30 ottobre 2007

L’Italia dei Rais

La decisione presa da Mastella e da Di Pietro, di non approvare la commissione d’inchiesta sui fatti del G8 di Genova, fa male, anche perché – ricordiamo – un alto funzionario di Polizia, appena raggiunta la pensione, s’era affrettato a comunicare che l’irruzione nelle scuole dove dormivano i no-global era stata “macelleria sudamericana”.
Qualcosa da chiarire, quindi, c’era e rimane, di là delle pure e semplici rilevanze giudiziarie.
Invece, i due rais del Sannio e dei Bruzzi, hanno votato con il centro-destra: non per chissà quali motivazioni politiche, bensì per lanciare una messaggio nell’etere alle forze corazzate di sir Archibald Berlusconi, che scendono da Nord. Pietosa la giustificazione addotta all’Alto Comando dal rais Menelik Mastellà, un tempo alleato degli italiani, il quale ha risposto che – se tale ordine era stato concordato (nel programma) – “lui non lo aveva letto”. Il rais Hailé Depreté pare sia fuggito più ad ovest, verso la savana, e non si hanno sue notizie.
Non siamo ancora a conoscenza delle decisioni che prenderà il generale Graziano Prodi – almeno, ufficialmente, comandante delle truppe in Africa Orientale Italiana – ma sappiamo che i sommergibili stanno già salpando dalla base di Massaua, per ignota destinazione. Forse, una difficile e perigliosa navigazione li condurrà a ritrovare la via della Patria.
La situazione sta rapidamente degenerando: l’errore – che oggi qualcuno inizia ad ammettere a denti stretti – è stato fidarsi delle infide truppe coloniali: già i Romani diffidavano dei Sanniti, e gli ascari di Mastellà hanno confermato la tradizione. Incomprensibile, poi, l’appoggio dato al rais Depreté dalla “pasionaria” Franca Rame, ma si sa – come affermò un poeta “futurista” – “che la passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie, senza indagare se…
Il vostro corrispondente dell’EIAR vi saluta: raffiche di fucile mitragliatore s’odono per l’aria, e rumori di colonne militari in fuga sono oramai ovunque. Qui Radio Mogadiscio: arrivederci, Italia, arrivederci a tempi migliori!

28 ottobre 2007

Lupi, peli e antichi vizi

Avevamo appena assorbito i “colpi” conseguenti alle pessime riforme delle riforme del centro destra, il tentativo di chiuderci la bocca con il Decreto Levi, che salgono sul palco i poteri forti in prima persona – è raro che accada – per raccontarci come vorrebbero rivoltare l’Italia.
E passi che ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole, ma a tutto c’è un limite: quello della decenza.
Luca di Montezemolo si spaccia per gran moralizzatore della vita pubblica, ma dimentica che ha fatto affari fino a ieri sia con il centro destra e sia con il centro sinistra. Manco capace a non sputare nel piatto dove lui – oggi – e gli Agnelli – ieri – hanno gozzovigliato a piacere.
Eh, sì, perché fa comodo lamentarsi del pessimo welfare italiano, ma dimenticano che la regola è sempre stata: i periodi di vacche grasse per noi, mentre le vacche magre se le deve “sbucciare” lo Stato.
E poi, francamente: mai nessuna autocritica! Quando la FIAT produceva automobili che arrugginivano da sole, era perché conveniva acquistare l’acciaio greco – che costava un’inezia – perché raffreddavano le colate con l’acqua di mare. Acciaio al sale.
Chissà perché, invece, le auto tedesche sono da sempre costruite con materiali superiori, costano di più ma reggono al mercato perché – alla lunga – i costi di manutenzione sono inferiori.
Le cose da raccontare, sul parossistico capitalismo italiano, sarebbero tante: da quando la Terni produceva acciaio di qualità inferiore alla Krupp e lo rivendeva a prezzi più alti alla Regia Marina. Oppure da quando – negli anni fra le due guerre mondiali – la Caproni di Reggio nell’Emilia presentò un velivolo bimotore, monoplano metallico con cabina pressurizzata, che precedeva di quasi un decennio i DC-1 e DC-2 americani. Perché non fu prodotto? Poiché non si trovarono i finanziatori: la FIAT, quando le conviene, sa muovere le sue pedine. Vestivamo alla marinara, e ci piacevano i biplani.
Invece di venirci a strapazzare i cosiddetti, Montezemolo provi a fare l’imprenditore come Dio comanda: perché le ammiraglie Lancia costano parecchio di più dei modelli tedeschi?
Perché il progetto della nuova Fulvia HF è fermo da anni? Gli altri hanno riprodotto – in chiave moderna – Maggiolini e Mini Minor, ed oggi le vendono.
Per essere considerato un interlocutore politico valido, provi prima a dimostrare di saper reggere al mercato senza correre ciclicamente sotto le gonne di mamma-Stato. Provi a proporre contratti innovativi come alla BMW – 28 ore settimanali su 4 giorni – e vedrà che la produttività cresce.
Invece, il Lucherino pensa a contratti ancora più “flessibili”, perché il capitalismo italiano sa solo fare la rincorsa sui costi di produzione, non sull’innovazione.
Dopo Mortadelle e Cavalieri, ci tocca anche sorbirci Draghi (Mario, “in completa sintonia” con Montezemolo) e Carrozzieri. Quante occasioni si perdono per star zitti, caro Montezemolo e, se la cravatta non sai tagliartela da solo, noi non siamo certo i tuoi camerieri. Arrangiati, sei grande e vaccinato.

24 ottobre 2007

Il tempo del Gattopardo è scaduto

Ieri sera avevo meditato d’accendere il televisore e di guardare Ballarò: confesso d’aver resistito soltanto una mezzora, ma è bastato per farmi correre un brivido lungo la schiena, Parossismo allo stato puro.
Non dilunghiamoci ma, un Diliberto che consegna “metaforicamente” alla telecamera un disegno di legge per ridurre i costi della politica, mi fa letteralmente cagare. Dov’eri negli ultimi 15 anni?
Gli risponde un Maroni che cita la “debacle” economica del governo Prodi: rapporto deficit/PIL al 4,3%...debito al tot%...e continua: dati dell’Unione Europea del 2006. Dimentica che i dati erano quelli della sua ultima Finanziaria, stesa nell’ultimo anno del centro destra. Sorvoliamo sui minuetti fra sindacalisti ed imprenditori: in Italia si guadagna poco. “Mo’ me lo segno”, avrebbe risposto Troisi.
Sale quindi sul desktop l’icona di una ragazzina rossa come un semaforo: mi chiedo se vicino ci sia anche Roger Rabbit. Poi comprendo che quella Michela Vittoria Brambilla – nome ben scelto, complimenti, suona bene…Publio Virgilio Marone…Quinto Fabio Massimo… – dovrebbe essere il Veltro del centro destra. Che fu da Feltre a Montefeltro?
No, la ragazza non è il Veltro – mi correggo – perché è “nuova”. Ma chi c’è dietro?
Se non è un Veltro allora è un “gratta e vinci”, un’icona da grattare con la monetina.
Sì, perché penso a cosa succederà domani, quando un povero “marun” (piemontese: sfigato) Prodi porterà i libri in tribunale e tornerà a Bologna. Gratteranno la Michela ed apparirà il viso di Tremonti – dopobarba al mentolo – che ci ammansirà sui decimali del nuovo deficit, della nuova manovra, che non ha ragione l’UE ma non ha nemmeno torto lui. Che tutti sanno tutto e noi niente. Perché, figli miei – risponderebbe il Marchese del Grillo – io so’ io e voi non siete un cazzo.
Basta, premo sul pulsante del frullatore e li sbatto oltre l’orbita del teletrasporto: zoooooooooom! Telecomando. Spento. Come sarà l’alba del giorno dopo?
L’alba del giorno dopo, nella quale sto scrivendo, è grigia e simile a tante altre ma ha un che di diafano, e una vena d’angoscia ha tinto anche i platani della piazza. Questi – rifletto – stanno per lasciarci un’eredità di quelle che stramazzano un toro, e noi non siamo pronti. Le cose stanno accelerando improvvisamente, con Diliberto che non consegna – metaforicamente – un disegno di legge al cameraman, ma le dimissioni di un’intera classe politica allo sbando. Che cerca conforto nel viso dolce e un po’ smarrito di una ragazzina appena uscita dal casco del parrucchiere.
Chi mi riparlerà di domani luminosi, dove i muti canteranno e taceranno i noiosi” cantava Fabrizio 40 anni fa: chi potrà risarcirci di tanto sfascio?
Riflettiamo che non c’è voluto molto: è bastato l’8 settembre, il V-day, per innescare tutto, una spirale di parossismo che ha condotto un Ministro della Giustizia (noi non toccheremo mai un giudice che indaga!) a licenziare un magistrato.
Il dramma è che tutto questo sta per cascarci addosso e non siamo pronti. Dobbiamo correre ai ripari, e in fretta.
Non penso che chi ha partecipato al V-day chiedesse cose tanto diverse rispetto al milione di persone che sabato scorso sono scese in piazza per urlare a Prodi “ma che vai facendo?”, non credo che Veltri, Beha & Co, la pensino poi così diversamente. Perché qui, amici miei, non ci si sente solo più dei poveracci quando si varca il confine francese: oramai, ci si sente disgraziati quando si va in Slovenia.
Abbiamo bisogno di persone che la smettono di presentare proposte di legge ai cameraman, e ringraziamo le ragazzine acqua e sapone: necessitano persone che sappiano cosa fare per un prezzo del petrolio che s’impenna di 10 dollari ogni 4-5 mesi, che decidano cosa fare dei nostri poveri fantaccini in Libano, quando Bush vaneggia oramai come Hitler nel bunker.
Le cose da fare non sono poi tantissime, e sappiamo anche quali sono: non capiamo perché si debba fare una riforma per decidere che farai il precario “soltanto” per 51 mesi (e dopo?), oppure perché si “migliorano” le pensioni per andarci da 60 anni a 62.
Abbiamo bisogno di ristrutturare la nostra forma di Stato – nessuno ha Stato, Regioni, Province, Comuni, Circoscrizioni e Comunità Montane, non c’è nazione che possa farcela a reggere un simile fardello! – le alternative sono poche: lo stato napoleonico (Stato – Province) oppure “simil-federale” con Stato e Regioni.
E poi, via i comuni con meno di 5.000 abitanti: non ce la possono fare, con pochi mezzi, a svolgere i loro compiti. Sono degli inutili Fort Apache!
Smettiamola di raccontare che c’è una “crescita economica”, perché ogni aumento dell’economia lo consegniamo ai banchieri con il signoraggio. Paradossalmente, ci converrebbe non crescere per niente, almeno non aumenteremmo il debito!
E poi un colpo di spugna sull’infinità sequela di cazzate e ciarpami: come si fa ad introdurre nuovamente l’esame di riparazione ad anno scolastico già in corso! Perché De Magistris non ci può raccontare quel che è successo? Perché Rete4 non va sul satellite? Perché i manager ingrassano sfasciando le aziende pubbliche e le vecchiette devono campare con 512 euro il mese?
Le cose le sappiamo, inutile continuare.
Oggi abbiamo a disposizione il Web: usiamolo.
Lancio da queste pagine una proposta operativa: a Grillo, a Beha, a Veltri, oserei dire alle “buonevoglie”, ovunque siano, basta che non siano i soliti marpioni riciclati.
Iniziamo a stendere un programma organico ed a costituirci in qualcosa di più tangibile dei blog: se dobbiamo chiamarlo “partito” non fa niente, non facciamoci spaventare, basta chiarire anzitempo – con un programma chiaro – cosa vogliamo fare e, per questo, un mese di dibattito organizzato sul Web è sufficiente. Con tanto di voti alle varie proposte.
Dopo, facce nuove che raccontano cose nuove, che non abbiano paura di prestare la propria faccia non per una nuova stagione politica – il tempo del Gattopardo è scaduto – ma per una nuova Italia. Basta con l’inno di Mameli: meglio quello di De Gregori.
Un nuovo partito non raccoglierebbe abbastanza consensi per farcela da solo a governare? Non fa niente. Entrerebbe comunque in Parlamento e restringerebbe le aree di manovra dei centro/destra/sinistra, che si vedrebbero costretti ad evidenziare sul proscenio quelle alleanze “innaturali” che già sappiamo esserci.
Farebbero di tutto per rimanere attaccati alla poltrona – questo è certo – ma agendo in quel modo non sortirebbero altro effetto che salire ancor più sulla berlina e mostrare a tutti – ma proprio a tutti – il sedere nudo. Accelerando esponenzialmente la loro caduta.
Facciamo in fretta, però, perché le mie “antenne” mi dicono che il tempo è agli sgoccioli. Non vorrei che si realizzasse la profezia di Gianni Agnelli, ossia che saremmo stati salvati la prima volta da un Cardinale, e la seconda da un Generale. E io, di generali con o senza stellette, non ne voglio sentir parlare, anche perché i Cardinali – sotto mentite spoglie – sono già sfilati.
Se ritenete che questa sia soltanto una sequela di cazzate, un brutto risveglio, un torpore della mente che si è tramutato in uno sfogo, non temete e rassicuratemi. Tranquillo, Bertani: hai solo fatto un brutto sogno.
Altrimenti, serriamo le scotte, chiudiamo i boccaporti e cerchiamo un buon locale in porto dove poter discutere su come reggere alla tempesta. Estote parati.

20 ottobre 2007

Piccoli balilla crescono

Zitti zitti, una ventina di balilla un po’ cresciuti – il Gran Consiglio dell’Ulivo – si sono riuniti a Palazzo Venez…pardon, Chigi (sempre di notte, la tradizione insegna…) per decidere di farla finita con ‘sti rompicoglioni del Web. Speriamo che la prossima volta si riuniscano il 25 Luglio e che ci sia anche, fra i presenti, il genero del Capo. Se sanno di Storia come di Internet, può darsi che la fortuna ci arrida.
Cos’hanno deciso il 12 Ottobre del 2007? Invece di farlo nel giorno della scoperta dell’America, potevano deciderlo il 28 Ottobre, così celebravano la Marcia su Roma.
Hanno meditato d’imbavagliare chiunque apra o gestisca un sito od un blog, imponendogli la stessa normativa che si applica ai giornali! In altre parole, per scrivere queste cose, io dovrei essere un giornalista iscritto all’Albo (che loro stessi controllano, leggete il mio “Alì Babà e i Quaranta Ladroni”, se non ci credete) oppure avere un responsabile del sito (ovviamente, con “pedigree”). In barba all’art 21 della Costituzione!
Naturalmente, il giornalismo di regime continuerà a godere del suo miliardo di euro l’anno di finanziamenti – quest’anno, mascherato in Finanziaria con una diminuzione dei finanziamenti “ufficiali” ed un parallelo aumento degli sgravi postali – che alla fine resteranno quindi equivalenti. Sono la stampella del potere. E per il Web? Per il Web i doveri: cosa vogliono di più?
La procedura, poi, impone ovviamente dei costi ed una trafila che si può trovare sul sito del Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC), splendido strumento di “democrazia” che ha sede a Napoli. Semplicissime forche caudine, a meno di non avere anche un ufficio legale annesso.
S’arrampicano sui vetri, per giustificare l’intervento, affermando dubbie argomentazioni sulla diffamazione a mezzo stampa: come se non ci fossero già stati procedimenti giudiziari per articoli Web!
Ho spiegato tutto l’andazzo con un articolo, titolo – Il decreto bulgaro di Prodi – che potrete trovare sul Web facilmente.
Dopo il Vday di Grillo, hanno una paura dannata e la paura fa brutti scherzi. Al punto di non capire che, di fronte ad una simile legge, chi è un po’ più sveglio (e faranno in fretta a diventarlo in molti) s’assicurerà un dominio estero. Carlobertani.ru? Carlobertani.tk? C’è solo da scegliere. Dopo, dovranno chiedere una rogatoria: non facciamo ridere…
E i provider italiani? Come saranno felici di veder migrare milioni di contratti verso altri lidi!
Tanta stupidità non si riesce a credere: questi, di Internet, non hanno ancora capito niente. Lavorano per distruggere il Web italiano!
Se provassero, invece di partorire simili “pensate” – sul filo della paura – a rendere almeno governabile il 30% del Paese, che vive sotto il tallone della Mafia, della Camorra e della N’drangheta, qualcuno gliene renderebbe merito.
Sarebbe meglio cominciare dal nostro “piccolo” Sud, perché il Web – ossia il Pianeta – è un po’ più vasto.
Se, invece, si dedicano a queste attività liberticide, non rimane che rispondere con il “vaffa” di Grillo. Magari da un provider russo, venezuelano, indiano, messicano, groenlandese…

10 ottobre 2007

Benvenuti in Bulgaria

“Quando la luna perde la lana e il passero la strada,
quando ogni angelo è alla catena e ogni cane abbaia…”
Fabrizio de André – Canto del servo pastore

Ho acceso il televisore oggi, 10 ottobre 2007, per ascoltare cosa raccontavano del referendum sul welfare. Ho provato pena, schifo e rabbia.
Dopo che anche i gatti del vicolo dietro casa avevano capito che si trattava di una colossale puparata, gli apparatcik di regime sono scesi nell’agorà mediatica per imbonirci, per raccontarci che era stato un grande “appuntamento di democrazia”. Se questo è il senso che danno ai loro appuntamenti, piango per le loro fidanzate.
Conosco personalmente decine di persone che non sono riuscite a votare perché nessuno aveva detto loro dove andare, dov’erano i seggi. E passi.
Ciò che proprio non passa, è l’elogio sperticato della Casta per la riuscita del colossale inganno che ci hanno propinato: oltre al danno, la beffa.
Il danno peggiore che hanno inferto – tutti, dal piccolo “bonzo” sindacale al Presidente della Repubblica – non è stato l’inganno su cifre che nessuno potrà mai verificare, alle quali nessuno avrà accesso, che nessuna autorità potrà mai convalidare, se non gli stessi che avevano organizzato la farsa.
Il danno peggiore l’hanno inferto alla vita democratica del Paese: chi crederà ancora, dopo questa buffonata, che si possano consultare i lavoratori per le questioni che li riguardano? La prossima consultazione, la faremo gestire da Bonolis con il tele-voto: almeno, lì c’è qualche bella figliola per rallegrare l’animo.
“Tutto è già scritto”, rispondeva un giovane Omar Sharif ad un altrettanto giovane Peter O’ Tool, in Lawrence d’Arabia, ma quello era un film. Oggi, hanno riportato indietro le lancette della storia.
Se questo referendum era considerato così importante – e vorrei vedere che non lo fosse, un appuntamento nel quale si dovevano decidere i futuri assetti del lavoro e dello stato sociale del Paese – perché spregiarlo con una truffa evidente?
Nonostante l’impegno di tutto l’apparato, la gente ha fiutato l’inganno, e questo è il peggior danno: quando ho udito – dalla giornalista del TG3 – che il “sì” aveva vinto con l’87% dei consensi, mi sono tornate alla mente le elezioni irachene, dove il 99% votava per Saddam.
Per anni abbiamo irriso la Bulgaria del socialismo reale – terra dove le elezioni venivano abilmente orchestrate dall’oligarchia al potere – al punto che, ancora oggi, delle elezioni platealmente falsificate vengono definite “bulgare”.
La nostra oligarchia, che chiamiamo “Casta”, è riuscita a far di meglio. E tante scuse ai bulgari d’oggi, che hanno imparato la lezione e queste cose – almeno così sfacciatamente – non le fanno più.

09 ottobre 2007

Cercasi seggio, disperatamente

Per dovere d’informazione – della vera informazione, che oramai si trova soltanto sul Web – vorrei chiedere dove sono i tanto millantati seggi per votare sul referendum per il welfare.
No, perché nella mia scuola (circa 60 dipendenti) e nell’azienda di mia moglie (altri 50 circa), nessuno ne sa nulla: telefono ad amici e conoscenti e mi raccontano le stesse storie.
Si narra di seggi “itineranti”, di “grande consultazione”, ma il delegato sindacale della mia scuola (CGIL) non sa nemmeno dove sia il seggio più vicino.

Marco Rizzo ha dichiarato d’essere in possesso di prove che certificano brogli: controlli non eseguiti sui votanti, “bonzi” sindacali che viaggiano di seggio in seggio (beati loro che sanno dove sono) depositandola in ogni luogo. La scheda, ovviamente.
Ovviamente, Rizzo è responsabile delle sue affermazioni, ma “dal basso” lo spettacolo che si vede sembra dargli ragione. E poi: quali sono le garanzie di questa consultazione? Chi certifica il numero dei votanti e lo spoglio? Gli stessi che hanno siglato l’accordo senza chiedere nulla – prima – ai lavoratori? La validità di una consultazione, deve essere confermata dalle Corti d’Appello: tutto il resto – le famose “primarie” del centro sinistra e questa scempiaggine dei sindacati confederali – è soltanto aria fritta.

Questa vicenda non è solo più un tormentone – uno dei tanti di questa fatiscente repubblica – bensì sta diventando la cloaca della democrazia italiana.
A cominciare da quella notte di Luglio – fabbriche oramai chiuse, scuole in vacanza, tutti al mare – quando si riunirono alle tre di notte per decidere il nostro futuro: non per nulla, quando ne scrissi, intitolai il pezzo “Di notte, come i ladri”.
Tutta la vicenda inizia con un vero e proprio attentato alla vita democratica del Paese, con una riunione ristretta, nella quale non era presente nessuno dei leader della sinistra italiana. Giordano e Diliberto sono doppiamente colpevoli, perché non basta – se sei parte di una coalizione – affermare che “non eri stato invitato”. La rivoluzione non è un ballo in maschera, ma ci puoi andare anche senza invito.
Su quella loro colpevole assenza, si sorvola, al punto che il chierico Damiano rilancia: «Non si può non votare oggi un accordo che, a suo tempo, si è accettato». Peccato che “a suo tempo” – vale a dire nella notte delle beffe – nessuno dei ministri della sinistra era presente.

Poi avanzano i tre Re Magi, e Bonanni va ancora oltre: «La politica deve fare un passo indietro rispetto a ciò che è già stato deciso dalle “parti sociali”». Quando l’ho udito, mi sono dato i pizzicotti.
Chi dovrebbe fare un passo indietro? Pur ammettendo che i nostri “dipendenti” non sono certo delle aquile, Bonanni non è nemmeno uno st…stornello. Chi mai l’ha eletto? Un comitato centrale di bonzi come lui, che per anni non hanno fatto altro che marinare il lavoro, godendo a piene mani dei permessi sindacali concessi a pioggia?
Perché i sindacati di categoria e tutti gli altri sindacati – chiamiamoli “minori” – non hanno voce in capitolo? Vorremmo conoscere la vera consistenza numerica della UIL, perché – qui, “dal basso” – un sindacalista della UIL non lo vediamo da decenni. Eppure, siedono su scranni regali che nessuna legge della Repubblica concede loro.
Le cosiddette “parti sociali” – signori miei – dalle mie parti si chiamano “corporazioni” ed erano lo strumento principe sul quale, in assenza di democrazia, si reggeva il Fascismo.
Con quale faccia il signor Bonanni si permette di siglare accordi, e poi pretende che i rappresentanti democraticamente (si fa per dire…) eletti si facciano da parte?

Ora, chi scrive non è così ingenuo da credere alla favola di Biancaneve – ossia che il giochetto non piaccia tanto anche ai nostri “dipendenti” in Parlamento – però la democrazia ha altre regole.
Le leggi, in uno stato democratico, le fanno i Parlamenti. Se le decidono i tre Re Magi, il Lucherino della FIAT ed i banchieri gentilmente rappresentati dal dott. Padoa Schioppa (manco lui eletto), significa che la democrazia in questo paese ha già chiuso i battenti. Di conseguenza, siamo autorizzati a rispondere con il canonico: “me ne frego!” (“Vaffa” nella versione Grillo).

Forse ci siamo persi qualcosa, ed allora è meglio rivedere come si è giunti a tanto.
L’inganno è sottile perché, nonostante le evidenze – ossia che siano stati al potere per cinque anni gli iscritti ad una loggia segreta, che oggi a tirare le redini siano gli uomini delle grandi banche d’affari, che le due parti siano in combutta (al punto che il “giacobino” Violante dichiarò in Parlamento che “c’era un accordo per non fare una legge sul conflitto d’interessi”) e che le leggi, oramai, le fa soltanto chi viene invitato a Palazzo Venez…pardon, Chigi – crediamo ancora di vivere in una democrazia.
Lo so che, a mente fredda, riconosciamo che così non è ma, il semplice fatto di non dover bere l’olio di ricino (o finire nel gulag), ci fa credere di vivere in democrazia. Come hanno fatto a turlupinarci in questo modo?
Ci può venire in aiuto una testimonianza poco conosciuta ma importante, quella di una persona che ha iniziato a parlare di “democratura”.
Il neologismo è stato coniato dallo scrittore croato Predrag Matvejevic, per descrivere l’abortita transizione delle repubbliche ex jugoslave verso la democrazia, ma ben si adatta per descrivere molti aspetti della nostra vita politica e culturale:

“Non si tratta più di una semplice crisi culturale, ma di ben altro: di una crisi di credito nella cultura. Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera sciagura. Riprendere le forme più primitive del capitalismo – che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato – non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti di sorta. L’idolatria dell’economia di mercato dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato, vuol dire la mercanzia! I risultati della democrazia borghese, che quelle «democrature» cercano di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali. Le conoscenze in materia di riformatori occasionali sono spesso limitate.”

Chissà perché, quando leggo “riformatori occasionali”, mi vengono in mente i Di Pietro che vorrebbero rifondare l’Italia e i Calderoli che desidererebbero scrivere Costituzioni.
Matvejevic scrisse queste parole pensando, ovviamente, al disastro della sua gente, ma stiamo tutti procedendo – senza coscienza di compiere la transizione – verso scenari simil-balcanici: basta sostituire ai vetero-nazionalismi di quelle aree la nostra vetusta e noiosa cultura di regime, quel compendio di deindustrializzazione, di vertiginoso calo demografico e di riduzione dei redditi e dello stato sociale al quale stiamo assistendo.
Con la legge 30 – non la chiamo Biagi, perché non era questo l’impianto pensato da Biagi: ciascuno prese ciò che gli conveniva, compiendo semplicemente qualche “copia e incolla” qui e là, dove comodava – stiamo tornando a forme involute di capitalismo. E, guarda a caso, anche qui la “mercanzia” non abbonda: non è forse vero che la gente non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese?
La “crisi di credito” in una cultura è quella che i giovani che lavorano a progetto per 500-1000 euro il mese ben conoscono: in quale “cultura” devono ancora credere? In quella che – a fronte dell’opulenza di una ristretta elite – nega loro i fondamenti della vita: la possibilità d’avere una casa, di sposarsi, d’avere dei figli e guardare con speranza al futuro?
Quale speranza puoi avere se ti vengono negati i diritti più elementari? Non ci sono risorse? Falso.

Il grande problema del lavoro è che si continuano ad ignorare gli incrementi di produttività del sistema: ogni anno, l’occupazione delle grandi imprese diminuisce dell’1% circa. Si dovrebbero produrre meno beni: falso! Se ne producono di più!
L’incremento di produttività non viene considerato, ed esso segue lo stesso trend dell’occupazione, ma in positivo: in altre parole, più scendono gli occupati, più aumenta la produzione, perché oggi a produrre beni sono principalmente le macchine, non le mani dell’uomo.
Mentre un tempo, con le vere lotte sindacali, i lavoratori contrattavano quell’aumento di produttività, oggi – nel capitalismo che torna indietro, verso il liberismo sfrenato – i possessori di capitali ritengono che quei denari siano loro e basta.

Per sostenere questa tesi, servono abbondanti chierici e cantori: ecco la Casta dei tre Re Magi, del chierico Veltroni, del cardinal Prodi, del caporal Giordano. Dall’altra, nani e ballerine: il “venditore di minestre” Berlusconi, penosi tirapiedi come Bondi, mefistofelici azzeccagarbugli come Buttiglione, fegatosi spazzini di sacrestie come Casini, che trombano sull’indissolubilità della famiglia e poi frantumano la propria.
La dinamica, quindi, non può essere che quella degli accordi truccati, e non basta conoscere la truffa che compiono sulla moneta – il signoraggio è solo una parte del problema – perché il grande problema da risolvere è tornare dalla democratura alla democrazia.

Nella vera democrazia, le leggi si discutono nell’agorà – non alle tre di notte – e non si intima a nessuno di “fare un passo indietro”. Fallo tu, Bonanni: nessuno ti rimpiangerà.

06 ottobre 2007

Dove inizia il precipizio

La morte del giovane militare italiano Lorenzo D’Auria è stata, purtroppo, una morte annunciata: colpito al capo da uno o più proiettili, non c’è altro da dire. Fuoco amico o nemico? Non ha nessuna importanza: in un rapido conflitto a fuoco, nessuno può accertare la provenienza delle pallottole. E poi, che cosa conta?
Ciò che è importante ricordare è che un’altra giovane vita se n’è andata, per qualcosa che nessuno comprende più: dopo le tante vite stroncate in Iraq ed in Afghanistan, soltanto il “palazzo” crede ancora che ci sia un senso in quelle spedizioni militari.
Apparentemente slegata da questi fatti, la notizia che il presidente americano Bush ha deciso di porre il veto su una legge bipartisan che concedeva l’assistenza sanitaria gratuita ai bambini più poveri. Il provvedimento “allargava” i benefici a circa 6 milioni di piccoli americani, che è bene ricordare – per noi europei è difficile da capire – non hanno altra assistenza che quella delle urgenze.
Viene quasi da piangere, nel pensare che un presidente americano sia giunto a negare l’assistenza sanitaria ai bambini: quei 6 milioni non sono caselle di un database, sono 12 milioni d’occhi che cercheranno con disperazione aiuto per un’appendice assassina. E nessuno risponderà.
Come si è giunti a tanto?
La prima voce di spesa del bilancio federale è l’Iraq, la seconda la sanità: dove cresce l’uno, deve diminuire l’altro.
Seguire gli stanziamenti americani per la guerra non è facile, perché da anni il Pentagono cela abilmente nelle pieghe dei bilanci le reali spese: un’enormità.
Di certo, Bush stanziò – all’indomani della resa irachena – due tranche da 80 miliardi di dollari l’una, che coprirono approssimativamente il 2003 ed il 2004: circa 100 miliardi di dollari l’anno.
Raffrontando gli stanziamenti con quelli della missione italiana in Iraq – Antica Babilonia – salta agli occhi la differenza: se il PIL USA è circa 10 volte quello italiano, è come se noi avessimo speso 7-8 miliardi di euro l’anno, mentre la missione italiana costò circa 1-1,5 miliardi di euro l’anno.
Oggi, la missione in Libano costa all’incirca la stessa cifra, forse qualcosa di più, ma siamo lontani dalla voragine americana.
Ciò nonostante, il governo italiano è disposto a scontrarsi con la piazza e con i lavoratori per un risparmio di 1 solo miliardo di euro, quello che fa la differenza fra una riforma del welfare accettabile ed una schifezza come quella che hanno prospettato.
Negli USA, il salario minimo è oramai il più comune: sono circa 6,5 dollari l’ora, circa 5 euro. E l’assistenza sanitaria te la devi pagare con l’assicurazione: in alternativa, spera nella carità del MedicAid.
Sulla guerra, invece, non si lesina: di qua e di là dell’Atlantico, si mandano i figli a morire e s’accusa di disfattismo chi chiede di riportarli a casa, di non gettare inutilmente le loro vite per niente. Sì, signori miei, per niente, perché prima o dopo gli USA dovranno andarsene dall’Iraq e così anche dall’Afghanistan, perché la battaglia – su entrambi i fronti – è stata persa perché la popolazione è stata vessata e schiavizzata come fecero i peggiori colonizzatori.
Prodi e Berlusconi viaggiano a braccetto, e ritengono che si possa rimanere fino a 62 anni in catena di montaggio od a guidare una corriera, Bush fa la cresta alla spesa americana e, per garantire gli interessi petroliferi di famiglia, non si preoccupa di chiudere gli occhi di tanti bambini innocenti.
Il perfido cinismo è oramai signore e padrone di questi despoti: la morte di D’Auria – figlio del Sud, probabilmente in cerca di un lavoro come tanti – e quella dei bambini americani, che si vedranno rifiutare un calmante per una colica, urlano disperazione e giustizia.
E’ ora che su queste vicende la sinistra italiana si faccia sentire – con il voto in Parlamento, non con i proclami al vento – altrimenti stiano zitti e vadano a sventolare le loro bandiere rosse nel cesso.

02 ottobre 2007

Dove trovare un Vladimir?

“Se la volpe vuole imitare le tigre, finirà soltanto per rompersi la schiena”
Proverbio tibetano

Avevo già scritto in un precedente articolo – Segnali di fumo da Parigi – che Vladimir Putin non avrebbe di certo accettato un “pensionamento” in dacia: sul proscenio o dietro le quinte, il nuovo zar di tutte le Russie non fa un passo indietro.
Per chi non fosse a conoscenza dell’ultimo kata del judoka, informiamo che, in prima battuta, ha liquidato il primo ministro Mikhail Fradkov per sostituirlo con lo sconosciuto Viktor Zubkov.
Costui, ha dichiarato (quale novità!) che si presenterà alle elezioni presidenziali del 2008, appoggiato (a questo punto è certo) da Russia Unita, il partito di Putin che gode di un gradimento “bulgaro”, vicino al 70%.
Avevo affermato che Putin, in questo modo, avrebbe mantenuto sostanzialmente il potere, ma il buon Vladimir ha fatto di meglio: diventerà lui stesso Primo Ministro!

Qui, bisogna ricordare che la Costituzione Russa prevede una repubblica federale con accentramento dei poteri nelle mani del Presidente, come stabiliscono molti impianti costituzionali di stampo federale.
Vladimir Putin sarebbe – in pura teoria – sottoposto al potere del Presidente, ma è lui stesso che lo ha chiamato alla carica di Primo Ministro e “lanciato” nella corsa per le presidenziali!
Se non bastasse ancora, Putin ha accentrato nelle sue mani il controllo di Gazprom, che è il secondo gruppo industriale del pianeta ed il primo in campo energetico.
Con queste carte in mano, Putin, Ivanov ed il “gruppo di San Pietroburgo” hanno un poker d’assi che consente loro di guardare con serenità al futuro per molti anni.

Fin qui nulla d’eclatante ma, nel frattempo, si sono svolte le elezioni in Ucraina: ancora una volta, gli ucraini hanno votato seguendo più l’appartenenza etnica che (eventuali) scelte politiche. L’Ovest ai filo-occidentali Yushchenko e Tymoshenko, l’Est al filo-russo Yanukovich.
Come ieri, però, non corre buon sangue fra Yushchenko e la Tymoshenko che – oltretutto – non sono visti tanto di buon occhio dall’UE, soprattutto dopo la nota vicenda del gas quando – nei primi giorni del 2006 – giunsero alla soglia di un confronto armato con la Russia, perché “spillavano” il metano che doveva giungere in Occidente per rivenderlo.
In realtà, l’Ucraina ha sufficienti risorse energetiche – metano e carbone – soltanto che il buon Yushchenko pensava di “seguire” la via di Putin (ossia rivendere il “malloppo”), ma Yushchenko è una volpe, non una tigre.
In quei giorni fra il Natale del 2005 e l’Epifania del 2006 – mentre in Occidente si gozzovigliava – le divisioni corazzate russe tornarono a correre nella neve verso Occidente. Fu chiaro per tutti che la composizione poteva essere soltanto politica.

Sono passati due anni e, come un rito, si ripetono le elezioni in Ucraina: ha vinto il blocco “orientale”? Quello “occidentale”? Poco importa.
Meglio centrare l’attenzione sugli “sponsor” che sui contendenti: da un lato (l’Est) la Russia, esportatrice del metano che serve all’Europa, e l’UE che ha un disperato bisogno del metano russo per mantenere (almeno) la parvenza di rispettare il Protocollo di Kyoto.
Dall’altra gli USA, che vedono ogni giorno che passa la propria divisa perdere valore: in realtà, il prezzo del petrolio non sale di un accidente. Scende il dollaro, la moneta di riferimento: la tanto agognata valutazione del greggio in euro – aborrita da Washington – sta avvenendo nei fatti.
L’economia reale del petrolio – vale a dire dell’unico bene che ancora può avere una parvenza di riferimento per le monete – ha sancito che il petrolio pagato in dollari non può che crescere di prezzo, mentre in euro mantiene un valore pressoché costante. Ad ogni aumento del greggio, corrisponde un parallelo apprezzamento dell’euro: potremo filosofare sui decimali, ma la sostanza è questa.
Con la sciagurata avventura dei mutui subprime – necessaria per mantenere a galla il mercato immobiliare americano, ma destinata a crollare perché sono proprio i fondamentali dell’economia USA ad essere irrimediabilmente corrotti, per il tragico errore di valutazione di Bush sull’economia di guerra – gli USA sono destinati a perdere dolorosamente terreno. E questo lo affermo ricordando che, quando il cambio era 0,90 circa a favore del dollaro – nel 2002 – scrissi in un mio libro (Europa Svegliati!) che il cambio si sarebbe attestato intorno agli 1,25 dollari, e così è rimasto per parecchi anni. Non era così scontato, a quel tempo, scriverlo in un libro.
Come se non bastasse la guerra, gli USA hanno continuato ad indebitare lo stato e le famiglie oltre ogni misura ed oggi stanno giungendo al redde rationem.

Cosa possiamo quindi attenderci dalle elezioni ucraine?
Nulla, assolutamente nulla che non sia una sorta di “navigazione a vista”. Dovranno trovare un accordo di convivenza: giocarsela sulle questioni interne, ma il metano non si tocca.
Lo sponsor di Yushchenko non è l’Occidente – questo bisogna averlo ben chiaro – bensì gli USA, solo gli USA, perché l’UE non ha nessun interesse a fomentare disordini a Kiev. La contromisura russa? Già precisata: la costruzione di un gasdotto che porterebbe il metano in Cina.
Romano Prodi, appena diventato Primo Ministro italiano, è corso a Mosca per rassicurare Putin (con consistenti “pacchetti” economici europei), come se non bastasse la joint venture fra Russia e Germania, che ha visto addirittura un ex premier – l’ex cancelliere tedesco Schroeder – insediarsi alla presidenza della società che costruirà il nuovo gasdotto, il quale porterà il metano in Germania nel 2010 passando sul fondo del Baltico.
A quell’epoca, tutti i paesi satelliti dell’ex URSS – Ucraina, Bielorussia e anche la Polonia dei due gemelli Cip e Ciop – sotto il profilo geo-strategico, varranno come il due di coppe. Sperare nell’aiuto americano?
Per almeno due o tre anni, gli USA non saranno in grado di risollevarsi dall’abisso nel quale sono crollati: ne avranno probabilmente per parecchi anni, per leccarsi le ferite generate dalla guerra irachena.
Ora, riflettiamo che questo processo è iniziato nel 2000, con Bush – trionfante – assiso nello Studio Ovale ed un oscuro ex colonnello del KGB – addetto militare in Germania per molti anni – che prendeva il posto di un evanescente Eltsin.
Chi avrebbe giocato un centesimo sulla vittoria del russo?

I russi sono grandi giocatori di scacchi: se, poi, conoscono anche la disciplina interiore delle arti marziali, diventano dei concorrenti temibili. Dall’altra, si mangiano noccioline e c’è chi riesce addirittura a farsele andare per traverso.
Nel 2008, quindi, Putin “sorpasserà” Bush, che lascerà al suo successore un’eredità da brivido. La Russia, semplicemente, continuerà a gestire il tesoro energetico per almeno mezzo secolo.
Dobbiamo riconoscere che solo una dose massiccia di stupidità e d’ignoranza ha condotto la Casa Bianca verso il rincaro dei prodotti energetici – ritenuta una necessità per sorreggere il dollaro – senza riflettere che era proprio ciò di cui aveva bisogno la Russia per risollevarsi.
Si tratta, quindi, anche delle capacità dei singoli, inutile negarlo perché, quando Powell consigliava prudenza, Bush non lo ascoltò e lo sostituì con la Rice, una ragazzina che veniva dai quadri della Chevron.

Ragionando su questi aspetti geopolitici – e sull’indubbia importanza dei singoli nell’intricata partita della politica estera – si stringe il cuore nel riflettere sulla pochezza e sulla miseria dei nostri uomini politici: non solo arroccati in una Casta, bensì incapaci persino di gestirla.
Come si spiegherebbe, altrimenti, il “disastro” – appena mascherato dai media di regime – nel quale è incorso un piccolo Angeletti nelle assemblee di Mirafiori? I lavoratori hanno respinto al mittente i tranelli che il governo “amico” dei lavoratori ha teso loro.
Epifani, si lancia in una patetica disanima dei perfidi accordi sul welfare – altrimenti “salta il banco” – ma quale “banco”? Quello al quale aspira come componente della Casta? Cosa gli hanno assicurato, un posto in Parlamento, una poltrona da sindaco o la presidenza dell’INPS? Correggetemi se sbaglio, ma Epifani non fa il sindacalista? E’ forse lui che si deve preoccupare del “Banco”? Non s’insospettisce se Luca di Montezemolo e le grandi banche d’affari sono in accordo con la sua “visione” del welfare?

Ci sarebbe da riflettere se convenga avere dei “padri-padroni” come Putin – questo è innegabile – ma nella situazione russa era l’unica chance.

E per l’Italia?
Avevo proposto la via dell’importazione – un Blair od un Schroeder pensionati, una Ségolène Royal (anche l’occhio vuole la sua parte…), un Aznar od un Lula, un Chavez…– insomma, qualcosa di meglio dell’inconsistenza del Valium e dello psiconano. Niente da fare: appena parli d’Italia, storcono il naso.
Potremmo tentare la via dell’ingegneria genetica: forse incrociando la flemma di Enrico Letta con…con Mussi no, ne uscirebbe solo un Letta incazzato. Letta e D’Alema? Ne uscirebbe solo lo zio (il Letta Gianni).
Partire da Veltroni per incrociarlo con Berlusconi? Ne uscirebbe un senza palle che non va più al cinema e passa le giornate di fronte alla televisione. Prodi e Fini? Ne uscirebbe un cardinale, non serve.
Niente, il patrimonio genetico non ci soccorre.

Io non so voi come la pensiate, però sabato 6 ottobre 2007 – a Roma, in piazza Farnese – si riuniranno i comitati per le Liste Civiche: l’ultima spiaggia per tentare d’avere una nuova classe politica. Chi c’è?
I nomi sono i soliti: Travaglio, Beha, Veltri, Pardi…
Ho ricevuto, negli anni, migliaia di e-mail da parte di persone che mi chiedevano “cosa possiamo fare?”. Non s’assicura di certo il risultato, ma almeno vale la pena di tentare.