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24 maggio 2019

Comunicazione di servizio


Comunico che, Domenica 2 Giugno alle ore 18:00,  presso "La Cena di Pitagora", Via San Ponzo 25, 

Ponte Nizza (Pavia) intervisterò Massimo Fini, partecipando al dibattito sull'argomento:

"Massimo Fini e il pensiero ribelle. La modernità di un antimoderno"

Per presenziare è gradita la prenotazione presso:
 

"La cena di Pitagora" tel. +39 038353410

27 ottobre 2017

Questa sera ho provato un brivido

Che strana giornata. Apri il notiziario e ti raccontano due cose: che la Catalogna s’è dichiarata indipendente e che la Corte Europea ha condannato l’Italia per i fatti del G8 di Genova. Cos’è comico e cos’è tragico? Niente, non c’è nulla di tragicomico nelle due notizie, perché – per entrambe – non riusciamo a cogliere la vera portata: non cosa “ci sta dietro” – perché dietro non c’è proprio niente – ma cosa ci sta attorno. E’ dagli attributi che si definisce una realtà, non dalla sua enunciazione.
Questa sera, in tutti gli edifici pubblici di Barcellona, la bandiera spagnola è stata ammainata ed è stata sostituita dal classico stendardo catalano. E’ una questione seria, ma non perché la vicenda della separazione sia seria, perché – a differenza degli italiani – gli spagnoli sono gente seria, serissima.

Spesso pensiamo di trovare negli spagnoli una “sponda” che ci faccia sentire “d’essere a casa” perché siamo due popoli fratelli, in qualche modo cugini, con lo stesso sangue. Niente di più falso. Pensiamo agli spagnoli come agli “amiconi” di sempre perché più simpatici dei boriosi francesi o dei malinconici lusitani, e non parliamo dei greci – “una faccia, una razza” – quando non c’è proprio nulla che avvicini due vicini così distanti.
Con gli spagnoli cadiamo in un tranello linguistico: è vero, in qualsiasi luogo della Spagna, parlando lentamente ed aiutandosi con la gestualità, alla fine si riesce a farsi capire. Ma tutto finisce lì.
Storicamente, siamo agli antipodi.

Noi, nazione giovane, preda per secoli di tutte le case regnanti europee, abbiamo finito con l’imparare ad usare la nostra debolezza, a farla diventare una minima forza. Pensate alla Napoli del ’44, od a Totò che cerca di vendere la fontana di Trevi a due ignari turisti.

Loro, alle prese con un impero che andava dalle Filippine a Madrid – perduto, vero – ma la mentalità imperiale li ha nutriti per quasi cinque secoli, cinque secoli durante i quali noi stavamo proni al cospetto di un viceré od un governatore, spagnolo, francese od austriaco che fosse.

E voi, credete che le parole di Rajoy siano acqua, pronte a lisciare le pietre sotto il ponte? Immaginate che ci sarà qualche “patto” della crostata o della pagliata, della polenta o della salsiccia che metterà tutto a posto?
Signori, non siamo in Italia, rammentatelo.

Nella stessa giornata, da noi, un movimento che nacque trent’anni fa con l’obiettivo di liberare il Nord dalla (a loro dire) sanguisuga romana, ha deciso di cancellare la parola “Nord” dal simbolo. Sarà semplicemente “Lega”: non si sa di che cosa e perché (Renzusconi lo sa, ovvio) ma state certi: per il popolo di Pontida, per quelli che si nutrono di corna celtiche e d’altre, simili facezie, sarà sempre il Verbo. Anzi, il SalVerbo.

Sempre oggi, una Corte Europea ha sanzionato che imprigionare le persone, farle denudare per poi fare loro gridare “Viva il Duce, viva il Fascismo!” è una cosa che non va, non va proprio bene. E, soprattutto, una certa caserma Diaz è in contrapposizione con un certo codicillo chiamato “Habeas Corpus” di matrice anglosassone (certo: anche loro l’hanno scordato) che data al XII secolo.
Ciò conferma che la regia di quella operazione fu nelle mani dell’allora ministro dell’interno, un certo Fini, divenuto fascista perché all’uscita del cinema assistette ad una rissa fra “rossi e neri” e si sentì dalla parte dei neri (sue parole).
Un certo Fini poi trasmigrato fra i palazzinari di mezza tacca, uno che s’è venduto l’appartamento del partito alla gentil nuova consorte, passando attraverso la mediazione di un mafioso dei Caraibi. Sembra la trama di un film poliziesco/comico, un film alla Thomas Milian, che rideva di se stesso (lui, grande latinista!) prestando la sua faccia per tinteggiare il peggio del poliziotto “de no antri”, quasi volesse fare il verso al grande Alberto Sordi.

Ora, signori miei, io non so se si arriverà ai carri armati, ma so soltanto una cosa: dipenderà dai catalani, non dagli abitanti di “Castilla y Léon”, perché se una regola è una regola, per uno spagnolo è legge, per un italiano è una pinzillacchera da fottere, o da rimaner fottuti, ma sempre nell’ottica di Flajano “la situazione è tragica, ma non è seria”. Purtroppo (o per fortuna) uno spagnolo non potrà mai comprendere Flajano.

11 marzo 2016

Elezioni agoniche





“La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.”
Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Minima moralia, 1951

La stampa nazionale è impazzita: dappertutto si sbraita oppure ci si cosparge i capelli di cenere! Alle elezioni primarie è crollato l’afflusso, anche lì l’astensionismo dilaga! Peggio ancora: ci sono i brogli! I candidati che si comprano i voti! Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire: già nelle votazioni del Senato Romano se ne sentivano (riportate dagli autori latini) delle belle. In tutti questi brevissimi paragrafi che precedono, c’è solo una parola che stona, anzi, che è proprio sbagliata secondo i comuni canoni semantici: elezioni.

Il termine elezioni, se proprio vogliamo spaccare il capello in quattro, viene usato anche per eleggere il Presidente della Confraternita del Coccio Spezzato, oppure per nominare il Direttore dell’Istituto per la Ricerca sul Porcino Caprino...insomma, anche lì si deve eleggere qualcuno...ma, da questo, a strombazzarle ai quattro venti come elezioni “importanti”, “decisive”...al punto di rivolgersi alla Magistratura, ce ne passa.

Il PD è un’associazione di privati cittadini, in forma di partito (ossia d’associazione politica) la quale bandisce delle votazioni, al suo interno, per stabilire l’organigramma del partito stesso od altre figure ritenute – a torto od a ragione, ma questi sono cavoli del Partito Democratico – importanti per la sua vita interna. Punto.
Se qualcuno ritiene d’essere stato danneggiato, va da un avvocato, gli spiega la situazione e – a quel punto – il legale farà i necessari passi conformi alla legge. Noi, scusate – intendendo i destinatari delle prime pagine dei giornali – cosa c’entriamo? Perché dobbiamo saperlo ad ogni costo?
Insomma, giuridicamente, questo ha la stessa importanza di un incidente stradale e ci viene propinato come una tragedia greca!

Certamente, la figura fatta non è delle migliori...nei filmati si vedono e si sentono scambi di denaro a vario titolo...ma, ricordiamo, le elezioni primarie non sono regolate da nessuna legge repubblicana: ciascuno fa come vuole. Nemmeno le elezioni politiche sono regolate dalla Costituzione, se non dall’art. 48:

“Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.”

 Ma, come si può notare, agli art. 56 e 58 dice anche:

La Camera dei deputati (ed il Senato N. d. A.) è eletta a suffragio universale e diretto...(omissis)...

Su quel “diretto” ci possono essere delle interpretazioni, ovvio: la lingua italiana è fra le più malleabili del Pianeta. La più comune e sensata è senz’altro “senza intermediari”, ossia nessuno si può frapporre fra il cittadino/elettore ed il cittadino/eletto. Certo, il bello spettacolo dei “dammi 10 euro” messo in piazza dal PD non brilla proprio per correttezza istituzionale ma, ripetiamo, le cosiddette elezioni primarie non sono niente di più di un gioco interno ai partiti, sono una lotteria benefica (per loro) e nulla hanno a che vedere con le istituzioni. Nemmeno negli USA, dove la Costituzione Americana mai le cita: sono un sistema come un altro per creare una classe dirigente oppure, se preferite, per mettere in lista dei volti qualunque, in modo che i veri poteri possano spadroneggiare.
Se, invece, vogliamo parlare di selezione e creazione di una classe dirigente, il discorso cambia.

Se credete fermamente – e con fondate ragioni – che le classi dirigenti siano create dai veri poteri con una telefonata, allora potete smetterla di leggere: troverete il seguito assai noioso e, per il vostro modo di pensare, anche urticante. Aggiungo solo che, se questa teoria in parte è vera, non è mai semplice come una telefonata e richiede molto lavoro: dal controllo dei media a quello degli esplosivi.

Subito dopo la 2GM, le classi dirigenti furono di buon livello, quasi ovunque: almeno, se correlate allo sfascio odierno. Il Senegal, ad esempio, ebbe per molti anni un poeta/presidente – Léopold Sédar Senghor – uomo di grande cultura, oppure, come in Tanzania, all’indipendenza, si trovarono a disposizione 7 laureati (6 medici) e 150 maestri elementari. Fine della classe dirigente. Eppure, riuscirono ad imbastire qualcosa di meglio del patetico, corrotto e violento governo coloniale portoghese. Ci furono anche i Bokassa: ma crebbero in Africa anche i Gheddafi ed i Mandela.

In Italia accadde un evento abbastanza raro: ossia un partito d’ispirazione religiosa (DC) trovò la sua dirigenza “pescando” nei quadri del cattolicesimo militante, e non fu poi così male: parecchie teste pensanti e una pletora di pance gaudenti. Ma, almeno, qualcuno che pensava c’era. Qualcosa del genere fece anche il PCI, ma non si possono dare giudizi perché non governò mai: nelle amministrazioni locali, in ogni modo, i due metodi si equipararono. Cooperative rosse in Emilia e bianche nel Veneto: spesso con gli stessi statuti ed i  medesimi obiettivi.
Nel film “Il Divo”, c’è una battuta che Sorrentino mette in bocca ad Andreotti/Servillo: parlando di Nenni, Andreotti lo ricorda in modo istrionico, come “strano” o “curioso”, ma subito dopo aggiunge “Che grande stima, reciproca, che vi fu!” Distanza, ma stima.

Tutto questo, prima del 1970: possiamo affermare che – pur avendo perso una guerra e pur essendo, praticamente, una nazione occupata (lo siamo tuttora) – avemmo una classe dirigente in grado di parare i colpi, soprattutto internazionali (si pensi all’infinito tormento arabo/israeliano). E di creare ricchezza per gli italiani.

Dopo il 1970, una classe politica che iniziava ad invecchiare, ebbe paura. Troppo distanti le richieste delle nuove generazioni – spesso, senza una reale consistenza politica e molta confusione – ma, proprio lì, il dialogo – all’interno ed all’esterno dei partiti, dove sarebbe stato più necessario, per captare le nuove esigenze e provare nuove vie – fallì.
Aldo Moro comprese l’importanza di quella interlocuzione e la espose nel famoso discorso alla segreteria del suo partito il 18 Gennaio del 1969, e la ritengo così importante che merita riportarne almeno un estratto:

Parliamo, giustamente preoccupati, di distacco tra società civile e società politica e riscontriamo una certa crisi dei partiti, una loro minore autorità, una meno spiccata attitudine a risolvere, su basi di comprensione, di consenso e di fiducia, i problemi della vita nazionale (…) Noi vogliamo corrispondere sì, capendo e facendo, all’inquieta richiesta della nostra società, ma ostruiamo poi contraddittoriamente i canali che potrebbero portarne nel partito, proprio nel partito, quella carica di vitalità e di attesa che è pure nel nostro paese. Sicché essa finisce per riversarsi altrove, mettendo in crisi la funzione dei partiti, i quali sovente fronteggiano dall’esterno, senza un’esperienza interiore vissuta del dramma sociale del nostro tempo, le situazioni che si presentano e spesso si esauriscono senza autorevole mediazione, nella società civile”.
(Aldo Moro, intervento al Consiglio Nazionale DC, 18 gennaio 1969)

Moro fu lasciato nelle mani delle BR, nessuno voleva un simile “cavallo di razza” fra i piedi: troppo ingombrante. Meglio gli Sbardella, gli Evangelisti, i Cirino Pomicino: i loro discendenti, sono quelli che hanno causato l’odierno disastro nell’amministrazione capitolina.

Non si creda che il terrorismo abbia contato più di tanto: sapevano perfettamente che gli “armati” erano meno di 10.000 (circa 5.000 le condanne giudiziarie), mentre coloro che cercavano d’elaborare nuovi scenari politico/sociali erano milioni. E, attenzione: appartenevano ad aree della sinistra come della destra.

Questo, fece loro paura. E’ un caso che le presidenze del consiglio “saltarono” una generazione? Si è passati, rapidamente, dalla generazione anteguerra di Prodi e Berlusconi agli attuali quarantenni come Renzi. Delle generazioni nate dopo la guerra, non rimarrà traccia nella politica italiana (l’unico fu D’Alema, Il “tartufaio”, meglio perderlo che trovarlo).

Ad esempio, nel PCI, fu proprio D’Alema (neo segretario, in pectore, dei Giovani Comunisti) a scrivere la bolla di condanna per gli “eretici” del Manifesto nel 1970: la scrisse bene, ed ebbe una carriera folgorante. Rimase “folgorato” fra le vie di Belgrado e non si riebbe più? E va beh, adesso fa “Tartufon”...
Un altro esempio furono le votazioni per eleggere il nuovo segretario della “Giovine Italia”: il risultato fu la vittoria di Marco Tarchi – uomo di vasta cultura – ma intervenne Almirante, con la scusa che il MSI non era “un partito democratico”, ed il quarto classificato, un certo Gianfranco Fini, venne catapultato alla presidenza dei giovani missini. Posizione del futuro segretario in pectore: ottima scelta! Persero addirittura il partito.

Anche negli altri partiti, i “giovani”, o erano considerati “sicuri” sotto l’aspetto della continuità, oppure non avevano scampo: nessun vero innovatore giunse ad essere classe dirigente in quegli anni.
L’illusione dell’eternalismo è sempre viva nell’animo umano: perché domani non può andare come ieri? Questo fu il grande errore dei nostri padri: credere che quel modo di concepire la politica fosse perfetto, che tutto sarebbe andato sempre così. Andreotti, ad esempio, ritenne impossibile la riunione fra le due Germanie, la affrontò con un’alzata di spalle.

Ma venne, improvvisamente, Tangentopoli. Guidata da uno strano magistrato molisano, che era stato poliziotto – una vera storia da libro “Cuore”, a ben pensarci, perfettamente confezionata – fu decapitata un’intera classe dirigente. E non solo metaforicamente.
Le vicende successive sono spiegabilissime se si parte da queste considerazioni: dal vuoto pneumatico, era necessario riempire i banchi del Parlamento.
A parte i residuati bellici della Prima Repubblica – figure patetiche, elevate al rango di potenti – fu necessario prelevare “sangue fresco” dai dipendenti Mediaset, da qualche pittoresco legaiolo (che fa rima con...va beh...) e riempiendo i buchi ancora mancanti con le quote rosa. Possibilmente con la quinta di reggiseno, altrimenti...che quote rosa sono?!?

Non si poteva esporre al pubblico ludibrio una simile accozzaglia di parvenu, perciò fu abolita la scelta elettorale: adesso voti un partito, anzi, un logo. Ah, Naomi Klein, come avevi ragione!
E veniamo all’oggi.

Fra i mille, disperati fremiti agonici di gran parte della classe politica, spicca la scelta del M5S: cosa c’è di più legittimo di una consultazione libera (on line), aperta a tutti gli iscritti (?), per trovare nuove classi politiche? Ossia, delle primarie on-line.
Sono tormentato da un dilemma: Grillo avrebbe consentito di fare come poi hanno fatto, se la legge elettorale avesse consentito le preferenze? Ossia se gli italiani avessero avuto scelta effettiva sui loro eletti?
Me lo chiedo, perché sono una persona curiosa e che non dà nulla per scontato, ma ne dubito.
Chi avrebbe mai scelto dei candidati che erano stati votati da circa 100 persone, fra parenti ed amici? Senza competenza alcuna, su nulla?

I risultati si sono visti a Parma – probabilmente “gentilmente” offerta da PD/PdL su un piatto d’argento – dove un povero Pizzarotti s’è ritrovato – lui, un tecnico informatico – a dover gestire una delle realtà più complesse d’Italia. Una città che è la capitale della lirica, che è sede dell’autorità europea per la sicurezza alimentare, una città ricca di storia e di cultura, con una fiorente industria agro-alimentare, una città universitaria, ecc.
In più, la “grana” dell’inceneritore “a metà” con Reggio: bisogna riconoscere che, se il “Pizza” era un modesto ed allegro “Fonzie”, se l’è cavata come ha potuto e come è riuscito per i suoi mezzi: per lo più, poco aiutato dal suo partito. Scusate, non-partito: il quale, comunque, ha fatto una figura di m... E, adesso (si dice), sarà “obbligato” a vincere a Roma.

Il metodo scelto dal M5S, in realtà, è stato qualcosa di più di un parziale fallimento, è stato un naufragio dove una sola scialuppa s’è salvata, ma senza grandi teste pensanti a dirigerla: con tutto il rispetto che posso avere per Di Maio & Company, sono soltanto dei (bravi?) polemisti. Se per questo, anche Fini e D’Alema – presi solo nell’agone della dialettica polemista – erano dei campioni. Dietro, buio pesto.
Anche Andreotti era un fine polemista, però non era “sotto il vestito, nulla.”

All’epoca di Andreotti si riconosceva l’avversario come meritevole di stima, anche se lontano per posizioni politiche: oggi, si stima l’altro per la sua capacità di raccogliere denaro e tangenti...mannaggia: quello, è un uomo da 2 milioni l’anno, quello vale...la politica? Ma non facciamo ridere: questo è stato uno dei perversi frutti di “Mani Pulite”. La consapevolezza, interiorizzata come frutto morale, del furto collettivo: così fan tutti...
Perché, se un tempo esistevano i cosiddetti “cacciatori di voti”, oggi esistono solo dei cacciatori di soldi: è più facile raccattare soldi, a fronte d’interessi garantiti, che voti, poiché le richieste – legittime! – degli elettori, sono più variegate, costano di più. Ergo: eliminiamo gli elettori, facciamo mettere solo più una croce su un simbolo evanescente, al resto pensano i soldi, mediante i quali ci assicuriamo spazi mediatici. Insomma, più che soddisfare le necessità degli elettori, creiamo delle Gestalt dalle quali loro possano essere irretiti: l’irrealtà al servizio del potere, il tweet che crea un gregge effimero, gli 0,1% che discriminano fra ricchezza e povertà...

L’unica soluzione, per uscire da questa follia da reparto psichiatrico, sarebbe di lasciare ai partiti i loro giochini di primarie ed ammennicoli vari: di tornare, però, a scrivere un nome sulla scheda elettorale ufficiale (quella controllata dalle Corti d’Appello) con un sistema proporzionale, il nome di una persona fisica, riconoscibile. Altrimenti, nessun gioco varrà, nessuna alchimia finanziaria, nessuna guerra su commissione, nessun viso salvifico apparirà alla porta.

Perché, vedete, la cosiddetta “governabilità” è solo un inganno: è la necessaria “semplificazione” di un sistema complesso richiesta a gran voce dalle lobbies, dai poteri esterni, dai corruttori occulti, che – oramai – calcano tranquillamente le aule parlamentari. I frutti? Pessime leggi per noi, ottime per i loro interessi: la riforma del canone RAI, le mille, nuove norme per spremerci fino all’ultimo soldo di tasse, le pazzesche norme che consentono al sistema bancario di spadroneggiare e di non pagare mai il fio dei loro errori e/o malversazioni...continuo? Non è necessario.

Avevo già toccato questo argomento in “Storia di lucidatori di sedie”, per far capire ai più giovani com’è stato possibile ridurre il nostro Paese in queste condizioni. I principi generali sono contenuti nel famoso “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, e tutti sappiamo che razza di persona fu Licio Gelli.
Credetemi: non è sempre stato così, c’è stato un tempo nel quale eravamo amati e rispettati, anche all’estero, e non solo per la Ferrari o per la pizza. Oggi, vi fanno credere che tutta la colpa è dell’Europa.
Ma non v’insospettite un poco? Cos’altro potrebbero raccontarvi a fronte di un simile sfascio? Che la colpa era d’Alfredo? Del Sudafrica? Degli emiri yemeniti? L’Europa, colpevole od innocente, è perfetta come cavia, e noi possiamo continuare a cazzeggiare. Chi ha combinato il bel guaio di Banca Etruria, l’Europa o la cosca Renzi?

Nella mia vita mentirei se dicessi che non ho ricevuto “chiamate” ma, più che chiamate per empatia, erano velleitarie “chiamate di correo”: della serie, vieni con noi, la tua fine vena polemica ci farà guadagnare...e poi, chiedevo io? C’era da ridere ad ascoltare le risposte. E, io, non sono un uomo da marciapiede. Perché non sono più chiaro?
Perché è del tutto inutile: si dice il peccato, non il peccatore, ma non per un pietoso o reticente rispetto per il peccatore. Semplicemente, perché i peccatori sono tanti, il peccato è uno solo. Sempre il solito: dimenticare che ministerium vuol dire servizio, e non credere di vincere un Paese al Banco Lotto.

Pochi giorni fa ho compiuto 65 anni: lo Stato, benevolmente, mi concede una patente ufficiale di “vecchio” e l’esenzione dai ticket farmaceutici. Che gioia. Ancora mi dibatto fra Socrate e Platone, come forse voi vi chiederete se vale la pena dibattere fra destra e sinistra. O Stato e mercato? Forse, meglio.
Ma non so tacere, e quando vedo l’Italia ridotta ad una fiera di minimalia ridotte in frantumi, ad un rodeo fra capi-bastone in lotta/combutta, non so se mettermi a ridere od a piangere. E mi domando, in questo gelido deserto degli intelletti: quale domani attenderà le giovani generazioni?

19 gennaio 2015

I tre porcellini


I primi a voler salutare il presidente Napolitano, oltre all’immancabile Renzi – che è sempre dappertutto, come il prezzemolo –  sono stati Laura Boldrini, la moglie del presidente emerito Franca Ciampi e poi Walter Veltroni, Gianni ed Enrico Letta, Pier Luigi Bersani, Susanna Camusso, Roberto Speranza, Pier Ferdinando Casini, Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Eugenio Scalfari, Mario Monti, Dario Franceschini, Umberto Ranieri, Barbara Pollastrini e Francesco D’Onofrio. Fonte: Il Fatto Quotidiano.
Gli altri seguono o seguiranno: Napolitano ha creato intorno a sé una vera e propria corte, al punto che è comprensibile che i nobili, i nobilucci ed i nobilastri non perdano l’occasione d’osannare chi tanto li ha difesi, innalzati e protetti. Noblesse oblige. D’altro canto – proprio come in una monarchia – alla morte di Napolitano i parenti riceveranno in eredità scorta, pensioni, chauffeur e quant’altro: non solo la vedova (comprensibile) ma anche il figlio primogenito (incomprensibile). Un vero Principe di Piemonte: complimenti dunque a Giovanni Napolitano (già docente universitario come il fratello Giulio, la figlia di Ciampi, ecc...poteva essere diverso?) ma non gli perdoniamo d’essersi lasciato sfuggire un fiorellino come Marianna Madia, che gli fu soffiata dal fratello Giulio. Eh, si sa...i Principi di Piemonte (la Storia insegna) non sono mai stati dei Rodolfo Valentino...

In ogni modo – visto che abbiamo parlato della “pulzella” Marianna Madia (olà, Marianne!) – è possibile saperne qualcosa di più (sul come si diventa ministro a 33 anni in era renziana, ad esempio) e questa è una vera sorpresa, perché la vicenda della Marianna è una vera e propria ciliegina sulla torta del malaffare, proprio un fiorellino che nasce su una merda della Cloaca Maxima Romana. E si sporca subito: dunque, ringraziamo Giancarlo Perna che ha veramente fatto onore al giornale che fu di Montanelli, tracciando un ritratto esilarante della jeune demoiselle, salita alle ribalte ministeriali come la petite vierge fatta persona, la vestale che si fa baccante? Mah, il suo splendido profilo greco tutto lascia pensare: leggete l’articolo, leggetelo (1).

Vi rendete conto in quale abisso siamo cascati?
Se Ciampi svendette la lira a Berlino – cosa mica da poco per un Governatore della Banca d’Italia – il Napolitaner è giunto al parossismo: il Quirinale come casa Cupiello, con tutto il rispetto per Eduardo. Ma come si fa ad imbastire una simile retata di favori parentali, di scambi e commerci di cariche, al punto che sembra d’essere a tavola da Ciro ‘e Mergellina con quattro camorristi? (2) leggete, prendete nota.

Di più: una dottoressa milanese, un medico, vuole sposarsi e non ha casa. Che si fa? Si falsificano nomi e ci s’aggrappa alla conoscenza (quella, vera) di un medico defunto grande amico di o’ Presidente. E o’ Presidente ci casca, con tutto o’ staffe, segretarie, consulent’, uaglioni vari. Così, prende il via una storia pazzesca – ma è vera! Non siamo su Scherzi a parte! E’ tutto vero! – che coinvolge Formigoni, il quale va a fare il testimone di nozze alla dottoressa ed il banchiere Bazoli, che sgancia un milione di euro perché, perché...perché al desiderio presidenziale non s’ha da opporre nessun veto, come lui stesso sostiene nella sua nota teoria del “capitalismo parentale”. Notiamo: non è più quello di Cuccia fra Agnelli e Pirelli, bensì quello di Bazoli – presidente di Intesa San Paolo – che recita “aumm’, aumm’, faciteve gli affari vostri che noi ci facciamo li nostr’”.
La dottoressa – in barba alle quattro lauree in legge della “famiglia” (Napolitano) – li ha fottuti tutti e patteggerà due reati ridicoli (tipo falsa identità e roba del genere), si terrà i due appartamenti a Milano acquistati coi soldi di Bazoli e...salutamm’ paisà!
La versione fornita è questa (3) – leggetela e datevi i pizzicotti – ma sarà quella vera? E che c’entra il Formicone? Se è vera, la dottoressa va subito nominata Ministro delle Finanze: quella fa su come delle magnolie anche i più scaltri trader internazionali! Se la versione è vera, altrimenti...

Scusate ma, a questo punto, ho una richiesta da fare. Presidente, Grande Padre (come dicono i russi, Bolshoi Babuska) mia moglie è in gramaglie! Oggi ha accompagnato il caffè mattutino sbocconcellando – come una reliquia! – l’ultimo tarallo al finocchietto che gli porta sua cugina quando, da Parigi, scende a vedere se è ancora in piedi la casa di Pozzilli. Lo conoscete, vero? Bel posto, lassù, sull’Appennino vostro...fanno certi taralli...
E facitece la grazia! Sta disgraziata deve aspettare che la cuggina scenda, e quella scenne na vota l’ann’...mannaggia la miseria...cu ‘sti taralli che finiscono e mia moglie smagrisce, avete capito? Smagrisce!
E passateci voi, perdio! Mannatece ‘o principe Giovanni – magari con la Flaminia, che dite? – ah...e chi paga, già...e mettete in conto a Bazoli! Na bbuona idea, vero?

Bello scherzare, vero? Intanto, questa gente sciagurata intasca milioni di euro a ufo, crea cooperative le quali hanno l’unico scopo d’acchiappare soldi pubblici. La amministrazioni locali si superano nello spremere il cittadino; una per tutte, l’ultima mia bolletta dell’acqua per la casa che fu di mia madre (disabitata): 1,5 euro di consumo, totale 49,50. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da incazzarci.

Oggi, Il Secolo XIX dà in omaggio...qualche calendario? Una ricettario ligure? No, la guida a tutti i pagamenti d’inizio anno. Tutto il mondo è paese? Ho concordato con il dentista una rateazione per circa 5.000 euro dei quali, il prossimo anno, mi vedrò restituire (se andrà bene) un migliaio di euro con la dichiarazione dei redditi. E chi ha scarso reddito (e quindi paga poca IRPEF, come tutti i ragazzi a 700 euro) oppure non ne ha? Va coi denti marci, finché riesce, poi spera nella Bulgaria, se tutto va bene.
In Francia, mia cugina si vede restituire immediatamente l’83% della spesa effettuata: lei tira fuori mille euro e lo Stato ne paga 4.000. Per gli stessi denti. Anche loro hanno un po’ di corruzione, certo, ma mica le varie cooperative del cemento costruiscono viadotti che s’inaugurano a Natale e crollano a Capodanno! Come? Cosa dice Renzino? Che i responsabili saranno puniti...cosa?!? Ma sono i caporioni dell’ANAS, coglione! E chi li tira via! Smettila di sparare twittate.

In mezzo a questo letamaio, di chi è la colpa? Chi è stato il merdolero iniziale, quello che poteva impedirlo e non lo ha fatto?
I Tre Porcellini, è chiaro che la colpa è loro. In un certo senso, solo loro. Lo so che è azzardato dare la colpa ai Tre Porcellini, ma – se ci pensate bene – solo loro avevano le “chiavi” della tradizione e del pensiero politico italiano – solo che erano (e sono) soltanto tre poveri porcellini, o anatroccoli sperduti nel bosco del malaffare – ed hanno preferito adeguarsi piuttosto che lottare (ma ne avevano voglia? Gli conveniva? Facciamo finta, dai...)


Massimo D’Alema (1949) Gianfranco Fini (1952) e Pier Ferdinando Casini (1955) sono Timmy Tommy e Gimmy, che ereditarono le tre grandi tradizioni del pensiero politico italiano: quello marxista, quello d’origine fascista e quella cristiana. Erano loro ad avere in mano le “chiavi” ideologiche delle rispettive tradizioni, ad essere stati nominati in pectore successori, Delfini da padri nobili ed hanno fallito. Vale a dire: hanno intascato fior di soldoni – in questo non sono certo dei falliti – ma hanno gettato l’Italia in mano ai Renzi, al nulla incombente, alle twittate, alle “selfate", ai giochini di un adolescente scemo e comandato dai soliti grembiulini e dai mammasantissima, questa è la responsabilità storica dei D’Alema, dei Fini e dei Casini.

Massimo D’Alema inizia la sua carriera con un atto nobile, che subito lo distingue nella massa dei lavapiatti da Festival de l’Unità: nel 1969 – ha vent’anni, ma è indubbiamente bravo ed ha seguito molto bene le direttive e le lezioni del Politburo di Mosca – scrive la “bolla papale” di condanna del gruppo del “Manifesto”, che viene cacciato dal PCI. Non erano certo dei Che Guevara i “manifestari” – difatti, lentamente rifluirono tutti nella casa madre – ma almeno, nel torpore di quegli anni, all’ombra del Mausoleo di Lenin (c’è una foto che ritrae anche Giuliano Ferrara, ordinatamente in fila, nell’attesa di salutare la salma del “Padre del Comunismo”: questa è la classe politica italiana, rendiamocene conto, da figlio di direttore de l’Unità a segretario cittadino a Torino, a uomo di Berlusconi, ecc) il gruppo del Manifesto diede una scossa.
D’Alema fu incaricato di scrivere: analizzò, sottopose la bozza a Berlinguer (oramai segretario in pectore) e fu approvato: lì iniziò la sua carriera, che terminò – se ci pensiamo bene non molto dissimile, ideologicamente, da quella di Ferrara – quando Julian Assange, in uno dei molti documenti riservati di Wikileaks, mostra un file d’origine USA nel quale si richiede di sostituire il Primo Ministro italiano (Prodi è contrario alla guerra verso la Serbia) per bombardare Belgrado, dopo la fuffa degli incontri di Rambouillet, quando fecero discutere un po’ i politici mentre gli aerei scaldavano i motori.
In ogni modo, D’Alema sale a Palazzo Chigi e gli aerei italiani (gli AMX di Istrana) iniziano a bombardare prima che il Parlamento rilasci qualcosa che – non potendo essere una dichiarazione di guerra – è solo un lasciapassare per ammazzare un po’ di gente. Non è mica guerra questa, vero?

Dura poco: solo quel che serve per il Kosovo, poi viene sostituito da Giuliano Amato e se ne va in barca a vela da un miliardo, che però lui paga solo 500 milioni: a suo dire, uno sconto “per motivi d’immagine”. Di barche come la sua ne furono costruite solo due: che motivi d’immagine ci potevano essere? Non era mica un rasoio elettrico o un frullatore!
Qui finisce la carriera politica di “Baffino” – senza dubbio persona davvero intelligente – in ogni modo, deve vendere la barca per far fronte alle disavventure economiche dei figli che s’improvvisano viticultori, e allora lui stesso s’improvvisa “Tartufon”: diventa rappresentante nel mondo del tartufo nero umbro. Non male come finale della storia, sembra un romanzo di Flaubert.

Gianfranco Fini ha una storia diversa: mai più – il figlio del  benzinaio trasferitosi da Bologna a Roma, dopo essere stato nominato funzionario di una compagnia petrolifera – si sarebbe immaginato la fulgida carriera politica, culminata con la poltrona di Ministro degli Esteri e Presidente della Camera.
Anche perché non aveva nessuna cultura di destra: “Mi piaceva John Wayne”, era la sua candida confessione. Gentile? Balbo? Evola...e chi erano? A lui piaceva John Wayne.
Ha dell’incredibile la sua storia politica: iscrittosi al MSI dopo una scazzottata con i rossi – che gli avevano impedito di andare al cinema a vedere “Berretti Verdi” – scalò lentamente il potere, divenendo segretario della sezione di Monteverde.
Cosa vide in lui Almirante – al punto da preferirlo a Marco Tarchi alla direzione della “Giovane Italia” (l’organizzazione giovanile del MSI) – è un vero mistero. Non desideriamo suscitare dei mal di pancia in casa degli ex missini, ma viene veramente da chiedersi come tanta pochezza (i piemontesi hanno un curioso adagio per definire quelli come lui: pien ad vujam, pressappoco pieno di vuotezza) abbia incantato il rais e la di lui signora, donna Assunta Almirante. Forse anche Almirante non era “l’aquila” che immaginavano i missini? Mah...

Fini è sempre stato bravissimo nel “breve” di un dibattito televisivo, capace di rintuzzare l’avversario con battute salaci ma completamente avulso al pensiero politico, in un partito che ne aveva gran bisogno, giacché aveva avuto un passato, ma era sempre alla disperata ricerca di un futuro.
Un futuro che non poteva arroccarsi con le parole d’ordine di un passato improponibile (anche perché, semplicemente, i tempi mutano) ma che, oggi, torna a proporsi in altri modi e con altre parole d’ordine. Lontani dall’esperienza fascista, i Tarchi e – soprattutto – i de Benoist hanno molte cose da dire nella crisi dell’iper-capitalismo. Fini, non ha saputo far altro che sposarlo senza condizioni.
In questa situazione, nella quale s’è cacciato da solo per mancanza di mezzi intellettuali, non poteva che condurre il partito nelle “selve” d’improbabili alleanze di vertice, senza minimamente analizzare di cosa avrebbero avuto bisogno gli italiani. Da qui, la sua fine politica: Fini non ha lasciato nulla sul quale riflettere per la destra italiana, e così ha trascinato nella polvere i suoi “colonnelli”, tutti rais di formazioni risibili.  Ed è perfettamente inutile che si dia da fare per fondare chissà quali nuove sigle: accenda il cervello, e provi a riflettere seriamente.

Casini – onomatopeico, verrebbe da dire – perché nel gran bailamme della rovinosa caduta DC fu quello che provò a rimettersi in sella ed a gestirne una (qualche) eredità. Se mai fosse possibile. In realtà, ha gestito il tutto proprio come un gran casino, ed oggi l’unica speranza che ha è un’elezione al Colle, proprio perché è così imbelle da non far più paura a nessuno.
Eppure, Pierferdinando Casini era partito bene: con l’aiuto di Buttiglione, sembravano proprio loro i referenti di quel centro cattolico che anelavano a raccogliere intorno ai loro due e poi un solo partito.

Antonio (Toni) Bisaglia amava raccontare, fra il serio ed il faceto, che aveva due figli (lui, che non aveva discendenza naturale) “uno bello ed uno intelligente”: quello bello – si diceva – era Casini mentre quello intelligente era Follini.
Ancora aleggia, su queste vicende, la misteriosa morte di Bisaglia, ufficialmente morto perché caduto in mare dallo yacht della moglie (un 22 metri) colpendo con la testa l’asta della bandiera. Una ricostruzione veramente strana, per non dire fantasiosa, che a tutti coloro che vanno per mare appare...beh, insomma...
In ogni modo, anche il fratello fu trovato morto – ma non annegato – nel lago di Centro Cadore: sosteneva che il fratello era stato assassinato. Il segretario particolare di Toni Bisaglia, Gino Mazzolaio, fu invece trovato morto nell’Adige: insomma, uno in acqua di mare, uno in quella di lago e l’ultimo in acqua di fiume, veramente un bel trittico, se c’era qualche grembiulino dietro. In ogni modo, c’è una mia più approfondita ricerca sulla vicenda (4).

Sulla qualità dei due “figli” abbiamo qualche dubbio, anche se il “padre” li raccomandò vivamente a De Mita: possiamo solo affermare che Follini vide chiaro, ossia che l’abbraccio con Berlusconi avrebbe stritolato la nuova “piccola DC” e così fu.
Marco Follini, però, era forse troppo intelligente per essere capito e se ne andò da solo: dopo vari “giri di casacca”, nel 2013 lasciò la politica attiva.
Casini, invece, ha ancora il tempo per dilapidare il poco rimasto: l’appoggio incondizionato a Mario Monti gli fa dimenticare la natura interclassista della vecchia “balena bianca”, che mai aveva compiuto simili sfracelli sociali. E viene duramente punito dagli elettori.
L’incapacità di Casini – il “bello” appunto – è stata quella di non aver compreso che la DC era una storia finita in anni lontani e che, per ricostruire qualcosa di cattolico al centro, bisognava avere più pazienza e nervi saldi. Se, oggi, avesse mantenuto unito uno straccio di partito di centro, forse qualche chance in più l’avrebbe.

In definitiva, i Tre Porcellini hanno avuto molto dalla politica, forse troppo per le loro persone e la loro statura politica: erano il meglio dei “cinquanta-sessantenni” sui quali la vecchia classe politica aveva puntato. A parte le vicende personali, più da Bagaglino che altro, hanno tutti fatto una miserrima fine politica. Certo, si godono i soldi e le prebende che lo Stato assegna ai fidi servitori, come del resto Giorgio Napolitano.

Eppure, fra una decina di giorni – quando un nome dovrà saltare fuori dall’urna, e non potrà essere Paolino Paperino – può darsi che il “bel” democristiano abbia la benedizione bi-papale da Oltretevere e quella politica da un Renzi convinto non tanto dalla bontà della scelta, ma dalla sua completa nullità, meglio di Napolitano. Un “bello” ci può sempre stare nel mondo dei “selfie” di Renzi: perché, oltre ai selfie ed alle twittate, c’è altro?




(4) http://www.lolandesevolante.net/blog/2011/05/tre-morti-e-una-sorpresa-in-casa/