22 dicembre 2019

Regalo di Natale (con ammennicoli vari…)

Natale è la vera festa dei cattolici: dovrebbe essere, in realtà, la Pasqua la quale contiene e condensa in pochi giorni (o, addirittura, ore) tutta la vicenda di un certo Joshua bar Joseph (Gesù figlio di Giuseppe), che sarebbe diventata la colonna sonora di due millenni di storia, oggi conclusa, terminata, smarcata dalle cronache religiose del pianeta. Vedremo poi.
Già, Natale…però il Natale, celebrando la nascita del Redentore delle Anime, sconfessa apertamente chi non aveva riconosciuto in lui il Davide, il Grande Re Davide che avrebbe riportato alla gloria il grande popolo d’Israele. Non l’hanno riconosciuto? Ben gli sta! Giù la testa!

Se il grande regno di Davide mai non giunse, anche il surrogato – ossia il povero Joshua bar Joseph – non fu una gran trovata. Ossia, lo fu sotto l’aspetto secolare, di potere – indubbiamente servì a tanto per superare la crisi dell’Impero Romano e trasformarlo nel Sacro Romano Impero, con annessi e connessi – ma fallì totalmente sotto l’aspetto della religione e, soprattutto, della contigua filosofia religiosa. Prima di partire, ricordiamo una curiosità: il primo a godere dell’appellativo di Pontifex Maximus (pressappoco “guida suprema”) fu…Giulio Cesare! Dopo di lui, tutti gli imperatori romani.
Bisogna partire da lontano per capire tutto l’arzigogolo, e quando si dice da lontano quel “lontano” è, niente popò di meno che…Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus, in arte Nerone, quinto imperatore romano. Perché?

Perché Nerone aveva ben compreso che il futuro dell’Impero non era nella lontana Britannia o nella riottosa Germania, bensì nel Mediterraneo: ossia, voleva spostare il baricentro dell’Impero verso Oriente, non verso l’inospitale Nord. Nel 67 d. C. si recò in Grecia e concesse a tutti i Greci l’immunità, qualcosa che si avvicinava alla cittadinanza romana, ed iniziò a meditare che Alessandria d’Egitto (seconda città dell’Impero) aveva tutti i crismi per diventarne la prima: la Biblioteca – che, oggi, definiremmo “un grande polo universitario” – il grandioso porto e la posizione geo-centrica di quello che lui immaginava il futuro dell’Impero. E la religione? Le tradizioni? Beh…ci penseremo…in Oriente si trova di tutto…
A Roma non furono molto d’accordo, e lo fecero fuori. Ma il dado era tratto: nemmeno 60 anni dopo, Adriano ammetteva “Christus” fra gli dei onorabili a Roma, sempre che i seguaci lo onorassero nel Pantheon romano e non come unico Dio. Ma la strada era tracciata. S’era intorno al 120 d. C.

Ci furono ancora lotte, discriminazioni, uccisioni…ma, due secoli dopo, Costantino sanciva il passaggio definitivo, quello della religione cristiana come unico credo del regno. E, annessa, vi fu la prima truffa dei cristiani, ossia la cosiddetta “donazione” di Costantino (mai avvenuta) poi codificata nel Constitutum Constantini, un testo apocrifo del IX secolo d. C. la quale concedeva al papato non la guida della Chiesa, bensì una specie di titolo di imperator, ossia la supremazia su qualsiasi regno o (futuro) feudatario del grande impero. La frittata (un colossale falso storico) era sfornata, ed era nato lo Stato della Chiesa.

Per i secoli a seguire, dunque, i Papi non furono le guide religiose che tutti pensiamo ed immaginiamo nella nostra tradizione, bensì i Re d’alcuni possedimenti italici e gli imperatori dell’ex Impero Romano, perché avevano nelle mani uno strumento potente per mantenere quel primato (che usarono più volte), ossia la scomunica. Furono Pontifex Maximus dei re ed imperatori d’Europa.

Non ci dobbiamo perciò meravigliare dei fasti della corte papale, delle molte concubine, delle mille corruzioni, delle sanguinose lotte di potere…non dimentichiamo che molti Papi non furono nemmeno preti, oppure furono nominati cardinali da bambini…erano dei regnanti, stop. Machiavelli scrisse che gli italiani crebbero “senza religione e cattivi”, poiché allevati in quei torbidi consessi, nei quali la gestione del potere era “santificata” da qualcosa che, di veramente santo, non aveva niente.
Ma venne la prima punizione.

Un oscuro monaco agostiniano germanico, Martin Lutero – dopo una visita a Roma nella quale vide quel che vide, non ultimo il commercio, venale, delle indulgenze, che lo terrificò – tornato in Germania (e sotto la protezione di Federico di Sassonia) pubblicò le famose 95 tesi affiggendole sulla porta della Chiesa di Wittemberg. Era il 1517, era la Rivoluzione.
Lutero voleva tornare ad un Cristianesimo più puro, mondato da ogni coinvolgimento secolare che la Chiesa Romana, ovviamente, non poteva concedere, senza correre il rischio d’enormi perdite, territoriali e di ricchezza.

La prima avvisaglia di come i Protestanti desideravano “accomiatarsi” dal potere romano avvenne nel 1527, con il Sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi: 20.000 morti ed il resto della popolazione in fuga. Per “scalzarli” da Roma il papa dovette pagare 400.000 ducati d’argento. Cash.
La risposta, da Roma, venne nel 1545 con il Concilio di Trento e fu una risposta totalmente di chiusura, con la proibizione del possesso degli antichi testi biblici (in greco ed aramaico): solo la Vulgata – pessimo titolo! – ossia la Bibbia in Latino visionata e distribuita solo da Roma. E la creazione del Sant’Uffizio (la futura Inquisizione) e dell’indice dei testi “scomunicati”.
Gli ultimi a ricevere questo “trattamento” furono Simone de Beauvoir, Gide, Moravia e Sartre (!). Li precedettero, praticamente, tutti i “pilastri” della civiltà moderna occidentale, da Cartesio in poi, e l’ultimo Papa passato sullo scranno del Sant’Uffizio, poi divenuto “Congregazione per la dottrina della Fede” fu papa Ratzinger, tuttora vivente, Benedetto XVI.

Insomma, in barba a tutti i “consigli” che giungevano dall’esterno, la Chiesa Cattolica non ha deviato di un’unghia, non ha discusso con nessuno, non ha accettato nessun “bonario” consiglio.
Ha continuato a non concedere rogatorie nemmeno quando le vicende dello IOR (la Banca Vaticana) sprofondavano, più che nella tragedia, nella farsa. Pedofilia, niente, preservativi, nulla, divorzio, ignorato. Salvo concederlo, già a Trento (1545), per le coppie di neri che erano state battezzate dai missionari e poi vendute, schiave, a differenti proprietari. Una vera e propria chicca: un’attenzione perfetta per le esigenze del commercio! La giustificazione? Qualcuno aveva potuto leggere le pubblicazioni dell’atto? Magari affisse su un albero della foresta equatoriale? Penosi.

Ma la nemesi giunge da dove meno te lo aspetti. Stavolta non c’è più un monaco che affigge delle tesi su una chiesa per chiederne la discussione, per avviare una ricostruzione di quel credo suggerito (pare) molto tempo prima da un oscuro pescatore/predicatore della Galilea. Rivisto e purgato – in primis Paolo di Tarso, poi Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino eccetera, eccetera… – per l’udito e la forma mentis dei greci e dei latini dapprima, poi per i loro eredi.

Quando un edificio si mostra troppo vecchio per resistere ancora allo scorrere del tempo, quando non sono stati eseguiti per tempo i necessari lavori di ristrutturazione, entrano in funzione le ruspe demolitrici: non c’è altra soluzione.

La “ruspa” – addirittura comico! – sgattaiola fuori dal garage delle Edizioni San Paolo di Roma, ma non affigge tesi per discutere, non chiede udienza, non dà alla vetusta istituzione cattolica nemmeno l’appiglio di un confronto: “non voglio intromettermi fra ciò che pensano e credono i cattolici rispetto alla loro Fede”. E’ ciò che Mauro Biglino ripete, anche se sa benissimo che non ci potrebbero essere più roghi per bruciarlo.

Magari, però, una pallottola vagante potrebbe sempre manifestarsi: i tempi cambiano e gli inquisitori accettano anche qualche “suggerimento” della modernità. La morte del comandante delle Guardie Pontificie, Alois Estermann (mai chiarita), della moglie e di un caporale, è stata una sparatoria degna di un film di Sergio Leone. Proprio accanto all’appartamento del Papa.

Così, dalle Bibbie più antiche – guarda a caso quelle proibite nel ‘500 con l’Inquisizione – salta fuori, traducendo letteralmente, che il potente e “glorioso” Dio Javhé viaggiava nei cieli su un “carro di fuoco”, mentre i suoi “cherubini” assomigliavano più a delle guardie del corpo che agli angioletti del presepe.
Ma anche il Nuovo Testamento è stato “rivisitato” – soprattutto grazie all’acume “greco” di Paolo di Tarso – e, dunque, una vicenda interna alla comunità ebraica, uno scontro fra fazioni discordi ed un fallito assalto al tempio di Salomone, ha creato i prodromi per la creazione di una nuova religio, visto che quella vigente nella Roma imperiale era in forte crisi, pervasa e stravolta da nuovi credi.
Mentre era stato proibita dal Senato la pratica dei Baccanali, i culti di Cibele, Iside e, soprattutto, Mitra erano entrati a far parte del Pantheon Romano, scombussolandone le radici, che risalivano addirittura al primo re, Numa Pompilio. C’era bisogno di “aria nuova”: che durò per due millenni.

Oggi, osservando con occhio disincantato e senza nessun tipo d’acredine, possiamo affermare che la religione Cattolica sia ancora uno dei “perni” del vivere italico?

Vivo di fronte ad una chiesa, che si dice sia stata un “luogo” dei Templari, e nella quale è stato anche girato un pessimo film (The broken key) sull’infinita saga dei cavalieri antichi e delle moderne società segrete.
Le campane, a parte le ore, suonano musichette che sembrano il “liscio” dei Casadei: mai più ascoltato una musica sacra. Rari matrimoni e battesimi, più frequenti i funerali, con un solo denominatore: niente che abbia a che vedere con una pratica sacra, ma solo cerimonie mondane, allegre o tristi, ma solo mondane. Abiti eleganti le donne, camicie e cravatte gli uomini: per quel che ne so, una liturgia spenta senza più nessuna tensione religiosa verso il sacro, il supremo, l’assoluto inconoscibile.

Le statistiche ci dicono che circa la metà della popolazione italiana si dice cattolica, ma coloro che si dicono credenti e praticanti sono soltanto il 22%. Ci sono, poi, un 10% circa che appartiene ad altre religioni, ed un 14% che, genericamente, “crede in Dio”. Questa è, sostanzialmente, la situazione.
Al di là della sfera religiosa, gli italiani che credono molto o abbastanza alle coincidenze rappresentano ben il 53% mentre il 41% crede nella fortuna, il 25% nella reincarnazione, il 24% nella predestinazione dell'anima, il 21% nei miracoli dei guaritori, il 18% nel karma, il 17% nell'astrologia, il 16% nella presenza di alieni sulla Terra, un altro 16% nella jella e nel malocchio, sempre il 16% nelle sedute spiritiche, il 14% nella possessione diabolica, il 9% nei tarocchi e un altro 9% nella magia. (sondaggio Adnkronos)
Sembra quasi l’identica situazione del tardo Impero Romano anzi: forse peggio.

Eppure, continuiamo a definirci un “Paese cattolico”: in ogni modo, felice Natale a tutti!

14 dicembre 2019

Winston Churchill searching

La Gran Bretagna, grande nazione per tre secoli di storia, festeggia la sua ennesima vittoria: l’affermazione dei conservatori racconta che lo “strappo” definitivo dall’Europa avverrà a fine Gennaio. Dobbiamo crederci? Facciamo finta, oppure crediamoci pure, non cambia molto.

Il problema di Sua Maestà, ora, è come armonizzare il dopo Brexit con la realtà: la Gran Bretagna – siamo onesti – da Napoleone in poi non ha avuto superbi statisti e, quando si ritrovò quasi con Rommel e Guderian sulla costa della Kent, dovette richiamare in fretta e furia un mastino, non un gran pensatore, un gran picchiatore e basta. Di necessità virtù: dove non giunsero le alchimie sopraffine di Chamberlain, arrivarono gli Spitfire di Churchill.
La Gran Bretagna fu salvata, durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle truppe dei dominions – australiani, neozelandesi, indiani, birmani, ecc – i quali, con qualche mal di pancia, salvarono l’impero britannico dalla distruzione militare. Al resto, pensarono i convogli dall’America che portarono di tutto, dal latte ai carri armati.

Dopo la guerra, la scelta europea apparve vantaggiosa ma oggi, la crisi intrinseca (e tutta politica) dell’UE, ha fatto virare il consenso popolare verso una “indipendenza” che presenta molte incognite. Il bislacco sistema elettorale inglese ha fatto il resto.
Il Commonwealth? Può ancora essere la valvola di sfogo dei tanti problemi britannici? I molti “distinguo” di Australia e Canada, ad esempio, non sembrano portare molte speranze.
L’impero inglese si è trasformato in un grande impero finanziario, senza più basi industriali o il grande commercio agrario di un tempo: basterà, per reggere, da solo, nel panorama politico mondiale?

Le parole d’ordine dei politici di destra – America first, British first, o prima gli italiani – di Trump, Johnston e Salvini finiscono per essere dei vuoti mantra, senza un costrutto interno a renderli validi. Parole d’ordine buone per Facebook o Twitter, puri messaggi elettorali e basta: non c’è modo – se vogliamo – di proteggere gli europei dal dilagare della potenza cinese: basta osservare un qualsiasi porto italiano, e cosa c’è scritto a poppa delle navi o sopra i container.

Per qualche tempo, la Gran Bretagna fu salvata da un oscuro geologo – Colin Campbell – che scoprì il Brent, il petrolio del Mare del Nord. Ma, oggi, sta finendo ed il governo inglese ha lanciato il più vasto piano eolico europeo, per sopperire ai bisogni interni.
Però, mentre i giacimenti del Dogger Bank – in Inghilterra – sono quasi esauriti, quelli situati in area scozzese stanno molto meglio: insomma, la Brexit ci lascerà un panorama con inglesi quasi senza petrolio e scozzesi ricchi petrolieri.
Non a caso, le recenti elezioni inglesi hanno visto la vittoria in Inghilterra dei candidati Brexit, mentre in Scozia (e nel Nord Irlanda, ma per altri motivi) il no-Brexit ha avuto la maggioranza e, già oggi, qualcuno mette avanti la richiesta di un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese. E questo è già un grosso problema.

Tutti i mari inglesi, però, risulteranno di più difficile navigazione e per la pesca: la Manica tornerà ad essere divisa a metà con Francesi e Belgi e, soprattutto, il Mare d’Irlanda – considerato quasi un mare interno inglese – tornerà ad essere diviso con l’Irlanda la quale, come tutti sanno, non ha profondi sentimenti d’amicizia per gli ex dominatori inglesi.
La situazione più difficile, però, è senz’altro quella del confine nord-irlandese.

I più giovani non possono sapere, ma i meno giovani ben ricordano cosa fu prima dell’integrazione europea per gli irlandesi: un confine violento, arrossato di sangue, fra due popolazioni che sono entrambe irlandesi, ma separate fra cattolicesimo irlandese e protestanti al Nord. Insomma, la vecchia storia dell’IRA, che si tacitò con l’accordo di Shengen per la libera circolazione delle persone e delle merci. Se in altri confini fu odiato per la circolazione degli extracomunitari, lassù – con la libera circolazione di persone e di merci – tacitò le intemperanze, di una parte e dell’altra. E fu una benedizione.

Insomma, la Gran Bretagna, a Gennaio 2020 tornerà ad essere un Paese circondato da mari e coste di Paesi…diciamolo con una formula neutra…“non-amici”. E, paradossalmente, l’unica via aperta sarà di nuovo quella verso l’America: la stessa rotta che seguirono i convogli durante la guerra.
Il voto ai conservatori inglesi si è concentrato soprattutto nelle Midland, dove c’è stato un vero plebiscito, perché – a parte Scozia e Irlanda del Nord, dove hanno vinto i no-Brexit – anche nel Galles il risultato è stato più bilanciato. In effetti, si è trattato di una vittoria più inglese che britannica.
Ovvio che una nuova GB non dovrà soltanto guardarsi dai nemici “interni”, bensì anche creare nuove alleanze esterne.

Berlino non ha interessi a mantenere un buon rapporto con Londra: il suo interesse geopolitico vira ad Est, verso le opportunità (ed i bassi costi di manodopera, meno di quella cinese!) che trova in Romania, Ungheria e nei Balcani in genere. Domani una porta verso l’Ucraina potrebbe aprirsi, ma ritengo che, finché ci sarà Putin in Russia, tutto rimarrà come oggi.
Anche nel continente, se c’è molto scontento per come viene gestita l’avventura europea, non ci sono segnali di “partecipazione attiva” da parte di Paesi europei verso la scelta inglese: tanta parole, ma fatti niente, perché una simile scelta è molto ardua.

Nemmeno Parigi, o Roma, o Madrid hanno cospicui rapporti economici con Londra: ciò che importa molto, invece, sono i rapporti finanziari con la city londinese i quali, però, da molti anni sono migrati a Dublino perché da lì, in qualche modo, s’arriva ai paradisi fiscali dei Caraibi. Comprendo che la logica appare un po’ strana, però i capitali che vanno “off-shore” passano oggi per Dublino più che da Londra.
Il perché è di facile comprensione: gli investitori necessitano di un mercato libero ed evanescente, senza improvvise pastoie che giungano da Londra o da Berlino.
Una specie di Svizzera in mezzo al mare, sicuro rifugio per capitali erranti? Potrebbe essere, ma ci sono già le banche svizzere e quelle irlandesi che “coprono” sia la domanda di conservazione, sia quella d’espatrio verso “lidi” più remunerativi.

Di là delle misere strategie parlamentari, dei rimandi, dei trucchi delle tre carte, resta nel piatto il punctum dolens: come reagirà l’America – oggi Donald Trump – quando Londra non sarà più legata all’Europa?
La vicenda d’ogni “sovranismo” – ossia nazionalismo mascherato – ineluttabilmente, va ad uno scontro con altri nazionalismi: ovvio che gli USA gioiscano per ogni ridimensionamento o maggior debolezza dell’Europa ma, nel caso inglese, come reagiranno?

Una volta che la Gran Bretagna sia isolata dal resto dell’Europa, gli USA si mostrerebbero comprensivi verso un Paese verso il quale non avrebbero nessun vantaggio a stringere costose alleanze? Non dimentichiamo che, nel 1940, in cambio d’alcuni vecchi cacciatorpediniere della Prima Guerra Mondiale, gli USA pretesero l’uso, per 99 anni, di buona parte delle colonie britanniche nel pianeta. In buona sostanza, tutti i convogli inviati in Gran Bretagna furono pagati, al termine della guerra, con la cessione del potere britannico sui dominions: in pratica, la fine dell’Impero Britannico.

Hitler non desiderava la fine dell’Impero Britannico: più volte illustrò il suo pensiero, ossia quello di una Germania al potere in Europa e in gran parte della Russia, ma non comprese il rifiuto di una pace con la GB che avrebbe salvato l’impero britannico dalla rovina.
Ma, si sa che gli inglesi – seppur in gravi condizioni – prospettarono lo spostamento della Corona in Canada, qualora l’Inghilterra fosse stata invasa, piuttosto che cedere. Non si fidarono di Hitler? Comprensibile.

Oggi, il potere della Germania sul continente europeo è forte e ben articolato: grandi investimenti in Spagna, Portogallo ed Italia e molte fabbriche de-localizzate nel Paesi dell’Est Europa.
E’ sufficiente questo parallelismo per giudicare la scelta inglese?
Sostanzialmente sì, però mancano i corollari per sostenere con certezze questa scelta: anzitutto, la Merkel non è Hitler, e su questo non ci piove. E poi: i britannici non possono più contare sulla potenza economica del loro impero.

Il potere internazionale, oggi, verte sul confronto fra una potenza in declino – gli USA – ed una in ascesa, la Cina. Difatti, in modo molto ingenuo e raffazzonato, Trump ha immaginato che basti una politica doganale per contrastare l’avversario: puerile, visto che la Cina può muovere i suoi investimenti dal mercato estero al mercato interno (e lo sta facendo), mentre nella sua appartenenza allo SCO trova molti partner sui quali far conto.

Su cosa possono contare gli USA in una stretta alleanza con la Gran Bretagna? Sulla condivisione dei fazzoletti per piangere?

02 dicembre 2019

Castrucci e la Storia

C’è qualcosa che stride nella vicenda di Emanuele Castrucci, qualcosa che non si riesce a capire: o meno, che non si può intendere se si conosce la Storia e non si è preda d’allucinate visioni. E pensare che, questo signore, faceva il professore. Universitario, per giunta!
Si tratta di un sillogismo frettoloso – solo così riesco a definirlo – perché non posso capacitarmi di come abbia la capacità, un uomo che deve aver studiato (almeno, si spera) i cardini della storia del Novecento, di cadere in una simile castroneria. D’altronde, qualcuno dirà, Castrucci…nomen omen…ma non vogliamo infierire.

Il suo sillogismo, semplificato al massimo, vuol dire che Hitler combatté fino alla morte (presunta) coloro che, oggi, governano l’economia. Che, ovviamente, non sono americani, cinesi, giapponesi, inglesi, arabi, francesi, italiani, spagnoli, brasiliani, russi, tedeschi, turchi…no…sono soltanto ebrei, perché gli ebrei hanno inventato la logica economica dell’imperialismo, solo gli ebrei e basta.
Mi sembra un po’ frettoloso ed un po’ fuorviante, anche ammettendo che alcune banche d’affari di fine Ottocento fossero governate da ebrei (vedi i Rothschild), perché ce ne sono state tantissime che non avevano a capo un ebreo. E sono la gran maggioranza. Tutta l’economia dei petrodollari ha avuto banchieri ebrei alle spalle? Siamo certissimi – è solo un piccolo esempio – che i sostenitori di Castrucci lo sosterranno senza il minimo dubbio, senza portare – però – che le pedanti prove d’altri siti Web che sostengono la medesima tesi. Alla base, però, c’è la Storia, che è sì fatta anche di complotti e di colossali inganni, ma che è difficile negarla in toto a causa di quei raggiri.

Solo un esempio: è pur vero che gli USA erano a conoscenza dei piani d’attacco giapponesi a Pearl Harbour, ed avevano decrittato i codici segreti giapponesi, ma è anche vero che il Giappone, per mantenere il suo livello d’espansione, prevedeva la “sfera di prosperità orientale” guidata dal Giappone, che significava l’accaparramento – volente o nolente – dei giacimenti petroliferi dell’Indonesia, all’epoca olandese. Il Giappone, se qualcuno lo ricorda, era dal 1937 che era in guerra contro la Cina.

Già, ma pare che Castrucci lo abbia dimenticato.
E veniamo alla Germania.

La Germania nazista ha sempre intessuto la sua politica estera di concetti razziali, senza avere la minima prova: parole, solo parole, veleni e notizie “alla Goebbels”, il quale sosteneva – sue parole – che “una bugia raccontata molte volte diventa una mezza verità”.
Fino alla fine del 1942 – ossia fino alla creazione del Palestine Regiment in Palestina (che combatté contro l’Africa Korps di Rommel) e la  Jewish Infantry Brigade, che nel 1944 divenne organica nell’esercito britannico – Hitler non ebbe ragioni per considerare gli ebrei come facenti parte della coalizione alleata.
E, a fine 1942, ci pare, che qualcosa nel Ghetto di Varsavia fosse già accaduto, vero Castrucci? Ah, già, ma Hitler era così “grande” da conoscere il futuro…ossia, il futuro raccontato dai cosiddetti “eletti” dell’anti-ebraismo di Internet.

Sapete cosa vi risponderanno?
Che i maledetti angloamericani stavano sotterrando di bombe la Germania! Come potevano, i poveri tedeschi, permettersi di mantenere milioni di ebrei?
A parte che, se un problema ci fu in Germania, fu quello dei molti soldati ed ufficiali ebrei che facevano parte della Wehrmacht da prima del nazismo, e che fu un po’ “problematico” metter fuori. Ma, prima degli inglesi su Berlino, non avevano forse i tedeschi inventato il verbo “coventrizzare” per definire un bombardamento a tappeto altamente distruttivo sulla popolazione? Ed era solo il 1940.
Solo che gli anglo-americani furono più bravi dei presuntuosi tedeschi: spedirono in fondo all’Oceano gli U-Boot che dovevano affamarli con un semplice congegno chiamato “radar”, che i bravissimi tecnici tedeschi non conoscevano o snobbarono.

Quindi – signor Castrucci – per favore, non si metta a raccontare di queste cavolate pensando che siano tutti ignoranti come quelli che si “adunano” alle sue (presumo) conferenze, perché – in realtà – vi trovate e vi raccontate le solite manfrine ma Casa Pound, che si presenta alle elezioni ad ogni tornata, non riesce a superare mai lo 0,qualcosa, che la dice lunga sulla vostro consenso fra la popolazione.

Mi dia ascolto, Castrucci: ho solo un anno in più di lei e sono stato anch’io un docente…vada in pensione, ne ha diritto, e tolga il disturbo che di problemi, di quelli veri, ne abbiamo già tanti, senza che lei ci venga ad ingolfare con le sue castronerie.
Saluti.

29 novembre 2019

Cambiare materiali, filosofie di progetto o modello?


Con l’Autunno, è arrivata la solita sequenza di disgrazie meteorologiche: in fin dei conti, è piovuto quattro giorni di seguito, e quattro giorni di pioggia sono bastati per mettere in crisi il sistema di trasporto italiano.

Una parte di responsabilità l’hanno, ovviamente, i mutamenti climatici in atto, basti pensare che, nel 2018, la temperatura massima del Mar Tirreno giunse a 26°, mentre nel 2019 è giunta a 29°, l’Adriatico a 30°.
Come se non bastasse, s’approfondisce lo strato di acqua che si riscalda – separata dal cosiddetto “termoclino”, che le divide dalle acque di fondo, che rimangono sempre alla massima densità di 4° – il problema è che mentre, prima, il termoclino s’assestava intorno ai dieci metri di profondità, oggi arriva a venti, il doppio.

La quantità di energia che le acque marine contengono, al termine della stagione estiva, è incommensurabile: sono quantità paragonabili a circa 50 volte il consumo elettrico annuo nazionale!
Si dà il caso che questa energia sia destinata a giungere in atmosfera con la fase di omotermia invernale, e allora osserviamo – come nel 2018 – i cicloni oppure, come nel 2019, le piogge “monsoniche”, che devastano il territorio.
In altre parole, l’energia può avventarsi col vento ed aumentarne la velocità, oppure sorreggere i fronti ciclonici e sommergerci con le acque.
In un modo o nell’altro, e qualunque sia la ragione, dobbiamo farci i conti.

L’altro problema, riguarda la specificità del territorio italiano.
Fatta salva la situazione della Pianura Padana – che deve, comunque, fare i conti con le bizzarrie dei vari fiumi che scendono dalle Alpi – il resto del territorio è tutto collinoso o montagnoso, salvo qualche modesta pianura costiera. Molto diversa dalla situazione francese – che ha solo montagne importanti al centro – da quella tedesca – tutta compresa fra la valle del Reno ed i lontani Carpazi – quella spagnola la quale, a parte la Catalogna, è quasi tutta un altopiano senza grandi rilievi o quella inglese, che – Scozia a parte (ma scarsamente abitata) – non possiede rilievi importanti.
Di più, l’Italia deve fare i conti con un’attività sismica costante e devastante, che ogni due per tre ci mostra segni di distruzione, per vite umane ed ambiente.
Come può essere armonizzato un simile territorio con il problema dei trasporti?

Tutte le linee di trasporto che corrono via terra sono suscettibili di danni, da parte delle piogge, dei cicloni o dei terremoti, sia per l’aspetto viario che per quello ferroviario.
Germania, Scandinavia, Gran Bretagna, Europa dell’Est, Francia e Spagna (salvo l’Andalusia meridionale) sono zone non sismiche, e non si ha notizia storica di un terremoto come quello di Amatrice in tutta l’Europa del centro-Nord, dell’Ovest e dell’Est. Al contrario, Italia, Grecia ed ex Jugoslavia sono bersagliate quasi ogni anno dai sismi, talvolta devastanti. Oggi è toccato all’Albania.
Fare presente in sede europea che la situazione italiana è veramente speciale, per rischi e continue spese di riparazione è giusto e necessario,  ma non risolve il problema, che ha una soluzione limpida…come l’acqua. Di mare.

I nostri avi non avevano i mezzi per costruire una rete autostradale, ma finché durò l’Impero Romano le navi – che navigavano solo da Marzo ad Ottobre per editto imperiale – rifornivano e commerciavano con ogni parte dell’Impero: le lunghe strade consolari non venivano usate per trasporti onerosi su lunghe distanze, bensì per il traffico dei militari o per i corrieri veloci. Dopo, Genova, Pisa, Venezia ed Amalfi continuarono la tradizione di trasportare sull’acqua, una tradizione che durò fino all’avvento della ferrovia.

Per questa ragione l’Italia è ricca di una tradizione marinara quasi ineguagliabile in Europa, basti pensare alla lista dei porti minori e maggiori:

Imperia, Savona, La Spezia, Piombino, Porto Ercole, Civitavecchia, Salerno, Augusta, Reggio Calabria, Gela, Porto Empedocle, Trapani, Olbia, Porto Torres, Alghero, Oristano, Crotone, Taranto, Otranto, Molfetta, Termoli, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Ancona, Porto Garibaldi, Chioggia, Caorle, Grado…ad essi vanno aggiunti, ovviamente, i grandi porti: Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Cagliari, Brindisi, Bari, Venezia e Trieste.

Tutto questo, ci racconta una realtà inequivocabile: quasi ovunque, in Italia, si trasportava via mare.
Ebbi un’esperienza illuminante ad Umag (Croazia) alcuni anni or sono: il porto di Umag è abbastanza grande e non molto utilizzato però, fuori del porto, c’era un solitario e modesto molo con una gru. A cosa serve? Chiesi.
Ah, niente… – mi fu risposto – era ai tempi di Tito…sa, allora le merci arrivavano tutte via mare…
A ben pensarci, era il modo più semplice di rifornire e trasportare le merci sul lunghissimo litorale dalmata, che comprende circa 900 isole, 100 delle quali abitate. E chi lo aveva inventato quel sistema? I Veneziani!

E’ pur vero che le grandi città sono distanti dal mare, ma ciò non toglie che si possa rifornirle via ferrovia o via canale, se qualcuno si decidesse a costruirli: la tanto vituperata Europa ci ha offerto un miliardo di euro, sui due complessivi, per terminare il canale che collegherebbe Milano al Mar Adriatico, ma l’ultimo presidente di Regione che se n’è occupato – Roberto Maroni – non ha saputo far altro che creare un “tavolo di discussione”. Saranno ancora là che giocano a scopone.

Si è parlato molto, e a proposito, della svendita del sistema autostradale pubblico, che ha privato l’ANAS (e, dunque, la collettività) di un cespite di ricchezza sicuro e continuo, quasi regalato ai privati.
Ora, che il sistema autostradale è molto anziano – dopo circa sessant’anni dalla sua creazione – riprendersi le autostrade sarebbe il più bel regalo che si potrebbe fare ai Gavio ed ai Benetton, ossia togliere loro la concessione. Si potrà anche togliergliela ma – riflettiamo – oggi siamo di fronte ad un momento critico: la rete autostradale (oltre alle strade di grande scorrimento) sta giungendo al collasso. Dal 2014, Benetton già sapeva che il ponte Morandi era a rischio di crollo, ma non fece nulla per evitarlo. Rimetterlo nelle mani dello Stato – pur giusto per come l’hanno trattato –  non sarebbe conveniente perché bisognerebbe immediatamente varare una serie d’interventi dai costi astronomici. E loro, zitti zitti, se la sono goduta fino ad oggi. Se, oggi, decidessimo di riprendere il sistema autostradale in mani pubbliche, dovremmo inserire in Costituzione una norma che impedisca, dopodomani, di darle in appalto nuovamente.

Perché tutto questo?
In parte per un naturale deterioramento dei manufatti, dall’altra per la scelta del cemento al posto dell’acciaio, ma anche per il volume dei traffici, che sono diventati astronomici: tutti noi, che abbiamo transitato sul ponte di Genova, avvertivamo scosse ogni circa 50 metri e, se avevamo davanti un camion, lo vedevamo sobbalzare sulle barre di ferro che rinforzavano la carreggiata.
Il sistema autostradale italiano è stato costruito per le automobili: all’epoca, circolavano anche i camion, ma non nella misura attuale e né nelle dimensioni.
Dobbiamo riflettere che sistema autostradale, quando fu progettato – fra gli anni ’50 e quelli ’60 – non conosceva ancora l’autosnodato! Il quale entrò in scena soltanto verso la fine degli anni ’60 ma non nei termini odierni: i grandi e pesanti trasporti sulle lunghe tratte, avvenivano per ferrovia! 

Attualmente, un autoarticolato pesa, a pieno carico, 44 tonnellate, ossia quanto 44 automobili, ma il problema non è che “un camion vale 44 macchine”, non è questo il problema. Il vero problema è che l’autoarticolato ha un peso per asse massimo di 9,5 tonnellate, ossia è come se passassero, in brevissimo tempo, cinque automobili da 9,5 tonnellate ciascuna, quando un’automobile pesa all’incirca una sola tonnellata e, dunque, mezza tonnellata per asse. Il “tu-tun” che avvertite sui viadotti, vale mezza tonnellata per le auto e 9,5 tonnellate per l’autosnodato.
Lo stress al quale sono sottoposte le strutture è evidente: un martellamento continuo, indifferente al tempo, alle stagioni ed al clima, che disarticola le strutture portanti. Difatti, per i carri ferroviari – che hanno un peso per asse che varia dalle 16 alle 22,5 tonnellate (non molto distante dalle 9,5 di una autoarticolato) – si prevede una strada ferrata appositamente costruita. Invece, 9,5 tonnellate “in continuo” sono considerate una “normalità”. La corruzione e i falsi report “consolatori” redatti dagli ingegneri collusi, hanno poi fatto il resto: difatti, Gavio finanzia la fondazione di Renzi mentre Benetton quella di Toti.

La scelta del cemento, infine, ha fatto il peggio: all’epoca di costruzione del sistema autostradale l’Italia non aveva una sufficiente produzione d’acciaio – difatti, si costruirono ben 4 grandi centri siderurgici e Gioia Tauro doveva diventare il quinto – e lo stesso ing. Morandi che costruì il ponte di Genova era perplesso sulla durata del manufatto, che non prevedeva oltre i cinquant’anni. Ma l’acciaio non c’era e, inoltre, era costoso: l’industria automobilistica si accaparrava la produzione nazionale e lo importava anche da altri Paesi.
Solo per citare un esempio, il ponte di Brooklyn – in acciaio e granito – è in piedi dal 1883 e sta benissimo.

Se vogliamo essere impietosi verso quelle classi politiche, dobbiamo ricordare che il primo, enorme, allucinante fallimento fu la Salerno-Reggio Calabria, del quale nessuno se ne assunse la paternità. Lasciando per un attimo stare gli evidenti episodi corruttivi che ci furono, dobbiamo riconoscere che l’uso del cemento armato fu messo a dura prova nello scenario più difficile che ci fosse nel Paese (Sila ed Aspromonte) – per l’ardire delle costruzioni e l’evidenza del territorio impervio, più la scarsa “tenuta” delle rocce e dei sedimenti in genere – portò ad un fallimento epocale, che ancora oggi non ha trovato soluzione. Lo Stato s’è arreso togliendo il pedaggio sulla tratta: non costa niente, arrangiatevi.

Oggi, è inutile che uomini politici come il Presidente della Liguria – Toti – faccia il verginello, affermando che senza autostrade il porto di Genova non può continuare a smaltire 4.000 TIR il giorno: inoltre, già che c’era, ha accettato anche i nuovi sbarchi di Vado Ligure, altri 800 TIR il giorno della Maersk da sistemare, senza più autostrade. Ma Toti conosceva la situazione, sapeva che il crollo del Ponte Morandi era stato solo il campanello d’allarme di una situazione che stava degenerando.

L’Ing. Paolo Forzano, di Savona, da mesi aveva denunciato lo stato di degrado dei piloni autostradali liguri, presentando esposti alla Procura savonese, dei quali non si conoscono gli esiti.
Non si tratta della scoperta dell’ignoto, bensì soltanto del naturale degrado del cemento armato, che ha una durata di 40-60 anni. Se ci aggiungiamo un po’ di corruzione negli appalti e nei materiali, ancora meno.
Perché è evidente che con i falsi rapporti non si può andare avanti, e nemmeno nascondere la testa nella sabbia è la miglior soluzione, parafrasando Lenin, non ci resta che porci l’annosa domanda: che fare?
Abbiamo di fronte tre strade:

1) Ricostruire gran parte dei tracciati autostradali: le autostrade liguri – tutte – per uno sviluppo di centinaia di Km e per un costo di molte decine, forse centinaia di miliardi. Si tratta, “semplicemente”, di sostituire i viadotti in cemento con corrispondenti viadotti in acciaio: non ho idea, oltre ai costi, ai tempi necessari per una simile impresa. Anche l’autostrada adriatica mostra i primi segni di degrado: è soltanto un po’ “indietro” il livello di usura. E poi c’è la Salerno-Reggio Calabria l’eterna incompiuta. E manca sempre l’autostrada ionica, che dovrebbe congiungere Reggio Calabria con Taranto. Come potremo mai far fronte ad una simile impresa? Con i lacci ed i laccioli che l’UE pone per gli interventi dello Stato nell’economia?

2) Tornare al cabotaggio costiero, ossia le grandi portacontainer oceaniche dovranno smistare i loro carichi su navi più piccole, le quali potrebbero essere dirette sulla portualità minore e maggiore, in Italia ed all’estero: non sarebbe poi così difficile inviare le navi a Barcellona, Valencia, ecc…oppure a Napoli, Bari, Livorno…più tutta la portualità minore. Per attuare un simile progetto abbiamo a disposizione Fincantieri, una delle massime espressioni mondiali della cantieristica: un solo neo…è una società pubblica che genera ricchezza e dividendi azionari…insomma, l’evidenza che il pubblico, a volte, funziona meglio del privato. E questo no, non piace proprio.
Per lo smistamento dei container, oggi c’è il sistema informatico Maersk collegato alle gru, in grado di “pescare” i singoli container con precisione nel carico della nave maggiore e condurli ad un’altra utenza. Basterebbe sostituire i camion con le navi minori. Attrezzare i porti minori con qualche nuova gru non sarebbe nemmeno paragonabile, come costo, al rinnovamento del sistema autostradale.
Il sistema autostradale – rivisto e corretto laddove ci sono i problemi maggiori – potrebbe continuare a funzionare per il traffico leggero, ovvero automobili e per il traffico merci minore: la differenza, rispetto a prima, è che non dovrebbe più essere sottoposto allo stress di migliaia di camion pesanti il giorno.
Per catalizzare il traffico verso il mare, sarebbe opportuno aumentare i pedaggi autostradali per i TIR e riversare, l’importo, come sgravio sui porti e sulle navi minori: questo perché, lo Stato, deve accollarsi una spesa occulta, quella della manutenzione del sistema autostradale, che i grossi pesi concorrono ad aumentare. Lo dico, ovviamente, per ricordare che se non lo fa lo Stato non lo fa nessuno: i privati si mettono i soldi in tasca e, all’occorrenza, scappano.

3) La ferrovia, in Italia, è negletta e dimenticata. Nei parchi merci arruginiscono capannoni e gru mentre la direzione delle FFSS è soltanto diretta a fare concorrenza ad Alitalia sulle tratte veloci: Frecciarossa! Frecciabianca! Frecciargento! A cosa serve?
A trascurare proprio dove servirebbero le Ferrovie, ossia nelle tratte merci minori e nei servizi all’utenza, con il bel risultato di sottrarre commesse ad Alitalia, che è in crisi. Mi domando se ci siamo ancora col cervello.
Una volta giunte in porto – sia dalle grandi portacontainer, e sia dalle navi minori – la ferrovia, ed anche gli autosnodati, dovrebbero occuparsi della consegna sulle tratte brevi.
Questo era l’obiettivo europeo da raggiungere nel decennio 2000-2010! “Solo le tratte inferiori ai 50 km dovrebbero essere di competenza del traffico su gomma”. Non lo dico io, lo dissero loro in un documento ufficiale!
Poi, iniziò la grande dismissione delle tratte minori, la soppressione delle linee e, contemporaneamente…il grande assalto (vedi TAV) alle tratte veloci internazionali. Follia pura, capitanata e gestita da Mauro Moretti, il quale dichiarò che “Il settore delle merci nelle Ferrovie dello Stato era identico a quello del 1905 come se i camion non fossero mai esistiti…”, poi condannato a 7 anni di prigione per la strage di Viareggio ed oggi sindaco in attesa che la Cassazione si pronunci.
Nell’attesa, il settore merci delle FFSS è stato demolito, a tutto vantaggio dei camion, che oggi esistono, vero Moretti? Ma guarda un po’.

Un grande problema, in Italia, sono le strade minori, soprattutto le strade provinciali che sono circa il 75% delle tratte: abolite le Province, hanno abolito anche le strade. Ci doveva essere anche una puntuale e precisa ridistribuzione dei compiti e dei finanziamenti…ma…osservando le strade, nello stato in cui sono, vi fate un’idea di com’è andata la faccenda?

Inoltre, i tracciati sono vecchi di secoli, ossia le attuali strade sono in gran parte le “pronipoti” dei tracciati – decisi nei secoli della trazione animale – per collegare i centri abitati. Ciò, comportò all’epoca delle decisioni:
1) Non si potevano affrontare pendenze gravose, perché buoi e cavalli non ce l’avrebbero fatta.
2) Le strade non dovevano “invadere” troppo le proprietà private, e allora passavano sui confini della proprietà, per scontentare il meno possibile gli abitanti.
Questo, duplice problema condusse a strade tortuose e sempre con un bordo verso valle: proprio le sezioni che oggi cedono e franano e che ci obbligano ad una costosissima manutenzione. E ci si può fare ben poco: non certo caricarle del peso degli autosnodati, che aumentano ancora il problema!

Se avete viaggiato in Francia, in Gran Bretagna o in Germania, vi sarete accorti che le strade affrontano le colline (certo, non le montagne!) con angoli molto alti, ossia, le prendono “di petto”, con pendenze piuttosto accentuate, che i mezzi meccanici, oggi, possono affrontare. Ciò evita l’eterno pericolo di frane (a monte) e di cedimenti (a valle). Le montagne, poi, vengono attraversate, se possibile e conveniente, mediante gallerie, mentre fiumi e bracci di mare sono attraversati da ponti molto arditi in acciaio.

In Italia, probabilmente, si scelse la via meno onerosa – ossia utilizzare l’esistente – ma, per molti anni, vi furono Comuni, Province e le Case Cantoniere a pensarci: con l’abbandono di questi “costi” per la collettività, il risultato è che ha piovuto per quattro giorni, e la Liguria – ad esempio – ha quasi perso completamente il suo patrimonio viario, non essendo più in grado di garantire un collegamento sicuro col Piemonte e la Lombardia. L’unica autostrada ancora pienamente in efficienza è la vecchia A7, che risale al 1935! E lo è non solo perché (forse) all’epoca si costruisse meglio, ma perché si preferiva “seguire” il territorio (con molte curve) piuttosto che lanciarsi nel costruire viadotti.

L’annosa domanda – che fare? – posta sopra, qualche risposta l’ha avuta:
1) Dobbiamo eliminare, il più possibile, il traffico di mezzi pesanti da strade ed autostrade, per trasferirlo sul mare o sulla ferrovia per le medie tratte: il camion deve intervenire solo per le tratte fino a 50 km (lo sancì l’UE, nel suo documento citato, nel 2000, non me lo sono inventato io);
2) Dobbiamo mettere in cantiere una classe di navi di medie dimensioni, in grado di caricare/scaricare container nel sistema della portualità minore. Inoltre, dobbiamo attrezzare con i mezzi adatti una trentina di porti minori in tutta la Penisola;
3) La ferrovia deve smettere d’esser pensata come un mezzo in concorrenza con l’aereo. Può anche farlo, ma non a spese del suo compito precipuo: far viaggiare persone e merci sulle medie distanze.

Una soluzione al problema?
Non me lo sogno neppure. Passata l’emergenza, defluita l’acqua alta da Venezia, rabberciate le autostrade e le strade alla belle e meglio, i politici ricominceranno a guardare alle loro belle “fondazioni”, dalle quali mungono soldi in cambio dei “favori” che elargiscono a lor signori. Così si completerà il Mose e i viadotti torneranno a marcire, fino al prossimo “disastro”.
Non fatevi illusioni.

21 novembre 2019

ET sta arrivando

Non sono certo le mille fregnacce del governo e dell’opposizione a rendermi perplesso, e nemmeno le mille disgrazie economiche: previste, annunciate, poi scorporate, quindi riammesse…nel gran calderone della politica e dell’economia: si sta muovendo qualcosa di serio da tutt’altre parti.

La prima notizia è giunta dalla NASA, poche settimane or sono: d’ora in avanti, non vogliamo più sentir parlare di Oggetti Non Identificati in cielo…beh…consideriamoli come “elementi non censiti nelle aeronautiche terrestri” o qualcosa del genere, insomma, ci sono cose che volano in cielo che non sappiamo cosa siano. E non sono, sia chiaro, palloncini sfuggiti ai bambini al luna park né palloni aerostatici dispersi dai meteorologi: non possiamo dirvi chiaro e tondo che sono extraterrestri – perché, ad onor del vero, non lo sappiamo nemmeno noi (?) – però ‘sta roba può essere pericolosa per il traffico aereo, quindi – cari piloti – state accuorti.

La comunicazione della NASA giunge a proposito, perché – grazie alle mille diavolerie informatiche oggi possibili – nessuno prendeva più troppo sul serio i filmati degli UFO, giacché il sospetto veniva: questi, tanto per guadagnare contatti su Youtube, macchineranno chissà che cosa. Invece è proprio la NASA a dirlo: non sono roba nostra e ci sono veramente.
Aggiunge anche, a pochi giorni di distanza, che su Marte c’è acqua ed una quantità “interessante” di Ossigeno: partiamo?
La NASA è in vena di scherzare, oppure hanno ricevuto l’ordine di mettere una ciliegina in più sulla gran torta della comunicazione planetaria? Può essere, ma non sono mica i soli.

A giro di ruota, parla anche Padre Funes, (astronomo e professore di fisica all’Università del Salvador a Buenos Aires), gesuita ed ex direttore della Specola Vaticana – che è il centro di ricerca scientifica della Chiesa Cattolica, munito anche di un osservatorio astronomico – e sentite cosa dice:

“Gli Ufo sono oggetti reali le cui strutture, velocità e traiettorie, sono state sia fotografate, sia registrate dai radar. Quelle navi di lontani pianeti sono state più volte inseguite dai nostri aerei militari. Da due degli Osservatori, molte volte ho seguito le evoluzioni degli Ufo. Quasi sempre essi seguivano dei “satelliti” o i missili che li mettevano in orbita, ma sempre ad una certa distanza, come per non disturbarli con il loro campo magnetico. Quando i “satelliti” entrano nel cono d’ombra della Terra, essi spariscono; per contro, gli Ufo rimangono luminosi e cambiano generalmente rotta, e questo a velocità fantastiche. Una notte e senza dubbio per la prima volta al mondo, abbiamo seguito uno di essi al telescopio. Tutto ciò è assolutamente certo e controllato da tecnici”.

Qui, c’è poco da aggiungere, ma sono altre ancora le “rivelazioni” che fanno pensare.

Da qualche anno a questa parte, il maggior fenomeno editoriale italiano è quello di Mauro Biglino, lo studioso torinese che, traducendo letteralmente dall’antico ebraico la Biblia Hebraica Stuttgartensia, un testo masoretico contenuto nel cosiddetto Codice di Leningrado, ha “rivoluzionato” le nostre conoscenze dell’Antico Testamento (e parte del Nuovo).
Ovviamente, non ho alcuna competenza per giudicare il lavoro di Biglino, però le tesi contrarie al biblista torinese – ho notato – non sono così “virulente” come ci si potrebbe attendere. Soprattutto nei confronti di chi – bene o male – sostituisce Dio Padre con un extraterrestre un po’ bisbetico e parecchio arrogante!

Ma non basta ancora, perché – recentemente – ha pubblicato un nuovo libro nel quale va a “rivedere” anche il Nuovo Testamento, nel quale Gesù Cristo potrebbe non essere più un pescatore con la strana abitudine della parabola per ogni occasione, bensì un semidio che doveva riscattare il popolo ebraico dalle sue mille e una vicissitudini. Certo, da Dio dei Cristiani a semidio fallito per gli Ebrei, di acqua ce ne passa.
Per cercare di capirci qualcosa di più, non stiamo a disquisire sulle sottigliezze di una traduzione, ma osserviamo con franchezza ciò che la Scienza ci dice e le prove che porta per dimostrarle.

Sia Biglino e sia Geremia Sitchin, riportano che la vera Storia c’è stata negata nei suoi assiomi fondamentali, vale a dire per il dubbio sulle nostre origini: se la teoria creazionista richiedeva forzatamente la Fede per crederci, nemmeno l’evoluzionismo darwiniano ci spiega poi molto.
Sulle basi della teoria evoluzionista di Darwin non c’è nulla da obiettare: è ovvio che chi è dotato del miglior “corredo” per un determinato scenario, esce vincitore su chi era in possesso di un “corredo” – maggiore, minore, stupendo, fatiscente, ecc – ma inadatto ad interloquire con quello scenario.
Basti riflettere che chiunque di noi – Homo Sapiens Sapiens – dotato di conoscenze iperboliche rispetto a 100.000 anni fa, non sopravvivrebbe più di qualche giorno in quell’ambiente.

In buona sostanza, non verifichiamo i percorsi storici dall’analisi dei fatti, bensì dalla ricostruzione degli eventi operata mediante le nostre conoscenze attuali, senza considerare le mille differenze – culturali, scientifiche, economiche, spirituali, ecc – rispetto al periodo interessato. E adattiamo i tempi – inesorabilmente, anche se ci sforziamo di essere “clementi” con quei poveri ignoranti del tempo antico – ai nostri tempi, al massimo annacquandoli un pochino, e ci sembra sufficiente questa operazione misericordiosa per assolverli e, dunque, confermarci nel nostro ruolo d’infallibili tessitori delle trame della Storia. Un fenomeno che è definito non-contestualizzazione storica.

Operiamo un semplice esempio: l’ultima glaciazione terminò circa nel 10.000 a. C. Subito dopo vi fu un apocalittico scioglimento di ghiacci – dalle Alpi alla Scandinavia, mica un “allarme rosso” dei nostri giorni! – che, si ipotizza, terminò intorno al 9.600 a. C. Un po’ pochini 400 anni di alluvioni? Avvenne quello che fu ricordato in molte tradizioni come il “diluvio universale”? Non lo sappiamo con certezza, possiamo solo ipotizzare che parte del mondo euroasiatico, almeno dal 9.000 a. C., sia stato “agibile” per i nostri progenitori.

La piramide di Cheope fu costruita intorno al 2.600 a. C., Babilonia circa nel 2.000 a. C., ma se consideriamo la capitale dei Sumeri, Ur, giungiamo al 3.800 a. C., ossia a soli 5 millenni dallo scioglimento dei ghiacci!
Insomma, in un periodo di circa 5-7.000 anni l’umanità conosciuta dovette mettere assieme tutte le conoscenze per passare dal nomadismo alla sedentarietà: agricoltura, allevamento, metallurgia, trasporti, conservazione degli alimenti, scrittura, classi sociali, ecc. Ed avere tempo sufficiente per costruire (come, poi, è ancora un mistero) il manufatto più alto del Pianeta, che restò tale fino al 1.300 d. C., con la costruzione della guglia della cattedrale di Lincoln, in Inghilterra.  Può essere?

Chiediamo aiuto ad un bravo scrittore, Jared Diamond, per il suo bellissimo “Armi, Acciaio e Malattie”: ben scritto, ben costruito e ben bilanciato fra Scienza ed ipotesi scientifiche, laddove cerca proprio di dipingere i “movimenti” degli ultimi 9.000 anni.
Diamond “concede” poche migliaia di anni per la domesticazione delle piante e degli animali, per la metallurgia e tutto il resto. Ma noi, osservando i secoli più prossimi a noi – sui quali siamo meglio documentati – possiamo dire altrettanto sulla capacità umana di fare “presto e bene”?

I primi mulini ad acqua comparvero durante l’impero di Augusto, ma dopo? Quanto tempo ci volle per giungere ad una generale e diffusa macinazione dei cereali senza più ricorrere alla forza fisica, umana ed animale? Altri 1.000 anni.




Quanto ci volle per capire che la trazione animale era la metà di quella che si poteva trarre da un cavallo, se non si usava la “collana”, ossia un anello piuttosto spesso (fatto con cuoio e paglia all’interno) che appoggia sulle spalle dell’animale e non sul collo? Per millenni tutti legarono un cappio (non scorsoio! Fin qui c’arrivavano…) od una cinghia al collo dell’animale, che in questo modo faticava di più perché respirava male, ma solo poco prima del Rinascimento si comprese finalmente l’inghippo e si dotarono i cavalli della necessaria, nuova bardatura. Quel, all’apparenza, modesto artifizio raddoppiò la potenza trainante di tutti i cavalli da tiro e concorse parecchio allo sviluppo del Rinascimento: ma ci vollero migliaia d’anni.

Fenici, Greci, Romani e popolazioni medievali varie navigarono, ovunque: andarono nelle Americhe e fino in Oceania, ma solo nel tardo Settecento gli olandesi s’accorsero che i pennoni, se collegati all’albero per uno dei vertici invece che nella parte centrale, potevano ruotare, e dunque “raccogliere” il vento molto meglio dai quadranti al traverso e, addirittura, sfruttare venti che avevano un angolo con la prua (oggi, si arriva a circa 35° da prua): si poteva andare controvento! Finalmente!
Eppure, a poppa, i grandi velieri avevano spesso una modesta vela latina (più o meno come quelle inventate dagli olandesi) ma a nessuno passò per la mente d’espandere quel concetto. Migliaia di anni a remare controvento.


Vele olandesi di fine '700


Gli stessi motori automobilistici – ossia strumenti che sfruttano cicli chimici/termodinamici per trasmutarli in forza motrice – ci misero quasi tre secoli, dai primi esperimenti di trazione a vapore, per giungere agli affidabili motori a ciclo Otto: quasi trecento anni!


Ora, tornando a Diamond che immagina 5.000 anni come sufficienti per giungere da una società di cacciatori-raccoglitori ad una società stabile, stanziale, che si è data strutture affidabili in tutti i campi, al punto di poter meditare di costruire opere ciclopiche, vi sembra coerente?

Questo è un bell’esempio per comprendere ciò che intendevo all’inizio dell’articolo: “pensare all’evoluzione dei nostri antenati con la mentalità moderna” soprattutto per quanto concerne i tempi.

Diamond spiega che le aree di scelta delle sementi e delle piante da frutto erano, per forza, i cessi. Sì, i cessi del villaggio, ammettendo che gli antichi avessero aree adibite per i bisogni corporali e non la facessero dov’erano e senza preoccuparsi molto di chi passava lì vicino: d’altro canto, ancora nel Medio Evo, la facevano nel vaso e poi la buttavano dalla finestra. Ma, ricordiamo, che per giungere ad un villaggio con aree stabili per la deiezione, bisogna essere stanziali, e non nomadi. Quindi, una piccola difficoltà già all’inizio.

Cosa facevano i nostri antenati nelle aree di “scarico”?
Ovviamente – sempre seguendo l’ipotesi di Diamond – mentre la facevano, osservavano, non avendo ancora Topolino da sfogliare. E cosa notavano? Delle piante, cresciute in un humus molto ricco di principi nutritizi, che derivavano per forza da semi passati attraverso l’intestino – interi – e che avevano germinato.
Sorvoliamo sul fatto, già di per sé strano, che dei semi passassero indenni alla forte corrosione dell’acido cloridrico che abbiamo nello stomaco e mantenessero la capacità di germinare, come facevano a sapere quali erano da raccogliere e da seminare?
I più grossi, ovviamente.

Ma, quei semi – cresciuti in mezzo agli escrementi – godevano di una condizione privilegiata (ricchezza di nutrienti) che poteva migliorare il fenotipo, ma che non poteva influire minimamente sul genotipo!
Con questo “strano” metodo di selezione, si poteva verificare la “sorpresa”: ossia che seminati in campo aperto dessero dei risultati deludenti, perché il genotipo non era affatto cambiato, i semi s’erano soltanto trovati in un ambiente più propizio.

Oppure, dobbiamo sostenere che dei cacciatori-raccoglitori nomadi cogliessero dei semi di graminacee e li selezionassero scegliendo i più grossi, sapessero (e come avevano fatto a capirlo?) che dovevano metterli sotto terra – né troppo e né poco – aspettare molto tempo, ripassare da lì e verificare cosa era successo: un ragionamento perfetto per un uomo del nostro tempo, ma possiamo affermare che sicuramente le cose sono andate così? Per della gente che ammazzava qualsiasi cosa gli capitasse a tiro con asce e lance con la punta di pietra? Per le quali l’orizzonte temporale degli eventi era limitato al “qui e ora”, ossia giungere a fine giornata con la pancia, perlomeno, abbastanza piena?
No, nessuno è in grado di farlo.

Senza criminalizzare Diamond, sono soltanto ipotesi molto nebulose, anche se “dilatiamo” le possibili date di qualche millennio, se ammettiamo che giunsero prima all’allevamento del bestiame… non sono mille anni in più od in meno a fare la differenza.
Ricordiamoci che né i Greci e né i Romani s’accorsero che le bardature dei cavalli sottraeva loro la metà della forza da tiro dell’animale e che, per “provare” a variare il punto di collegamento dei pennoni delle vele, si giunse quasi all’Ottocento!
Insomma, i nostri antenati fecero un passo così complesso – che richiede conoscenze, anche empiriche, ma molto variegate – mentre i nostri avi più vicini a noi non furono in grado di provare, per secoli e secoli,  a collegare una vela in modo diverso?

Come potrete notare, si possono – parallelamente – costruire anche altre ipotesi: i primi reperti metallurgici ritrovati datano circa 5.500 anni prima di Cristo, perciò, prima, erano veramente cavoli amari andare a caccia con le punte di selce.
Finalmente, nel 5.500 a. C., grazie all’uso dei metalli la caccia diventa più proficua e quindi tutto prende una nuova accelerazione, impensata fino a quel momento…ma…tutto questo avviene solo 2.200 anni prima d’edificare la città di Ur e d’inventare la scrittura cuneiforme? 3.000 anni prima di costruire la piramide di Cheope (senza conoscere ancora il Ferro)? Sono sempre i tempi ad essere troppo “compressi”: già, oggi andiamo di fretta…

Se, invece, cerchiamo conforto negli abissi del tempo, c’è veramente poco da star allegri. Possiamo affermare che l’Homo Sapiens esiste da circa 200.000 anni, ma per il resto…gli antropologi ed i paleo-biologi si danno da fare, certo…ma è il “quadro” ad essere troppo distante nel tempo, dovendo ricavare tutto da frammenti di ossa e qualche raro utensile, sempre col dubbio che quel pezzo di pietra scheggiata sia capitato lì per caso, abbia una datazione differente…insomma, è un mestiere per gente che non si fa spaventare dai grattacapi, avendo di fronte il puzzle più complicato che possa esistere.

In fin dei conti, tutto si basa su poche centinaia di frammenti di crani e di ossa lunghe, mentre i crani completi non sono più di qualche decina, ad essere molto “larghi”. E, soprattutto, pochissimi indizi riguardanti gli aspetti culturali (caccia, altri alimenti, abitazioni, ecc)…ne consegue che le uniche prove certe sono le dimensioni, i volumi cranici e poco altro.



Basti pensare al rompicapo della convivenza nell’Africa Meridionale di due specie d’ominidi, l’Homo Abilis – che visse fra i 2,4 e 1,44 milioni di anni fa – e l’Homo Erectus – che visse fra 1,8 ed 1,3 milioni di anni fa.
Mentre l’Homo Abilis era abbastanza piccolo, sul metro, o poco di più, forse ancora quadrupede ed aveva una capacità cranica di circa 500 cm3, l’Homo Erectus aveva un’altezza quasi come la nostra, era bipede ed un volume cerebrale di circa 1.000 cm3 (Homo Sapiens 1.300 cm3), conosceva ed usava il fuoco e si presume avesse un embrione di vita sociale.
Due specie d’ominidi così diverse vissero negli stessi territori per 500.000 anni? E si estinsero quasi contemporaneamente?

Senza volerne nei confronti dei paleo-biologi, mi sembra piuttosto curioso che due specie così diverse siano riuscite a “sopportarsi” (ossia a non eliminare l’altra) per un periodo così lungo. E poi, quella strana estinzione contemporanea, mentre si era ancora lontani un milione di anni dall’Homo Sapiens?

Passiamo ora ad una storia di tecnologia più “digeribile”, che riguarda il calcolo automatico.
Ci furono parecchi studiosi che s’interessarono al calcolo automatico, fra i quali Pascal e Leibnitz, ma fino al 1790 non si uscì dal sistema della ruota ad ingranaggi, derivata dagli orologi, per quanto complessa essa fosse. Fu un ignaro progettista di telai per tessitura ad applicare la teoria del calcolo binario, ossia Joseph-Marie Jacquard che inventò il telaio automatico, a funzionamento ancora manuale, ma con il controllo dei movimenti affidato a schede perforate. Sì/No: vi ricorda qualcosa?



Telaio di Jacquard


Alcuni matematici più solerti d’altri – Charles Babbage ed Ada Lovelace (figlia del poeta Byron), ad esempio – compresero che il principio del calcolo binario sarebbe stato il futuro del calcolo automatico.
Passarono gli anni: quel che mancava era qualcosa che potesse leggere un codice acceso/spento in una sequenza: finalmente, nel 1946, gli USA ci riuscirono con ENIAC – il primo calcolatore elettronico generalmente accettato – che pesava “solo” 30 tonnellate, aveva 18.000 valvole termoioniche ed alla sua prima accensione assorbì così tanta energia da mandare in black-out la rete elettrica di Filadelfia.


ENIAC

Ma, nel 1948…scocca il fulmine! Finalmente, la Bell Technology inventa il primo transistor funzionante!
Da dove viene? I modelli precedentemente costruiti non funzionavano ed avevano dimensioni troppo grandi…dal transistor si passò poi ai bit e decollò l’informatica che oggi conosciamo.
Ma cosa successe nel 1948?
Niente d’importante…ma nel 1947 – si dice – qualcosa “piovve” su Roswell, un ameno paesino di campagna americano…qualcosa che nessuno riusciva a capire come funzionava…però, l’anno dopo William Shockley, il direttore del progetto della Bell, vinse il Nobel! Forse, da un pezzettino di materiale piovuto dal cielo – accomunandolo ai nostri studi “indigeni” – partì la grande rivoluzione?
E siamo giunti all’oggi.

Quel che mi stupisce non è la presenza o meno degli extraterrestri: operando un semplice calcolo probabilistico, è difficile che attorno ad una stella, fra miliardi di stelle della nostra galassia, non ci sia vita. E che, magari, siano più sviluppati di noi.
Fino ad ora, c’era un po’ di riserbo a parlarne, per non venir investiti da una slavina di reazioni che potremmo restringere ad un solo concetto: sei scemo? Allucinato? Visionario?
Adesso, però, abbiamo almeno due istituzioni – la Chiesa Cattolica e la NASA, ossia l’amministrazione USA, difficile pensare che non ci sia l’approvazione presidenziale – le quali ci dicono che gli extraterrestri esistono e, probabilmente, vivono accanto a noi.
In questo caso, cosa potrebbe succedere?

Per la NASA si tratta di una comunicazione che non coinvolge profondamente la struttura della società americana: in fin dei conti, si tratta soltanto di trasfondere ET da un film alla realtà. E notate la “prudenza” del comunicato “per le difficoltà che possono creare al traffico aereo”…e per la Chiesa Cattolica?
Qui si va a toccare nel vivo i punti fondanti di quella dottrina religiosa: se le rivelazioni di Biglino sono vere, tutto il castello crolla. Perché va bene che l’antico Dio degli ebrei fosse un extraterrestre, ma che Gesù Cristo fosse anch’egli un inviato da qualche lontana costellazione, non va tanto bene. Tutto l’alone di mistero e misticismo scompare, e con esso molti esegeti e filosofi della religione cattolica.
Fra l’altro – mi sono chiesto – considerando il potere della gerarchia vaticana, come mai Biglino sia stato lasciato libero di pubblicare quel che ha pubblicato: per molto meno, altra gente non ha potuto pubblicare nulla oppure, metaforicamente, è “sparita”.

In questo caso, potremmo azzardare che Biglino – che lavorò molti anni alle Edizioni San Paolo – sia stato più che “tollerato”: in fin dei conti, si tratta di spostare solo più in là il concetto di creazione, ossia siamo i “figli” di qualcuno che è stato creato. Difatti, il traduttore torinese traduce e basta: non si occupa di questioni filosofiche, non traccia sentenze in questo senso.

A meno che sia la NASA e sia il Vaticano siano stati costretti ad accettare, obtorto collo, ciò che qualcun altro imponeva. E, a questo punto, bisogna domandarci i motivi di questa accettazione.
Se si considerano valide le traduzioni di Biglino, gli “dei” extraterrestri si fecero vivi fino al 70 d. C., laddove c’è una cronaca riportata da Giuseppe Flavio (e confermata da Tacito) la quale racconta della “fuga” di “carri volanti” prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme, operata dai Romani proprio in quell’anno. C’è poi un’altra testimonianza, più o meno coeva, di Plinio il Vecchio che cita una “battaglia” fra “carri volanti” sopra l’Umbria. Dopo, più nulla.

Se ci hanno “dato una mano” nel corso della nostra evoluzione, ad un certo punto – probabilmente – ritennero che era giunta l’ora di cavarcela da soli, cosicché si nascosero e rimasero a guardare. Dopo il “trattamento” riservato a Gesù Cristo…
Qualcuno ritiene che siano in mezzo a noi, ma non abbiamo né prove né concrete ipotesi da portare per dimostrarlo.
Cosa può essere successo per obbligare il Vaticano e gli USA a “preparare” – in qualche modo – l’incontro ufficiale? Cos’avranno da dirci di così importante?

Beh…non è che la salute della Terra, negli ultimi decenni, sia stata tanto florida: dopo la Guerra del Golfo del 1991, è stato uno stillicidio di guerre e violenze infinite, che hanno contrapposto l’Oriente contro l’Occidente in maniera devastante. Decenni di guerre, sempre correndo sul filo del rasoio che una guerra più balzana delle altre conducesse ad uno scontro fatale, a qualcuno che premesse il bottone delle armi nucleari, sicuramente la fine dell’avventura umana.
Perché prima del 1945 ci ammazzavamo e basta, mentre dopo – e soprattutto senza più il bilanciamento USA/URSS delle armi nucleari – tutto può accadere.

E il clima? C’arroventiamo in dibattiti infiniti, in sofismi iperbolici, sotto ai quali c’è sempre un attore consueto a tirare le fila: il dio denaro. Non ci vorrebbe molto a dire, molto semplicemente: smettiamo di bruciare carbone, petrolio e rifiuti perché, oggi, abbiamo i mezzi per fare le stesse cose meglio ed in modo meno dirompente per l’ambiente? Invece, nessuno di noi conosce i destini ecologici di questo pianeta, però tutti si arrogano il diritto di farlo.
Io non ho certezze che l’equilibrio planetario sia in procinto di deflagrare, però penso che ricavare l’energia dal sole e dal vento sia più conveniente e sicuramente meno pericoloso del carbone e del petrolio: ad oggi, costa di meno che bruciare carbone e, nonostante Trump continui a provarci, le aziende termoelettriche a carbone stanno accumulando passivi iperbolici.

Non pensate che, dopo Greta, si voglia tirare in ballo ET (pagando uno scotto mica da poco, soprattutto per il Vaticano) per sostenere una tesi: piuttosto, provate a spiegarvi perché il Vaticano e gli USA ammettono l’esistenza degli extraterrestri sul nostro pianeta. Provate, perché l’hanno appena fatto.