29 aprile 2010

Magia nucleare

“La natura dei popoli è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.”
Niccolò Machiavelli

Dalla Francia alla Russia – evitando però la Germania, dove hanno deciso che, man mano che le centrali nucleari diverranno obsolete, semplicemente le spegneranno ed utilizzeranno energia rinnovabile – il Grande Capo Capelli Dipinti stringe mani ed accordi, celebrando il gran ritorno dell’Italia al nucleare.
Non prima di tre anni, però, per iniziare la prima centrale e dove ancora non si sa. Siccome esiste ancora un “rischio elezioni”, non sia mai che si spiattellino segreti di Pulcinella come i luoghi dove sorgeranno futuri siti nucleari, e si perdano così i voti dei “favorevoli sì, ma nel giardino del mio vicino”.

Questi famosi siti – verrebbe da dire “elementare, Watson” – per una questione tecnico/legale, salvo qualche new entry saranno quasi tutti nelle zone dove c’era già prima una centrale, poiché quelle aree già possiedono le necessarie autorizzazioni. Le autorizzazioni non invecchiano mai, i referendum invece sì: magia nucleare.
Ovviamente, la colpa di questi ritardi è solo da imputare al “gran lavoro” che la commissione d’esperti, nominata ad hoc, si trova sul groppone per districare il contorto groviglio geografico/istituzionale dei futuri siti.
Il che, fa sospettare che i famosi “esperti” abbiano frequentato un anticipato anticipo della Riforma Gelmini poiché, anche sapendo assai poco di Geografia, non ci vuole tanto a capire dove le centrali potranno essere costruite, ossia in aree non sismiche e ricche d’acqua dolce.
Può anche darsi che una futura riforma istituzionale istituisca nuove aree non sismiche: Sicilia, Friuli, Umbria…per decreto. All’unanimità, Gelmini compresa.

Il garante di tutta l’operazione è quel galantuomo di Scajola – quello del “rompicoglioni” al defunto Marco Biagi – che adesso pare abbia comprato una casupola nel centro di Roma con un pagamento in nero di 600.000 euro, pagati – si dice, la Magistratura dovrà accertarlo, sempre che domani possa ancora accertare qualcosa dopo che sarà stata “riformata” – dal costruttore Anemone, uno dei “fiori di campo” della “serra Bertolaso”.
Insomma, con le competenze geografiche della Gelmini e lo specchiato fulgore morale di Scajola, più la benedizione del Banana, possiamo affermare d’essere in buone mani. Anzi, in una botte di ferro, come Attilio Regolo.
Eppure, non si sentono sicuri.

C’è forse un ripensamento…che so, almeno un atto di dolore per aver infranto una decisione che gli italiani avevano preso con un referendum abrogativo? No, niente.
Su quel referendum hanno glissato perché – essendo un referendum abrogativo – sotto il profilo legale aveva abolito le leggi che istituivano il nucleare dell’epoca: basta fare una nuova legge!
Fare, oggi, un referendum consultivo? Eh…mica sono scemi…eppure sarebbe il minimo. In una democrazia vera.
Chi ancora, però, non confonde le coltellate alla schiena con la democrazia ateniese, qualche mal di pancia lo scorge perché quella campagna referendaria si giocò proprio sulla scelta fra mantenere il nucleare oppure abolirlo. Una scelta politica, di campo: mica per abolire il decreto numero…della legge numero…e il comma…

Serve, allora, una vigorosa campagna pubblicitaria[1] per convincere gli italiani che il nucleare è bello, fa bene e non ingrassa. Pare che abbia anche dei positivi riflessi sulla cute, sulle rughe e sulla circonferenza dei glutei: ancora non si sa se la testimonial sarà Carlà Brunì in Sarcofagò, oppure la più “ruspante” Michela Brambilla in Ministerium. E in reggicalze. Deciderà la commissione d’esperti.

Già me la vedo quella pubblicità.
Prevedo carrellate “lunghe” su paesaggi incontaminati dove – solo in lontananza, sia chiaro – comparirà un etereo sbuffo di vapori iridescenti, mentre la sommità del reattore sarà truccata con Photoshop per assomigliare alla pipa dello zio Amilcare. Come colonna sonora, ovviamente, la Sesta di Beethoven.
Poi – se ne occuperà “Striscia la notizia”? – ci faranno entrare in un’abitazione francese con la famiglia che attende il desco. Il più piccolo dei figli avrà un girello che sembrerà l’Atomium di Bruxelles, mentre la mamma mescolerà la minestra nella zuppiera e, nei vapori, compariranno le stelline di Natale. Musica: We are the (atomic) World.
Infine, il capofamiglia condurrà la telecamera nel garage dove, ben allineati, ci saranno tre mastodontici SUV tutti con la scritta “dono di EDF”. Musica: la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Qui, la metà dei maschi italiani in età da scorrazzata notturna a tutto gas, raggiungerà l’eiaculazione.

Eh, se non ci fosse lui…chi avrebbe mai pensato – al posto dei noiosi dibattiti, della valutazione dei rischi, dell’impennarsi del prezzo dell’Uranio, della questione delle scorie, dell’eolico che da un paio d’anni, negli USA, produce più del nucleare, e poi ancora… – che la questione va sistemata, semplicemente, a suon di spot?
Siamo o non siamo un Paese di cerebrolesi?
Insomma, un po’ quello che noi facevamo credere alle giovani albanesi che appassivano curve sui libri: oggi, per fortuna, la loro salute è salva perché stanno all’aria aperta e passeggiano nei viali italiani.
Il Banana stesso, durante l’ultima visita a casa degli Skipetari, ha raccomandato al premier di Tirana di continuare con le forniture di carne fresca.

Così, con i soldi pubblici della RAI – paradosso: anche con i soldi di quelli contrari! – sarà allestita una bella campagna pubblicitaria, con tutto lo staff prelevato fra figli, nipoti, cugini e parenti vari dei notabili pidiellini. Uno staff ben pagato, ovviamente: chissà se questa volta scoppierà pubblicopoli?

Ci ha colpito, in questi giorni, l’affermazione del buon Scajola – “una faccia, una razza”, come dicono in Grecia e noi aggiungiamo “una certezza” (!) – nella quale sosteneva che la maggioranza degli italiani è oramai favorevole al nucleare. Poche balle, su. Addirittura, il 54%![2].
Peccato che non siano stati comunicati gli estensori della ricerca, le metodologie…niente. Lo dice Agi Energia è ciò vi basti, popolo incredulo: direttore responsabile Giuliano De Risi, nominato a quel posto nel 2005. Regnante sempre lui, il Banana.

Ora, che la questione del nucleare non possa essere affrontata a colpi di sondaggi (e di pubblicità) è papale, però ne ho scovati parecchi che raccontavano cose un po’ diverse. E, importante, tutti citavano le fonti degli istituti di ricerca, dai quali si possono ricavare le metodologie adottate. Li riporto nelle note [3] [4] [5] [6].
Poi, che Legambiente tiri da una parte e Scajola dall’altra si può capire: ma, almeno, le fonti e le metodologie adottate…
D’altro canto, se gli italiani fossero in così larga maggioranza favorevoli al nucleare, che bisogno ci sarebbe di metter su tutto il can can pubblicitario?

Ciò che si ricava dai sondaggi è che la percentuale degli italiani, favorevoli ad avere una centrale nella propria Provincia, cala drammaticamente: un terzo, anche meno. Perché?
Non è soltanto la ben conosciuta solfa del “non nel mio giardino”, perché gli italiani – in larga maggioranza proprietari delle loro abitazioni – guardano anche al mercato immobiliare.
Già sappiamo che, sulle prime, faranno roboanti promesse: soldi a tutti, elettricità gratis, come nella famiglia della pubblicità. Chissà che non arrivino anche delle escort atomiche.
Poi, quando si spegneranno i riflettori, gli italiani che avranno accettato scopriranno che il valore immobiliare delle loro case si sarà ridotto ad un terzo: e non fidatevi dei dati francesi! Le case, in Francia (a parte Parigi e poche altre aree), costano già un terzo rispetto alle corrispondenti abitazioni italiane! Il motivo? Leggete “La guerra di Cementland”[7].

Comunque, buona gente, dormite sonni tranquilli: non ci sono vere centrali nucleari in costruzione, solo quelle della pubblicità. Fra un materasso ortopedico ed una cyclette, troveranno il modo per far guadagnare qualche soldo alla solita squinzia che poi si porteranno a letto: tutto finirà lì. Perché?
Poiché ci sono parecchi segnali in tal senso.

Mangiafuoco s’è recato all’incontro con Putin[8] accompagnato dal Gatto e dalla Volpe, in arte Conti e Scaroni, i capoccia di ENEL e di ENI.
Sotto l’albero (anche se non è Natale) c’erano già i doni: le forniture di gas per l’ENI ed il completamento del Southstream, tanto gradito a Putin, Scaroni e poco da Obama.
Dopo una breve pausa di rilassamento, nella quale hanno promesso centrali a fusione – ma quando, fra mezzo secolo? Nessuno c’è ancora riuscito! – si è passati ad un altro “pezzo da novanta”.

Per Conti, c’era una vera e propria sorpresa: la costruzione a Kaliningrad (o, se preferite, Königsberg) di una grande centrale nucleare, avente una potenza installata (su due gruppi) di circa 2.350 MW. Roba grossa.
Per chi l’avesse scordato, Kaliningrad è un’enclave russa completamente staccata dalla madrepatria, giacché è compresa all’interno dei confini lituani e polacchi nel Baltico centro-meridionale. Che cosa se ne fa, Mosca, di una centrale che si trova in una regione che non ha vie d’accesso alla Russia? A Putin piace giocare la parte degli ucraini nella “guerra del gas”? Ma per favore.
Come è stato limpidamente dichiarato, la produzione della centrale sarà destinata alle “aree europee”. E, l’Italia, dove si trova?

Per rassicurare ancor più l’ospite, il Banana ha dichiarato che l’inizio dei lavori per la prima centrale nucleare italiana avverrà non prima di tre anni. Ma…sa contare?
Già pensare che questo governo duri ancora tre anni è una bella scommessa, con la maggioranza che “va sotto” in Parlamento e passa un emendamento dell’opposizione. Chi mancava all’appello? Tantissimi deputati, ma fra i tanti i più erano quelli di Fini.
Tanto per fare una gentilezza “all’amico Gianfranco”, il Banana fa pubblicare sul giornale del fratello (!) un bel articolo che prende di mira Fini, accusandolo di una trama oscura fra la di lui suocera e la RAI. Se dovessimo meravigliarci per tutte le nefandezze della RAI, dovremmo scrivere dall’alba al tramonto per 365 giorni l’anno.
Mentre Bossi tuona col suo federalismo, il Banana – ma, allora, è proprio sfatto, pronto per la macedonia – si scusa con Fini, questa volta facendolo incavolare come una bestia. Ma, insomma…di chi è il Giornale?

Se, anche, domani Bossi e Fini s’innamorassero perdutamente l’uno dell’altro – con il Banana stesso a fare da testimone alle nozze – e la legislatura durasse ancora tre anni, s’andrebbe a nuove elezioni in pieno “subbuglio nucleare”, magari con una campagna referendaria in atto. Scelta oculata, non c’è che dire: se non hanno nemmeno il coraggio di pubblicare i nomi dei futuri siti nucleari!
Quindi, signori miei, dormiamo sonni tranquilli: Conti si porta a casa una centrale (va beh, in Russia, ma l’elettricità viaggia alla velocità della luce…) mentre Scaroni si gonfia le tasche di gas e petrolio russo. Il Banana può continuare a raccontare la sua panzana nucleare e tutti sono contenti: dopo, darà la colpa ai comunisti. Anzi, a Fini ed ai comunisti, anzi no, a Fini comunista. Parola di Fede.

Nota metodologica.
Chi conosce come scrivo, sa benissimo che non mi piacciono gli epiteti e non amo insultare: non ho mai chiamato Silvio Berlusconi “il Banana”.
Dopo, però, aver compreso che per Silvio Berlusconi io – e con me tutti gli italiani – siamo ritenuti soltanto un ammasso di cellule cerebrali da ammansire con le grazie di qualche velina del gran circo Barnum/Raiset, soprattutto per una questione di vitale importanza come l’energia, non ho più motivo per non appellarlo “Banana”, anzi, “testa di banana”.

Articolo liberamente riproducibile, ovvia la citazione della fonte.

25 aprile 2010

Il panciafichismo fra etica ed estetica

“Il compito attuale dell'arte è di introdurre il caos nell'ordine.”
“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.”
Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno

A volte, si deve meditare sui sostantivi e sugli aggettivi, senza temere di perder troppo tempo. E’ il caso di un articolo comparso su Comedonchisciotte qualche tempo fa – Ma che bella provincia! – a firma di Pasquino Potenza. Pseudonimo o vero nome? Nel secondo caso, quasi un sotterraneo ossimoro, giacché i Pasquini furono sempre le voci dei deboli.
Il termine “panciafichista”, riportato da Pasquino Potenza e che non ascoltavo da tempo, ha subito associato nella mia mente un breve pensiero del defunto Gianni Baget Bozzo, il quale – alla fondazione del Popolo della Libertà – pontificava:

“Il Popolo della Libertà sarà un partito nazional-popolare. Il movimento di Berlusconi è nato con un appello rivolto al popolo. Ma il popolo non colto. La sinistra ha il monopolio della cultura in Italia e il premier ha in mano il popolo povero contro quello grasso.”

Già, il popolo “povero”. Questa sì che è una vera elucubrazione da sacrestia, ma la concediamo, visti gli orizzonti del “profeta” che l’ha espressa. Quel “povero” – per Baget Bozzo – non è da intendere in senso economico – e chi è più ricco degli evasori fiscali che santificano san Silvio? – bensì culturale. D’altro canto, Baget Bozzo precisava: “non colto”.
Potremmo considerare in questa analisi anche l’attuale scontro interno al PdL – non dimentichiamo che il creatore del neologismo fu Mussolini, ma il termine fu coniato, all’epoca, come spregiativo d’inconcludente pacifismo – ma sarebbe limitativo, poiché il linguaggio è per sua essenza intrinseca in divenire: giammai indica – con lo stesso termine – la medesima situazione od emozione, visto che ogni tempo colora con diversi accenti il substrato che i termini stessi tentano d’interpretare. Un rapporto dialettico nel quale è piacevole sguazzare senza, però, correre il rischio di perdersi: potremmo concludere, “un sensato pudding di parole”.
Inoltre – per la pochezza della singolar tenzone, tutta interna ad un sistema politico marcescente – ci sembrerebbe d’usare la teoria dell’analisi infinitesimale per misurare le aree sottese delle Uova di Pasqua: de minimis non curat praetor.

In realtà, l’impeto panciafichista italiano è iniziato ancor prima di Berlusconi – almeno del Berlusconi politico – e nulla o poco ha avuto a che fare con il pacifismo. Una re-interpretazione del termine mussoliniano potrebbe, oggi, partire dalla scissione dei termini che compongono il (quasi) neologismo, ossia pancia e fica, al posto degli originali pancia e fichi.
L’albero di fichi era, almeno fino alla metà del Novecento, considerato gran fonte di piacere, giacché pochi frutti nostrani generano una tale attrazione per la gola: in principio furono pane e fichi poi, col progredire del reddito, fichi e prosciutto.
Oggi, nessuno più stempera la propria esistenza cullandosi nel nirvana della scorpacciata di fichi – alla quale sacrificare onore e morale – mentre sul femminino del gustoso frutto…beh…qui c’è trippa per gatti…

Ci siamo spesso chiesti quale valore sia sopra tutti nell’idilliaco nirvana italiota e, pur munendoci della lanterna di Diogene, soltanto la scorpacciata pantagruelica (La Grande Abbuffata di Ferreri? Eravamo nel 1973…) sembra reggere, mentre il necessario contrappasso altro non può circostanziarsi che nell’adire, con solerzia e fissità d’intenti, alla tumida rosa.
L’overdose di pasta allo scoglio e di crostacei arrostiti sulle braci, oppure il maialetto arrosto impastato di Nero d’Avola richiede, necessariamente, l’apoteosi energetico/riproduttiva da consumarsi tra fresche coltri in un letto, solleticate dalla rovente brezza d’Agosto. E non c’è niente di male.
Sarebbe sin troppo facile stabilire delle consecutio temporali, nelle quali l’epicureismo sfrenato diverrebbe necessario prodromo per nottate da trascorrere, placati gli amorosi sensi, alla tastiera o con la tavolozza in mano. Ristabiliremmo, in qualche modo, un equilibro classicista, da cenacolo settecentesco: invece, così non è.
La commedia si trasforma in dramma quando interviene l’evirazione dell’effetto, ossia quando leggi non scritte e canoni mai ammessi – la morale cristiana qualcosa c’entra, ma non è il perno della metamorfosi – vengono repentinamente negate, rimosse, dimenticate. Evirate, appunto.

Analisi frettolose hanno spesso imputato all’Italia degli ultimi decenni uno sfrenato concedersi all’estetica: molti autori si sono cimentati nella critica allo scivolamento, al concedersi troppo alle sirene estetiche. Solo oggi – quando il processo è giunto ad estremi che ne portano alla luce le evidenze più tragicomiche – possiamo comprendere che d’estetismo s’è trattato, non d’estetica. Poiché l’estetica – pur navigando sulla sua rotta, senza curarsi d’altro – qualche “conto” con l’etica l’ha dovuto fare.
Non tiriamo in ballo il dibattito classico sui rapporti fra etica ed estetica, proprio poiché classici e dunque non appropriati a definire quadri nei quali è il processo stesso di definizione e tratteggio dei fenomeni ad essere carente: torneremmo agli integrali ed alle Uova di Pasqua.
Negheremo dunque scientemente quel rapporto – indagato niente di meno che da Kant (anche se, personalmente, preferiamo l’approccio dialettico illuminista) – poiché trascendente rispetto all’orizzonte del panciafichista. In altre parole, resteremo “bassi”, anche se non potremo adagiarci del tutto nell’alcova dei panciafichisti, maschi e femmine.

Dovremo anzitutto sgombrare l’assurda convinzione – spesso veicolata da pessimo femminismo – che esista un paritetico “panciafallismo”: non ci sentiamo di sostenere questa tesi.
A nostro avviso, è senz’altro più pratico – pur ammettendo, in via puramente teorica, che il ribaltamento speculare del termine sia possibile – considerare il panciafichismo moderno composto da una parte attiva e passiva. In altre parole – pur concedendo una naturale differenza fra colmatore e colmata – sul piano ideale il riferimento al fenomeno è lo stesso.
Di cosa si nutre il panciafichista?

Frettolosamente ri-definito come istinto animalesco – l’avvicinarsi all’albero delle “fiche” per placare l’appetito, questa volta esistenziale – il panciafichismo nega in sé proprio l’aspetto esistenziale: non ne è travolto né fiaccato e neppure corrotto (accoppiando, al termine, le “rotte maledette” dell’esistenzialismo, da Rimbaud a Kerouac). Semplicemente, lo rimuove.
Se, per il panciafichista “classico”, la fase istintuale poteva rappresentare una dedizione, quasi una soluzione esistenziale, per quello post, post, post…moderno, non rappresenta nemmeno più la negazione, bensì una sorta di fanciullesca ed inconsapevole atarassia, raggiunta e coltivata senza un contributo personale, completamente passiva.
La chiave di volta per ricomporre gli attributi del fenomeno passa necessariamente, per prima cosa, nel differire l’estetica dall’estetismo. Il quale ne è, ovviamente, soltanto la diafana ombra che conduce al famoso barattolo con “merda d’artista”.
Sarebbe però già eccessivo codificare nell’estetismo classico il mondo dell’arte che ci circonda, poiché anche il livello dell’arte auto-referenziale è drammaticamente basso. Madonna e Lady Gaga fanno ancora parte dell’estetismo, oppure scadono nel popolare edonismo?

Domandandoci quale fenomeno – fra quelli che ci circondano – sia più facilmente riferibile all’estetismo, ci salta agli occhi quello pubblicitario.
L’uomo medievale non osservava, nell’intera vita, più di un centinaio d’icone: quasi tutte a carattere sacro, e soltanto la nobiltà aveva “accesso” alla raffigurazione mondana, quasi sempre – però – incasellata nel Mito del classicismo.
La pubblicità cartacea, che fino alla metà del ‘900 resse il campo, era poca cosa se raffrontata con la potenza espressiva del nascente mezzo radiofonico e, soprattutto, con le migliaia di personalissime Gestalt della lettura.
Originariamente, il termine “pubblicità” significava “rendere pubblico” un evento, ed era quello che a grandi linee faceva l’ingenua pubblicità della TV in bianco e nero.
In quel panorama, s’inserì un messaggio pubblicitario popolare il quale, invece di differenziarsi dalla morale vigente e dal comunissimo tran tran della vita di tutti i giorni, lo sottolineava con esempi che “legavano” i nuovi consumi all’esistente. Ma, non si teneva in conto l’esigenza inestinguibile all’espansione dei consumi, l’unico vero obiettivo del post, post, post…moderno capitalismo.

Ecco, allora, con l’esaurirsi delle spinte propulsive nate dalla ricostruzione postbellica, ma anche dal crollo del sostanziale equilibrio fra l’incremento di produzione ed i consumi durato fino alla metà degli anni ‘70, che l’esigenza pubblicitaria deve, necessariamente, diventare violenta, poiché deve oltrepassare le naturali difese dello spettatore/consumatore ed obbligarlo a ritenere inconcepibile privarsi dell’oggetto.
La nuova esigenza, smaccatamente violenta, trova nell’estetica un limite verso il quale mostra insofferenza: per colpire e distruggere la soggettività critica. Il canone estetico diventa un gravoso fardello, e lo incenerisce.
Dovremmo, per chiarezza, soffermarci a soppesare con attenzione i tempi del processo: millenni con quasi nulli messaggi iconici, mezzo secolo di radio e giornali, qualche lustro di pacata intromissione pubblicitaria, tre decadi almeno di violento e forzoso scardinamento di tutti i canoni. A fronte, la mente umana che ha ben altri tempi d’adattamento.

Se confrontiamo la tendenza al risparmio fra i Paesi che sono giunti prima a questo scenario (le nazioni degli Angli, soprattutto), con quelli che hanno ritardato il processo di un paio di decadi, scopriremo che l’aumento della pressione pubblicitaria – non il reddito! non la produttività! non la produzione! – è colui che erode il risparmio.
Qui, s’inserisce un aggravio di follia tutto italiano: il gran reggente del processo mediatico/pubblicitario sgomita al punto di salire, ad uno ad uno, gli scalini del potere giungendo alla vetta, dove trova le chiavi dello scrigno delle meraviglie, quello che consente di regolare la velocità del processo!
Non vorrei che qualcuno, poco attento o frettoloso, confondesse questo concetto con il più comune conflitto d’interesse: di ben altro si tratta!

Osserviamo come, in pochi decenni, è avvenuta la completa distruzione della sfera erotica: la produzione pornografica ha appiattito ogni rappresentazione dell’eros ad un processo sempre uguale – tette, bocca, lato A, lato B, conclusioni – nel quale la soggettività dell’uomo e della donna, le loro identità, sono racchiuse e “corrette” all’interno di un copione. La povera Dita Von Teese viene confinata nell’universo del “burlesque”: forse perché si prende burla dello sciacquone erotico confezionato nei garage della periferia di Praga?
Le danzatrici indiane e del Sud-Est asiatico profondono oceani del più schietto erotismo, ma noi abbiamo smarrito il canone – ossia il nostro “apparato ricettore” – per goderne le grazie.
E il calcio?

L’ultimo interprete del grande canone estetico del calcio è stato Diego Armando Maradona: dotato per grazia divina di un estro incomprimibile, nella famosissima discesa e goal contro l’Inghilterra frantumò la prigione nella quale quel bellissimo gioco è oramai imprigionato. Fu un atto glorioso, ma irripetibile per chi non è stato spruzzato con il nettare degli Dei: il canone sportivo odierno prevede un atletismo esasperato, proprio per distruggere al primo mostrarsi quelle capacità divine.
Potremmo dilungarci, ma il senso è chiaro: distruggendo ogni canone estetico, la piatta uniformità che ne deriva consente ai più degenerati piazzisti di paccottiglia umana d’imperversare. Fu un caso che Chirac – uomo appartenente per tradizione alla destra europea – proibì l’etere francese alle TV commerciali del Biscione, definendo il loro padrone un “vendeur de soupe”?

Non si tratta, oramai, d’argomenti o d’espressione artistica, bensì di format e di linguaggio: nella polemica fra Antonio Ricci e Nicola Lagioia, chi scrive si schiera apertamente e senza nessun dubbio dalla parte di Nicola Lagioia. La tristezza, che la vicenda emana, deve tenere soprattutto in conto che Antonio Ricci è persona di grande intelligenza: l’importanza del linguaggio e della scenografia sa benissimo cosa significano, e quanto siano dirompenti per lo spettatore.
Giunti a questo punto, possiamo far rientrare in scena il nostro abulico panciafichista: è dunque colpevole?

Privato, da parte di un efficientissimo sistema di comunicazione, di tutti gli elementi atti a discernere l’oro dall’ottone – giacché l’assenza di canoni estetici non consente critica – naviga a vista premendo tasti del telecomando, ricevendo soltanto un rumore di fondo eterogeneo nei contenuti ma spietatamente omogeneo nella prassi e nei modelli esposti: tempi, linguaggio, musiche…il cosiddetto “format”.
Lentamente, anno dopo anno, quel ritmo lo ipnotizzerà come un malefico mantra: gli orientali se ne intendono più di noi sul potere della parola, del suono e della concentrazione visiva su un oggetto. Difatti, lo yantra è il corrispondente grafico del mantra.
Come può “smontare” un così perfido inganno?

Semplicemente, da solo, non è in grado di farlo: le generazioni “televisionizzate” sono, semplicemente, perdute. Non a caso, l’astensionismo consapevole è soprattutto appannaggio dei giovani, le persone sotto i 35 anni, la generazione di Internet: una timida speranza.
E torniamo all’assioma originario, ossia al rapporto fra etica ed estetica nel nostro panciafichista: potrebbe, dopo un simile bombardamento, leggere le mille interpretazioni dell’etica presenti nella storia della Filosofia? Così, en passant, da Socrate a Sartre? E’ disumano soltanto il proporlo.
Eppure, la cancellazione di ogni fondato canone estetico conduce ad accettare qualsiasi forma od azione soltanto per il piacere che genera: non si tratta soltanto della volgare pornografia, bensì di tutto ciò che attiene alla violenza in diretta.
Filmati su catastrofi e disastri, esecuzioni, violenze, bombardamenti, assassini…se solo sono in “presa diretta”, scatenano milioni di clic. Perché?

Poiché l’unico obiettivo è valicare un ulteriore limite, osservare l’inguardabile, il terrifico, in una corsa sfrenata nella quale la parvenza assume i contorni della conoscenza. L’estremo inganno.
Il piacere di trionfare e (forse) di sopravvivere – in qualche modo – ad altri diventa il solo faro da seguire, la sola nota da ascoltare. Non è forse, questo, la negazione dell’etica? Dov’è la riflessione oltre il clic? Nella maggior parte dei casi, non avviene e tutto termina quando si cambia sito o filmato: proprio con l’incedere “cingolato” del format.
In fin dei conti, questo modello sta bene a destra come a sinistra perché, in definitiva, è la magia che consente ricchezza ed onori: semmai, i distinguo sono personali, dovuti a crisi di coscienza individuali, a percorsi che nulla hanno a che vedere con la sfera della politica.
Lentamente, anche coloro che riteniamo i nostri aguzzini, vengono accalappiati ed ammaliati dal mondo che loro stessi creano: finiscono per credere veramente d’essere coloro che reggono i destini della polis.
Ma la polis, per essere retta, necessita di valori che segnino il limite…e si torna da capo.

Si potrà anche credere che esistano delle “cabine di regia”, burattinai organizzati, società segrete e via discorrendo…esisteranno per certo, ma sono soltanto ulteriori sovrastrutture di un sistema impazzito che è diventato talmente auto-referenziale da santificare se stesso: una sorta di “estetismo politico”.
L’uomo “unto del Signore”, il banchiere che fa “il lavoro di Dio” sono soltanto le comparse di una rappresentazione che non ha più regia: pianificato un sistema che crea denaro dal denaro stesso, non ci possono essere altre vie che sorvegliare la catena di montaggio, tanto è vero che le banche stanno riprendendo le medesime abitudini truffaldine che avevano prima dei subprime.
Qualcuno lo racconta, altri se ne lamentano, ma nessuno ha il potere di fermare l’ingranaggio di “Tempi moderni”: a ben vedere, Chaplin aveva già compreso tutto.

A margine, possiamo soltanto immaginare gli effetti che la nuova abitudine planetaria, l’incedere senza curarsi dei canoni, può e potrà produrre: schiere di visi anonimi dedite solamente alla percezione, personale ma senza strumenti critici, di qualcosa che possa soddisfare il proprio ego. Un apocalittico gioco a mosca cieca, nel quale ciascuno incede travolgendo il vicino: è il corrispettivo della “polverizzazione sociale” spesso rilevata, con i termini ed i canoni della sociologia, dagli istituti di ricerca.

Qualcuno immagina, con un po’ d’ottimismo, che la religione e la politica possano ancora compiere l’azzardo, la virata che potrà salvarci. La Chiesa Cattolica è oramai troppo secolarizzata e divisa al suo interno: un giorno tenta di mostrare i pericoli dell’assoluta mancanza di canoni, ma il giorno dopo fa carte false con gli omuncoli politici per salvare un principio del proprio canone, senza curarsi delle mutazioni sociali, delle diverse percezioni.
E attacca il relativismo come principale colpevole della decadenza: lo fa in modo strumentale, dimenticando che il relativismo è solo una prassi per indagare ed evolvere dei canoni, etici ed estetici, non per distruggerli.
Sulla politica, su questa politica, meglio il silenzio.

Perciò, ci possiamo soltanto dividere fra panciafichisti consapevoli ed inconsapevoli e – ironia della sorte – non sappiamo, sulla scena, a chi sia toccata la parte migliore.
Forse qualcuno, un panciafichista completamente inconsapevole, oppure un panciafichista più consapevole, una sera – quando premerà sul telecomando per spegnere l’apparecchio – fermerà il mondo.
Magari, il giorno dopo mescoleranno le carte e Dio – o chi per lui – taglierà il mazzo. Ma queste sono soltanto storie che potrebbero raccontare Kafka o il barone di Munchausen: gente che è vissuta protetta dai canoni, etici ed estetici.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

17 aprile 2010

La battaglia di quota 162


Che farai Pier da Morrone?
Se’ venuto al paragone…
Jacopone da Todi

Qualcuno si sarà stupito della veemente reazione di Gianfranco Fini nei confronti di Silvio Berlusconi, scontro che avviene l’indomani di un successo elettorale.
Per comprendere quella che appare quasi un’anomalia, dobbiamo prima valutare due scenari: la mutazione sociologica della realtà italiana da un lato, il cambiamento della percezione, in politica, della prassi utilizzata per raggiungere gli obiettivi.
E’ difficile, inoltre, separare completamente i due aspetti poiché interdipendenti e dialettici.

Un primo aiuto giunge da due lunghi articoli che scrissi circa un anno fa: “Non può che finire così” prima[1] parte e seconda[2] parte (collegamenti in nota). Riassumo brevemente:
Analizzate le cause del lungo declino italiano (privatizzazione della Banca d’Italia, Euro, dismissione del patrimonio industriale pubblico e dei servizi pubblici, deriva “autoritaria” in politica, legge elettorale, ecc) giunsi alla conclusione che il “sistema Italia” non poteva più reggere molto. Non trovando più soluzione sul piano politico generale – poiché implicherebbero, al minimo, la completa sostituzione della classe politica – essa viene individuata “salvando” la parte più produttiva del Paese ed abbandonando alla “elemosina europea” il resto. Questa, ripeto, è solo una brevissima sintesi: invito, prima d’inoltrarsi a disquisire sul breve quadro esposto, a leggere quegli articoli.

L’unica “novità” era rappresentata dall’affermarsi, al Nord, di un sempre più forte sentimento autonomista, rappresentato politicamente dalla Lega Nord. Tralasciando le vie che potranno (o potrebbero) condurre ad una secessione (poiché le secessioni sono generate dal mutare dei rapporti politici: la loro definizione “sul campo” è mera prassi del momento), notiamo che tale processo – dopo le elezioni regionali del 2010 – si è manifestato più nitidamente.
Un ministro leghista (Calderoli) che sale al Quirinale con una proposta di legge costituzionale già pronta, presentata in un semplice cenacolo privato, la dice lunga sul punto al quale il processo è giunto.
Lo scontro – apparentemente – sembra vertere solamente su questioni di voti e di maggioranze, mentre sono i processi politici che sottendono gli effetti che devono essere soppesati.

Gianfranco Fini riteneva, quando aderì al PdL, d’esser lui il Delfino; invece, si trovò nella parte di Bertinotti della scorsa legislatura: onorato, ma completamente isolato.
Al momento non sappiamo se Fini porterà a compimento il suo intento, ma riteniamo molto difficile che riesca a sottrarsi, ancora una volta, alle decisioni che lo attendono.
In sintesi, le decisioni di Fini lo confinano in due scenari, entrambi riconducibili alla vicenda di Bertinotti: a quello del 1998 oppure al secondo, del 2006.
Nel primo caso – gettando la spada nell’agone politico – Bertinotti riuscì a salvare il suo partito mentre nel secondo, la fine anticipata della legislatura ma anche le mutate condizioni politiche, lo condussero all’estinzione. Vorremmo essere una mosca, per conoscere qualche riflessione a voce alta di Fini, ma riteniamo che la “parabola” del leader comunista abbia attraversato più volte i suoi pensieri.

Continuare nella pantomima di un PdL “partito vero” condurrà Fini direttamente ad occupare, negli anni futuri, poltrone di una certa importanza (col rischio, però, di fare la fine di Pera o di Pisanu) ma lo sottrarrà completamente all’agone politico.
Formare un gruppo parlamentare interno al PdL – di fatto, un suo partito – in qualche modo gli restituisce margini di manovra che, col trascorrere del tempo, Berlusconi gli sottrarrebbe inesorabilmente.
Le lamentele di oggi sono figlie di quelle di ieri, quando AN s’accorse che, nel Nord, il consenso guadagnato con la “svolta di Fiuggi” era inesorabilmente eroso dalla Lega: alcuni coordinatori locali di AN – già alle elezioni regionali del 2005 – si lamentavano “che il partito, nel Nord-Est, stava sparendo”.
Da qui – oggi – riparte la vocazione “sudista” del partito di Fini: non a caso, una delle lamentazioni più calcate, riguarda proprio la situazione siciliana e del Sud in genere, unici luoghi dove Fini può ancora trovare consensi che non siano “oscurati” dall’espansione berlusconiana.

Per capire le sottili discriminazioni che sono state fatte nei confronti del potenziale elettorato di Fini, prendiamo come esempio un modesto emendamento alla Finanziaria che fu presentato da un “ex AN” sulla scuola.
Il sen. Valditara – vista l’assurda situazione che vede nella scuola italiana il 55% dei docenti con un’età superiore ai 50 anni (la media europea è del 30% di over 50) – si proponeva di “svecchiare” un poco il corpo docente pensionando i circa 60enni anche nel caso non avessero raggiunto i requisiti. Insomma, la sua proposta[3] “regalava” due anni di contributi figurativi. I costi? Irrisori (42 milioni in tre anni, meno di 15 milioni l’anno) ma, la commissione Bilancio, lo bocciò. Perché?
Non si trattava certo di questioni di bilancio: le vicende legate a Bertolaso ed all’allegra compagna di costruttori “gaudenti” che lo circondavano, ha mostrato ben altri livelli di spesa. Solo le spese di Palazzo Chigi sono aumentate, in due anni, di circa 1,5 miliardi di euro: non si tratta, quindi, di quei quattro soldi.
Insomma, il problema non è valutare la proposta di Valditara o i finanziamenti a Bertolaso, bensì di capire chi quei soldi avvantaggiavano.

Nel primo caso docenti (e la qualità della scuola in generale), nel secondo costruttori.
Fra quei docenti, non ci sono soltanto “comunisti” bensì persone di destra: non è un mistero che, nell’elettorato di Alleanza Nazionale, ci fossero moltissimi dipendenti pubblici, quelli che si sono visti dileggiati e trattati come ladri dal minus veneziano. Il risultato? Alle recenti elezioni regionali, 2 milioni di voti in meno per il PdL: riflettiamo che tutte le vittorie e le sconfitte elettorali sono oramai da osservare nel quadro di un’asta al ribasso. Vince chi perde di meno.
Se, al vertice, Berlusconi premia soltanto gli ex di AN et similia che si rivelano fedelissimi non al partito, ma alla sua persona – pensiamo alla Santanché, nominata sottosegretario per essersi prestata a giocare una parte nella vicenda privata del divorzio, accusando Veronica Lario di aver avuto una storia sentimentale…vicende squallide, del peggior gossip – nel Paese tende a premiare il suo elettorato ed a trarre risorse, per farlo, dall’ex elettorato di AN, assimilandolo per composizione sociale ai “comunisti”.

Nel volgere dei prossimi tre anni – dai vertici alla base – l’elettorato di AN sarebbe completamente fagocitato e privo di voce in capitolo. Umberto Bossi, che è “animale politico” come pochi – nel senso che avverte quasi “ad istinto” il mutare del vento – si mostra molto pessimista sulla ricomposizione del dissidio, e già pensa ad elezioni.
Questa la situazione attuale che potremmo circoscrivere a due situazioni: ricomposizione o frattura.

Nel primo caso, Fini seguirà il destino che è stato di Bertinotti nel 2006, nel secondo caso – in un modo o nell’altro – farà saltare il banco. Berlusconi non accetterà mai di governare passando ogni giorno sotto le forche caudine di Fini, e saranno quindi elezioni.
Da qui in avanti, il discorso diventa più interessante: dove andrà Fini?

Non è un mistero che siano già in corso, oggi, abboccamenti con Casini, con Rutelli e, probabilmente, con esponenti del PD, ma fermiamoci alla “triade” Fini-Casini-Rutelli.
Nel panorama di una forte disaffezione dell’elettorato di destra (2 milioni in meno! Il 5% circa degli aventi diritto!), questo nuovo “centro” potrebbe raggranellare fra il 10 ed il 15% dei consensi, forse più.
Restando pressoché stabile l’elettorato del PD e dell’IDV, la diminuzione dei consensi dell’asse PdL-Lega non consentirebbe più a Berlusconi di governare.
A quel punto, il “porcellum Calderolensis” si rivolterebbe contro Berlusconi stesso e, soprattutto al Senato, non ci sarebbe una maggioranza in grado di governare. Insomma, la famosa “quota 162” che fu l’assillo di Prodi.
Grande confusione sotto il cielo: chi avvantaggerebbe?

Non è un mistero che potenti lobbies stiano seguendo attentamente quanto sta avvenendo: dal Governatore Draghi che pubblica sempre dati economici più pessimisti rispetto a quelli del Governo, a Montezemolo ed alla Marcegaglia che chiedono soldi per le imprese, fino alle associazioni meno appariscenti, più occulte, ed agli scenari internazionali.
Sotto l’aspetto internazionale, il progetto secessionista della Lega non è visto di buon occhio: qualcuno (leggi: Germania) non gradirebbe certo di ritrovarsi un Centro-Sud che sarebbe la copia della Grecia. E, questo, nonostante sia stata la Germania stessa – ma in anni lontani, e le situazioni cambiano – la grande mecenate del sen. Miglio.

Un tentativo “centrista” o di centro-sinistra sarebbe visto di buon occhio dalla burocrazia europea – il solito governo d’emergenza nazionale – per togliere ancor più ricchezza e diritti e salvare l’unità della Nazione.
Sull’altro versante – ossia sulla sopravvivenza politica di Berlusconi – c’è poco da fare affidamento: quando Berlusconi confessa di sentirsi un “pirla”[4] mentre parla con Tremonti, ammette di non rendersi conto della gravità dei conti pubblici italiani. Oramai, le differenze con la Grecia sono soltanto dei soffi.
In realtà, l’attuale Governo non ha il “fiato” per raggiungere l’agognato traguardo di fine legislatura: mancano i soldi per tutto, ed il fondo del barile è già stato raschiato. Altro che ponti e centrali nucleari.

Potrebbero rivolgersi – dal punto di vista fiscale – al loro elettorato, ma sarebbe un suicidio politico: molti che votano Berlusconi, lo fanno per avere condoni fiscali, edilizi, “scudi fiscali” ed un generale disinteresse fiscale sui loro patrimoni.
La scuola è già stata azzerata per coprire l’abolizione dell’ICI per i redditi più elevati, i nostri ragazzi guadagnano 1.000 euro il mese (da precari e quando va bene), le pensioni sono state tagliate, i contratti sono soltanto un ricordo: che fare?

Berlusconi, se potesse – ossia se non dovesse, terminata l’avventura di Governo, fare l’imputato “a vita” – sarebbe il primo a voler lasciare la nave che affonda, ma non può: lotterà fino alla fine per non trascorrere il resto dei suoi anni da un’aula giudiziaria all’altra.
Un futuro Governo di unità nazionale sarà costretto ad inasprire la fiscalità: Draghi ha più volte annunciato che bisognerà inasprire ancor più la materia previdenziale.
Gli italiani, mostrando saggezza, per più del 40% hanno dimostrato di non credere più a questa classe politica, non recandosi ai seggi: senza lunghe analisi, hanno già capito che la scelta è fra la padella e la brace.

Fin quando nuove forze politiche non riusciranno ad affermarsi, per uscire dal quadro asfittico dell’attuale politica, non ci sarà speranza: troppe sono le cose che andrebbero cambiate.
Anzitutto, pochissimi livelli decisionali: uno Stato forte ed un solo livello intermedio, cancellando Province e Regioni. Interventi sull’energia rinnovabile, creando know-how e posti di lavoro in Italia, intaccando – finalmente ! – quei 40-60 miliardi di euro che sono la “bolletta energetica” annuale, il sempiterno “buon pascolo” per ENI ed ENEL. Per trasformarli in ricchezza fruibile dagli italiani.
Le cose le sappiamo tutti: il ritorno della sovranità monetaria allo Stato, la fine delle “avventure di pace” nel mondo (con quel che costano!)…e poi, scuola, sanità, trasporti…

Questo è un Paese da rifondare, e non saranno certo le “imboscate” romane di uno o dell’altro a cambiarlo: ci vorrebbero capacità, serietà ed indipendenza dai poteri forti. Ossia vera democrazia: quel che manca.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

12 aprile 2010

Guadalajara

Mai ci saremmo attesi una notizia di questo genere: tre operatori umanitari italiani, arrestati dalle forze armate afgane con la collaborazione della forza ISAF, della quale fanno parte anche militari italiani!
La notizia, in sé, si smonta come un gelato sull’asfalto d’Agosto: come molti avranno notato, all’ingresso degli ospedali di Emergency c’è sempre la scritta: “No weapons”.
Significa, semplicemente, che chiunque chieda aiuto per essere curato negli ospedali di Emergency deve depositare le armi prima d’entrare. Non è difficile immaginare che, una stanza vicina all’ingresso della struttura ospedaliera, sia adibita proprio a “deposito” per chi porta con sé delle armi: dunque, l’accusa d’aver trovato armi, è un segreto di Pulcinella.
Chi conosce l’Afghanistan sa benissimo che – anche prima delle varie guerre che hanno insanguinato il Paese negli ultimi decenni – era abitudine degli afgani girare armati.

Oggi, quell’avvertenza significa semplicemente che, negli ospedali di Emergency, tutti vengono curati senza guardare da quale parte combattano: lo ha spiegato più volte – a chiare lettere – lo stesso Gino Strada.
Ma, al ministro (minuscolo) Frattini, non sta bene che ci siano italiani che curano i taliban, ossia chi combatte nel proprio Paese (è bene ricordarlo) contro truppe occupanti: che, poi, queste truppe siano “portatrici di libertà”, è una liberissima opinione del ministro Frattini. Non appoggiata né condivisa da milioni d’italiani, i quali si chiedono perché, un Paese che non riesce nemmeno a fornire un dignitoso assegno di disoccupazione per chi perde il lavoro, debba spendere due milioni di euro il giorno per quella che appare sempre di più un’operazione coloniale.
Inoltre, è comune opinione della comunità internazionale – e, scusate se è poco, della Convenzione di Ginevra – che tutti gli attori di una, ahimé, tristissima guerra abbiano il diritto di ricevere cure se feriti. Oppure, il ministro Frattini preferisce che “non siano fatti prigionieri”?

La colpa di Emergency, non giriamoci attorno, è solo quella d’esistere: sconvolgente la dichiarazione di Frattini, nella quale precisa che Emergency è una "struttura non legata alla cooperazione"[1]. Quali sono le “strutture cooperanti”, solo quelle legate al carro di Bertolaso, le quali hanno la loro bella corte di magnaccia e puttane?
La verità è che stanno preparando una bella offensiva per “ripulire” – bello il gergo militare, vero? – la provincia di Helmand, e lo faranno con il solito andirivieni di cacciabombardieri che sganceranno bombe al napalm, al fosforo, a frammentazione…sulla testa della gente. Quando tutti – vecchi, donne e bambini compresi – saranno diventati cadaveri, diverranno tutti “Talebani” e saranno diligentemente conteggiati nei database della forza ISAF.
E’ grazie a questa strategia che la forza ISAF è riuscita a consegnare ai Taliban il 97% del territorio afgano: facendoli, semplicemente, incazzare come delle iene. V’invito a leggere la precisa documentazione sul sito di Barbara/Cloro: il collegamento è in nota[2].

Nel palinsesto del “reality” afgano, il nemico deve sempre avere le parvenze di un brutale mujaiddin pronto a colpirvi ovunque, fin nella vostra casetta in Brianza. Dovete percepirlo come un nemico, un brutale assassino, un demonio che vi costa due milioni il giorno tener distante.
Perché il giochetto riesca, però, bisogna che nessuno vada a filmare e fotografare case in rovina, povere braccia di bambini che emergono dalle macerie, corpi dilaniati, carne macinata sulle polverose vie afgane: il sogno/inganno deve essere totale, come da anni tutto ciò che viene raccontato in Italia è.

Invece, quelli di Emergency – al quale sono orgoglioso d’affidare il mio 5 per mille, signor Frattini – non si limitano a curare le ferite della guerra ma pretendono di fare di più: di mostrare chi quelle ferite le procura. Se riportassimo a casa i nostri soldati – così non arriverebbero più bare a Ciampino – cosa ci perderemmo? Forse il bracciale dello schiavo, asservito al marcescente impero americano?
Questo è il dilemma che Emergency portava e porta non nelle nostre case – siete bravi a controllare con i vostri servi tutte le emittenti televisive – bensì su Internet, unico luogo che ancora può fregiarsi dell’emblema della libertà.
Noi, milioni di italiani, siamo orgogliosi e riconoscenti ad Emergency, ci affratelliamo a chi cerca di lenire le sofferenze della guerra e, allo stesso tempo, cerca di combatterne la cause e di mostrarne gli effetti.
Lo fa con armi semplici: medicinali, bisturi e telecamere. Queste ultime sono quelle che v’infastidiscono.

Perciò, ministro Frattini, scelga la parte dalla quale stare – come a Guadalajara, tanto tempo fa, italiani contro italiani – perché noi ci saremo ancora, ma questa volta con le nostre armi senza colpi, senza violenza, senza napalm né cacciabombardieri ma indistruttibili, perché portatrici del siero della verità. E s’informi su chi vinse quella battaglia.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

09 aprile 2010

Solimano guarda verso Est

Se proprio dovessimo confessare il sentimento che abbiamo provato leggendo l’accusa, esplicita, lanciata a Parigi dal premier turco Erdogan ad Israele – il genocidio di Gaza – potremmo definirlo meraviglia, ma non stupore.
In altre parole, non c’attendevamo una così esplicita veemenza, ma la sostanza c’era già chiara.
Cos’ha detto, Erdogan?

Israele rappresenta oggi la principale minaccia per la pace regionale…Se un paese fa un uso della forza sproporzionato, in Palestina, a Gaza, utilizza bombe al fosforo, non gli diremo “bravo”. Gli chiediamo come possa agire in questo modo…Goldstone è ebreo e il suo rapporto è chiaro…non c’è dichiarazione alla quale gli israeliani non reagiscano, non si rimettono mai in discussione, non c’è un giorno in cui non ritengano di aver ragione.[1]

Ma ce n’è anche per i sostenitori di sanzioni od interventi militari nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare:

finora l’AIEA ha parlato di probabilità e non di certezze.”

La dura presa di posizione turca dovrebbe essere soppesata con attenzione sia ad Ovest, sia ad Est: perché?
Poiché, soprattutto dopo “l’era Bush” – ossia dopo i fallimenti della politica USA nello scacchiere del Vicino e Medio Oriente – c’è un grave deficit politico nel mondo musulmano e qualcuno sarà chiamato, presto o tardi, ad assumersi le responsabilità che oggi sono delle fallimentari amministrazioni occidentali o dei loro Quisling.
La situazione “sul campo” è sempre grave, anche se i media occidentali hanno iniziato a “spegnere le telecamere” sull’Afghanistan ma, soprattutto, sull’Iraq: si riportano notizie d’elezioni politiche, ma s’omette di raccontare quante vite continua a stroncare la guerriglia, civili iracheni e militari USA.
Ciò che manca in Europa e negli USA è veramente una “exit strategy”, ossia quella che potrà essere, in definitiva, un andarsene almeno con “l’onore delle armi”. Nemmeno questo è possibile pianificare.
Se l’Afghanistan è tuttora territorio di guerra, quello che vogliono far credere è che l’Iraq sia diventato in qualche modo “normale”: come si può definire “normale” un Paese dove il tempo è ritmato dagli scoppi delle autobombe?

Se le armi occidentali hanno completamente fallito (ammettendo di credere, come allocchi, che questa fosse la loro missione) nell’esportazione della democrazia, oggi non sanno nemmeno come riportare, almeno, la situazione ad un livello “accettabile” per andarsene.

Per capire quanto sia costante, nel tempo, questo fallimento, ci viene in aiuto un giornalista sui generis, sul quale non possiamo assolutamente nutrire dubbi d’incompetenza o di superficialità nel valutare quei luoghi, quelle guerre e quegli scenari: Thomas Edward Lawrence.
Ecco cosa scriveva in una corrispondenza per il Sunday Times, il 2 Agosto del 1920, sull’Iraq:

Il popolo britannico è stato condotto in Mesopotamia in una trappola, dalla quale sarà difficile uscire con dignità ed onore. Sono stati ingannati mediante la costante mistificazione dell’informazione.
Il nostro governo è più carente del vecchio sistema turco. I turchi presidiarono il Paese con 14.000 militari di leva (locali compresi) ed uccisero una media annuale di duecento Arabi per mantenere la pace. Noi, dispieghiamo 90.000 uomini, con aeroplani, autoblindo, battelli armati e treni corazzati. Abbiamo ucciso circa 10.000 Arabi solo durante la recente Estate.”
[2]

Le parole di Lawrence potrebbero, con differenze di dettaglio, essere pubblicate con la data odierna. E qui entra in gioco Erdogan.

Apparentemente, le dichiarazioni di Erdogan possono essere interpretate come un attacco ad Israele: in realtà, sono il necessario distacco da posizioni filo-israeliane, quel tanto che basta per accreditare nuovamente la Turchia come un interlocutore attendibile nel mondo arabo e musulmano.
Se non bastano le parole di Lawrence per convincerci dell’inadeguatezza, dell’inconsistenza politica dell’Occidente in quelle aree – dall’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916, la dichiarazione di Balfour per aggraziarsi il barone Rothschild (che finanziava lo sforzo bellico britannico), passando per il trattato di Sèvres del 1920 e terminando con le farsesche elezioni irachene ed afgane di questi anni – bisognerà comprendere che nel mondo arabo e musulmano di serie proposte politiche se ne scorgono poche. Anzitutto, per la pochezza degli attori.

L’Arabia Saudita è certamente il regno del denaro e dei petroldollari, ma è anche la nazione che vive – diremmo “istituzionalmente” – un grave deficit di democrazia, intesa come completa assenza di dialogo interno, di dibattito politico: tutto è deciso, pianificato e controllato dalla reggia di Ryad.
Potrebbe essere altrimenti? Il regno saudita è poco popoloso, composto prevalentemente da deserto e con un’economia completamente succube del petrolio: mancano principalmente gli “attori” del vivere sociale. La stessa cosa vale, in dimensioni ridotte, per gli Stati del Golfo.
Anche la Giordania è troppo piccola per essere veramente attrice nello scenario medio-orientale, nonostante gli sforzi di una dinastia mai doma nell’accettare tali angustie.

L’Egitto, da sempre, è nazione-guida per il mondo arabo: l’Istituto di Al-Azhar è probabilmente il maggior centro del pensiero musulmano, il passato ha visto sulla scena egiziana personaggi del calibro di Nasser. E’ il presente il problema.
L’Egitto è “congelato” da troppi anni in una sorta di “mubarakesimo” che ne ha devitalizzato le energie prorompenti. Il “regno” di Hosni Mubarak assomiglia sempre di più a quello ricordato in Russia come l’epoca di “nonno Breznev”: una società bloccata nelle sue dinamiche, sottoposta ad un’asfittica censura di polizia, laddove le energie vitali sembrano perdersi come acqua negli uadi.
Cosa rimane? Il minuscolo e frammentato Libano? La sfinge libica?

La Siria è la nazione che ha mantenuto più d’ogni altra, dopo il crollo dell’URSS, l’antica impostazione nasseriana del socialismo reale, mentre la disputa con Israele per la restituzione delle alture del Golan non ha mai trovato soluzione.
D’altro canto, la Siria non ha certo le potenzialità economiche dei due vicini: all’Est, l’Iran degli ayatollah, ad Ovest la Turchia, l’erede dell’Impero Ottomano.
E, se vogliamo tornare un poco indietro nei secoli, queste sono le due realtà che hanno impregnato il mondo musulmano, più dei califfati di Baghdad – senz’altro più ricchi di cultura, che proveniva, però, in gran parte dall’Est – ma privi di quel pragmatismo che ha consentito ai due Paesi di valicare secoli di storia senza mai essere schiacciati da un colonialismo di nome e di fatto.

Cosa sta accadendo, oggi?
L’Iran sta procedendo a marce forzate verso l’industrializzazione e la modernità, con un tentativo unico nel suo genere d’interpretare l’Islam senza violentarlo ma senza, sull’altro versante, farsi imbrigliare come i Paesi del Golfo.
Se, però, guardiamo più alla Storia Moderna, solo la Turchia possiede un “know-how” imperiale nel mondo musulmano: l’Impero Ottomano, caduto meno di un secolo fa, è uno dei grandi “animali addormentati” della Storia, che poco è valutato e che tanto, ancora oggi, determina negli eventi.
Basti riflettere che la Bosnia è ancora oggi una “piccola Turchia”, che Paesi come l’Albania nacquero proprio dal collasso del grande impero morente, colpito dalle armi europee ovunque perché vastissimo, dal Bosforo all’Iraq, dalla Libia al deserto arabico. Proprio i luoghi dove oggi manca qualsiasi proposta politica convincente, il vuoto pneumatico della proposta.

Qualche commentatore un po’ superficiale ha giustificato la veemente “uscita” di Erdogan con la questione armena, “elevata” dal Congresso USA a livello di genocidio. Fra un po’ sarà un secolo che si parla del genocidio armeno, eppure la Turchia non aveva mai meditato di rompere l’alleanza con Israele – e, di fatto, d’incrinare quelle con gli USA e con l’Unione Europea, giungendo a mandare all’aria un’importante esercitazione NATO – soltanto per la vicenda armena.
E’ ovvio che un simile approccio non favorirà l’integrazione della Turchia in Europa: allora, perché? Questioni interne?

Se così fosse, Erdogan si sarebbe limitato ad infiammare qualche piazza fra il Bosforo ed Erzurum, come aveva già fatto in passato: lanciare da Parigi – prima di un colloquio con Sarkozy – una simile freccia, significa non temere le conseguenze internazionali. Anzi, quasi cercarle.
Se s’osserva con più attenzione la Geografia di quei luoghi, si noterà che la lunghissima frontiera turca dell’Est corre dalla Siria all’Iran per centinaia di chilometri. Comunità turche sono stanziate nel nord dell’Iraq (a Kirkuk, ad esempio) fino in Cina, lungo l’antica Via della Seta.

E’ senz’altro presto per definire quali potranno essere gli sviluppi nell’area, ma di certo la forza NATO in Afghanistan è sulla via del logoramento: locale, causato dalla guerriglia e dall’instabilità del governo Karzai, e generale, dovuto alla sempre maggior scarsità di mezzi economici degli USA e dell’Europa. Come riecheggiano le parole di Lawrence!
La frattura ad Occidente sarà compensata – ci sono già stati ampi segnali in merito – con un rinsaldarsi dei legami con la Siria e con l’Iran, ma questo è ancora poco per giustificare il passo di Erdogan.

La Turchia si sta proponendo per il “dopo” NATO ed USA in Afghanistan ed in Iraq, quando quei Paesi saranno abbandonati a loro stessi. La partita vede già in campo l’Iran – il 60% della popolazione irachena è sciita, e lo stesso Bush padre evitò di salire fino a Baghdad, nel 1991, per non “regalare l’Iraq all’Iran” (e contestò la successiva scelta del figlio) – mentre, ad Est, un sempre più claudicante Pakistan non riesce a garantire più nulla, nemmeno il controllo interno del territorio.
L’attacco di Erdogan ad Israele – più che una presa di posizione nei confronti di Tel Aviv – significa una presa di distanza necessaria, quasi una “credenziale” da “spendere” – domani – in una futura strategia pan-islamica nella regione. Dove, per ora, l’unica alternativa per le Nazioni che politicamente contano – ossia Turchia, Siria ed Iran – è l’alleanza.

La porta che si sta schiudendo ad Est – la lunga via che conduce fino alle “locomotive” cinese ed indiana – sembra oggi più allettante dell’asfittica Unione Europea, degli USA con le pezze al sedere, dell’orgoglio israeliano che sconta un isolamento oramai totale nell’area: c’è da chiedersi cosa succederà in Egitto con il “dopo Mubarak”.
Non fraintendiamo: non sarà certo una Sublime Porta ma, quelle centinaia di miglia di monti e deserti ad Est di Erzurum, sono per Ankara – oggi – più importanti della Padania e della Ruhr. Al punto di schiaffeggiare pubblicamente Israele.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

02 aprile 2010

Resurrecti-off

Date a Cesare quel che è di Cesare, ed a Dio quel che è di Dio.”
Vangelo secondo Matteo (cap. 22 v. 21).

In questi giorni ho ricevuto molti auguri di Buona Pasqua: come tutti, del resto. Ci scambiamo gli auguri facendo finta che, tutti noi, attendiamo la celebrazione, il ricordo della resurrezione del Cristo. Un uomo rinato dopo tre giorni dopo essere stato crocifisso: un fatto storico del quale nessuno degli autori latini dell’epoca – i cronisti ufficiali ed ufficiosi del tempo – dà notizia. Silenzio, assoluto, su quel fronte.
La “controinformazione” di quegli anni, però, racconta questa storia che passa di bocca in bocca, viene recepita da cuori colmi di speranza e da menti violentate dall’occupazione. E passa nel tempo.

Sia come sia la vicenda storica del Cristo, il messaggio originale era la resurrezione, ossia il rinnovamento dell’uomo: concetto atavico, che ritroviamo nel Ramadan, nel Kippur ebraico, nella Pasqua ortodossa, nei ritiri monastici che coincidono con la stagione delle piogge in Asia ed in altre culture e religioni.
L’uomo che si ritira lontano dal mondo per rinnovarsi, per incontrare l’alter – dopo la pausa di riflessione/rinnovamento – con un nuovo cuore, dove il perdono infrange ogni postumo di rabbia e d’orgoglio.

Si dirà che la Fede degli uomini è cosa assai diversa dalla Chiesa, anch’essa degli uomini: di Dio è meglio non parlare. Anzi, nemmeno nominarlo, come consigliò padre David Maria Turoldo nella sua ultima intervista, che volle rilasciare quand’era oramai morente. Più saggiamente, le religioni orientali condensano lo spazio dell’ignoto e dell’inarrivabile nella sillaba sacra “Aum”, quasi un invito a perdersi, senza timore, nell’infinito del non-conosciuto, nel mare magnum dove l’umana conoscenza rimane in superficie, a rimirare gli abissi silenziosi.

Proprio oggi, Venerdì Santo – il giorno più carico di significati antichi, ore di riflessione e di silenzio – se si leggono i giornali è come gettare l’occhio sul Mercato del Tempio, quello che il Cristo – secondo i suoi esegeti – distrusse a calci, con violenza inaudita per un uomo che – storicamente – è vissuto come l’archetipo della mitezza.
Il mercimonio elettorale che c’è appena stato è sotto gli occhi di tutti: l’appoggio completo al centro-destra nelle ultime elezioni – riconosciuto da Berlusconi stesso pubblicamente – viene oggi “pagato” da due ex celti (ah, ah, ah!) in cravatta verde con la proibizione di mettere in commercio una pillola abortiva che, negli altri Paesi, è usata da circa vent’anni. E, il Vaticano (ossia la Chiesa Cattolica Romana, non dimentichiamolo), plaude all’iniziativa dei governatori leghisti!

Da tutta la vicenda sale un olezzo che fa venire il vomito – non per la vittoria dei candidati di centro-destra, ci mancherebbe – bensì per la concatenazione logica degli eventi: cascate di cause ed effetti e di dubbie inferenze che infrangono non l’etica dei monsignori vaticani (su quella c’era già poco, prima, da far affidamento), bensì incrinano le radici stesse, dottrinali, della Chiesa Cattolica Romana.

“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, recita un proverbio. Con chi “va” – in queste ore di fine Quaresima, nel periodo dell’anno di massima riflessione sul cammino dell’Uomo – la Chiesa Cattolica Romana?

S’affianca senza ritegno al partito che nelle piazze del Nord recita cose inaudite: mentre si processano docenti che mettono in stretta relazione, sul piano degli effetti, la Shoà ebraica con lo sterminio del popolo palestinese, amministratori leghisti inviano tranquilli ed indisturbati messaggi ai “negher” nei quali li “avvertono”.
“Ringrazino che l’inceneritore del paesello xy non è ancora in funzione, altrimenti…” “Usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino”…non è il caso di proseguire con le citazioni, perché l’ode “anti-barbarica”, il “Vangelo” (come lui stesso l’ha definito) pronunciato da Giancarlo Gentilini a Venezia, è una “sintesi” che racchiude tutti i più squallidi umori viscerali del razzismo e dell’intolleranza.

Cosa fa la Chiesa? Per carità, non cadiamo nell’errore di scindere le situazioni e d’affermare che la Chiesa appoggia valori a lei vicina per assonanza culturale e dottrinale! Nel mondo degli umani – pur ammettendo l’universalità delle idee – conta chi scegli come compagno di viaggio.
E, oggi, i compagni di viaggio dei cardinali romani sono i Borghezio e gli Zaia, i Cota ed i Bossi il quale – solo pochi anni or sono – teneva comizi dove minacciava uno scisma del Nord e brandiva cartucce.

Verrebbe da dire che la Chiesa Cattolica Romana ha ricondotto le pecorelle all’ovile. La realtà ci sembra assai diversa: quando si presenta (e s’appoggia) alle elezioni un certo Magdi “Cristiano” (boh…) Allam, nato musulmano, lavato con Perlana in qualche kibbuz e poi cresimato con gli oli sacri della Cristianità in San Pietro, c’è da chiedersi cosa sia oggi il cattolicesimo di Ratzinger.

Quando, pur di non accettare un semplice principio – una donna cattolica, coerentemente, non userà quella pillola, una donna non cattolica, se vorrà, ne farà uso – si scende a patti con chi non considera un africano un semplice abitante di un altro continente, bensì un “negher”, si torna alla Chiesa del Cinquecento, nella quale ci s’interrogava se i neri avessero l’anima. Per concludere che la cosa non era né certa né provabile: tanto per concedere ai negrieri dell’epoca di separare le famiglie di schiavi che avevano contratto matrimonio cristiano di fronte ai primi missionari.
Già che c’erano, con il Concilio di Trento stabilirono l’invalidità del Sacramento in assenza di precedenti pubblicazioni – che nella savana africana sarebbero state, ovviamente, affisse in chiese che non c’erano – così ogni dubbio per i negrieri fu fugato. La tratta, sulla base di quei principi, andò avanti quattro secoli.

L’ossessione della Chiesa di Ratzinger è soltanto il primato, che si deve ottenere a qualsiasi costo, anche scendendo a patti con il diavolo razzista: per questa ragione affermiamo che la cosa non tocca solo la Chiesa nei suoi aspetti secolari, bensì nelle sue basi dottrinali, nella sua velleitaria tendenza – oramai corrosa – all’universalità.
Nessun Paese europeo – nemmeno la cattolicissima Spagna – è costretto a subire una simile arroganza: l’unica speranza è che, in questa landa desolata d’ignoranza, nasca un giorno un Elettore di Sassonia.

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