31 ottobre 2017

Perché si suicidano?

Non so come sono capitato sulla notizia: la Nuova Zelanda ha il record mondiale nei suicidi di giovani in rapporto alla popolazione (1). Chi l’avrebbe mai detto. E pensare che ero andato a finire su un sito neozelandese per questioni di vela e di mare…i “kiwi”, uno degli Stati dove è più difficile stabilirsi per lavoro…un ecosistema incontaminato…ci hanno persino girato “Il signore degli anelli” perché gli scenari naturali sono incantevoli…
E questi si suicidano.
Detto così, sembra quasi inconcepibile visto che la Nuova Zelanda continua la sua crescita economica in piena recessione mondiale e, anzi, ha allentato i cordoni della borsa anche sul fronte immigrazione.
Eppure, i dati sono inconfutabili: il doppio dell’Australia, il triplo della Gran Bretagna…e così via.

Così, mi sono messo a cercare cosa dicevano di questa vera e propria “massa” di giovani che ogni anno si tolgono la vita gli “addetti ai lavori”, ossia sociologi e psicologi ma…a parte qualche intuizione sensata, non mi hanno convinto.
Certo, che la cultura maori sia profondamente maschilista, che i miti della forza siano propalati ai quattro venti…che chi non si sente “macho” al mille per cento fosse un po’ in difficoltà…tutto questo ci sta, ma non spiega questa vera e propria epidemia di suicidi giovanili. I più uomini, ma anche tante donne.

Poi, mi sono imbattuto in questo articolo (2), che ha iniziato a squarciare il velo del “politically correct” ed a fornirmi qualche buona riflessione. E mi è tornato alla mente un ragazzo canadese, che viveva a Torino insegnando yoga, in anni lontanissimi…il quale, la sera, andava a zonzo a Porta Nuova, la stazione centrale.
Bisogna dire che, all’epoca, Porta Nuova non era un luogo pericoloso: ci andavo a comprare la prima edizione della “Stampa”, che usciva intorno all’una di notte. Perché? Un giorno gli chiesi.
La risposta fu strabiliante: “se tu fossi vissuto in un posto dove i tuoi vicini sono a 50 miglia da te, correresti alla stazione tutte le sere, per vedere i visi, tanti, le persone, le espressioni…”
Già, proveniva da una zona del Canada con una popolazione di 1 abitante per chilometro quadrato…eppure in Canada non si suicidano come in Nuova Zelanda…

Siamo abituati a vivere al centro del mondo, e non ce ne rendiamo nemmeno conto: in due ore di volo abbiamo Roma, Parigi, Londra, Vienna, Madrid, Berlino, Amsterdam, Atene…
La Storia dell’umanità abita nella porta accanto: un amico che abitava a Trastevere, al piano terreno, aveva la parte bassa dei muri perimetrali che erano ancora quelli costruiti dai Romani, poi altri costruirono sopra, e via…non lontano da Regina Coeli.
Mentre attraversavo il London Bridge…” recitava una ballata medievale…e noi non ci stupiamo poi neanche tanto: attraversiamo il London Bridge ed entriamo nel quartiere di Banks, la gioia degli investitori internazionali.
Non riusciamo nemmeno ad immaginare cosa vuol dire vivere in una “natura incontaminata” 365 giorni l’anno, con la sensazione che tutto quel che capita nel mondo avvenga a diecimila miglia dal cottage in stile inglese circondato da montagne, che sembra “incapsulato” in un mondo che non vuoi, che ti annoia, al punto di toglierti il gusto della vita.

Fra le ragioni citate dai sociologi una mi ha colpito: “una colonizzazione mai completata”. I Maori non saranno d’accordo, ma le cose sono andate così: gli inglesi avevano i fucili, loro archi e frecce. Bisogna guardare avanti.
La leggenda dei “due cuori e una capanna”, magari al limite di un bosco infinito, si stempera nella realtà di figli che vedono il mondo solo su Internet, quando c’è. Questo è il risvolto delle colonizzazioni inglesi, condite con severi stigmi razziali, senza curarsi del domani: un boccale di birra, la sera, ogni tanto la sbornia all’osteria (miglia e miglia…) e quattro vecchie ballate, uguali nei secoli.
Questi ragazzi, coi loro suicidi, sono paradossalmente dei rivoluzionari: fanno una richiesta estrema, dateci qualcosa per vivere!

Anche altre nazioni del Commonwealth britannico soffrono di simili problemi, come l’Australia (un continente con 24 milioni d’abitanti!) ma non il Canada, che ha saputo prevenirli per tempo. L’agricoltura canadese è gestita in modo assai ingegnoso: le famiglie si spostano nei campi (gestiti con molta tecnologia) solo nella buona stagione. A Luglio mietono il frumento, ad Agosto arano ed a Settembre seminano: poi, via in città (di medie dimensioni, ma con un’offerta culturale e sociale appagante). Che ci stai a fare in luoghi coperti dalla neve, regni di lupi ed orsi, a dieci o venti sotto zero? Ad immaginare le piantine di grano sotto la neve?
Bisogna anche riconoscere che il Canada non è solo anglosassone, una buona dose di sangue francese scorre nelle loro vene: una cultura più permissiva dei tetri luterani anglofoni.

Forse un po’ di sangue latino è quel che ci vorrebbe per mitigare quelle lande desolate, che il British Empire disseminò nel pianeta, macinando le culture autoctone e sostituendole con l’effige di un re che viveva all’altro capo del mondo.

Tutto ciò, però, richiama alla nostra attenzione le migrazioni, sempre esistite dai primordi dell’umanità, spesso accompagnate da guerre, poi da fusioni di culture, infine da periodi di stabilità. Per, poi, tornare da capo con una nuova migrazione.

Va da sé che l’attuale migrazione verso l’Europa sia antistorica: coloro che migrano non giungono in armi per sottomettere un’altra popolazione, bensì vengono addirittura accolti.
Se fosse soltanto un problema economico e sociologico la storia finirebbe qui, giacché non ha nessun senso. E’ vero che, per alcune strutture economiche, la presenza di persone che vivono ancora il rapporto uomo/animale in modo ancestrale – non corrotto dalla Disney! – torna utile: basti riflettere su tutta la “filiera” dei prodotti d’origine animale: carne, latte, formaggi. Solo per il parmigiano ed il grana padano sono decine di migliaia i magrebini, neri o slavi che hanno trovato un’occupazione. E bisogna riconoscere che pochissimi giovani italiani 3.0 ambirebbero a diventare mungitori, mandriani, fattori, ecc. Piuttosto, preferiscono elemosinare un “favore” da parte di un politico, oppure scaldare la poltrona di papà e mamma. Finché dura.

E’ una realtà della quale dobbiamo prendere coscienza: molti anni fa, un ufficiale degli Alpini mi raccontò che la transizione “oltre il mulo” – di là delle questioni d’ordine tattico/strategico – era inevitabile, giacché s’era inaridita la fonte dei ben noti “conducenti di mulo”, ossia la società agropastorale di un tempo.
Non puoi sbattere un ragazzotto cresciuto a pane e nutella a fianco di un mulo, perché manca quella conoscenza dei “segni” che nascono da generazioni d’esperienza. Anche negli eserciti professionali: è il medesimo problema. Eppure, gli Alpini sono andati in Afganistan, caldamente desiderati dai comandi statunitensi: era una guerra di poveri, fatta da gente povera con mezzi primitivi – fucile, razzo, esplosivo – roba di un secolo fa per noi. Ci voleva gente abituata a quegli scenari di guerra in montagna, della guerra dei poveri.

Ma, di là degli scenari bellici – se torniamo alla Nuova Zelanda – forse scopriamo che per l’immigrazione (o completamento della colonizzazione) si è atteso troppo tempo, al punto che la società ha perso la spinta vitale, il senso del vivere.
Osservate questi, sintetici e semplici, dati:

Italia
Superficie: 301 340 km2
Clima: temperato caldo
Abitanti: 60.532.325
Densità della popolazione: 201,1 ab./km2

Nuova Zelanda
Superficie: 267 710 km2
Clima: temperato piovoso
Abitanti: 4.578.900
Densità della popolazione: 17 ab./km2

All’atto dell’Unificazione, l’Italia aveva circa 20 milioni d’abitanti: 4 volte gli abitanti della Nuova Zelanda attuali!
Per avere una densità simile a quella neozelandese, bisogna risalire a prima del 1800!
Abbiamo compreso che l’attuale fase migratoria dall’Africa all’Europa è stata abilmente diretta, distruggendo quel poco di buono che gli africani erano riusciti a creare: osservandole oggi, le cosiddette “primavere arabe” sono state la dissoluzione di qualsiasi tentativo di superare l’eterno medio evo islamico, laddove l’assenza del pensiero illuminista li imbriglia in un mondo ancestrale.
Libia e Siria erano gli Stati nel mirino dei globalizzatori, e Libia e Siria sono state forgiate col fuoco per anni, affinché smarrissero le strade tracciate da Gheddafi e da Assad per accomunarsi nell’indistinto marasma mediorientale, con la conseguente rapina delle risorse destinate alle popolazioni. La lezione di Mossadeq è sempre attuale. La Siria pare, oggi, salva ma domandiamoci: quanto ci vorrà per uscire da questi anni di guerra e distruzione? La Libia è, oramai, uno scatolone di sabbia e basta.

L’immigrazione di massa, dunque – soprattutto in un Paese come l’Italia che vive in recessione da decenni – non è servita a niente: né agli italiani, né agli africani. Forse quella più “centellinata” dei decenni precedenti qualche frutto l’ha dato…riflettendo che, parimenti, c’è un movimento d’emigrazione dall’Italia verso l’Europa e gli USA.

Una nazione con circa 40 milioni d’abitanti potrebbe essere più stabile per il territorio italiano, mentre non è pensabile avere una nazione (Nuova Zelanda) grande pressappoco come l’Italia che non raggiunge i 5 milioni d’abitanti.
L’uomo è un animale sociale, che vive in questa socialità (e, dunque, anche nelle migrazioni) un rapporto di incontro/scontro, laddove gli estremismi (no ai neri! accogliamoli tutti!) non servono ad altro che ad alimentare risse da pollaio. Senza risolvere nulla.

Sappiamo che, generalmente, le società ricche ma con poche fiducie (e sogni) tendono ad un edonismo quasi malinconico, che li dissangua sul fronte della natalità. Fin che ci sono risorse (statali) per alimentare artatamente il cosiddetto “terzo figlio”, queste società riescono a sopravvivere, ma la sperequazione nella ripartizione della ricchezza (fortemente voluta dal sistema finanziario) le conduce verso il cul de sac dell’estinzione.

Il fenomeno neozelandese ci racconta un nuovo aspetto: anche in presenza di un’economia in crescita e di un certo benessere economico, la società soffre, al punto che i giovani si tolgono la vita.
Qual è il punto d’equilibrio?

Oggi, in Italia, si sente urlare da più parti che siamo stati “invasi”, che siamo troppi, che ci dà fastidio la sovrappopolazione, che non sopportiamo questa “gente” a “casa nostra”, ecc.
A ben vedere, questo è quello che (giustamente o no) prova un cittadino, ossia un abitante di una città.
Ma nel territorio, le cose vanno proprio così?
Intere valli si stanno spopolando: prima se ne va la farmacia, poi il giornalaio, quindi il tabaccaio…rimane l’ultimo bar, ma solo per qualche tempo. Poi, poche case abitate, buie, solo riflessi di Tv accese con vecchi che attendono la morte oppure il ricovero nelle strutture per anziani. Muoiono. Figli e parenti ereditano: cosa se ne fanno, gli eredi, di queste case?
Le vendono per quattro soldi – se ci riescono – oppure le chiudono e vanno in rovina.
Qualcuno dice: potrebbero darle ai migranti, se non sanno dove andare, cosa fare, ecc…non discuto la validità (oppure no) di queste ipotesi, però faccio notare una cosa.

Per pianificare un simile intervento – che si tratti di giovani italiani o migranti – bisogna avere la capacità di strutturare un piano pluriennale, seguirlo, correggerlo dove non funziona…in altre parole, attuarlo. Abbiamo una classe politica in grado di farlo?
Anni fa, quando s’iniziò a meditare sulle biomasse per il riscaldamento domestico, una delegazione di imprenditori del settore si recò dal governo (non ricordo quale) e chiese: se procediamo con queste scelte, dobbiamo saperlo per tempo, perché dovremo progettare e costruire nuove macchine agricole, una tecnologia diversa da quella attuale.
Pensate che qualcuno abbia risposto? Ecco.
Negli stessi anni, un ricercatore dell’ENEA stese un piano per recuperare le cadute d’acqua un tempo sfruttate dai mulini ad acqua o da altre, simili strutture. Erano circa 800 MW di potenza idroelettrica (una stima minimale), l’equivalente di una grande centrale a carbone.
Se ne fece qualcosa? Ecco.

Oggi importiamo quasi la totalità del pellet che usiamo, mentre – ogni tanto – qualcuno rialza la testa e chiede centrali nucleari.
Siccome le risorse sono sul territorio, e a nessuno importa niente di trovare i modi per utilizzarle, tutto va a ramengo: come vedete, non è una questione di scelta fra italiani o migranti, è la scelta di fare o non fare degli interventi, poi, chi devono essere gli attori del piano non m’interessa, m’interesserebbe che qualcuno meditasse d’averne uno.

Così, viviamo una situazione paradossale: atmosfere da banlieu parigina in – stimiamo – un centinaio di città e situazioni “neozelandesi” nel territorio, invaso da cacciatori, cicloturisti, guardoni di uccelli, boy scout quarantenni, comitive dell’associazione ex combattenti, gitanti sperduti ed ammennicoli vari.
Metà della popolazione non ha i mezzi per campare decentemente nei centri abitati – la deindustrializzazione ha colpito duro – mentre l’altra metà saprebbe come fare, ma la distruzione della società agropastorale non è stata avvertita per tempo, ed il “collante” fra gli attori sociali è andato perduto.
In Nuova Zelanda la colonizzazione non è stata “completata”, mentre da noi diciamo che è andata perduta.

A parte i morti per rissa, alcool, droghe e coltellate varie…a quando i primi suicidi d’adolescenti?

2) http://www.italiansinfuga.com/2012/02/27/in-nuova-zelanda-non-ci-tornerei-a-vivere-neanche-morta/

27 ottobre 2017

Questa sera ho provato un brivido

Che strana giornata. Apri il notiziario e ti raccontano due cose: che la Catalogna s’è dichiarata indipendente e che la Corte Europea ha condannato l’Italia per i fatti del G8 di Genova. Cos’è comico e cos’è tragico? Niente, non c’è nulla di tragicomico nelle due notizie, perché – per entrambe – non riusciamo a cogliere la vera portata: non cosa “ci sta dietro” – perché dietro non c’è proprio niente – ma cosa ci sta attorno. E’ dagli attributi che si definisce una realtà, non dalla sua enunciazione.
Questa sera, in tutti gli edifici pubblici di Barcellona, la bandiera spagnola è stata ammainata ed è stata sostituita dal classico stendardo catalano. E’ una questione seria, ma non perché la vicenda della separazione sia seria, perché – a differenza degli italiani – gli spagnoli sono gente seria, serissima.

Spesso pensiamo di trovare negli spagnoli una “sponda” che ci faccia sentire “d’essere a casa” perché siamo due popoli fratelli, in qualche modo cugini, con lo stesso sangue. Niente di più falso. Pensiamo agli spagnoli come agli “amiconi” di sempre perché più simpatici dei boriosi francesi o dei malinconici lusitani, e non parliamo dei greci – “una faccia, una razza” – quando non c’è proprio nulla che avvicini due vicini così distanti.
Con gli spagnoli cadiamo in un tranello linguistico: è vero, in qualsiasi luogo della Spagna, parlando lentamente ed aiutandosi con la gestualità, alla fine si riesce a farsi capire. Ma tutto finisce lì.
Storicamente, siamo agli antipodi.

Noi, nazione giovane, preda per secoli di tutte le case regnanti europee, abbiamo finito con l’imparare ad usare la nostra debolezza, a farla diventare una minima forza. Pensate alla Napoli del ’44, od a Totò che cerca di vendere la fontana di Trevi a due ignari turisti.

Loro, alle prese con un impero che andava dalle Filippine a Madrid – perduto, vero – ma la mentalità imperiale li ha nutriti per quasi cinque secoli, cinque secoli durante i quali noi stavamo proni al cospetto di un viceré od un governatore, spagnolo, francese od austriaco che fosse.

E voi, credete che le parole di Rajoy siano acqua, pronte a lisciare le pietre sotto il ponte? Immaginate che ci sarà qualche “patto” della crostata o della pagliata, della polenta o della salsiccia che metterà tutto a posto?
Signori, non siamo in Italia, rammentatelo.

Nella stessa giornata, da noi, un movimento che nacque trent’anni fa con l’obiettivo di liberare il Nord dalla (a loro dire) sanguisuga romana, ha deciso di cancellare la parola “Nord” dal simbolo. Sarà semplicemente “Lega”: non si sa di che cosa e perché (Renzusconi lo sa, ovvio) ma state certi: per il popolo di Pontida, per quelli che si nutrono di corna celtiche e d’altre, simili facezie, sarà sempre il Verbo. Anzi, il SalVerbo.

Sempre oggi, una Corte Europea ha sanzionato che imprigionare le persone, farle denudare per poi fare loro gridare “Viva il Duce, viva il Fascismo!” è una cosa che non va, non va proprio bene. E, soprattutto, una certa caserma Diaz è in contrapposizione con un certo codicillo chiamato “Habeas Corpus” di matrice anglosassone (certo: anche loro l’hanno scordato) che data al XII secolo.
Ciò conferma che la regia di quella operazione fu nelle mani dell’allora ministro dell’interno, un certo Fini, divenuto fascista perché all’uscita del cinema assistette ad una rissa fra “rossi e neri” e si sentì dalla parte dei neri (sue parole).
Un certo Fini poi trasmigrato fra i palazzinari di mezza tacca, uno che s’è venduto l’appartamento del partito alla gentil nuova consorte, passando attraverso la mediazione di un mafioso dei Caraibi. Sembra la trama di un film poliziesco/comico, un film alla Thomas Milian, che rideva di se stesso (lui, grande latinista!) prestando la sua faccia per tinteggiare il peggio del poliziotto “de no antri”, quasi volesse fare il verso al grande Alberto Sordi.

Ora, signori miei, io non so se si arriverà ai carri armati, ma so soltanto una cosa: dipenderà dai catalani, non dagli abitanti di “Castilla y Léon”, perché se una regola è una regola, per uno spagnolo è legge, per un italiano è una pinzillacchera da fottere, o da rimaner fottuti, ma sempre nell’ottica di Flajano “la situazione è tragica, ma non è seria”. Purtroppo (o per fortuna) uno spagnolo non potrà mai comprendere Flajano.

12 ottobre 2017

Essere naif, l’unica possibilità

Funzione (o campana) di Gauss
Rotolano sui giornali notizie a valanga: legge elettorale, Rosatellum (cos’è, un vino?), Italicum (beh, siamo tutti italiani…), “sbarramento” (beh, siamo abituati alle strade sbarrate…sono libere solo per i soliti noti…), Mattarellum (di pertinenza dell’inquilino del colle), alla francese, tedesca, spagnola (sono forse variazioni del kamasutra?), fino a proposte incomprensibili: “Verdinellum”, “Consultellum”…tutte figlie di una sola madre, detta Porcellum. Dichiarata illegale: tutte queste persone che blaterano ed occupano gli spazi televisivi, fra una pubblicità e l’altra, sono dunque fasulli, degli impostori, dei guitti di ennesima categoria. Perché i veri guitti sono persone serie.

Confesso una certa noia a parlare di questo argomento, però me la sono scrollata di dosso per cercare di capire come mai si occupino così tanto di come si vota, sottraendo così tempo prezioso alla ricerca di tangenti o finanziamenti occulti da parte di chi “tiene bisogno” di lor signori.
E’ vero che il vero potere si nasconde fra le lobby finanziarie – a Bruxelles sono ufficialmente accreditati 15.000 lobbisti – più varie società segrete e consigli d’amministrazione dove, spesso, le due funzioni si sovrappongono.

C’è, però, la necessità di mantenere una sorta di “credibilità politica”, tanto per poter affermare “siamo stati eletti”. Già: con leggi dichiarate incostituzionali a raffica, ma tant’è.
La vera ragione che questi signori adducono per le loro manovre occulte, è sempre la “governabilità”, e qui il discorso si fa più interessante.

“Governabilità”, lessicalmente, dovrebbe significare “possibilità di governare”, da non confondere con la “capacità” di governare.
Per poter governare (come, poi…), questi signori ci raccontano che devono nascere dalle elezioni governi “forti”, ossia dotati di ampia maggioranza: spesso ci ricordano che la “stabilità politica” ci è richiesta dall’Europa, cosa alquanto nebulosa. Il Belgio ha avuto una stagione politica di circa un anno e mezzo senza un governo che avesse la maggioranza, ossia col vecchio governo, dimissionario, sempre in carica per “l’ordinaria amministrazione”. Eppure, nessuno s’è suicidato per questo, mentre il “fortissimo” governo Monti lasciò una scia di suicidi fra lavoratori ed imprenditori che ancora ricordiamo con orrore.
E allora? Come si fa?

Con la nuova legge, ad esempio, se prendi meno del 3% non becchi niente (almeno, così sembrerebbe): ciò significa che se circa un milione e mezzo d’italiani votano Tizio (e non raggiungono il 3%), Tizio non ha nemmeno il diritto di dire la sua in Parlamento. Nel nome di un milione e mezzo di persone.
E non è detto che il fenomeno non si ripeta con Caio e Sempronio: in altre parole, “tagliano” le ali marginali della nota campana di Gauss, mantenendo solo le posizioni centrali.
Ovvio che la politica susseguente dovrà cercare di soddisfare la sezione centrale della campana, quello che un tempo era definito “classe media”, la quale, oggi, si sta velocemente estinguendo. La necessità di tagliar fuori gli scontenti diventa essenziale: mica siamo fessi.

Si dà il caso che ci siano gli scontenti e gli scontenti “organizzati”, ossia il M5S: anche qui, la soluzione è presto scovata.
Tre partiti (o coalizioni) si giocano la torta, senza fastidi di partitini “insolenti”: è già chiaro da oggi come finirà.
Dividendo in tre parti, pressappoco uguali, la sezione centrale della campana di Gauss – e poi alleandosi due parti (la governabilità!) – anche gli scontenti organizzati saranno fregati: prepariamoci ad un bel governo Renzusconi, credo che lo abbiate già capito da soli.

Basti riflettere sulla gazzarra che sta capitando nella cosiddetta “sinistra”: tutti blaterano, ma tutti lavorano (non alleandosi)  per quel risultato.
Sull’altro versante forse sono meno stupidi e s’accodano, in silenzio e a capo chino: fu Berlusconi stesso a dire di Renzi “Eh…ne avessimo uno così in Forza Italia!”.
Se non considerassimo tutte le varie ed eventuali che l’UE ci metterebbe fra le ruote per tenerci al guinzaglio, quale potrebbe essere una soluzione?

Finalmente ci sono arrivati anche i cinque stelle, dopo aver acconsentito ai vari Mattarellum (et similia) pur di andare a votare: non hanno capito che prima del risultato del voto, ci sono le modalità del voto stesso, senza le quali nulla ha senso. Come si risolverebbe?

Un proporzionale puro e semplice, senza nessuna aggiunta: ossia, si devono eleggere circa 600 deputati e 300 senatori? Si opera una semplice divisione col numero dei votanti e si stabiliscono le dimensioni dei collegi. I cosiddetti “resti” si ripartiscono sui cosiddetti “primi non eletti”: ancora più semplice ed essenziale di come si faceva prima che la febbre maggioritaria sbarcasse nel Belpaese.
Perché è importante questo passaggio?

Un parlamento così eletto, sarebbe lo specchio del Paese e non sarebbe facile trovare la cosiddetta “governabilità”, ma sarebbero anche persone che sono state votate con le preferenze (rigorosamente semplici, tipo numeri di lista in ordine crescente e basta: gli italiani non sono stupidi e se vogliono fare a meno delle mafiette elettorali sanno farlo) e, dunque, sarebbero persone di una certa levatura, gente in gamba.
Perciò, si metterebbero seduti con pazienza per cercare una maggioranza, che sarebbe lo specchio delle mille volontà – oggi represse – dell’Italia.

Sarebbe difficile ed oneroso arrivarci, ma riflettiamo: oggi, dove stiamo andando? In qualche posto dove ci porteranno Renzi e Berlusconi, senza sapere come e perché, solo perché loro saranno stati eletti, grazie ad un meccanismo da loro stessi preparato e collaudato.
In Europa?
Certo! In questa Europa dove non si muove foglia che Berlino non voglia, dove le banche falliscono e…chi mettono a regolare il sistema bancario? Casini! Nomen omen.

Lo so, il sogno è stato bello e la realtà è molto distante, diametralmente opposta.  Però, quando l’Italia vorrà veramente uscire da questo pantano dovrà per forza ripartire da zero, mandando a casa tutti i farabutti che ci governano e cercare nuovi visi, nuovi volti, nuove volontà.
Cosa fare adesso? Non c’è scelta giusta, non c’è scelta sbagliata: quando il mazzo è truccato, non c’è niente da fare.

04 ottobre 2017

Tragedia, commedia e farsa



Oggi, che il dado è tratto, sappiamo cos’è stato il referendum per l’indipendenza della Catalogna: una colossale commedia, giocata su più tavoli per una posta che non c’era, e che continua a non esserci. Il comportamento di Madrid è stato consono al copione franchista, edulcorato con i modi del terzo millennio: pallottole di gomma al posto delle mitragliatrici, gogne mediatiche al posto del garrote, e chiusura dello spazio aereo al posto dei Messerschmitt di Hitler.
Anche i catalani hanno partecipato con dovizia alla rappresentazione, urlando che Madrid è la solita prevaricatrice, che il franchismo non è mai morto, che loro hanno gli occhi azzurri e i capelli biondi come i vicini francesi, che non amano la corrida e che hanno una loro lingua.

Se non fosse stata una commedia, tutto si sarebbe fermato quando la Corte Costituzionale spagnola ha dichiarato nullo il referendum: Rajoy poteva lasciarli tranquillamente votare, ma avrebbe perso la faccia nei confronti dei vecchi hidalgo e dei nuovi sostenitori, più attenti alla torcida notturna che alla corrida. E così, qualche pallottola di gomma, qualche idiota che si è messo a sparare con una carabina ad aria compressa, ma nulla d’irreparabile, business as usual.
Inutile ricordare che la tragedia fu ben altra cosa, ottant’anni or sono: forse, l’unico particolare da indagare, rimane la possibilità di capire quali sono le vie, o meglio, le scarse possibilità d’andarsene da uno Stato sovrano, ma restiamo ancora un poco in Spagna. Pardon, Catalogna.

Ero in Spagna, anzi, Catalogna, ovverosia fra Gerona e Barcellona sul finire degli anni ’70, ospite di una delle menti più attive per l’indipendenza. Che, all’epoca, pochi consideravano: già l’essersi scrollati di dosso Francisco Franco ed il suo sodale, Carrero Blanco, tolto di mezzo dalla CIA che prese le sembianze di terrorismo basco, comunista…o quant’altro…bastava ed avanzava. Già nel 1969, il KGB faceva circolare informazioni (di fonte americana) dove si narrava di un piano per sgombrare dalla storia i vetero dittatori iberici e, finalmente, far nascere la democrazia in quei Paesi. My God, consumano troppo poco!

Il cadavere di Franco era oramai gelido, nel suo mausoleo di Los Caìdos ma il franchismo era ancora vivo e vegeto, e nessuno fiatava. Era ancora vivido il ricordo dell’ultimo morto dell’ETA, Puig Antich, che non fu garrotato perché l’Europa si oppose alla barbarie: così lo fucilarono messo “al vento” fra due alberi, legato per i polsi e le caviglie, in modo che si vedesse da lontano la sua fine. Poi, gli spararono.
Anche la mia amica, che era una fervente indipendentista, rimaneva coinvolta dal mio scetticismo: e cosa cambierebbe? Allora, riconosceva che non si può sostenere che la Catalogna fosse la più ricca terra di Spagna, che le sue industrie mantenessero il resto del Paese, poiché dietro a molte industrie catalane c’erano investimenti andalusi, degli ex hidalgo dei latifondi, che si riciclavano nella nuova Spagna repubblicana. E il Banco di Santander? Oggi è una multinazionale, ma per due secoli raccolse la ricchezza ispanica dell’America Latina. E, oggi, è al 15° posto fra le banche mondiali, quando la prima delle italiane (Intesa San Paolo) è al 26° posto.

La Spagna, e questo è il punto importante da considerare, non è come l’Italia che ricorda appena i suoi fasti Latini…no, la Spagna continua a ricevere l’eredità di un intero continente, che parla spagnolo e pensa a Madrid come al faro della sua cultura. E non solo: quanti capitali tornarono in Spagna negli ultimi due secoli!
Per questa ragione l’indipendenza della Catalogna mi sembra una melodia stonata: nata da un matrimonio fra due regnanti, da 500 anni la Spagna ha vissuto ai margini dell’Europa, con il cuore più a Caracas o Buenos Aires che a Parigi o Berlino, almeno fino alla guerra civile.

In quei lontani anni non nascondevo il mio scetticismo: vi siete appena liberati di un peso, oltre Badajoz regna ancora Marcelo Caetano, e volete già buttare altra carne al fuoco?
Ma, in fondo al suo cuore, so quel quel sogno non poteva essere sradicato, anche se non aveva molto senso. Perché il vissuto dei catalani è indissolubilmente legato alla sconfitta, e relativa durissima reazione, nella guerra civile.
Così si discuteva, fra una sonata al piano ed un piatto di riso, di fronte al mare che occupava le grandi vetrate della casa di San Antoni, ma mi rendevo conto d’essere in una situazione radicalmente diversa da quella italiana, sia per il lunghissimo passato coloniale, sia per i legami culturali ed economici che aveva lasciato: solo più di dieci dopo sarebbero apparsi in Italia i primi manifesti della Lega, quelli con la gallina dalle uova d’oro che manteneva l’Italia e un nome, quello di un solingo senatore, tale Bossi.

Ogni regione d’Europa ha i suoi vissuti, ma proprio perché svaniti nelle nebbie della Storia sono inutili, inutile ricordare Pontida, il cardinale Ruffo, i Lanzichenecchi, Garibaldi…è storia passata, che oggi non ci può dare più niente. Se volessimo fare una sfilza di nomi di chi se ne vuole andare (o si ritiene una nazione a sé stante) sarebbe lunga: baschi, catalani, bretoni, provenzali, corsi, sardi, siciliani, lombardi, veneti, altoatesini, valloni, fiamminghi, bavaresi…e le mille dispute per capire se un alsaziano è francese o tedesco? E un abitante del Saarland?
E dopo?

Un’Europa che passasse da una ventina di Stati nazionali ad una quarantina di Stati regionali, farebbe andare in brodo di giuggiole le oligarchie che ci governano: ad un fiorire di piccoli stati sovrani, dovrebbe fare da contrappeso un maggior potere centrale. Non vi basta quello che hanno? E come lo usano?
A meno d’immaginare una sorta di vestito d’arlecchino con mille confini e dazi doganali che diventerebbero delle vere e proprie gabbie per le classi subalterne, mentre per i grandi capitalisti sarebbero facilmente valicabili.

Insomma, non vi rendete conto che la questione dei “localismi”, anziché risolvere dei problemi – il famoso “ognuno padrone a casa propria” – farebbe precipitare in un “ancora più schiavo nel proprio orticello”?.
Sono soltanto delle parole d’ordine create ad hoc dalle oligarchie per spennare meglio la gente!
La Lega, tanto per essere chiari, fu creata dal sen. Miglio il quale era uno dei pochissimi italiani ad essere abbonato al Deutsche Fernsehen, la televisione tedesca. In quegli anni, la Germania non immaginava ancora che sarebbe riuscita ad assumere quella posizione centrale, e di dominio, che ha oggi nell’Unione.
Per la prima volta, dopo la 2GM, soldati tedeschi varcarono (sotto l’egida dell’ONU, ovvio) i confini nazionali per andare dove? In Jugoslavia.
La Jugoslavia fece proprio quel percorso, dallo Stato nazionale ai piccoli Stati: molti, ancora oggi, rimpiangono Tito, ma non per Tito o il socialismo titino, bensì per l’appartenenza, senza troppe discussioni, ad un’unica entità.
Così, l’idea di staccare il Lombardo Veneto balenò dalle parti di Berlino, il sen. Miglio era disponibile…perché rinunciare a provarci? Salvo, poi, fargli fare la vita che fecero gli altoatesini i quali, poco prima e durante la guerra, vendettero i loro masi per andare a vivere in Baviera, dove finirono a fare gli schiavi dei tedeschi, Ma…non eravamo tutti tedeschi? Eh no…c’è chi è più tedesco e chi meno…

Dovremmo, allora, chiederci perché appartenere a queste entità, stabilite secoli or sono da regnanti sepolti nel dirupo della Storia, cambiati da avventurieri della politica o da rivoluzionari, perché dovrei sentirmi italiano o finnico?
Non c’è nessuna ragione per avvertire un senso d’appartenenza ad una nazionalità, se non fosse per la lingua, che c’accomuna (ecco, la dimensione multinazionale della Spagna!) e che consente di non sentirci circondati da persone che parlano strani idiomi. Di là di questo, nulla.

Forse sarebbe più opportuno che rivolgessimo le nostre attenzioni ad altri fenomeni, che ci circondano, come la presenza, direi quasi opprimente, di lavoro “a tempo”: oggi lavoro alla Coop, ma domani avrò un posto nella scuola, dopodomani sarò alle Poste, poi farò la stagione turistica estiva, mentre in Inverno andrò a lavorare in una fabbrica di panettoni.
Vi sembra questo il “rispetto” per il lavoratore sancito dalla Costituzione italiana?
Oppure per gli anziani: non sono riuscito ad andare in pensione prima del “ciclone” Fornero, poi ho tentato di raggiungere i 40 anni di contributi, ma non bastavano più, e allora mi sono travestito da APE, ma mi hanno detto che i miei contributi erano troppo bassi.
Un tempo, per fare la maestra, bastavano quattro anni d’Istituto Magistrale ma – forse che finendo così presto il percorso formativo si mettevano insieme, troppo presto, gli anni per la pensione? – adesso ci vogliono 5 anni di scuola superiore e 5 anni di formazione universitaria. Per fare la maestra.

Insomma, vogliamo capire che siamo governati da un’oligarchia finanziaria internazionale, che usa le consuetudini della democrazia borghese per i suoi sporchi fini? Siccome dovremmo averlo compreso, perché perdiamo il nostro tempo per dissertare se è meglio fare i lavoratori trimestrali in Padania od in Italia? In Catalogna od in Spagna?

Molti anni fa, primordi della Lega Nord che impazzava, bar del trevigiano con due sale: in una gli operai che giocavano a boccette ed infioravano la recente vittoria elettorale di Bossi, adesso sì che vedremo, che saremo, che faremo…
Nell’altra sala padroni, padroncini, commercianti…gente che giocava a scala un tanto a punto, ma con punti “pesanti”, tanto che ogni mano biglietti da diecimila e da cinquantamila passavano di mano. Cosa dicono? Ma lasciali dire…tanto io li rimpiazzo quando voglio con due “baluba” che vengono dall’Africa o dalla Romania…lasciali dire…chiudo!

E, adesso, guardatevi allo specchio e ditemi: ci tenete proprio tanto alla vostra indipendenza e ad una nuova identità? Se ci tenete proprio, andate avanti così. A Bruxelles sorridono, contenti come delle pasque.