31 dicembre 2009

Medio Oriente in pillole

Da qualche tempo a questa parte, pare che le questioni medio-orientali siano diventate motivo di contesa politica spicciola, di rivisitazione storica assai superficiale: mi riferisco soprattutto agli utenti di Comedonchisciotte.org, dove pare che ogni articolo scateni sempre più risse e sempre meno ragionamenti, al punto che sto chiedendomi se valga ancora la pena di scrivere per quel sito.
Ma scendiamo a bomba sull’argomento.

Per capire cosa sta succedendo nel Medio Oriente (più il Vicino Oriente) bisogna tornare al 2003, quando le truppe americane sbaragliarono l’esercito di Saddam Hussein. Cosa prevedibile, com’era facile prevedere che l’Iraq si sarebbe presto trasformato in una sorte di Vietnam senza jungla: è un leitmotiv delle guerre americane dopo la II G.M, ossia “vincere la guerra e perdere la pace”.
Ciò deriva dall’incapacità di un popolo che non è mai stato colonialista quando tutti lo erano: difatti, guai ancora peggiori – agli USA – li hanno evitati i britannici, che di queste cose se ne intendono. E persino gli italiani.
In poche parole, gli americani credono alla favoletta dei “liberatori” – la loro retorica ne è intrisa, sono una nazione nata da una guerra contro dei colonizzatori – e non riescono a comprendere che, una volta conquistato un Paese, l’unica cosa da fare è giungere a patti con la classe dirigente sconfitta, altrimenti la nazione è ingovernabile.

Nel 2003, George Bush I il Vecchio avvertì il figlio del rischio che lui stesso s’era trovato ad affrontare nel 1991: “liberare” l’Iraq per regalarlo all’Iran. Bush II il Giovane – mal consigliato da personaggi con scarso acume strategico (si noti la defezione di Powell) – non prestò attenzione ai consigli del padre e, di conseguenza, finì in un vicolo cieco.
Tutti ricordiamo lo stillicidio di vittime USA che aumentavano di giorno in giorno, mentre l’inquilino della Casa Bianca mangiava noccioline.
Affermare che l’Iraq sia oggi “pacificato” è una menzogna – nel solo periodo 1-23 Dicembre 2009 sono stati uccisi almeno 13 soldati USA[1], più quelli che muoiono per le ferite e gli invalidi (non dichiarati) – ed Obama ha dovuto spostare molto in là nel tempo il “rompete le righe” in Iraq, con il plauso dei repubblicani ed il dissenso dei democratici. Business is usual.
Ciò nonostante, il numero degli attacchi è sceso: perché?
Poiché, facendo leva sulla maggioranza sciita nel Paese, gli USA hanno appoggiato ed appoggiano gli sciiti e la minoranza curda in funzione anti-sunnita, ottenendo in questo modo una minor conflittualità nei loro confronti, ma giungendo – infine – al paradosso di Bush il Vecchio, ossia “regalare” l’Iraq agli iraniani.

Per quanto riguarda il passato, vorrei ricordare che lo scrivente mai ritenne probabile una guerra contro l’Iran, e tutti gli articoli che scrisse sono ancora là a testimoniarlo. Certo, non si può mai esser certi al 100%, ma per affermare che non ci sarebbe stata guerra – quando tanti sedicenti “analisti” lanciavano un “allarme guerra Iran” la settimana e comunicavano “segreti” spostamenti di Task Force USA – bisognava avere il coraggio delle proprie opinioni. E guerra non c’è stata, meno che mai in futuro.
Quei movimenti navali erano reali, indiscutibili, ma facevano parte della “Naval diplomacy” per convincere l’Iran a “richiamare” il riottoso Moqtada al Sadr all’ordine, e per fornire qualche spaventapasseri utile agli ayatollah iraniani, tanto per fare accettare l’accordo. Si veda, come termine di paragone, la “Naval diplomacy” durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, per rendersi conto di come certi movimenti navali non siano da ascrivere al quadro militare, bensì diplomatico.

In cambio, l’Iran ottenne il via libera per il suo programma nucleare: con una “zampa” in Iraq, gli iraniani sapevano e sanno benissimo che gli USA non sono più in grado di mercanteggiare. Gli USA hanno cercato di coinvolgere la Russia per l’arricchimento esterno ai confini iraniani dell’Uranio – cosa che sarebbe stata gradita ai russi, moneta sonante e la possibilità di “regolare” dall’esterno il programma nucleare iraniano – ma a Teheran non hanno abboccato, stipulando (in chiave energetica e politica) con la Cina la vendita, per 25 anni, del gas iraniano. Più l’eterna alleanza con l’India in chiave anti-pachistana, ed i russi sono stati spiazzati.
Nello scacchiere Medio Orientale, quindi, la situazione trova un compromesso al ribasso il quale, in ogni modo, ha il pregio di rallentare la guerriglia in Iraq. Al prezzo di un Iran che cresce, economicamente e militarmente.
Se cercate la prova del nove, chiedetevi perché l’ENI si è aggiudicata il contratto per il “succoso” giacimento di Zubair – Paolo Scaroni l’ha definito “un bel boccone” – e se Scaroni, vecchia volpe del petrolio, decide di cacciare i soldi per un giacimento nel sud dell’Iraq, sa che i tempi sono maturi per farlo[2].

Se il Medio Oriente, se non altro, piange meno, nel Vicino Oriente si ride poco, anzi.
La repentina decisione di creare una moneta unica nel Golfo (Iran escluso, ovvio) sembra una risposta saudita, sul piano finanziario, alla crescita militare dell’Iran.
Pur essendo entrambi i Paesi produttori di petrolio, la loro struttura sociale è profondamente diversa: poco popolosa ed ancorata ad un sistema feudale la Saudi Arabia, paese “giovane” che punta sull’industrializzazione e sui frutti della conoscenza l’Iran.
Ovvio che i sauditi non possono, per loro struttura sociale, competere con l’Iran sul piano della tecnologia e della produzione industriale, e per avere forze militari in grado di controbattere all’Iran devono affidarsi agli eterni alleati, gli USA.
Per questa ragione, il “Gulfo” non sembra avere (a differenza dell’euro) valore di moneta “strategica”: parrebbe più un supporto al dollaro che altro, considerando che le altre monete “in gara” per il mercato dell’energia sono senz’altro più “corpose”: l’euro in primis, ma anche – in futuro – lo yuan cinese ed addirittura il vecchio rublo si fa avanti.
Perciò, una moneta di per sé “esterna” all’area del dollaro, ma ad esso ancorata non da legami finanziari ma strategici, potrebbe essere gradita a Ryad – che potrebbe mettere in campo qualcosa per contrastare l’egemonia iraniana nel Golfo – ma dall’altra anche dagli USA i quali, sapendo benissimo che il dollaro è oramai una moneta “a termine”, almeno per gli scambi petroliferi potrebbero fare affidamento su una moneta “amica”, nel senso che potranno sempre regolare il rubinetto che rifornisce l’aeronautica saudita.

In questo quadro, chi va a soffrire di più è senz’altro Israele.
Tramontato, con la guerra in Libano, il sogno di porsi come crocevia per gli scambi petroliferi dal Nord (Caspio, Kurdistan, ecc) al Sud grazie al porto di Askelon, Tel Aviv si rende conto d’essere la pedina di gambit, da sacrificare per eventi maggiori. E non ci sta.
Le diplomazie israeliana ed americana sembrano esser giunte ad un punto simile a quello del 1956 – la crisi di Suez – quando gli israeliani cercarono in tutti i modi di far entrare gli USA nella partita, ma non ci riuscirono perché quella guerra, per Washington, doveva significare il tramonto delle ex potenze coloniali, GB e Francia. E così fu.
Non si può dire che le due diplomazie siano in conflitto fra loro, ma che corra unità d’intenti è una falsità: gli interessi americani divergono oramai diametralmente dalla nota dottrina della “Eretz Israel”, e Tel Aviv sa che non aggiungerà più un metro quadrato di territorio. Anzi, dovrà difendere il West Bank e Gaza dalle richieste internazionali di uno Stato Palestinese.
Che fare?

Nella prospettiva di non poter attaccare i siti nucleari iraniani – sotto il profilo militare sarebbe una follia: troppo distanti, troppi rifornimenti in volo, ampio margine d’allarme per i difensori, ecc – si prova con la destabilizzazione interna. Funzionò ai tempi di Mossadeq, ma quelli erano altri tempi, una situazione molto diversa.
Sull’Iran si fa tanta confusione, soprattutto perché si finisce per osservarlo con i nostri occhi, occhi occidentali. Se è vero che non potremmo mai accettare di vivere in un Paese come l’Iran – nessuno di noi potrebbe ammettere le impiccagioni – è altrettanto vero che un iraniano non si troverebbe certo a suo agio qui: troppa Storia ci divide.
La società iraniana è – a nostra differenza – vitale perché giovane ed “innamorata” della politica, soprattutto stima un Presidente che ha saputo mettere in primo piano la crescita ed il benessere della nazione rispetto agli interessi stranieri: a ben vedere, avremmo qualcosa da imparare.
Sull’altro versante, è innegabile che certe restrizioni del vivere sociale vadano “strette”: difatti, si fa largo uso d’alcolici nelle feste private, nelle case. Mai in pubblico.
Le ragazze “sfidano” l’obbligo del velo portandolo quasi sulla nuca: sono le naturali pulsioni e contraddizioni di una popolazione giovane che desidererebbe maggior libertà.

Non scambiamo, però, queste richieste come il voler buttare al macero la storia del Paese degli ultimi 30 anni: nessuno vorrebbe tornare indietro, ai tempi dello Scià, salvo pochi reazionari monarchici.
La sfida iraniana diventa quindi interessante sotto il profilo sociale per l’intero mondo musulmano: il problema – che a nostro avviso molti non avvertono – è che non possiamo giudicarlo con il nostro metro! Il termine “Illuminismo” – da noi – ha un preciso significato, mentre laggiù non vuol dir nulla.
Separare l’ambito religioso da quello sociale, senza scadere nella secolarizzazione della dottrina religiosa, e tanto meno relegandola in una Torre d’Avorio è impresa ardua, anche perché gli iraniani ritengono il Credo sciita parte integrante della loro vita.
A differenza dei sunniti, che non hanno quasi organizzazione gerarchica religiosa, il credo sciita è fortemente strutturato: moneta a due facce senz’altro, ma che consente un dialogo fra interlocutori certi.
In mezzo a questo vero e proprio tourbillon sociale, è chiaro che è facile innestare dall’esterno delle parvenze di “rivolta” contro il Governo iraniano: queste rivolte esistono, ma non sono ascrivibili né comprensibili se non all’interno della tradizione del Paese. Ripeto: non con il nostro metro.
D’altro canto, nel quadro geopolitico sopra presentato, cosa rimane da fare alle diplomazie occidentali? Cercare almeno, a mo’ d’arma spuntata, di creare grattacapi a chi governa, pur sapendo che non s’otterranno grandi risultati.

Tutto ciò, però, getta ancor più nella disperazione la situazione palestinese: se il quadro geopolitico non consente ad Israele l’espansione che desiderava, sarà molto difficile strappare delle concessioni su quel fronte.
Anche qui, notiamo come il rapporto Goldstone non sia – ad oggi – ritenuto di sostanziale valore fondante per giungere ad una svolta nella situazione: anch’esso viene usato in chiave diplomatica, come contrappeso alle velleità israeliane di potenza.

Comprendo che il quadro potrà apparire cinico, ma è a questo che dobbiamo riferirci se vogliamo dissertare di questioni geopolitiche. Non è ciò che desidereremmo in un’ottica di pace e di prosperità per tutti, ma è ciò che abbiamo. It’s diplomacy, baby. Rassegnati.

Per ora, accontentatevi degli auguri di Buon Anno.

Copyright 2009, riproduzione vietata. E’ solo possibile scrivere un breve abstract e linkare l’articolo.

24 dicembre 2009

Mai ce lo saremmo aspettato

Eh sì, proprio la sera di Natale, non ci saremmo mai attesi di scrivere qualcosa in difesa della Chiesa Cattolica. Sarà l’aria del Natale.
Sinceramente, ci hanno proprio infastidito i modi e le esternazione del rabbi Cohen, dopo la visita in Vaticano a Benedetto XVI.
Non si tratta di un problema religioso e nemmeno dell’eterna querelle sulla Shoà: è solo una questione d’educazione.
Per chi non lo sapesse, il rabbino Cohen da Haifa ha trovato da ridire sulla decisione dell’apposita commissione vaticana, la quale ha deciso di promuovere la beatificazione di Pio XII e di Giovanni Paolo II.
Proprio perché non cattolico, ritengo che chiunque non lo sia abbia il dovere di tacere, e questo proprio per il rispetto che si deve all’altrui Credo.
Ci mancherebbe che, nel nome del dialogo interreligioso, un buddista dovesse chiedere il permesso per ricordare Milarepa all’ayatollah Khamenei, oppure che un musulmano dovesse chiedere il permesso di pregare per un Imam al Patriarca di Mosca: ma dove siamo?
Premettendo che sulla cause di beatificazione l’unica autorità competente è quella cattolica, non vogliamo nasconderci dietro ad un dito ed entriamo nella spinosa questione.
Cohen ha dichiarato che Papa Pacelli non fece abbastanza per salvare gli ebrei: opinione legittima, per carità, ma di pertinenza storica e non dottrinale. E, anche a voler cercare il pelo nell’uovo, Cohen dimentica che Pio XII visse fino al Giugno del 1944 in una città occupata dai nazisti, e quasi tutta l’Europa lo era.
Pacelli fece probabilmente la scelta della “fleet in being”, ossia valutò che fare un passo azzardato non avrebbe sortito nessun effetto sui nazisti, mentre avrebbe compromesso la possibilità d’usare i monasteri cattolici per dare rifugio agli ebrei. E, i nazisti, si guardarono bene dall’invadere le strutture della Chiesa Cattolica. Ci sono quindi fondati sospetti che Pio XII operò la miglior scelta, quella meno dolorosa.
Fu troppo poco?
Francamente, è difficile – oggi – dare un giudizio storico sulla vicenda, poiché non avremo mai la prova del contrario, ossia di cosa sarebbe successo se il Papa avesse denunciato al mondo lo sterminio.
Ma il Papa non era certo l’unico a sapere: gli americani sapevano tutto, ed alcuni P38 sorvolarono addirittura Birkenau ed i nodi ferroviari senza mai sganciare una bomba. La giustificazione americana fu puerile: avevano paura di colpire i prigionieri. E i nodi ferroviari?
Non vogliamo entrare nell’infinita querelle sulle responsabilità della Shoà, ma farne carico a Pio XII ci sembra francamente esagerato e, per gli italiani, offensivo, giacché furono il popolo che più si prodigò in favore degli ebrei, nonostante l’alleanza con Berlino e le leggi razziali del ’38.
Per contrappasso, vorremmo chiedere a Cohen quanto “peserà” nel dialogo interreligioso il rapporto Goldstone, ovvero la prova provata (Goldstone è un ebreo sudafricano, oltre che incaricato dell’ONU per la stesura del rapporto) che Israele ha commesso crimini contro l’umanità a Gaza.
E, questa, non è una storia del 1943, non c’erano Papi od autorità religiose a mitigare l’inferno che dovettero subire gli abitanti di Gaza: è storia recente, Gennaio 2009. Dall’altra parte, c’erano solo Tzahal ed il governo di Tel Aviv.
Se lei è veramente uomo di fede, rabbi Cohen, accetti un consiglio: torni ad Haifa e rifletta, prima d’invocare le colpe altrui.

Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.

20 dicembre 2009

Strenna dall’Italia che fu


(Il disegno è di Giulia Bertani, la minore delle mie figlie)

“Viaggiando si può realizzare che le differenze sono andate scomparendo: tutte le città tendono ad assomigliarsi l'una all'altra, i posti hanno mutato le loro forme e ordinamenti. Una polvere senza forma ha potuto invadere i continenti.”
Italo Calvino (1923-1985)

C’era una volta Lurisia.
Chissà come si chiamava veramente Lurisia: nessuno l’ha mai saputo.
Cappello da alpino in testa e una vecchia fisarmonica a tracolla, naso rubizzo, aquilino, Lurisia viveva praticamente sul treno Mondovì – Savona, andata e ritorno: pomeriggi, sere, notti…
Lurisia non era un viaggiatore, Lurisia era l’intrattenitore del treno “accelerato” Mondovì – Savona, il musico, il direttore degli improvvisati cori.
Le canzoni erano sempre le stesse, Lurisia pure – la stanca giacca grigio verde, forse una ex divisa – ma la voce squillava di scompartimento in scompartimento: «Non ti potrò scordaaareeee…piemontesina bellaaaa…» e la gente cantava, insieme a Lurisia, poi gli lasciava qualche spicciolo.
Primavere ed Estati, fino alla neve, era sempre su quel treno: talvolta tirava fuori una fiaschetta dal giubbotto e trincava un sorso di grappa, poi ricominciava «Ricordi quelle sereeeee…passate al Valentinoooooo…» E gli operai che tornavano dai turni alle Acciaierie del Tanaro, gli studenti che scendevano dall’Università verso i paesi della Langa, sapevano che – sicuro! – c’era Lurisia ad attenderli.
Così, chi scendeva a Lesegno lasciava il posto nel coro a qualcuno che saliva per scendere a Sale Langhe: tenori, baritoni e bassi improvvisati, mirabilmente diretti da Lurisia.
Poi, un giorno sparì: come tutti, come sempre. Però, quando si sale su quel treno ansimante, che s’aggrappa alle salite e punta i piedi nelle discese, l’anima di Lurisia è ancora là.
Mio figlio, che percorre quella tratta avanti e indietro, dal Conservatorio di Cuneo fin qui, nella Langa, ha ancora incontrato qualcuno che gli ha chiesto se conosceva Lurisia, se sapeva che fine avesse fatto.
Questo ha la tromba, quello la fisarmonica…sono della stessa razza – così ragiona la gente di Langa – e si chiedono perché questo ragazzo, invece di trascorrere il tempo a solfeggiare, non tiri fuori quella benedetta tromba e non dia la carica al treno, così da spronarlo e farlo volteggiare come un gheppio su per le curve della Langa, per fargli ritrovare il brio di un tempo, quando Savona arrivava presto, con Lurisia a scandire il tempo, sicuro nei gesti e negli accompagnamenti, cullato dal tran tran dei binari.

Poi c’era Gilera.
Era matto Gilera? Nessuno l’ha mai saputo. Eppure lavorò un’intera vita, “camallo” al porto di Savona. Eppure era sempre e solo Gilera, per tutti.
Perché Gilera – al secolo Vittorio – era entrato in quella maledetta galleria per Albissola nei giorni che la guerra moriva e le cariche poste dai tedeschi erano scoppiate: Vittorio era stato fortunato, mica come gli altri ragazzini dilaniati, ma era morto lo stesso. Era rinato come Gilera.
Appena sedicenne, già correva con una Gilera di quelle vecchie – “Otto Bulloni”, “Saturno”, “Giubileo”… – poi tutte, fino all’ultima “150” costruita dalla casa di Arcore. Anche Arcore ha generato qualcosa di buono, anche Arcore.
Lo ricordo con quella, l’ultima, mentre volteggiava come sulla cavallina in palestra: saliva coi piedi sulla sella, allargava le braccia sul traballante pavé di via Paleocapa, a Savona, e – miracolosamente – non cadeva mai.
All’apice della goduria – non riuscì mai a digerire che lo storico marchio fosse scomparso – lanciava il suo grido di guerra al mondo «E questaaaa…è una moto Gileraaaa…» Quelli che non erano di Savona e dintorni si voltavano e restavano a bocca aperta, nell’osservare quell’uomo già anziano volteggiare su una vecchia moto come un acrobata da circo. I savonesi non ci facevano caso: «U ghè Gilera» e passavano oltre.

Poi c’era Amoruso. Da Molfetta.
Tutti quelli di Molfetta navigavano. Quasi tutti quelli di Molfetta che navigavano erano timonieri. Buona parte di quelli di Molfetta che erano timonieri avevano fatto la guerra. Marina, ovviamente.
Amoruso l’aveva fatta sulle navi che trasportavano i rifornimenti in Africa, quelle che dovevano scampare alle bombe dei Liberator, alle cannonate della Forza K di Malta ed ai sommergibili ovunque. Amoruso da Molfetta, timoniere come tanti di Molfetta, era l’unico che aveva salvato la pelle dopo esser saltato per ben due volte sulle mine.
Così la guerra finisce e Amoruso continua a fare l’unica cosa che sa fare: timoniere sulle navi che fanno il cabotaggio. Solo che vede mine ovunque.
«Mina a babordo, mina a babordo, mina…mannaggia, santa la Madonna, minaaaaaa…» Di tronco, gavitello, materasso galleggiante…si trattava.
Amoruso, come timoniere, era insuperabile: “sentiva” la corrente passare, dalla pala del timone fino alla ruota, su in plancia. Accarezzava appena la ruota «Correggo due gradi a dritta…c’è corrente…»
L’ufficiale di guardia non diceva mai nulla: se Amoruso diceva di correggere due gradi a dritta, due gradi erano, all’Inferno la lossodromia e l’ortodromica, il radar, il radiofaro e tutti i marchingegni della plancia. Basta che non si metta a veder mine…
Di notte Amoruso pregava, perché non gli lasciavano accendere il faro a prua per scrutare il mare: la guerra è finita da vent’anni, Amoruso! Mine non ce ne stanno più, hai capito? Le hanno dragate, fatte saltare quelli della Marina, hai capito? Non si sente più parlare di una mina da anni!
Eh, signor comandante, non si sa mai: quelle ci stanno, ci stanno ancora…
Basta – anche il comandante aveva gettato la spugna – inutile toccare quel tasto con Amoruso: tempo perso.
Così la pensa anche Leonardo, giovanissimo terzo ufficiale uscito dall’Istituto Nautico di Camogli: famiglia di camuggìn, gente che le ha viste tutte, dall’Artico all’Antartico. Proprio lui, Leonardo, ha ancora avuto l’onore di sentir raccontare proprio dalla voce del comandante Oneto, il secondo dell’Andrea Doria, l’agonia di quel levriero del mare.
Quel giorno, a Leonardo tocca il quarto che finisce a mezzogiorno, quando il comandante salirà in plancia e si ritroveranno tutti gli ufficiali della nave, come da tradizione.
Manca ancora mezzora a mezzodì quando Amoruso sbotta: «Mina a babordo, mina a babordo, mina…mannaggia, santa la Madonna, minaaaaaa…»
Eccola, non poteva mancare la mina della settimana – pensa Leonrado, classe 1947 – erano già cinque giorni che non ne vedeva una…
«Mina a babordo, mina a babordo, mina…mannaggia, santa la Madonna, minaaaaaa…» ripete Amoroso. Leonardo esce senza fretta sull’aletta di plancia – deve farlo, è il regolamento – con calma toglie i tappi al binocolo, lo porta agli occhi, mette a fuoco…
E’ lì, vicinissima, poche braccia a babordo dalla loro rotta: nera, grande, enorme, minacciosa, assassina… – Leonardo non ne aveva mai vista una – e rimane paralizzato. Per un attimo, poi quasi “placca” il telegrafo di macchina «Ferma la macchina, timone tutto a tribordo, ferma la macchina…no, non basta, a costo di rischiare albero e cuscinetti fracassati…macchinaaaaaa, indietro tuttaaaaa, indietro tuttaaaaaa….»
Quel giorno del 1972, fra Livorno e la Meloria, Amoruso da Molfetta probabilmente incocciò nell’ultima mina della Regia Marina ancora in servizio. La nave si salvò, per poche braccia, per miracolo.

Poi c’era Ramon.
Ovvio che Ramon non era italiano. Era argentino. Da dove poteva venire Ramon, se non dal circo? E cosa poteva fare un argentino, in un circo? Cavalli.
E quando il circo chiude? Quando la TV irrompe e si gettano i nasi da clown, i tricicli, le maschere…
I pony no, quelli al macello Ramon non li vuol vedere: no, quei dolci cavallini, che tanti visi di bambini hanno fatto sorridere, non devono finire sul banco di una macelleria.
Allora Ramon trova qualche soldo, raccoglie i risparmi, fa qualche debito e li compra. Il circo ha “rotto le righe” a Savona, e Ramon non ci pensa nemmeno a cambiare città…no, lì va benissimo.
Ci sono dei bambini? C’è un parco? E allora, dov’è il problema?
Affitta per quattro soldi un magazzino sotto le arcate di un ponte ferroviario, ci porta la paglia, il legno per la mangiatoia. Corregge, finimenti, catene, acqua, fieno, coperte…poi, chissà dove, scova un vecchio calesse e lo fa diventare un tiro a quattro, mentre i pony più docili portano la sella per i bambini più avventurosi, quelli che vogliono per un attimo sentirsi cow-boy.
Così per anni, per decenni: tutti i savonesi che hanno meno di 40 anni sono saliti sui cavallini di Ramon: mille lire, sconto per i fratelli e le sorelle al seguito. Per i genitori, negli anni, saltarono fuori anche delle vecchie panche di legno, così le nonne aspettavano sedute, che fanno male i piedi ad aspettare in piedi.
Gli anni passano, ed un giorno – visto che avrei il posto per accudirlo – mi salta per la mente di comprare un cavallo: a chi chiedere consiglio? A Ramon, ovvio.
Mi squadra, m’attraversa con lo sguardo, soppesa i miei sentimenti e palpeggia la mia anima traversandomi gli occhi. Poi, parla.
«Cavallo non è facile da tenere, no, non è facile. Sempre devi tenere sott’occhio cavallo: fare giretto la mattina, ma se c’è umido…guarda pelo di cavallo: se vedi come nebbia sul pelo subito asciuga, poi coperta, subito coperta, altrimenti cavallo ha freddo, malato…»
Osservo i pony: non sono né grassi e né magri, nemmeno quelli più anziani, che oramai li porta soltanto per farli vedere e non li lascia montare. Nella piccola stalla c’è un ordine certosino: pare quasi che i fili di paglia, sul pavimento, abbiano scelto da soli il giusto intreccio, l’armonia di un tappeto persiano. Di paglia.
Allora capisco che ci sono delle cose per le quali bisogna nascere, non inventarsi d’essere. Per cortesia rimango ad ascoltarlo, ma dentro di me la decisione è presa: più di un Guzzino, non saprei accudire.
Così m’allontano: i figli sono oramai grandi e non chiedono più d’andare da Ramon, perché altrimenti gli amici li prenderebbero in giro. Ma, se potessero…
Tanti anni dopo ripasso dai giardini sul mare e non ci sono più le panche, sparita la locandina che pareva uno squarcio di pampa, nemmeno l’ombra di Ramon. Se n’è andato anche lui, insieme a Lurisia e la sua fisarmonica, Gilera e la sua moto, Amoruso, le mine, i pony…l’Italia che non c’è più. Che bella che era.

Auguri di Buone Feste a tutti e, in particolar modo, a quelli che credono negli alti principi della nostra Costituzione, nell’empatia fra esseri umani che rispetta le diversità e le scioglie nella positiva socialità e nel comunitarismo.

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

13 dicembre 2009

Buon 1988, Presidente!


“Che giovano a quell'uomo ottant'anni passati senza far niente? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita; né è morto tardi, ma ha impiegato molto tempo per morire.”
Lucio Anneo Seneca

Ci domandiamo, signor Presidente, con quale stato d’animo s’avvicinerà alla sua scrivania – la sera del 31 di Dicembre – per inviare il messaggio alla Nazione. Ci chiediamo cosa proverà quando fisserà l’anonimo occhio della telecamera, quando i tecnici le diranno “Quando vuole, Signor Presidente, quando vuole.”
Sarà facile fissare il minuscolo occhio, appena luminescente, di quella telecamera e siamo certi che le luci saranno così ben posizionate da non darle fastidio alcuno.
Il discorso l’avrà preparato da tempo, assistito da esperti linguisti – siamo certi – e dunque già saprà quel che dovrà dire: avrete “limato” per giorni le frasi, scelto con cura gli aggettivi, adombrato qualche passaggio per avvertire dei pericoli incombenti, inzuccherato qualche perifrasi retorica – giacché risposte vere non ce ne sono, lei ne è cosciente – e sorvolato laddove nemmeno quelle palesemente false avrebbero retto.

Dovrà fare, in ogni modo, un bell’esercizio di rimozione per affrontare la telecamera – perché lei sa in quali, terribili gorghi sia precipitato il Paese – ma tanti anni di pratica da parlamentare la rendono certamente avvezzo a questi frangenti, i quali – con il trascorrere degli anni – dal suo privilegiato punto d’osservazione si sono trasmutati non più in marosi, bensì in semplici avvisi di tempesta. Con speranza di bonaccia.
D’altro canto – lassù, sul Colle e nel Torrino – non c’è onda che possa ghermire, vento che riesca a sferzare, tempesta che possa scalfire.

Com’ebbe a dire Demetrio Volcic, in un’apologia di Michail Gorbaciov: “Sarebbe potuto rimanere al suo posto per anni, appoggiandosi alla casta militare, e regnare su un mondo di speranze oramai spente. Invece…”
Non sappiamo quali tormenti galoppino nella mente di Gorbaciov, e – a dire il vero – manco sappiamo se esistano.
Non siamo qui per dare giudizi storici sull’ultimo Presidente sovietico – sono già in tanti a farlo! – ma solo perché ci sembra proprio che i vostri destini s’incrocino – in quelle sale che furono prima dei Papi e poi dei Savoia – in modo assolutamente incoerente, se cerchiamo parallelismi improponibili, ma di fatto esistenti, tangibili, nel momento stesso nel quale lei si siederà a quella scrivania.
Entrambi – da due punti d’osservazione assai differenti – con lo stesso dilemma: un Paese che non riesce più a trovare parole e mezzi, sintonie e propositi s’interroga, cerca risposte, bandoli di matassa, vie, vicoli, budelli, catacombe, scorciatoie, ponti e voli pindarici per capire il domani che l’aspetta.
Quello che scelsero i russi lo sappiamo: a ciascun suo destino.
E noi?

Cosa potrà raccontare agli italiani, che già non sanno, cosa potrà cercare di gettare nell’oblio, che già essi – per sopravvivere – non abbiano dimenticato, cosa ancora potrà inventare ed avvolgere con carta dorata e luminescente, che i suoi sudditi già non abbiano spacchettato e gettato nella spazzatura?
Già, sudditi: la parola che sfregia, che mai si vorrebbe pronunciare. Dopo 62 anni da quella Carta Costituzionale, il disastro è compiuto: nessuno sa più perché fu scritta, nessuno comprende perché sia così calpestata.

Come potranno, i genitori di Stefano Cucchi, affidarsi con fiducia ai magistrati, che già hanno decretato la “colposità” dell’atto e non la premeditazione per la violenza cercata ed ottenuta, a costo zero, perché esplosa nei confronti di una persona debole – peraltro, innocente, in quanto non ancora condannata! – che non aveva mezzi per difendersi da chi avrebbe dovuto difenderlo?

E Rudra Bianzino, rimasto solo a 16 anni con una nonna malata, dopo che il padre è stato ucciso in due giorni di galera – anche lui prima del processo! – e la madre è morta di crepacuore? Bianzino era stato sorpreso a coltivare delle piantine di canapa indiana: se fosse stato un parlamentare, avrebbe avuto suon di pusher pronti a soddisfare le sue necessità. Tutti gli italiani lo sanno: lei no?

E che Natale trascorreranno i genitori di Gabriele Sandri, nel sapere che l’assassino del loro figlio è sì stato condannato…ma sono le solite condanne che non generano mai un giorno di galera…al punto che Spaccarotella spera, addirittura, di riuscire a tornare nella Polizia! Certo, un simile “esperto” di balistica – non abbiamo mai creduto nella volontarietà dell’atto – merita proprio di continuare a maneggiare un’arma, sparando con una pistola di grosso calibro ad 80 metri di distanza e contando di sapere dove finisca il proiettile. Lo domandi al primo ufficiale dei Corazzieri che incontra al Quirinale, chieda cosa si può ragionevolmente colpire a quella distanza con un’arma corta. C’è da sperare di non trovarselo mai intorno, uno come Spaccarotella, nemmeno con una cerbottana fra le mai.

Casi limite? Lei dice casi limite?
Quanti sono stati i “casi limite” dal dopoguerra ad oggi? Centinaia. Ad Atene, per un solo morto, stanno mettendo a ferro e fuoco la Grecia: ecco, dove i greci sono cittadini e gli italiani sudditi. Il sovrano assoluto ha diritto di vita e di morte sul suddito, o sbaglio?
Potremmo anche compiere un atto vile, ossia dimenticare questa gente di fronte a quelle tombe, ad osservare la fotografia di chi – mai più – rivolgerà loro la parola. Mentre gli assassini gozzovigliano: magari, proprio mentre seguiranno il suo discorso. Forse, qualcuno di loro la sfotterà pure.

Dietro a quella telecamera, però, ci sarà anche F.G. il quale – dopo aver lavorato una vita – s’è visto ridurre la pensione a 400 euro, perché deve ridare allo Stato quello che lo Stato stesso aveva chiaramente promesso nel 1999 – quando F.G. passò dalle dipendenze delle Province allo Stato – con una norma chiarissima. Poi, nel 2005, con una “interpretazione autentica” di un articolo di legge del 1999, si rifà tutto da capo e devi renderci quei soldi: cosa vuol dire “interpretazione autentica”?!? E’ l’ultimo espediente per varare, sotto mentite spoglie, la retroattività del Diritto?
E se un futuro governo generasse una “interpretazione autentica” del referendum Monarchia/Repubblica del 1946? Come dice? Quella fu volontà popolare? Lo fu anche il referendum sul nucleare del 1987: cos’è, un’altra “interpretazione autentica”? Domani, qualcuno potrebbe interpretare “autenticamente” l’art 5: “La Repubblica è unica e indivisibile…” lei, cosa farà?
Già, possiamo anche dimenticarci di F.G. e rassicurarlo: “Eh, basta la salute…”, siamo certi che ha “rassicurato” allo stesso modo Mastella e signora, in piazzetta a Capri.
Dovremmo, però, rassicurare allo stesso modo gli altri 70.000 come F.G. giacché – per ben due volte! – la Corte Costituzionale ha sancito che sì, si può “rivedere” quando si vuole una legge, anche dopo anni, e quello che s’era promesso può essere in qualsiasi momento rimangiato.
Ricorda, per caso, nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali? Qui non siamo in ambito penale, però, disconoscere nel 2005 quello che fu assicurato nel 1999…che ne pensa?
E questa vicenda – poco conosciuta – ritornerà più avanti, per capire cosa c’è dietro le varie “interpretazioni autentiche”, vere “perle” del Diritto, iperboli delle procedura.
Un altro pezzo di Costituzione è caduto nel cestino: osservi bene alla sua sinistra, è lì dentro, è l’articolo 25. Già che c’era, qualcuno ci ha ficcato anche l’articolo 2 del Codice Penale.

Se cercherà di sforzarsi, di mettere meglio a fuoco l’obiettivo della telecamera, dietro all’occhio magico scoprirà che ci sono centinaia di migliaia di truffati da un certo Tanzi, il quale – fra una falsificazione e l’altra di certificati di credito statunitensi – di dilettava nel circondarsi di pregevoli opere d’arte. Ora che le hanno scoperte, sono diventate “croste”: le vere “croste” le hanno negli occhi e nel cuore le persona che Tanzi ha truffato e che ora, per salvare un tizio di Arcore, vedranno cadere in prescrizione – o chissà in quale altra diavoleria giuridica – i loro diritti.
Osservi, presidente, osservi meglio, guardi ancora…

Là dietro, seduti nei salotti comprati a rate quando c’era ancora uno stipendio, ci sono decine, centinaia di migliaia d’italiani che hanno perduto il lavoro. Come dice? E’ la congiuntura internazionale? La truffa delle banche? La Cina? Il malocchio?
Ma, lei – e tutti quelli che l’hanno eletta all’alto scranno – non dovreste esser lì proprio per evitare che queste cose avvengano? S’accorge che – fiumi di parole a parte – stiamo precipitando? Che gli altri Paesi europei, salvo poche eccezioni, non se la passano male come noi?
Possediamo il 70% del patrimonio artistico mondiale e non lo usiamo, siamo (con la Spagna) l’unica penisola fertile del Sud d’Europa, e la nostra agricoltura langue. Dobbiamo aspettare che giunga un premio Nobel come Rubbia, per dirci che la politica energetica del governo è fallimentare? Che il mondo intero guarda oltre? Di chi la colpa? E’, come sempre, “d’Alfredo?”

Forse loro non ci saranno ad ascoltarla, non credo, perché sono giovani ed hanno di meglio da fare: almeno, come possono, come riescono a fare. Qualcuno, però, ci sarà perché è stato costretto a tornare a casa dai genitori e, suo malgrado, la osserverà distrattamente.
Sono la “generazione mille euro”: gente con diplomi, specializzazioni, lauree corte e lunghe, dottorati, ricercatori…i quali, il massimo al quale possono ambire, è che sia rinnovata loro quella schiavitù – senza più diritti, senza ferie, senza malattia, senza liquidazione, senza niente – dei mille euro. Fin quando durerà: poi, si tornerà a casa dai genitori. Finché ci saranno.
Lei, che militò in un partito il quale – almeno, così raccontavate – si piccava d’essere il difensore del lavoro, della dignità del lavoratore, cosa prova? Guardi meglio nell’obiettivo, Presidente, si sforzi. Poi, torni ad osservare il cestino: “c’è posta per te”? No, sono solo gli articoli 35, 36, 37, 38…della Costituzione, quelli relativi al lavoro, che sono finiti nella carta straccia, insieme allo Statuto dei Lavoratori.

Stia tranquillo, signor Presidente, gli italiani non saranno mai greci né francesi e né tedeschi: nessuno avrà il coraggio di ribellarsi apertamente. Gli italiani seguiranno fino in fondo il loro drammatico destino, giungendo all’abominio piuttosto che alzare la voce: sceglieranno fra puntare sul Superenalotto oppure agogneranno, brameranno di partecipare ad un talk show televisivo.
Fino a quando? Fino all’evidente disastro?
Con precisione non so quando arriveremo al disastro, però qualche idea ce l’ho.

Vede, signor Presidente, quello che lei non riesce a scorgere dall’alto del Torrino – forse c’è nebbia? è troppo lontano? – è che l’Italia ancora campa di ricchezza accumulata nei decenni “buoni”, quando c’era lavoro, si guadagnava, s’andava in pensione almeno un poco prima di morire.
L’Italia campa sulle pensioni dei genitori, su qualche rendita, sull’affitto di qualche appartamento ma non crea più nulla: non ha più idee, stimoli, certezze, speranze.
Fin quando durerà? Molti indicatori economici (il rapporto debito/PIL che “corre” verso il 120% è solo uno dei tanti) sembrano raccontare che di “fiato” n’è rimasto poco.
Per spiegarle come potrebbe finire, bisogna superare le pastoie che ci hanno condotto a spiegare gli ultimi eventi come “malcostume”, “protervia”, “indecenza”, ecc.

Berlusconi potrebbe essere accusato – tramite Dell’Utri – di concorso esterno in associazione mafiosa: reato, peraltro, non previsto dal Codice Penale, ma solo da una consuetudine giuridica attuata dalla Corte di Cassazione. Belusconi sarà mafioso?
I politici italiani di prima grandezza non sono mai “mafiosi” in prima persona: se vogliamo, Berlusconi sta a Dell’Utri come Andreotti a Salvo Lima. O, addirittura, come Mangano a Ciancimino: ci sono scale di valori per tutto, anche per la Mafia e per i politici.
Da sempre, si servono delle organizzazioni mafiose sul territorio per la raccolta dei voti: lo fecero democristiani e socialisti. Non neghi, Presidente, lo sa benissimo. Le dichiarazioni di Spatuzza sono poca cosa – concordiamo – ma su un punto sono precise ed indubbiamente veritiere: non pochi analisti politici, all’epoca, misero l’indice, stupiti, sul repentino flusso di preferenze che s’ebbe in Sicilia negli anni ’80 – decine di migliaia di voti che migrarono inaspettatamente, dalla DC al PSI – quando la Sicilia era rossa di sangue e Milano rossa “da bere”.
Negare dunque che il rapporto esista, significa esser semplicemente ciechi.
Altra cosa è stabilire se vi furono flussi di denaro dalla Mafia a Silvio Berlusconi, per le sue attività editoriali e, in seguito, politiche: mai, Berlusconi, comunicò da dove vennero le centinaia di miliardi (dell’epoca!) necessarie per entrare nel mercato immobiliare e delle comunicazioni. Sempre, s’avvalse della facoltà di non rispondere, in più occasioni.
Cosa c’entra questo con l’oggi? Aspetti e rifletta: intanto, ricarichi la stilografica. Oppure, telefoni a Tina Anselmi per farle gli auguri: magari, potrete parlare insieme della P2.

Stranamente – e questo è innegabile – il governo Berlusconi sta colpendo la Mafia siciliana in modo pesante: mai, un governo della Repubblica ha osato tanto. Un nuovo “prefetto Mori” del Ventennio? No, a nostro avviso, la verità è ben altra.
Oggi, la Sicilia non ha più governo regionale: dopo inenarrabili alchimie e vicissitudini, il Presidente Lombardo si sta arrampicando sui vetri per rimettere in piedi qualcosa che assomigli ad una giunta. Berlusconi è preoccupato per la Sicilia? Per la regione che gli fornisce pressoché totale consenso, che esprime ministri, sulla quale può contare come in nessun altro luogo d’Italia?
No, non ci sembra che a Palazzo Chigi ci si strappi le vesti e nemmeno osserviamo “corrieri” che – di lungo in largo – accorrano per riportare “pace e serenità” fra l’elettorato. Ci sembra, anzi, di cogliere quasi disinteresse: ci sentiremmo di puntare qualcosa su un profondo dissidio fra i (probabili) antichi mentori siciliani e gli attuali epigoni. Berlusconi fa comizi a Milano, non scende in Sicilia.

Nel frattempo – speriamo di non annoiarla, Presidente – il governo cerca di far quadrare i conti di Finanziarie sempre più “creative”: addirittura, si prelevano 3,1 miliardi dal TFR dei lavoratori INPS per gettarli nella fornace dei disastrati conti pubblici. Mai s’era vista una cosa del genere, nemmeno con il grande “creativo” democristiano, Cirino Pomicino. Prendere soldi dei lavoratori per finanziare la spesa corrente?!? Alla faccia del Bicarbonato di Sodio! Replicherebbe un suo illustre conterraneo.
Quando e come saranno resi quei soldi ai lavoratori? Lo domandi a Tremonti, ma stia attento: la risposta potrebbe causarle un gran mal di testa. Sa, è un “creativo”.

Ci sono poi le quisquilie, come lo “strano ri-finanziamento” del cinque per mille, con prelievo dai proventi dello Scudo Fiscale…e per che cosa? Per destinarli al Ponte sullo Stretto. Presidente, ci faccia capire: uno strumento – il cinque per mille, appunto – creato per finanziare le associazioni assistenziali (Onlus) e la ricerca…che viene “ri-finanziato” per poi “estrarre” 470 milioni di euro e destinarli al Ponte?
Quanti, di quei soldi, torneranno indietro – sotto forma di finanziamenti per la progettazione e le “consulenze”, se non proprio tangenti – nelle tasche (a questo punto private) di chi ha “finanziato”?
Fra parentesi, questi “per mille” sembrano quisquilie, ma sono una nuova forma di tassazione, proprio un bel “mettere le mani nelle tasche degli italiani”, ma da borseggiatori. Otto e cinque per mille, fanno l’1,3 per cento dell’IRPEF: sono centinaia di euro. A capoccia.
Sul resto c’è poco da dire; mentre una plateale incompetente dichiara di varare una riforma della scuola, la scuola non esiste quasi più: otto miliardi prelevati dalla scuola, i quali finiranno per due terzi nella contabilità generale, sono una mazzata che metterebbe a terra un bue. Tanto per chiarire, l’andazzo oramai è questo: dove non c’è più un assistente tecnico si chiude a chiave un laboratorio, quando un termosifone perde acqua lo si chiude e si sta al freddo, i ragazzi aspettano un supplente 15 giorni. Abbiamo la classe docente di gran lunga più vecchia d’Europa e mancano idee per il futuro: a meno di ritenere “futuro” il pedissequo ritorno “all’impianto Gentile” del 1923. Sai che futuro.

A fronte di queste (ed altre) emergenze, il comportamento di Silvio Berlusconi parrebbe, a prima vista, sconsiderato: rastrellamento di fondi ovunque, disinteresse per piani a medio e lungo termine, addirittura scarso interesse per l’elettorato. Prendere tempo sembra il diktat, e non solo per le questioni processuali.
Perché Berlusconi dovrebbe “prendere tempo”: in vista di che cosa?
Non sbuffi, Presidente, perché sarà lei a dover affrontare quella telecamera, non noi: rifletta, corregga. Nell’attesa, cambi un aggettivo. Oppure, scambi due confidenze con Ciampi.

Sono partite le “grandi manovre” per le elezioni regionali le quali, più che “fare i conti” con l’opposizione, definiranno nuovi equilibri all’interno della coalizione di centro-destra. Già, “coalizione”, composta però da tre anime: lo zoccolo duro dei berluscones di Forza Italia, la sparuta pattuglia ancora fedele a Fini e la Lega. Già, la Lega.
Per la Lega si prefigura uno scenario assai favorevole: non sappiamo in quante regioni riusciranno ad esprimere un presidente, ma in quasi tutte le regioni del Nord ci saranno loro nelle “stanze dei bottoni”, a gestire la politica ed il fiume di denaro che genera.
Si dà il caso che il Ministro per le Riforme (riteniamo “Costituzionali”, giacché non si tratta certo della riforma delle uova di Pasqua) – Umberto Bossi, lo ha nominato lei, ricorda? – abbia recentemente dichiarato:

“La Padania sarà libera con le buone o con le meno buone…non c'è nessuna crisi nel rapporto con Berlusconi perché se da soli si arriva prima, alleati si va molto più lontano” (14 Settembre 2009).

Strano ministro per le “riforme”: un tizio che usa come un libretto da scarabocchiare la Costituzione di uno Stato che vorrebbe distruggere! Un lupo a guardia degli agnelli? Proprio lupus in fabula, è il caso di dirlo.
La Lega Nord sa benissimo che un federalismo che potrebbe accontentare il suo elettorato – ossia portare i redditi del Nord ai livelli europei a scapito del resto d’Italia – non passerà mai in Parlamento: il referendum del 2006, per ricordare un solo esempio, non passò anche perché la Sicilia (totalmente “berlusconiana”) votò contro compatta.
Fanfaluche? Sogni ad occhi aperti di Bossi?

Rifletta, Presidente, rifletta: è stato recentemente obbligato a scendere in campo per difendere la Chiesa Cattolica, il famoso “paragone” Tettamanzi = Imam.
Anche queste sono facezie, roba da teatrino della politica? No, qui non siamo al Bagaglino.
La religione cattolica può essere osservata da più punti di vista: certamente – e questa è l’accezione che potremmo definire “più colta” – riporta meno ai simboli e più ai principi. L’universalità del pensiero religioso conduce la Chiesa Cattolica a scendere in prima fila per difendere i diritti delle altre religioni: difendendo gli altri – ad essere riduttivi – difende se stessa. Ricorda, per caso, Papa Giovanni Paolo II quando affermò che, “piuttosto che non credere in niente, anche un altro credo…”?
Qui, ci sono significati più sfaccettati, ma un plafond comune conduce a riconoscere carità e fratellanza come valori universali. E’ l’unica accezione, nella quale viene inteso il Cattolicesimo?

Per la gran parte degli italiani – mezzi agnostici, credenti a rate, fai da te religioso, ecc – la comunanza religiosa s’esprime anch’essa con un’identificazione, molto diversa, però, rispetto a quella del Card. Tettamanzi.
Qualcuno l’ha definita una Chiesa non solo pre-conciliare, ma addirittura pre-illuminista, ossia privata delle temperanze necessarie per vivere in un contesto relativista e multietnico. E che l’Europa s’avvii – semplice demografia – a diventare ancor più multietnica, è assodato.
E’ il resuscitare una Chiesa perduta nei secoli della Riforma e della Controriforma, un credere cieco, quando le scritture erano tutte in Latino ed il volgo non sapeva nemmeno leggere!
Di quella Chiesa restano i simboli: croci, campanili, campane, effigi. Basta ed avanza.
Domandiamoci: quanti – oggi che le Scritture sono ampiamente tradotte – le leggono? Quanti, per contrappeso, identificano la loro appartenenza affidandola semplicemente a dei simboli?
Se la croce o la campana sono tutto ciò che rimane di un passato religioso, l’antico ricordo, la nostalgia per un credere almeno sincero – più sentimenti e meno chiacchiere – è ovvio che nulla deve sostituire quei simboli, pena la totale perdita d’identità. Ergo, niente minareti.
Sul fronte politico – meno che mai religioso – si tratta di un formidabile mezzo per condurre all’identificazione univoca genti che hanno smarrito il senso della fede, utilizzando quel simulacro soltanto come mezzo per sorreggere interpretazioni totalmente acritiche della realtà. Così fu per la chiesa tedesca durante il nazismo – tollerata, ma solo se non disturbava i laicissimi nazisti – e per quella italiana, il famoso “credere, obbedire, combattere”. Cambiano i tempi, i mezzi, ma il fine…

Inanellando, uno dopo l’altro, una serie di “valori” – unico obiettivo il denaro, il Nord “dissanguato”, il “pericolo” dell’immigrato incombente, la propria cultura “saccheggiata” dal minareto, gli “sfaccendati” dipendenti pubblici, ecc – ecco pronta la velenosa pozione, l’alchimia sopraffina pronta a spingere le menti verso la direzione desiderata.
Non è nulla di nuovo: un copione già visto ed osservato in tutte le sue, possibili sfaccettature.
Siamo al 1988 dell’era jugoslava, signor Presidente: se n’è accorto? Ha sentito parlare di “ronde”? Ah, certo, associazioni di cittadini per la vigilanza, per “proteggere”…e bla, bla, bla…
Quando mai, una forza politica che vuole creare una milizia, lo urla ai quattro venti?
Come dice? Che l’attuale quadro normativo…
A questo penseranno le future “interpretazioni autentiche”: lei sa benissimo – da uomo di legge – che una volta passato un principio lentamente, ma inesorabilmente, si trasformerà in consuetudine. Vede? Tutto serve, anche quella che sembra una innocua (non per i lavoratori!) sentenza della Corte Costituzionale.
E Berlusconi?

Ma, Presidente, apra gli occhi: quando e come si decide, nelle istituzioni? Il Parlamento, salvo quando ci sono leggi inviate per l’approvazione dall’esecutivo, non ha nulla da fare, al punto che Fini lo chiuse per una settimana.
A Palazzo Chigi? Nei Consigli dei Ministri? E quando mai: tutti si lamentano – a microfono spento, ovvio – della scarsa “collegialità”.
Tutti gli accordi politici di una certa rilevanza vengono presi durante le famose “cene” ad Arcore fra Bossi e Berlusconi: poi, i “galoppini” Brunetta, Alfano, Gelmini, Sacconi…ricevono gli ordini e, a Belgr…pardon, a Roma, eseguono.
Una delle ultime esternazioni di Berlusconi è stata proprio la conferma, se ancora qualcuno aveva dei dubbi: in caso d’elezioni anticipate, andrà con la Lega “Chi se ne frega di Fini: noi e la Lega, possiamo vincere ugualmente”. Vede?
Ricorda, per caso, che Berlusconi – prima di fondare Forza Italia – soppesò per qualche tempo d’entrare direttamente nella Lega, per prenderne in un secondo tempo le redini? Poi, decise di mettersi “in proprio” ma – dal 1995, dopo lo “strappo” con Bossi – i destini dei due partiti hanno viaggiato dritti filati come due binari.
Di queste cose non si deve parlare, non si devono ricordare, perché non fa comodo.
Nel frattempo, per il volgo c’è tanto da discutere e da motteggiare: i miracolosi capelli del premier, le escort, le veline e tutto l’ambaradan del gossip, Bondi che duetta con Crozza…ma sì, lasciamoli divertire…
Va in Europa a raccontare che “ha le palle”, l’attimo dopo veste la camicia nera e così esalta gli ex nonsopiùcosasono della ex Alleanza Nazionale e quelli…giù con i saluti fascisti! Lo scambiano per Mussolini, i poveretti! Poi fa “cucù” in giro per l’Europa, le sue barzellette, le mignotte…ogni giorno bisogna inventarne una fresca, tenerli occupati…

Per quelli che si ritengono più astuti, invece – con dichiarazioni alla stampa, oppure usando i giornali “di famiglia” – ogni tanto la “sparano” grossa. Maroni comunicò urbi et orbi che esisteva il traffico d’organi destinato ai trapianti. Qualche giorno di subbuglio, una scazzottata verbale sui giornali e poi…dimenticatoio. Nei giorni scorsi, invece, “Il Giornale” (proprietario Paolo Berlusconi) ha dichiarato che l’emissione di denaro deve essere pubblica, non a carico dei privati. Nazionalizzeranno la Banca d’Italia? Ma va là…
Quali sono, invece, le cose delle quali non parlano mai?

Mentre tutti seguivano i vari teatrini – chi in platea, chi in galleria – la Lega Nord disponeva con cura i suoi pezzi – dall’interno delle istituzioni italiane! – con calma, tessera dopo tessera: prima una legge elettorale “porcata” per cacciar fuori dal Parlamento gli “indesiderati” e, nel contempo, impedire – di fatto – la creazione di nuove aggregazioni dal basso, dal vero corpo elettorale. Quindi l’acquisto – non troviamo altro termine per definirlo – dei vertici sindacali, per frantumare il poco che rimaneva e mettere all’indice le frange che, ancora, credevano nella dignità del lavoro.
Quindi la marginalizzazione e l’umiliazione della cultura: la scuola privata di mezzi per renderla inefficiente. E, quindi, inoffensiva. I fondi per la ricerca sempre stornati, al punto d’usare il 5 per mille per il Ponte di Messina!
Poi le leggi per marginalizzare gli immigrati, per punire in modo abnorme chi fa uso di droghe…ora la Chiesa, che deve essere “devitalizzata”, privata della sua essenza e mantenuta come vuoto involucro, uno zombie del terzo millennio.
Oggi, quel percorso è quasi compiuto: come i perfidi alieni di “Independence day”, le forze si stanno posizionando in campo, ciascuna al suo posto, pronte per l’assalto finale. Berlusconi s’opporrà? E perché dovrebbe farlo?

Il premier sa che non potrà mai consegnare alla Lega Nord un federalismo che sia una secessione mascherata – il referendum confermativo non passerebbe mai – inoltre, Berlusconi si trova impastoiato con i suoi mille problemi giudiziari: veri, falsi, presunti…non ha importanza. Di fatto, è sotto scacco.
Se Berlusconi non appoggiasse il piano secessionista della Lega, nei confronti delle istituzioni italiane avrebbe ben altro atteggiamento: non andrebbe di certo a Bonn a mostrare i muscoli e ad infangare l’Italia e le istituzioni. Probabilmente, manderebbe in avanscoperta il solito Gianni Letta con qualche spiegazione credibile per ricomporre, cercare accordi, una fuoriuscita onorevole, accordi a termine, altro…ma – mai – getterebbe la spada nella contesa. Perché, signor Presidente, non potremmo definire in altro modo le sue ultime “esternazioni”.
Domandiamoci, allora, chi è Silvio Berlusconi?

E’ un imprenditore, il quale ha il centro dei suoi interessi proprio a Milano: certo, con la secessione potrebbe perdere ricchezza, quote di mercato, affari, ecc, ma – se non dovesse riuscire a fermare gli attacchi contro la sua persona (non c’interessa dirimere se giustificati, ingiustificati, ecc) – per lui sarebbe la fine.
Potrebbe tentare, ultima spiaggia, le elezioni anticipate ma, anche qui, non avrebbe la certezza di farcela (nel senso di poter poi controllare una maggioranza schiacciante): spostato l’asse del PD verso sinistra, potrebbero rientrare in gioco anche gli elettori della sinistra estrema con alleanze meramente elettorali. E poi, cosa farebbero gli uomini di Fini? E Casini, che sembra chiamare l’adunata?
Insomma, Berlusconi si troverebbe a dover affrontare delle difficili elezioni, non la “passeggiata” del 2008.
Può anche darsi che lo faccia, che sia obbligato a farlo, ma la “ferrea” alleanza con Bossi – il treno rapido verso la secessione – gli consentirebbe di salvare capra e cavoli: sottrarsi alla giustizia italiana utilizzando proprio la “leva” secessionista, preservare le sue aziende ed i suoi interessi economici, portandoli fuori d’Italia, nella futura Padania, ossia nel “Lombardo-Veneto”. Non le ricorda qualcosa, signor Presidente, quel termine?
Gli interessi del premier messi in “cassaforte” – in un diverso Stato! – ed il coronamento del sogno della Lega: come potrà notare, gli interessi di Berlusconi e della Lega Nord coincidono perfettamente. E spiegano anche il sostanziale “disinteresse” per quel che sta avvenendo in Sicilia.

Potremmo pensare che quelli presentati siano scenari di fantapolitica ma nessuno, in Jugoslavia nel 1988, riteneva credibile quel che sarebbe successo pochi anni dopo. In Bosnia, persino quando iniziarono a circolare le colonne corazzate, i più si ricredevano “Ma no, sono soltanto manovre della JNA, dell’Esercito Jugoslavo…del nostro esercito…”
L’Unione Europea potrebbe benedire la secessione, giacché ogni possibile tentativo per “salvare” la nave Italia, che sta affondando, verrebbe gradito: non si può salvare l’intero bastimento? Beh, almeno il carico…
Le grandi corporations sarebbero le prime a gioire, poiché ogni dissoluzione di stato nazionale aumenta il loro potere di ricatto, ovvero produrre senza pastoie di nessun tipo (vedi Thyssen) ed a prezzi da fame.

Quando si cita l’esempio jugoslavo, si finisce per credere che gli eventi debbano per forza svolgersi nello stesso modo: non è necessario, per una secessione, che esista il corrispettivo italiano della linea di difesa “Vukovar-Karlobag”…chissà, una “Pisa-Ancona”…no, questo è cadere in parallelismi senza senso.
Anche il modello Ceco e Slovacco potrebbe tornar utile: le forme non le conosciamo e, in tutti i casi di secessione, ogni Paese ha avuto le sue. Più o meno sanguinose, più o meno feroci.
Quel che conta, sono gli interessi convergenti verso una scelta, non i mezzi mediante i quali viene poi attuata.

Nel caso jugoslavo – siccome c’era un diffuso apparato cooperativo – fu necessario, per le corporation ed i grandi poteri internazionali, distruggere la socialità stessa di quel Paese. Il caso italiano è diverso: da noi, è su base geografica che vogliono intervenire.
La “salvezza” dell’apparato produttivo del Nord sarà l’ennesima svendita, questa volta al grande capitale tedesco e centro-europeo in genere, e le fabbriche si riempiranno un'altra volta di moderni schiavi, italiani e stranieri. Sì, forse ci sarà qualche soldo in più, ma non per molti e con la totale perdita della sovranità.
Non fu forse il vero fondatore della Lega Nord – il sen. Miglio – un grande “amico” dell’allora Bundesbank? Della Banca Centrale di uno Stato il quale, in silenzio e senza destare clamori, “girò” gli armamenti “ereditati” dalla ex Germania Est in Croazia?

Siamo al 1988 jugoslavo, Presidente, se ne renda conto: non c’è tempo da perdere! Cosa aspetta, dopo esser stato pubblicamente insultato di fronte all’assemblea dei parlamentari europei del PPE?
Per fare che? Per procedere, immediatamente, per attentato alla Costituzione – sono loro stessi ad ammetterlo, a fregiarsene! Ci sono tutti gli elementi per farlo! – poi per manifesta incapacità in campo economico. Infine, meno importante, per essere moralmente inaccettabili: non è la loro moralità in discussione, bensì la credibilità italiana che finiscono per distruggere.

“E che c’entro io?”
Come, signor Presidente, lei non c’entra nulla? Beh, ci scusi e tanti saluti: credevamo che lei fosse la suprema autorità della nazione.
L’uomo che potrebbe – art. 88 – mandare a casa questa pletora d’incompetenti, dissoluti menefreghisti che siedono in Parlamento:

art. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tali facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato.

Mentre nella Costituzione esiste un preciso articolo (90) che spiega i termini nei quali può essere messo in stato d’accusa un Presidente della Repubblica, molti si chiederanno perché non esista una procedura d’impeachment nei confronti del Primo Ministro: perché è prevista, con lo scioglimento del Parlamento, dall’art. 88!
Se i costituenti avessero desiderato “temperare” quel potere, l’avrebbero precisato: invece, a parte la clausola degli ultimi sei mesi di mandato, nulla!
Lei potrebbe, semplicemente, chiamare i due Presidenti delle Camere – “sentirli”! Senza obbligo alcuno! – e poi dire loro, semplicemente: “Grazie, Schifani. Grazie, Fini”. E basta. Non ha altri obblighi, e nessuno potrebbe sollevare la minima obiezione!
Perché i costituenti non posero limiti, affidando – riconosciamolo – una terribile responsabilità sulle spalle del Presidente? Perché, nel caso un Capo del Governo fosse giunto a controllare la politica come un despota, ricattando la sua maggioranza in Parlamento – ieri con le squadracce, oggi con le TV – il Presidente doveva avere i mezzi per impedirlo. E, oggi, vasti settori della società italiana sono perplessi, attoniti, stupiti da tante volgarità e da una politica assente per i bisogni degli italiani.

Lei, Presidente, potrebbe mandarli a casa con un’avvertenza: se non cambiate subito la legge elettorale con una semplicissima legge proporzionale (l’abbiamo avuta per decenni: perché da quando ci hanno messo mano tutto precipita?) – e date modo a nuove formazioni politiche di soppiantare le vecchie – io l’art 88 ve lo sparo a raffica, a ripetizione. Siamo certi che si darebbero una calmata: lei, ci perderebbe qualcosa? Dobbiamo ricordarle, ancora una volta, che l’art 88 non le pone limiti in tal senso?

Ah, già…il rischio d’ingovernabilità, la “necessaria continuità”, il “salto nel buio”…ma…perché, oggi saremmo “governati”? Dobbiamo proprio morire di questa “continuità”? E quali timori possiamo avere per i salti nel buio, giacché ogni provvedimento governativo – da molti anni – non è altro che improvvisazione?

Lei, signor Presidente, non si trova in situazioni analoghe a quelle che affrontarono i suoi predecessori: l’Italia è il regno dei levantini in politica, della confusione, spesso del malgoverno. Tutti i suoi predecessori cercarono – con scarso successo, purtroppo – di rammentare i vantaggi della coesione, della positiva socialità, della fratellanza.
Oggi, invece, lei si trova di fronte ad una situazione nuova: non è più una vicenda di equilibri interni, di moralità…no, oggi, qualcuno sta scientemente lavorando – all’interno delle istituzioni! – per distruggerle e, domani, frantumare il Paese. Attenderà, silente, che qualcuno in camicia nera e fazzoletto verde venga a scacciarla?

Di là delle proprie opinioni politiche, il plafond di valori costituzionali sotto attacco non è negoziabile in nessun modo, poiché mette sotto scacco le basi della democrazia e del vivere civile: purtroppo per la sua persona, lei è l’unico in grado di fermarli. Decida, prima che sia troppo tardi: la Storia, inevitabilmente, la giudicherà.

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

04 dicembre 2009

Furbacchioni si nasce, Presidenti si diventa

La Geopolitica – proprio perché è “Geo”, quasi “Pan” – richiede sempre un evento, un bandolo della matassa dal quale partire per l’analisi, altrimenti la confusione è massima.
L’evento che ci ha colpiti, negli ultimi giorni, non è certo stato lo strombazzato invio di 30.000 soldati statunitensi in Afghanistan, cosa del resto presente nel programma politico di Obama. E nemmeno il classico servilismo italiano di “regalare” al Presidente USA mille fantaccini italiani per la fornace afgana: tutto serve – anche le future bare che, purtroppo, certamente giungeranno – per tentare un riavvicinamento a Washington, cercare di far dimenticare la “guerra” degli oleodotti e la grande “amicizia” con Bush e la precedente amministrazione. Per non parlare di Putin e di Bielorussia.

La “stranezza” – a fronte di un rinnovato interventismo USA – è stata l’annuncio, da parte dell’Iran, d’incrementare il proprio programma nucleare con dieci nuovi centri d’arricchimento per l’Uranio, e che il materiale fissile supererà anche la “soglia” del 20%, ossia superiore a quella generalmente utilizzata per le attività di produzione elettro-nucleare[1].
In altre parole, Ahmadinejad ha platealmente distrutto uno dei cardini che difendevano la sua politica nucleare, ossia che il programma iraniano era esclusivamente destinato ad usi civili. Strana coincidenza, proprio mentre gli USA sembrano voler mostrare i muscoli.
A questo punto, non restano che due ipotesi: gli iraniani giocano il tutto per tutto – sapendo che, tanto, la guerra giungerà inevitabilmente nel loro Paese – oppure per l’opposta ragione, ossia che nessuno li disturberà più.

L’evento, fra l’altro, giunge a cavallo della sostituzione della “colomba” El-Baradei in seno all’AIEA – l’ente che dovrebbe sorvegliare le attività nucleari nel Pianeta – con il giapponese Amano, che non è definito un “falco” bensì un “esperto di disarmo, più tecnico che politico”[2]. Vedremo cosa partorirà il nipponico.
L’ultimo “colpo di coda” di El-Baradei è stato una risoluzione contro Israele – la prima! – per il suo acclarato segreto di Pulcinella, ossia il programma e l’armamento nucleare di Tel Aviv[3]. Ovviamente, c’è stata la parallela condanna per il programma iraniano: business is usual.
Perché, allora, in un quadro così altalenante, Ahmadinejad rompe gli indugi e comunica, con una “perifrasi tecnica”, l’intenzione di giungere alla bomba atomica? Vuole accelerare una guerra contro il suo Paese?
Analizzando ciò che è avvenuto in passato – quando i rischi erano più elevati – si scopre che gli iraniani hanno saputo essere tanto levantini quanto pragmatici nella trattativa, evitando sempre lo scontro frontale ma non indietreggiando di un millimetro.
Qual è, allora, la ragione dell’improvvisa “avanzata”?

Riteniamo, e sosterremo questa tesi, che la scelta iraniana sia stata dettata più dalla politica estera statunitense che da risoluzioni dell’AIEA, minacce da parte di Israele od altro. In altre parole, gli iraniani hanno compreso – dalla scelta afgana di Obama – che non correranno nessun rischio per il futuro, anzi.
Dobbiamo allora chiederci cosa ci sia di nuovo nella strategia di Washington, dopo il primo anno del “regno” di Obama: lasciamo sullo sfondo le inutili polemiche e le ingenuità di chi pensava ad Omaba come ad un rivoluzionario, il paladino degli esclusi o roba del genere.

Barack Hussein Obama è un politico del Partito Democratico, lo stesso partito che espresse Kennedy (Baia dei Porci e Vietnam), Carter/Brzezinski (trappola afgana per l’URSS) e Clinton (79 giorni di serrati bombardamenti sulla Serbia), roba che non si vedeva più, in Europa, dal 1945.
Tutte cose che avevamo raccontato molto tempo fa, prima che tanti “osannanti” adepti della nuova religione “obamiana” comparissero[4].
Proprio da Brzezinski dovremmo partire, oggi che l’anziano “analista strategico” sta offrendo nuovamente i suoi servigi ad un altro Presidente del Partito Democratico e, l’ossessione di Brzezinski, è sempre stata l’Afghanistan. Perché?

La ragione è la stessa che condusse gli inglesi a tentare d’insediarsi in quel Paese nel lontano 1823 – scelta che portò ad una strisciante guerra fra gli afgani e gli inglesi, la quale durò fino al 1919! – e poi i sovietici: il controllo delle vie commerciali dell’Asia Centrale, siano esse le antiche carovane della seta od i moderni oleodotti. Quindi, l’ostinazione degli USA a rimanere nel Paese, è giustificata dal punto di vista geostrategico ma, proprio per i precedenti, non sembra godere di fausti auspici.
Riflettiamo, soprattutto, sulla sterile ed inconcludente guerra afgana condotta dagli inglesi: quando l’Impero Britannico era all’apice della sua potenza, non come la claudicante URSS. E, lasciateci anticipare, come gli illusi statunitensi & Co.

Le ragioni, per i fallimenti delle varie guerre “afgane”, sono sostanzialmente due: la natura del territorio e la presenza d’altri competitori.
Sulla prima c’è poco da dire: a parte le valli centrali, il Paese è impervio, montuoso e con scarse vie di comunicazione. Vale a dire, l’optimum per qualsiasi forza guerrigliera.
Per contrastare i guerriglieri afgani sarebbe necessario condurre una guerra diversa, con addestrate truppe di montagna (Alpini, Alpenjäger, Chasseurs des Alpes, ecc), e supporto aereo solo in funzione tattica, ossia per appoggiare le truppe a terra (quello che non possedevano, all’epoca, gli inglesi.)
Il tallone d’Achille di questa strategia è lampante: migliaia e migliaia di morti fra le truppe occidentali. Uno scenario politicamente improponibile, per questo l’aviazione viene usata in modo strategico, ossia per colpire i “centri” del nemico dall’alto. Ma, siccome il nemico non è un esercito tradizionale, l’aviazione strategica non ha obiettivi definiti e chiari da colpire: da qui, i tanti “errori” e la mattanza dei civili, che finisce per avvicinare la popolazione ai resistenti.

Ci si chiederà chi sorregge la guerriglia afgana, e qui affrontiamo il secondo punto.
Riteniamo che la Cina, ad esempio, non sia felicissima d’avere alla propria frontiera (un tratto esiguo, ma presente, che conduce al Sinkjang cinese) i Berretti Verdi, tanto meno la Russia, che vede nella (eventuale) penetrazione americana, dalle valli del Panshir, una minaccia al nuovo tentativo egemonico nei confronti delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. In pratica, la strategia del Cremlino – riportare “a zero” la penetrazione americana in Asia Centrale, i “tossici” (per Mosca) accordi dell’era Yeltsin – percepisce gli USA come una minaccia.
Quindi, riassumendo, la guerriglia viene rifornita da chi (anche altri Paesi del Patto di Shangai) non desidera avere rompiscatole in casa, e le condizioni del teatro bellico sono estremamente favorevoli ai difensori.
In questo contesto, Obama decide (almeno, così parrebbe) di rilanciare per una vittoria finale. Domanda: è fesso?

No, Omaba non è assolutamente fesso: è un’aquila al confronto di Bush, così come Brzezinski – da solo – ne fa venti dei grandi “strateghi” di Bush, i vari Rumsfeld e Cheney. Difatti, Powell – che militare era sul serio – se ne andò discretamente: grazie, sono repubblicano, non fesso.
Obama – da uomo intelligente qual è – ha compreso che la via afgana conduce direttamente alla Saigon del 1975: bandiere arrotolate, elicotteri gettati in mare, fuga. A differenza di Kissinger, però, Brzezinski non ha pronto un “Piano B” – al tempo Timor Est e l’Indonesia – per ricreare una “cintura” di protezione per la strategia USA. E, oltretutto – per stessa ammissione del Presidente – i soldi scarseggiano, non ci sono più le risorse di un tempo.
Che fare, con il poco che rimane?

Quella che Obama si prefigge non è una “vittoria” afgana – sa benissimo che è fuori della sua portata – ma una strategia di “stabilizzazione” del Paese sul modello iracheno.
Parentesi: la situazione irachena, però, è strettamente legata agli equilibri in Afghanistan, dunque si tratta pur sempre di tentativi con moltissimi punti interrogativi. Anche perché, nei fatti, l’Iraq non è “stabilizzato” per un cacchio.
La via, però, è quella e non ne esistono altre: lasciamo agli allocchi le farneticazioni sul Pakistan, la cattura di Al-Zawahiri (la vera “mente” di Al-Qaeda) ed altre fanfaluche. Ciò che conta per Obama è giungere al prossimo appuntamento elettorale del 2012 con una situazione non troppo deteriorata, almeno presentabile dal punto di vista mediatico. Chissà, se si sarà fatto dare qualche consiglio da un tizio il quale, in Italia, non sa fare altro?

Chi dovrebbe avvertire un po’ di bruciore al sederino è il “sindaco di Kabul” – Ahmid Karzai – il quale (provvidenzialmente?) ha già comprato casa ad Abu-Dhabi. La “nuova” strategia di Obama prevede, in pratica, di riportare al potere – sotto mentite spoglie – i Taliban e l’etnia pashtun. Addirittura, “contatti con il Mullah Omar”.
Karzai corre seri rischi, perché in Afghanistan non usa deporre un Presidente con l’applauso finale e tanti ringraziamenti, bensì appenderlo al gancio di un carro-attrezzi, dopo avergli infilato i testicoli in bocca[5]. Consiglieremmo, al più presto, un trasferimento nei dorati esili del Golfo Persico.

Perciò, non confondiamo le mire strategiche USA con quello che raccontano: oramai, la politica internazionale si fa più con gli annunci che con i fatti. I veri “fatti” sono altri a compierli, come le numerose collaborazioni militari ed industriali interne al Patto di Shangai, oppure l’aggressiva politica estera cinese nei confronti dei Paesi produttori di materie prime. Solo che, i cinesi, non mandano nemmeno uno schioppo: preferiscono comprare (per ora) con i dollari. Ne hanno forzieri colmi: questa è la vera “penetrazione” a livello internazionale, quella che nel tempo genera frutti, non le bombe.
Ahmadinejad, altro furbacchione, ha subito compreso che gli USA saranno terribilmente affaccendati nel cercare di giungere almeno ad una soluzione onorevole, per evitare una seconda Saigon: logicamente, ne approfitta. Oltretutto, sa benissimo che, in cambio di un placido “disinteresse” iraniano per l’Afghanistan, Obama sarà costretto a chiudere entrambi gli occhi, le porte della Casa Bianca e le chiappe.

Catapultato sulla scena internazionale, il giovane avvocato dell’Illinois – persona di grande intelligenza – ha compreso che deve mediare, all’interno, con le mille lobbies degli apparati industriali e militari, mentre all’estero può fare poco o nulla. Perciò, s’è attrezzato per fornire un’immagine convincente per il Pentagono, ed una soluzione pragmatica e gestibile per il volgo, così da assicurarsi – almeno, così spera – un secondo mandato.
Gestire la discesa lentamente, meno che mai dare l’impressione che sia una caduta: si naviga a vista. E noi, perdiamo del tempo a lambiccarci?

Articolo liberamente riproducibile nella sua integrità, ovvia la citazione della fonte.

30 novembre 2009

Finanziaria per il volgo

Copio e incollo brutalmente da Repubblica del 30/11/2009:

Scudo fiscale per tutto
La cifra prevista non è indicata, ma gli introiti dello scudo fiscale, quali che saranno, saranno utilizzati per i seguenti interventi:

Sostegno all'autotrasporto
alle missioni di pace
agli impegni derivanti dalla partecipazione a banche e fondi internazionali
alla proroga del 5 per mille
alla garanzia di equilibrio di bilancio per gli enti locali colpiti dal sisma in Abruzzo
alla parziale gratuità dei libri scolastici
all'agricoltura
alle scuole private
a convenzioni con i Comuni per la stabilizzazioni dei lavoratori Asu
alla Giustizia
al sostegno delle categorie socialmente svantaggiate.

Esegesi:

Sostegno all'autotrasporto: non si tratterà, per caso, d’aiutare l’amico Lunardi – poverino…lasciato fuori dal Governo, povero piccino… – che è uno dei boss dell’autotrasporto italiano su gomma? Ferrovie, navigazione…no, autotrasporto: ah, già, Lunardi era quello che “con la mafia si deve convivere”. Capito.

Sostegno alle missioni di pace: che sia la “tassa” da pagare ad Obama per massacrare qualche migliaio d’afgani in più? Per cercare di farsi perdonare l’amicizia con Putin e l’affossamento dell’oleodotto Nabucco? Non vediamo italiani in missione di pace, solo aerei e carri armati. Spiegare meglio, prego.

Sostegno alla proroga del 5 per mille: dal quale saranno sottratti 470 milioni di euro per il Ponte sullo Stretto. Altrimenti, i mammasantissima potrebbero lasciar liberi i pentiti di raccontare da dove venivano i 114 miliardi (degli anni ’70, più tutto il resto) con i quali Silvio si è “fatto da solo”, e sui quali si è sempre avvalso della “facoltà di non rispondere”.

Sostegno alla garanzia di equilibrio di bilancio per gli enti locali colpiti dal sisma in Abruzzo: eh, altrimenti, come si fa ad andare dall’Insetto a raccontare frottole sulle “villette”?

Sostegno alla parziale gratuità dei libri scolastici: non fatevi troppe illusioni, si tratta solo del libro di Geografia per il biennio e dell’Inferno per il triennio (in comodato d’uso). Grazie! Grazie! Grazie! In Germania, sono da sempre tutti in comodato d’uso.

Sostegno all'agricoltura: la cosa ci coglie in contropiede. Che si tratti dei discendenti dello “stalliere” Mangano, i quali hanno acquistato un’azienda all’asta dai beni sequestrati alla mafia? Oppure compreremo delle “quote latte” come i certificati verdi, tanto per dare un contentino alla Lega? Queste sì che sono le priorità del Paese.

Sostegno alle scuole private: beh, se questa norma non c’era ci saremmo allarmati. Dopo aver visto la processione, la questua dei poveri gestori delle scuole private…ci voleva, ci voleva proprio. Nel frattempo, nella scuola pubblica s’acquistano i cancellini con le tasse pagate dagli allievi.

Sostegno a convenzioni con i Comuni per la stabilizzazioni dei lavoratori Asu: si noti “a convenzioni”. Come a dire: a te sì perché sei bravo…a te no perché sei comunista…ma va là…speriamo solo che non siano convenzioni per lo “zoccolume” di Palazzo.

Sostegno alla Giustizia: questa, siamo seri, ci voleva. Più il processo è breve, e più costa. Avete forse sentito dire che una cosa, più si protrae nel tempo, e più costa? Ah, ma allora non capite proprio niente…

Sostegno delle categorie socialmente svantaggiate: grazie, grazie signor Presidente, grazie ministro Tremonti, grazie. Un insegnante, con pochi anni di servizio, guadagna meno di 1.300 euro il mese: ci voleva proprio un aiuto per questi poveracci. Grazie di cuore: baciamo le mani a vossia.

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28 novembre 2009

Curiosità curiose

“…vi faccio la barba, o la fate da sé?”
Fabrizio de André – Don Raffaé – dall’album Le nuvole – 1990.

Dopo mesi nei quali tutti guardavano alla Presidenza della Repubblica come ad un faro, l’unico rimasto nella Italian Banana’s Republic, il Presidente Napolitano ha gelato tutti, richiamando la Magistratura: “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento”[1].
Ohibò, mi son detto, che Napolitano sia stato colto da Alzheimer?

In modo un po’ contorto, la frase ci potrebbe stare, ma c’è una sola persona alla quale la Costituzione affida il delicatissimo compito di mandare a casa il Parlamento (e, di conseguenza, il Governo in carica, salvo per l’ordinaria amministrazione): lui stesso.
Non m’invento nulla:

art. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tali facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato.

C’è da chiedersi perché i costituenti giunsero a scrivere una norma così chiara e senza nessuna ulteriore precisazione o limite: il potere di sciogliere le Camere, da parte del Presidente, non è temperato da nessun comma aggiuntivo.
La norma sembra discendere direttamente dagli Statuti Albertini, che assegnavano al Re poteri quasi assoluti (diremmo oggi) sulla nomina dei Ministri e delle Camere, rimasti in vigore fino alla caduta della Monarchia Sabauda.
Probabilmente, la ragione che condusse ad affidare alla Presidenza della Repubblica un simile potere, non fu per continuità con il Regno d’Italia, bensì per cautelarsi da eventuali “caudilli” che avessero dominato il Parlamento con vari mezzi. Mussolini, dominò e svuotò di reale potere il Parlamento grazie all’appoggio della Monarchia, ma anche con l’aiuto delle milizie fasciste.
Nel 1947, dunque, la “scottatura” del Fascismo bruciava ancora, al punto d’affidare alla Presidenza della Repubblica un potere/dilemma molto gravoso, ossia decidere se chi governava fosse ancora degno di farlo, anche se avesse avuto la maggioranza parlamentare per farlo.

In questi giorni, ha stupito non poco la veemenza con la quale l’ex presidente Ciampi sembrava voler rammentare all’attuale inquilino del Colle i suoi poteri[2]:

“Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all'opinione pubblica.”

Questo passaggio lascia qualche dubbio, perché Ciampi firmò il lodo Schifani, al pari del lodo Alfano di Napolitano, ma chi s’affretta a porre questa critica (dimenticando che Ciampi s’oppose alla legge Gasparri e ad altre leggi del Cavaliere) non soppesa, a mio avviso, sufficientemente un’altra parte dell’intervista:

“Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell'azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto…”

E ancora:

“È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile.”

In effetti, ci sono delle differenze fra le due situazioni: nella precedente legislatura di Berlusconi, i rapporti di forza all’interno del Parlamento non erano squilibrati come oggi. Grazie alla “Calderol Porcata”, tre milioni d’italiani non hanno più rappresentanza parlamentare, e sono quasi tutti della sinistra.
Ciò ha condotto Berlusconi – uomo che mal sopporta l’equilibrio dei poteri – a ritenere d’aver vinto l’Italia al Lotto: da quel momento, è iniziato uno stillicidio di leggi ad personam, un legiferare confuso e quasi “on demand”, e sono sempre leggi che “rispondono” ai desideri della sola maggioranza. Ad esempio, la “demolizione” della scuola – sottraendole quasi 8 miliardi – per far cassa e pagare l’abolizione dell’ICI per i redditi più elevati (per quelli più bassi, l’aveva già abolita Prodi).
Non mancano mezzi e mezzucci, come il “nascondere” provvedimenti di spesa nei vari decreti “milleproroghe”, cercando in questo modo di vincere con la “sorpresa” o con la distrazione.

Tornando alla nostra domanda iniziale, allora, dovremmo chiederci quale sia il “limite” che un Presidente può sopportare prima di rimandare a casa le Camere ed il relativo Governo, perché quella norma – se è stata scritta così chiara nella Costituzione – un significato l’avrà. Poiché, non usare quella prerogativa, potrà domani essere rigettato dagli storici come un atto dovuto e non attuato.
Ovviamente, Ciampi non potrebbe mai invitare a chiare lettere il suo successore a percorrere quella via però, quelle parole così gravi sull’imbarbarimento della politica, sembrano quasi un messaggio subliminale.
C’è da chiedersi se il Presidente Pertini avrebbe sopportato fino a questo punto: avendo conosciuto e frequentato una persona a lui molto vicina, la mia opinione è che da un pezzo si sarebbe tornati a votare.

In ogni modo, anche la Presidenza della Repubblica – come ogni aspetto della vita politica italiana – ha le sue curiosità, che sono spesso motivo di sottili dietrologie.
Da quali ex stati risorgimentali sono giunti i Presidenti?
Si fa presto a dirlo:

Regno di Sardegna: 6 (Einaudi, Segni, Saragat, Pertini, Cossiga e Scalfaro)
Regno delle Due Sicilie: 3 (De Nicola, Leone e Napolitano) ma, attenzione, tutti rigorosamente napoletani.
Granducato di Toscana: 2 (Gronchi e Ciampi)
Stato della Chiesa: 0
Lombardo Veneto: 0
Altri: 0

Nessun Presidente è giunto dall’area adriatica, mentre Sardegna-Sicilia, il match delle isole maggiori, è fermo sul 2 – 0.
Cinque regioni hanno avuto ben 11 presidenti, le altre quindici nessuno.
Lombardia, Triveneto, Emilia…e via, giù fino a Lecce, nemmeno un Presidente.
Lo Stato della Chiesa – forse punito? – proprio niente.
Curioso, vero?
Chissà se la ragione di questi strani “regionalismi” – spicca la metà dei Presidenti all’ex Regno Sabaudo – non c’entri qualcosa con certe lobbies palesi, per nulla occulte, da sempre attive a Roma…chissà…nessuno c’aveva mai pensato, vero?

Nell’attesa che Napolitano soppesi l’invito di Ciampi, complottisti di tutte le parti, razze e religioni, d’Italia e d’Oltremare: scatenatevi!

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25 novembre 2009

Determinismo brigatista?

Nonostante la gran panoplia d’informazione presente sul Web, raramente si parla di brigatismo, lotta armata ed argomenti correlati.
Alcuni giorni or sono, furono recapitate ad alcuni quotidiani[1] delle lettere contenenti una sorta di “comunicato strategico”, che richiamava ad anni lontani, ed il Ministro dell’Interno Maroni ha recentemente esternato “preoccupazione” per l’evento.
Scorsi rapidamente la notizia, direi superficialmente, troppo superficialmente. Perché?
Poiché la teoria del complottismo ci ha abituati prima alla dietrologia che all’analisi, e dunque frettolosamente si conclude che, ciò che fa comodo al potere, è frutto inequivocabile del potere stesso.

Ci sono alcune defaillance in questi sillogismi: uno, ad esempio, riguarda gli shahid che si fanno saltare per colpire le truppe occidentali in Oriente. I quali, inequivocabilmente, esistono. Al prezzo della propria vita.
Non desideriamo entrare nel tourbillon delle opinioni che riguardano il “dopo 9/11”, poiché ci condurrebbe lontano dai nostri intenti, bensì sottolineare che – se qualcuno ritiene Al Qaeda una “succursale” del Pentagono (chi scrive non è fra questi) – quelli che si gettano con l’auto carica d’esplosivo contro i convogli militari sanno di morire, e la motivazione per giungere a tanto deve essere forte, radicata, convincente.
Chi vorrà approfondire le motivazioni del martirio islamico potrà trovare una breve spiegazione in nota[2], anche se non è questo l’argomento che andremo a trattare: ricordo, quando scrissi il libro su Al Qaeda[3], che una fonte citava, per il solo Pakistan, una “forza combattente” pronta a morire di circa 135.000 unità, formatasi, negli anni, nelle madrasse pakistane.

Il dato non è assolutamente incoerente, se si considera la popolazione del Paese (all’epoca, circa 150 milioni di persone), il reddito pro capite assai basso, l’alta sperequazione nella distribuzione della ricchezza, la diffusione dell’Islam di matrice wahabita ed il difficile accesso all’istruzione.
Considerate queste ragioni, non è certo azzardato concludere che milioni d’adolescenti pakistani siano “passati” nelle madrasse finanziate dalle varie organizzazioni caritatevoli islamiche, e che una parte di essi abbia maturato la convinzione di diventare martire per la causa.
Altrimenti, non potremmo spiegarci il costante “flusso” d’attentatori suicidi che continua, da anni: in altre parole, il quadro presentato è coerente.
Anche se le modalità d’intervento furono diverse (più per noi occidentali che per i musulmani), dovremmo anche riflettere sulle migliaia di combattenti islamici dapprima presenti in Libano, poi in Bosnia, in Cecenia, quindi in Iraq, Afghanistan, ecc.
Tutto ciò, per dire che le condizioni economiche, le culture tramandate, la presenza d’organizzazioni sul territorio ed altri fattori possono generare frutti come questi. Ovviamente, potremmo dissertare all’infinito sui finanziatori, sui “controllori” di queste operazioni, ma ci condurrebbe lontano perché è dell’Italia che desideriamo parlare, non del terrorismo di matrice islamica.

Maroni, come in altre occasioni, è solito “gettare il sasso nello stagno” per poi ritrarre la mano: attenzione – come nel caso del traffico d’organi – Maroni non è solito “sparare” panzane, poiché quel traffico sui migranti fu acclarato già nel 2004, in un dibattito a “porte chiuse” della Sanità Britannica. Semplicemente, pare dimenticarsi che – un Ministro dell’Interno – non può semplicemente lanciare il sasso nello stagno per poi stare a guardare i cerchi dell’acqua. Un Ministro dell’Interno, che comunica notizie di tale gravità, deve far seguire alle parole gli atti.
Non abbiamo nessuna difficoltà a credere che gli inquirenti stiano indagando su queste “Nuove BR”; ciò che ci ha colpito è un altro aspetto del problema: è “coerente”, con la realtà italiana, una nuova diffusione del fenomeno brigatista?
Per questa ragione abbiamo preferito porre all’attenzione dei lettori la questione pakistana – non per improbabili “saldature” fra i due fenomeni – ma per rendere un parallelismo nell’analisi che andremo ad esporre.

Maroni afferma che esistono delle “Nuove BR”, le quali hanno comunicato d’esser organizzate in nuclei territoriali in alcune città del Nord: ovvio, che qui – per i particolari della vicenda – dovremmo credere sia a Maroni e sia alle Nuove BR. Un po’ troppo.
Siano oppure no organizzate territoriali, armate o sedicenti armate, le nuove organizzazioni combattenti di matrice leninista non ci sembrano affatto, nell’attuale panorama politico ed economico italiano, una bestemmia.

Eppure, dobbiamo premettere che la situazione economica italiana non è certo quella pakistana e nemmeno quella statunitense, con il 15% della popolazione sotto la soglia di povertà. Obama gira il mondo con il suo potente Air Force One mentre, a casa, un americano su sei non ha da mangiare.
Questo, perché la soglia di povertà americana è calcolata su degli standard dell’ONU, i quali si basano sul numero di pasti non effettuati durante la settimana: vera fame, mica scherzi. In Italia, invece, la soglia di povertà è fissata in circa 222 euro il mese pro capite, ed è sotto questa soglia il 4,4% delle famiglie italiane[4].
Anche in Italia s’iniziano ad osservare persone che cercano cibo nei cassonetti alla chiusura dei mercati rionali, però la struttura della società italiana è molto diversa da quella americana, laddove la famiglia d’appartenenza è spesso un vago ricordo.

Tutti sappiamo che la vera rete di protezione contro la povertà, in Italia, non è lo Stato bensì la famiglia: sotto questo aspetto, siamo più simili al Pakistan (forti legami familiari e di clan, appartenenza religiosa, ecc, per semplificare molto) che agli USA.
Negli USA, spesso, vivere negli slum è quasi sempre sinonimo di piccola delinquenza, che si consuma in aggressioni a scopo di rapina, spesso individuali, mentre non esistono “germi” di rivolta collettiva. Almeno, ad oggi, e fatti salvi alcuni sporadici casi del passato come Oklahoma City, i quali furono ben delimitati nel tempo e non ebbero seguito.

In Italia, invece, la tradizione alla costituzione di società segrete e/o armate è radicata nella nostra cultura: iniziò nel Risorgimento, prosegui durante il Fascismo, si materializzò nella guerra partigiana, fu ripresa dalle BR (ed altri) negli anni ’70. E’ nel nostro DNA, come del resto la “squadraccia”, ossia il gruppo che s’oppone militarmente sul territorio all’organizzazione politico/militare di stampo marxista-leninista.
Riflettiamo che, ciò che avviene, prende forma in un diverso palcoscenico, ma con un retroterra culturale – una serie di “copioni”, verrebbe da dire – ben sedimentato nello scorrere delle generazioni.
E’ dunque fantapolitica immaginare che, fra pochi anni, avremo nuovamente a che fare con formazioni combattenti sul territorio, strutturate in piccoli gruppi, come avvenne in passato? Io non credo proprio, poiché le condizioni – o ci sono già oggi – oppure stanno maturando.
Cerchiamo di scorrerle, ad una ad una.

Una peculiarità scaturita dalla legge elettorale – la “Calderol Porcata” – è stata la sparizione dei partiti dell’estrema sinistra: un fatto inusuale nel panorama europeo, quando sia in Francia e sia in Germania – indipendenti oppure aggregati a formazioni socialdemocratiche – esistono gruppi comunisti, trotzkisti, ecc, i quali – pensiamo alla “Linke” tedesca – “pesano” nel panorama politico.
Non entriamo nel merito di quella “sparizione”, della fiducia sottratta loro in primis proprio dal loro elettorato tradizionale, poiché ci condurrebbe lontano: certifichiamo soltanto che, in Italia, 2-3 milioni di potenziali elettori non hanno più rappresentanza politica parlamentare (la presenza nelle Amministrazioni Locali sta scemando, e presto sparirà del tutto).
Chi è questa gente?
E’ in gran parte un elettorato che si sente tradito proprio dai leader come Bertinotti o Di Liberto, e che sta rapidamente perdendo interesse per i vari Vendola, Ferrero & compagnia cantante, poiché non riesce a capire – viste le forche caudine della soglia elettorale – il motivo che preclude la loro assimilazione in una sola forza politica. Risultato: è inutile essere un comunista “democratico”, perché tanto non esiste nessuna organizzazione che mi permetta d’esser rappresentato dove conta (o dovrebbe contare) ossia in Parlamento. Credetemi: così ragionano in tanti. E, i “tanti”, cominciano ad essere milioni di persone.

In questo panorama, iniziano a scaturire i frutti della cosiddetta “oramai passata” crisi economica: sarà pur vero che l’economia finanziaria “sta guarendo” (almeno, così raccontano…), ma sul fronte dell’economia reale – l’unica che c’interessa per questa analisi – i segnali sono disastrosi.
La vicenda Olivetti-Getronics-Bull-Eutelia-Noicom-Edisontel, tutti confluiti in Agile s.r.l. (ora Gruppo Omega), è una storia di quelle che fanno tremare i polsi: 9.000 persone che rischiano, nei prossimi mesi, di non avere più nessuna fonte di reddito! Ed è solo una delle tante.
In passato, queste crisi di ristrutturazione erano risolte con la cassa integrazione, la mobilità “lunga” verso la pensione e l’assunzione da parte del settore pubblico per i più giovani: ma, di crisi di ristrutturazione si trattava, crisi cicliche del capitalismo. Oggi?

La situazione internazionale ci vede poco attrezzati per competere nel panorama globalizzato: anni nei quali la ricerca ha languito (incredibile lo scarsissimo interesse per il settore energetico innovativo), la dismissione del patrimonio produttivo pubblico, più la completa deriva di una nazione oramai priva di una classe politica, stanno mostrando i frutti.
Per la classe politica non ci sono scusanti: alcune delle aziende sopra citate, oramai inviate al “Miglio Verde” dell’estinzione, solo vent’anni fa competevano con IBM sui mercati internazionali. La débacle è totale, e lo afferma persino Confindustria, pur cercando d’edulcorare la pillola mediante comunicati spruzzati di rosa shocking.
La responsabilità, ovviamente, non è da addebitare ai lavoratori, agli italiani in genere, ma al connubio fra la classe politica con i boiardi di Stato. Ma passiamo oltre.
E’ ancora possibile, in questo scenario, garantire tutti?

Qualcosa è possibile fare, ma è oramai evidente che il destino degli italiani, nel prossimo futuro, sarà quello d’ulteriori abbassamenti del reddito, privazioni di diritti, precarietà, difficoltà economiche e sociali di vario tipo e natura.
Questo perché, mediante le varie riforme pensionistiche, lo Stato ha fatto cassa per fronteggiare la perdita di posti di lavoro e di competitività sui mercati internazionali, ma le recenti dichiarazioni di Tremonti – nessun inasprimento del regime previdenziale – testimoniano che il sacco è giunto al fondo e che non si può andare oltre.
Anche sul fronte della precarietà del lavoro è difficile pensare a qualche “innovazione”, poiché solo più di schiavitù si tratterebbe.
In altre parole: siamo al capolinea.

In questo immaginario “capolinea” – freddo e buio, come nella tradizione letteraria e cinematografica – s’incontra un ceto politico ed imprenditoriale che non è assolutamente disposto a cedere privilegi e prebende che loro appaiono – nel confronto internazionale – pienamente giustificate. Dall’altra parte della via, moltitudini sempre più povere.
Organizzate? No, perché ha ceduto l’altro “pilastro” dell’organizzazione sociale del lavoro, ossia il sindacato. Trasformati, rigenerati in centri servizi, i caporioni della Triplice attendono posti e prebende dalla Casta politica, nient’altro. Rigorosamente divisi per false appartenenze, CISL ed UIL guardano verso la cosiddetta destra, la CGIL verso la cosiddetta sinistra.
Risultato: rivolta spontanea? No, sbagliato.

L’italiano medio è un suddito, non un cittadino e non si ribella: inveisce e blatera, bestemmia e minaccia, poi rientra nei ranghi e cerca carità.
La struttura della società italiana – proprio per i legami familiari, la “disponibilità” delle organizzazioni mafiose, le associazioni “caritatevoli” del potere ecclesiastico – consente, al prezzo di una graduale ma continua riduzione dei redditi, dei diritti e della propria dignità, di sopravvivere. Questo è lo “stellone” italiano: quello che consentirà a vostro figlio di campare con meno cose di voi, di sopravvivere, affogando la propria vita nell’insipienza di un vivere schiavo.

Tutto ciò, però, vale per grandi numeri, per vaste aggregazioni sociali, ma dimentichiamo un aspetto: la varianza, la differenza, che s’esprime in forma grafica con la campana di Gauss.
La società italiana non mette a ferro e fuoco le periferie come in Francia e non arresta completamente il Paese come gli scioperi in Germania, bensì comunica il suo malessere con le proprie modalità storiche, con i suoi tradizionali mezzi di rivolta: il brigantaggio, le organizzazioni segrete, ecc. Perché?
Poiché, a fronte di una vasta maggioranza che accetterà il tozzo di pane della carità – e di una minoranza che fuggirà nel dolore psicologico fino alle nevrosi, alle droghe, ecc – un’altra minoranza si ribellerà. Come? Con i mezzi della propria tradizione culturale, sedimentati nelle generazioni e via via riportati alla luce e rinvigoriti dalle circostanze.

Perché nacquero le organizzazioni combattenti di sinistra, negli anni ’70? Prima, dobbiamo porre attenzione sul quando nacquero.
Se la spontanea rivolta internazionale partì all’incirca fra il 1967 ed il 1970, le Brigate Rosse (di qui in avanti, useremo il termine in modo omnicomprensivo, per tutte le organizzazioni terroristiche di sinistra dell’epoca) iniziarono ad affermarsi dopo il 1975, e toccarono forse l’apice nel 1978, con il sequestro Moro.
Non perdiamoci in dietrologie sulle singole vicende: non è questo l’argomento.
Il “successo” delle Brigate Rosse iniziò proprio quando il grande movimento di quegli anni iniziò a barcollare, per giungere, nel 1980, all’acclarata sconfitta del movimento operaio, la famosa “marcia dei 40.000” quadri e funzionari FIAT di Torino[5]. Passò sotto le mie finestre.
Dove trasse energie, proseliti, “numeri” la lotta armata?

Per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di quantificare – con approssimazione – la consistenza dei movimenti di quegli anni.
Le generazioni che furono coinvolte nei rivolgimenti sociali dell’epoca furono all’incirca una decina, ed una generazione dell’epoca superava le 500.000 unità. Fonti (dell’epoca) quantificarono in circa un milione i giovani che fecero parte del Movimento Studentesco, della Sinistra extraparlamentare e d’alcuni partiti che avevano piccole rappresentanze parlamentari: come si può notare – sia pure a grandi linee – il dato è coerente.
I brigatisti condannati per reati di terrorismo, invece, non superarono le 6.000 unità, le quali comprendevano anche i cosiddetti “fiancheggiatori”, ossia chi semplicemente ospitò un terrorista, lo curò, lo aiutò, ecc. E’ da notare che queste persone furono la gran maggioranza, mentre i “gruppi di fuoco” furono sempre molto esigui, qualche centinaio di persone al massimo.
Da una moltitudine che urlava contro il potere, a far sparare le armi – in definitiva – furono poche centinaia, eppure il sangue versato fu tanto. Perché?

Poiché l’organizzazione terrorista gioca d’anticipo, non ha finalità di proselitismo alla luce del sole e su larga scala: la sua “lotta politica” sono le uccisioni stesse.
Sulle modalità di reclutamento c’è parecchia letteratura, e si ricava che i reclutatori avvicinavano persone che militavano nei gruppi extraparlamentari per indicazione di qualche “fiancheggiatore”, intavolavano vaghi discorsi ed osservavano la reazione del soggetto. Se c’erano elementi per loro positivi, veniva nuovamente avvicinato con argomenti sempre più espliciti: solo quando c’era oramai la certezza dell’adesione, l’organizzazione si “scopriva”.

Non è qui importante analizzare come andò a finire, perché qualsiasi società segreta o gruppo armato clandestino viene distrutto mediante la delazione: nemmeno il brigantaggio si sottrasse a questo principio, e la lotta partigiana ebbe successo soltanto perché avvenne in un quadro bellico, dove i vincitori erano al loro fianco.
Ciò che è invece interessante notare è che, per molti versi, la disillusione, lo sconforto italiano di questi anni – pur con importantissime differenze – è un sentimento che assomiglia molto all’atmosfera di “sconfitta” del movimento di quegli anni.

Si potrà dissertare all’infinito sulle differenze storiche, ma la percezione di sconfitta – al tempo una “rivoluzione mancata”, oggi la sensazione che il Paese non è più in grado di trovare “anticorpi” per risollevarsi – ha molti punti di contatto.
Ovviamente, senza avere le informazioni che certamente Maroni ha, non siamo in grado d’andar oltre ma – analizzando le dinamiche sociali – non crediamo proprio che il Ministro dell’Interno abbia desiderato creare del “polverone mediatico”, tanto meno che sia tutta una “bufala”.
I prodromi ci sono tutti.

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