

Ciò che, invece, non riesco a sopportare in Scacciavillani è il linguaggio: violento, accusatorio, sempre univoco nelle sue conclusioni. Mai qualche dubbio, solo certezze ed insulti. Ecco alcuni esempi:

“Invece l’indottrinamento delle menti labili prone a interiorizzare lo slogan “Lo Stato siamo noi” (individui apparentemente sani di mente...”
...i vincoli di Maastricht... rendono insostenibili i comportamenti cialtroni esaltati dai teorici delle fritture di pesce per comprare voti ricorrendo alla spirale svalutazione-inflazione...
“...nelle madrasse virtuali dove i creduli si abbeverano alle fonti del webetismo, l’euro è assurto a bersaglio preferito dei sempiterni Minuti dell’Odio.”

C’è una colossale contraddizione che stride negli articoli di Scacciavillani – e, di questo, mi domando come i responsabili del “Fatto” non se ne siano accorti – poiché, nelle sua esternazioni, si rivolge affibbiando patenti di colpevolezza ad una totalità (gli italiani, ossia, almeno chi comprende la lingua italiana), arrivando – in un batter d’ali – a negare una liaison fra la classe dirigente ed il corpo elettorale. In altre parole: delle due l’una. O gli italiani sono responsabili delle loro “malefatte” elettorali, ed allora peste ci colga, oppure la locuzione “Lo Stato siamo noi” è vera, ed i nostri governanti sono degli abusivi: che colpa abbiamo noi italiani? Si rivolga alle “alte sfere” che – immaginiamo – ben conosce.

Termini come “le madrasse dell’odio” per chi cerca di comprendere le interiezioni fra economia e potere, ci sembrano francamente eccessivi e fuorvianti: personalmente, quando ascolto Alberto Bagnai, non mi pare d’averle mai udite nei confronti della “poltrona opposta”. Eppure, a parlare, è un ex Direttore Generale del Ministero del Bilancio, mica un economista del fondo di Piripicchio: già...forse il buon Fabio si troverebbe meglio nell’alveare delle poltrone bianche, laddove è l’Insetto-Regina a tessere la tela fra quei “cialtroni” che governano nel nome degli italiani. Vero Scacciavillani?
Allora, io che sono per natura pacato e paziente, le propongo una riflessione.

Quando, la prossima volta che sentirà parlare – nelle “madrasse dell’odio” – di lavoro minorile e profitti, prima di cliccare “Yes” ed affidare tot milioni di dollari a quella azienda di Chin-Chung-Chang, rifletta su quale dei due diritti è preminente.
Se il diritto di quegli adolescenti ad avere una vita da umani e non da schiavi, proni da mane a sera sul lavoro, oppure quello dei suoi “clientes”, ovvero quelle persone che la pagano e che assegnano, ad ogni donna del loro harem, una prebenda di 25.000 dollari mensili solo per l’acquisto di lingerie, da indossare – ovviamente – nei loro momenti di sollucchero e goduria.

Se la conforta vivere in quel mondo che tritura adolescenti e donne come fossero ninnoli, faccia lei: la coscienza è la sua.
Da parte mia, preferisco rimanere in queste “madrasse dell’odio” dove si cerca, con tanta fatica, di capire se poi è vero (come lei sostiene) che il trattato di Maastricht ha posto termine all’Europa di Postdam e di Yalta. Ed ho fonti che raccontano altre storie, ma a lei non interessano: non si ascoltano “le madrasse dell’odio”.
A risentirla, Scacciavillani: non mancherò di visitarla e, in futuro, credo che rimbeccherò queste sue sfavillanti sortite di “buona scuola” letteraria: come nota, si può dir peggio, molto peggio di chiunque senza usare un solo termine offensivo: si chiama aikido, baby, ossia rivoltare la forza dell’aggressore contro lui stesso.

Non te la prendere, Fabio, torna a verificare quanto guadagna il “fondo per la salvezza del nostro sedere”, lo stesso che t’incarica d’istruirci su come il mondo dovrebbe andare: nelle “madrasse dell’odio” cerchiamo di cavarcela da soli, vai tranquillo.