19 giugno 2021

Luci e ombre nella letteratura italiana

 

Cercando le classifiche dei libri italiani più tradotti all’estero, capitano delle sorprese.

La prima, in realtà, non dovrebbe esserlo ma in qualche modo lo diventa, grattando via un po’ di polvere dai contorni della Storia.

L’autore italiano da sempre più tradotto in tutte le lingue è Dante Alighieri.

Per molti di noi, che hanno trascorso molte ore per tre anni di scuola ad ascoltar le sue sentenze, comprendo che la cosa possa apparire inverosimile, ma noi non siamo parte in causa perché possedevamo già l’originale in casa nostra: e, per giunta, scritta proprio nella nostra lingua nell’epoca in cui la lingua dei dotti non era il Volgare, bensì il Latino.

 

Capovolgendo il dilemma, c’è da chiedersi perché tanti italiani siano così stregati dalle opere di Shakespeare: sia che fosse un inglese, come sostengono attualmente ad Oxford e Cambridge la metà dei filologi e sia che fosse un italiano, come sostiene l’altra metà. Con, per sostenere le loro tesi, una faretra molto fornita di frecce per il loro arco da entrambe le parti: in ogni modo, William fu un autore inglese perché usò quella lingua per esprimersi. E morta lì.

 

Ci stupiamo, e con molte ragioni per sostenere il nostro stupore, che molti americani, russi, inglesi…s’iscrivano a dei corsi di Italiano per leggerlo nella lingua originale. La prima impressione che scaturisce è che abbiano tempo e soldi da buttare al vento: questa è la prima impronta che colpisce e che poi s’esterna quasi con un vagito dei vecchi studenti: ma come…e perché…tutte quelle ore a maledire terzine e quartine…e loro ci passano pure il tempo libero? Con gli oceani per fare surf e le steppe innevate per lo sci di fondo…Dante?!?

 

Eppure, Dante è poca cosa se circoscritto nel cortile italiano, poiché fu il cantore – oggi lo definiremmo forse un uomo della multimedialità – di tutta un’epoca: grazie a lui, una religione d’origine orientale, con una filosofia greca come appoggio ed una liturgia latina per esprimersi riuscì a creare un’immagine figurata, ma scolpita nelle menti, di realtà visiva. A mio avviso, nemmeno Dante stesso poté accorgersi della potenza della sua creazione, poiché era impossibile immaginare un simile evento nel tempo stesso in cui si verificò.

E, si badi bene, la gerarchia cattolica non appoggiò mai apertamente l’opera di Dante ma nemmeno la condannò o la bandì: tutto passò sotto silenzio ma, siamo certi, per molti secoli tutti i dotti cristiani, certamente insieme ad Agostino, Paolo di Tarso, Cicerone ed Aristotele…lessero la sua opera. Definita “commedia” tanto per non appesantire troppo il lettore.

 

Mentre la vera moglie mai viene citata, Beatrice viene glorificata sin a piazzarla dalle parti dell’Empireo, ma qui Dante la fa troppo grande: già, oggi siamo più sgamati…

Beatrice, si pensa, era la moglie di un conoscente o di un abitante del rione di S. Croce che Dante, probabilmente, non conobbe mai veramente: inoltre, morì molto giovane, cosicché gli fu possibile piazzarla in Paradiso. Ma in un altro passo si tradisce.

Nel V canto dell’Inferno, proprio dove sono sistemati i libidinosi, Dante si cheta per qualche attimo perché non se la sente di condannare con la solita frusta anche Paolo e Francesca che volano, sospinti dai venti infernali…Virgilio quasi lo richiama ma lui non risponde…eh, Alighiero, Alighiero mio…t’avessi mai visto un film di Pieraccioni…

 

In ogni caso, soprattutto in epoca Moderna, quando la stampa diffuse di più la letteratura, intere generazioni s’adoprarono per piazzare all’Inferno stuoli di vicini di casa o confinanti, mentre il medico era sempre paradisiaco…e lo zio Gaspare? Mah…quello ha sparato al mi gallo – ne son certo – però mi regalò n’ bel boccione di vino al mi matrimonio…ficchiamolo un po’ in Purgatorio, qualche anno come Vallanzasca…che poi si ripiglia…

Insomma, una religione forse troppo seria trovò una colonna sonora che poteva andar bene per tutti, dal graffiante Pasquino al gigione Marchese del Grillo e la platea s’allargava…fra il serio e il faceto.

In ogni modo, anche a me – se fossi nato in California – metterebbe male pensare di passar le giornate a studiare l’italiano: e poi? Quando l’avessi anche imparato potrei ritenere di capire Dante? No…meglio pizza e cappuccino…questa è l’Italia…

 

L’Italia che, passato Dante, fu quasi dimenticata: oggi, solo il Boccaccio gode ancora di qualche, minima visualizzazione nel mercato internazionale, dovuto alla sua capacità di mostrare il lato meno nobile e più godereccio della sua epoca. E tutti gli altri? Da Petrarca fino al Tasso, all’Ariosto ma, passati i secoli, nemmeno il Manzoni, poi i tanti poeti, fino al Verga…niente…Durlindane, pestilenze e Fresche Acque sono state triturate nell’immensa discarica della cultura umana, oppure passate all’inceneritore per il riciclo delle ceneri che hanno lasciato. Solo D’Annunzio gode ancora qualche visualizzazione, ma soprattutto per la sua figura politica, e poi siamo già in pieno Novecento…

 

Stupisce senz’altro di più il secondo posto poiché pochi di noi l’hanno sentita nominare ed è un frutto strano, soprattutto perché si tratta di un’autrice: ancora una volta, l’inveterato maschilismo italiano la spunta.

Eppure, Carolina Invernizio fu un’autrice, per dirla al femminile, con i fiocchi e le frange: moglie di un ufficiale dei Bersaglieri, poi madre, trovò il tempo per una produzione letteraria di tutto rispetto e fondò anche un salotto letterario a Cuneo, nei primi anni del Novecento, che si concluse alla sua morte nel 1916.

Disprezzata, "la Casalinga di Voghera", "l'onesta gallina della letteratura popolare", "la Carolina di servizio" come la definirono i tanti colleghi maschi dell’epoca (compreso Antonio Gramsci) ci ha lasciato una produzione monumentale: più di cento romanzi i quali ancora oggi – al tempo di Amazon e dei libri elettronici – vengono tradotti e venduti, soprattutto in America Latina.

 

Fa quasi sorridere la sua storia: come le sue contemporanee che si dilettavano nella maglia, nel ricamo e nel merletto – e, a volte, ci siamo ritrovati con armadi zeppi di lenzuola, federe e altre pregevolezze divenute problematiche per la loro conservazione – la Invernizio si dilettava nel romanzo popolare, detto “d’appendice” (“l’appendice” ai serissimi romanzi dei suoi contemporanei maschi, oggi finiti nell’inceneritore), nel poliziesco, nel giallo…e tuttora sopravvive.

Viene da pensare come l’Italia ha trattato la Invernizio e riflettere, invece, su come la Gran Bretagna ha trattato Jane Austen, Charlotte Bronte od Agatha Christie, che tuttora sono pubblicate e largamente tradotte in tante lingue…ministro Franceschini…ci facciamo una riflessione?

 

Il terzo in classifica diventò, suo malgrado, lo scrittore della “guerra fredda”…perché Giovannino Guareschi lo divenne?

L’uomo era strano, ma vero. Lo dissero fascista, poi democristiano…ma nulla è vero e palpabile.

 

Per capirlo, non posso far altro che raccontare un aneddoto che capitò nella mia infanzia. Passavo le vacanze, a volte, in Emilia nel borgo dov’era originaria la mia famiglia e, un giorno, accompagnai il mio prozio – che si definiva “fascista” – al caseificio cooperativo per comprare il parmigiano. Stetti un po’ in parte, mentre lui ed il venditore stapparono e bevvero una bottiglia di Lambrusco amabile mentre assaggiavano, insieme, la forma destinata all’acquisto.

Nel ritorno, gli chiesi se non avvertiva una contraddizione fra il suo sentirsi “fascista” e l’altro il quale, chiaramente, era un fedelissimo del PCI emiliano.

Mi diede del matto “Ma cosa c’entra mai ‘sta storia? Non capisci che prima della nascita del Caseificio Cooperativo quella gente faceva una vita ben misera, schiacciati com’erano dagli agrari e dai caseifici privati?” Non ribattei, ovviamente, nulla: avevo nove anni ed in quella frase riposa l’apparente contraddizione sociale emiliana, e non sprecherò parole per spiegarla.

 

Guareschi è stato l’unico giornalista italiano a scontare interamente una pena in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa: chi lo mandò in galera fu De Gasperi, dopo due anni di campo di concentramento per aver rifiutato le mostrine della RSI.

Scrisse con il cuore il suo “Don Camillo” senza mostrarsi molto tenero col grande Fernandel, colpevole ai suoi occhi d’omosessualità.

Il Don Camillo fu tradotto in molte lingue però, a differenza di mille altri libri, attecchì in quelle terre.

Si radicò in Cina ed in Vietnam – diventando così la perenne disfida fra un bonzo ed il locale partito del popolo – ma, sulle prime, se ne seppe poco: d’altro canto, in quegli anni, non erano molti i lettori italiani in lingua cinese o vietnamita. Dopo la morte di Guareschi, però, gli avvocati si misero al lavoro ed iniziarono la noiosa disfida internazionale sui diritti d’autore: non ce l’ho con tutti gli avvocati, però definirli “sostituti dei topi per gli esperimenti” dai ricercatori, come affermò Robin Williams in Hook, mi pare che s’adatti bene alla vicenda.

In ogni modo, il Don Camillo di Guareschi contende, secondo gli anni, la palma del primo posto con Dante nelle traduzioni per l’estero: già…il cantore del Cristianesimo figurato se la gioca con quello della Guerra Fredda consumata fra la gente…

 

I primi tre posti della classifica sono occupati stabilmente da decenni e, per quanto appare, rimarranno tali per molto tempo: c’è poi la media classifica e la zona retrocessione.

Nella zona centrale della classifica, da molto tempo – proprio come nel Calcio – i nomi sono sempre gli stessi che salgono o scendono, ma di poco.

Le case editrici, poi, hanno qualche interesse (ben comprensibile) a manomettere un poco la classifica per evidenziare il loro “nuovo” campione, ma con scarsi risultati.

 

Oriana Fallaci spicca, fra quei nomi, per la sua grandezza, la sua non-comprensibilità se cercata fino alla radice dei capelli, la sua incoerenza radicalmente coerente ma, soprattutto, per il suo esser sempre donna fra le righe e, molto spesso, sopra al pentagramma della sua vita. Poco importa se, negli ultimi anni, la disperazione per il tumore che aveva in corpo la lasciò in balia della disperazione e del dolore che poi maturò ne La rabbia e l’orgoglio, perché quello che ci ha lasciato è di gran lunga più grande del libro che ne ha sancito la cosiddetta saggezza della senescenza.

 

Era l’amica del cuore della sorella maggiore di una mia compagna d’università: non la conobbi personalmente, però qualcosa di lei mi giunse dalle sue confidenze. Erano gli anni Settanta, gli anni di Panagulis, gli anni del Vietnam: gli anni che segnarono una generazione.

E, Oriana, per quella generazione, divenne una sorta di totem da adorare senza mai scalfirlo: per tanti ragazzi dell’epoca indicò quel sogno di donna perfetta e, per quella ragione, irraggiungibile. La donna da amare appassionatamente, da guardare negli occhi per vederci transitare mille pensieri, la madre caritatevole per un momento di dolore o di disperazione.

Solo Panagulis ebbe quel privilegio, ma Panagulis – greco – come non poteva diventare il suo Ettore od Achille che combatteva una battaglia impossibile, che ebbe solo la morte come finale prevedibile? Ma, in Oriana, scoppiò allora nuovamente la donna e forse, il fatto di non aver avuto figli, la scompose riducendola al silenzio.

In ogni modo, esser vissuti in un’epoca nella quale è vissuta l’ultima epigone “sul campo” della tragedia greca è già un privilegio, da soppesare attentamente e, se si vuole, da gustare.

 

Andrea Camilleri, invece, è stato (per ora) l’ultimo preso per il culo dalla cosiddetta cultura letteraria italiana.

Per decenni sceneggiatore – bravissimo ma sconosciuto – solo in tarda età è stato riconosciuto per l’autore che era: un altro passo da meditare per Franceschini…a che serve essere bravi, se non si ha modo di mostrarlo – e non sempre – solo quando si sta per “tirare il gambino” come dicono a Genova?

Non è stato mica l’unico a mettere se stesso nei panni di un commissario, magistrato od indagatore che dir si voglia, però Camilleri ha saputo tinteggiare il suo personaggio con garbo, insufflandogli quel tanto di epica popolare per renderlo accessibile ai più, ma anche quell’amarezza che lo configura nella sua Sicilia, terra dove la mafia esiste per davvero e non si può fare finta che “uccida solo d’Estate”.

Difatti, il suo commissario non si mette mai a combatterla frontalmente: al più, tenta di correggerla quando l’ingiustizia diventa insopportabile ed il dolore scoppia come un uragano. D’altro canto, da una terra composita, generata dal connubio inverosimile (se non fosse capitato) di Romani, Arabi, Svevi, Normanni, Spagnoli e Borbonici…che ci si poteva aspettare?

Un uomo che non ha avuto remore nell’affermare d’essersi ispirato ad un mentore spagnolo, Manuel Vasquez Montalban, per tratteggiare il suo eroe che si destreggia come può fra piccoli delinquenti e grandi bastardi. Ma, bisogna farsene una ragione, sembra dirci Camilleri: e questa è, forse, la ragione che lo stabilizzerà nella media classifica per molto tempo, e ne ha tutto il merito.

 

La perfezione della forma e la conoscenza sublime della sostanza, questo potrebbe essere l’incipit per descrivere Umberto Eco. Ma, sul personaggio c’è poco da dire: un ottimo docente universitario, buon descrittore dei paesaggi e delle atmosfere che vuole portare all’attenzione del lettore…ma, se gli andrà bene, rimarrà a metà classifica come la Fiorentina od il Torino per lunghi anni. Oltre allo scrittore, manca il personaggio: come potete osservare, man mano che si scende nella classifica, il collettivo – nel Calcio – o la somma delle sensazioni ed esperienze vissute dall’autore, fa la differenza.

 

Quasi identica sorte per Giorgio Faletti, catapultato dalla televisione alla scrittura, e con merito. Lui raccontò che il suo esordio fu quasi casuale, ossia un amico che lavorava in Mondadori lesse quello che scriveva così, tanto per divertirsi. Difatti, scrisse qualche bel giallo, poi scadde (a mio avviso) nel turpe mondo del sangue e dell’immondizia del crimine, ossia quel composto di sangue, feci e pezzi di cervello che tanto sembra interessare oggi i lettori. Con lui, concludiamo la classifica dei più importanti ed entriamo nella zona retrocessione.

 

Una menzione la merita senz’altro Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega nel 2008 con La solitudine dei numeri primi, romanzo interessante, però circondato da un’ovvietà geniale. Giordano è anzitutto un fisico, quindi uno scienziato, ed è circondato da un alone inconfondibile: quello dell’intellettuale. Peccato che, nella nostra epoca, per essere conosciuti convenga di più essere dei saltimbanchi televisivi, degli attori cinematografici (quelli, non mancano mai) o dei cosiddetti “politici” ossia degli ottimi attori/saltimbanchi che la buttano sempre in caciara.

Però l’argomento è stuzzicante – i numeri primi non sono solo 1, 3 o 7…anche 3761 lo è, ma non ci dice niente – e quindi il fisico/intellettuale non ha avuto difficoltà a descrivere la loro incapacità d’avere relazioni, se associati a certi esseri umani. Ma, mi perdoni Giordano, pur avendo scritto un libro stupendo, ha fatto – da buon fisico – la scoperta dell’acqua calda. Quando una persona, dopo aver concluso piacevolmente il suo libro, si chiede cosa c’era di così singolare in quel libro, si risponde che è ovvio che esistano persone incapaci d’avere relazioni appaganti, sincere, corrisposte, durevoli…ossia “normali”…perché la loro storia, ossia il loro rapporto con la vita del loro tempo, non può appagarli. Sono, appunto, “numeri primi”. Ed è per questo che un vero secondo libro di successo non è mai arrivato: si consideri fortunato, la Fisica è un pianeta stupendo.

 

Susanna Tamaro è stata una fulgida cometa, passata velocemente nel firmamento con Và dove ti porta il cuore, racconto se vogliamo interessante, ma di scarsi contenuti di riflessione: ha venduto un sacco di copie nell’intero pianeta e, in qualche modo, mi ricorda Carolina Invernizio. Solo che dalla Tamaro attendiamo un secondo, simile successo: la Invernizio ne scrisse più di cento.

 

La decima posizione spetta a Roberto Saviano anche se il suo libro Gomorra è un saggio e non un romanzo. Ha venduto anch’egli un sacco di copie ed è stato tradotto in molte lingue: peccato che solo in Italia non sia stata compresa e meditata la gravità dei fatti che, inequivocabilmente, Saviano riporta.

 

Le ultime posizioni, come avrete ben compreso, sono molto aleatorie e facile preda delle case editrici, che si battono sulle copertine assicurando decine o centinaia di migliaia di copie. In realtà, la vera possibilità inventiva degli italiani, oggi, è più ferma di un masso nella pianura.

 

Con la nascita del super-gruppo editoriale Mondadori/Rizzoli/Einaudi la capacità produttiva è molto aumentata, ma a questa prolificità non corrisponde la qualità letteraria. Se ne accorgono i lettori incalliti i quali, sempre più spesso, prendono un libro dalla biblioteca pubblica e lo rendono dopo averne lette sì e no venti pagine. Manca la capacità di cooptare il lettore nel mondo della creazione onirica prelevata da un contenitore letterario: questa è la vera natura della magia del libro.

Mancando quella certezza, è inutile sprecar soldi in libreria, magari conviene riprendere in mano un libro già letto molti anni fa dalla propria libreria, o scambiare con altri dei testi. Difatti, molte librerie hanno corretto il tiro, e la libreria è diventata “wine and book”, ossia un luogo d’incontro dove sorseggiare un libro, o sfogliare un buon vino in compagnia. Perché? Poiché il mondo è cambiato e, ad ogni mutamento – osserva Darwin – s’accompagna una mutazione.

 

La Einaudi, fino alla sua vendita al gruppo Mondadori, aveva una serie di lettori proprio a Torino, ai quali affidava il giudizio dei testi che avevano, almeno, superato le cinque o sei cartelle di lettura preventiva: si cercava di mantenere alto il livello di qualità.

Appena Mondadori acquistò la casa editrice, licenziò subito il settore dei lettori: a prima vista, parrebbe un tentativo di limitare le spese, ma non fu solo quello. Grazie alle sue dimensioni il gruppo meditò di diventare egli stesso il “creatore” di un nuovo gusto letterario: se avete presente come cambiò la televisione con l’ingresso di Mediaset nel mondo televisivo, se non proprio concordate con questa tesi, però il sospetto viene, eccome.

Da dove vengono, allora, i libri che si pubblicano?

 

Dalle agenzie letterarie: semplice no? Incarichiamo persone esperte di segnalarci ciò che conviene pubblicare. E’ proprio così semplice?

Le agenzie letterarie, bene o male, si resero presto conto d’esser sedute su una gallina dalle uova d’oro e cominciarono a riflettere: quando mi arriva un testo, come posso giocarmelo meglio se è un buon testo?

Beh…magari segnalandolo ad un autore già noto…meglio ancora rivenderglielo, riveduto e corretto.

 

Prendete un romanzo: cambiate la scenografia generale, la città, se possibile il Paese, poi i nomi dei personaggi. Passate quindi alla scrematura di qualche parte un po’ prolissa e non molto utile: quindi, lo darete in redazione per un severo passaggio sui sinonimi, cambiate titolo ed autore…voilà, il gioco è fatto!

In Italia si pubblicano 75.758 libri l’anno, 207 ogni giorno, 8,7 libri ogni ora, uno ogni 7 minuti: nel tempo impiegato per leggere questo articolo sono stati pubblicati circa 2 o 3 libri. Chi volete che s’accorga di un falso? E, poi, dopo averlo scoperto, vi ritrovereste di fronte al gruppo d’avvocati più agguerrito e coeso della Terra. Che speranza avreste con la giustizia (min) italiana?

 

Oltretutto, le agenzie letterarie si stanno raccogliendo, a loro volta, in super-agenzie consociate, in modo di poter dirigere i gusti dei lettori spacciando “il meglio”, ossia proprio quei 5 o 6 testi che avete abbandonato dopo 20 pagine. Col trascorrere del tempo, quel “meglio” diventerà la colonna sonora per una nuova generazione, come lo sono diventati i quiz in Tv o le soap opera su Netflix: malaffare e corruzione a palate, armi e sesso a volontà, morti sbrindellati in abbondanza e la tecnica del melange fra presente e passato per confondere/incuriosire lo spettatore…certo…non tutte hanno il successo della “Casa di carta”, però gli abbonamenti si vendono…il sistema gira…ma c’è qualcosa d’ancora ricco culturalmente da notare?

 

Tornando ai libri, l’unico fenomeno che fa “muover le stelle” è la speranza, irremovibile di una grossa parte degli scrittori italiani, che non smette mai di postare nuovi testi verso le agenzie. Le quali già abbiamo spiegato cosa fanno e, attenzione: non ho potuto dire di più, perché non voglio dovermi scontare denunce e querele.

In aggiunta, ricordiamo che il mercato della letteratura italiana è di circa 50 milioni di potenziali lettori, mentre gli altri (inglesi e spagnoli) si rivolgono a 500 milioni di persone: se a loro basta scalare uno scoglio di 5 metri, il nostro è di 50.

 

E tutto questo riposa nelle sole mani di Franceschini, il quale da molti anni ha nelle sue mani le soluzioni.

Ma le soluzioni – evidenziate dal Covid, Franceschini – non sono mai giunte: non bastano Firenze, Venezia e Roma per il turismo italiano nelle città d’arte, non basta concedere alle grandi navi da crociera di transitare dentro Venezia – anche se le case si distruggono per il moto ondoso, ed è proprio questo che vi chiedono i veneziani, vero? – perché la cultura, se non si rinnovano le fonti, deperisce fino ad annullarsi: non possiamo solo vivere di cultura antica, altrimenti finiamo come Petra o Leptis Magna dove qualcuno arriva, spende qualcosa e poi se ne va.

 

Altra cosa è creare cultura: in campo letterario, musicale, teatrale, grafico…tutti abbiamo visto il successo degli stilisti italiani – in tutti i campi, dalla moda all’auto – e cos’hanno portato in termini di valore aggiunto alla Nazione.

E, investire qualcosa nella cultura già lo avevo indicato: basta utilizzare i carcerati (a scelta loro e dei direttori dei carceri) per leggere i manoscritti, poi affidare la seconda scelta a neolaureati e, infine, pubblicare i libri vincitori del concorso in forma tascabile grazie al Poligrafico dello Stato.

Non ci vorrebbe tanto, ed anche pochi fondi per realizzarlo: s’obbligherebbero le case editrici e le agenzie editoriali a tornare ad un modo di lavorare più onesto e, ogni anno, migliaia di giovani autori verrebbero a galla.

 

Se non si vuole farlo c’è una sola ragione: il “metodo Berlusconi” ha vinto e stravinto, annichilendo anche la volontà politica. Di questo dovrete rendere conto di fronte al Paese.

12 giugno 2021

La conferenza postbellica di Jalta (quarta ed ultima parte)

 

Josef Mengele, il medico-boia di Auschwitz

Nelle indagini storiche, l’assillo d’ogni ricercatore sono le fonti, che devono essere ampiamente documentate ed affidabili: altrimenti, si è subito cestinati ed accusati di complottismo. Ma c’è un “ma” che molte volte non si nomina che però esiste, eccome.

In fin dei conti, chi scrive veramente la Storia? Gli storici, che traggono le loro fonti dagli archivi, sempre che da quegli archivi non siano passati prima altri e sottratto od immesso quello che loro faceva comodo. Quelli che la Storia hanno il vezzo di “addomesticarla”.

 

L’esempio lampante fu lo storico inglese Hugh Trevor-Roper, autore del famoso libro Gli ultimi giorni di Hitler nel quale cercava di tacitare le molte voci che, soprattutto dai Paesi del Socialismo reale (URSS in testa), accusavano gli Alleati d’aver nascosto Hitler per loro vantaggi.

Lo stesso Trevor-Roper, però, durante la guerra era un agente segreto inglese, in stretto e costante contatto con Wilhelm Canaris, capo indiscusso dei servizi segreti germanici, con il quale tentò d’intessere una trattativa – poi fallita poiché i sovietici mangiarono la foglia – per una pace separata con la Germania. Insomma, per quei due, la Guerra Fredda sarebbe nata con almeno una decina d’anni d’anticipo: a questo punto, fregiarsi del titolo di “storico ufficiale” inglese, mi sembra un poco esagerato.

Quando poi dichiarò autentici i Diari di Hitler nel 1983, subito dopo si scoprì che erano un falso: insomma, molta confusione sotto il cielo…non vi stupirà sapere, allora, che alcune notizie qui riportate provengono, addirittura, dalla prestigiosa e di certo non accusabile di complottismo, Università Luiss di Roma.

 

Il conflitto sul metodo, dunque – ricordando Popper – dovrebbe nascere dal confronto aperto sui contenuti, ed analizzando attentamente anche il cui prodest, senza il quale molte “mosse”, in guerra o in diplomazia, finiscono per non reggere se l’analisi si fa più serrata.

Magari non prestare attenzione a chi spaccia teorie senza la minima prova, ma ascoltare chi pone una serie d’eventi concatenati, segno evidente che lasciano trasparire sospetti molto consistenti: non è un buon affare per la cultura storica, anche se pare acquietare gli animi e tranquillizzare la popolazione.

Quel “andrà tutto bene”, propalato ai quattro venti durante la pandemia, mostra tutti i suoi limiti, sia per le questioni pandemiche e sia per le questioni storiche.

 

Devo confessare che di tutta la vicenda la parte che meno m’impressionò fu la sorte di Hitler, anche se Abel Basti – pur comprendendo le necessità editoriali – intervistò persone che dicevano d’averlo incontrato, e la presenza di Ante Pavelic, il dittatore croato, fu sicuramente documentata nel dopoguerra a Buenos Aires e pare che ci sia stato un incontro fra i due.

Stalin non ci credeva affatto alla morte di Hitler e, alla conferenza di Postdam (a guerra finita) fece sapere come la pensava chiacchierando con un addetto d’ambasciata britannico. “Dove avete nascosto Hitler?” gli chiese, creando un notevole imbarazzo.

Anche Mussolini fece la fine che fece per credere a delle fandonie: lui – pilota – cosa ci avrebbe messo, volando di notte, a decollare dal nuovissimo aeroporto di Linate a rifugiarsi in Spagna da Franco? Ma i servizi segreti italiani non erano quelli tedeschi, è la più ovvia risposta. Oppure Franco non voleva grane e declinò la richiesta? Come vedete, la strada per la Valtellina è zeppa di “bivi” mai indagati.

 

In ogni modo, la figura dei due dittatori era oramai inutile nel nuovo panorama internazionale: erano già iniziati i prodromi della Guerra Fredda.

Lo capirono entrambi: l’interprete del loro ultimo incontro, quello avvenuto dopo l’attentato ad Hitler, intervistato nel dopoguerra, raccontò che a parte la sparata iniziale di Hitler sulle nuove armi che avrebbero…eccetera, eccetera…ascoltato più per cortesia che altro da Mussolini, stettero almeno un’ora a ricordare gioiosamente i loro passati di caporali, uno sul fronte francese (con suo ufficiale Rudolf Hess!) e l’altro sul fronte italiano: avevano creato e gestito un’epoca, e milioni di morti. Erano, usando un termine oggi consueto, “obsoleti”.

 

Gli uomini d’apparato, però, sono preziosi e vengono salvaguardati, anche se hanno commesso qualche “marachella” durante la guerra: ne avemmo anche noi, seppur frettolosamente “tutti assolti” dalle malefatte pre e post belliche.

Ne è un esempio il prefetto di Milano nel 1969, Marcello Guida, il quale indirizzò immediatamente le indagini per la strage di piazza Fontana verso Valpreda e gli anarchici, dimostratosi poi non solo un “indirizzo” sbagliato, ma anche colluso con gli interessi della destra eversiva dell’epoca. Ma chi era Marcello Guida?

Fu, in epoca fascista, commissario e direttore della colonia penale per motivi politici di Ventotene e, nel 1970, il presidente della Camera Sandro Pertini, scendendo dal treno a Milano dove il prefetto era andato a riceverlo in pompa magna, si rifiutò di stringergli la mano.

 

Mentre l’Italia non ebbe grandi “richieste” di personaggi del mondo occulto dei servizi segreti, annessi & connessi, la Germania nel dopoguerra viveva un incubo: suddivisa in quattro settori, uno comunista e tre (s)governati dagli alleati, fino al 1950 restò letteralmente alla fame. Bisognava farle pagare le bombe su Londra e, soprattutto gli inglesi, si misero con impegno a farlo.

Molti tedeschi abbandonarono la Germania in quegli anni, ma c’era chi non poteva farlo alla luce del sole, perché mostrare un documento poteva trasformarsi in un capo d’accusa di fronte ad un tribunale militare. Qui, tornarono utili le vecchie conoscenze, in luoghi vissuti per secoli come contee tedesche e che ora, per i ghiribizzi della Storia, languivano sotto il tacco italiano.

 

Non era difficile giungere fino a Vipiteno (Sterzing) o recarsi in altre località della ex Operationszone Alpenvorland, che fino al Maggio del 1945 conteneva il Trentino, l'Alto Adige e la Provincia di Belluno sotto la Germania nazista: lì, c’erano ancora molti amici. E proprio in quelle zone iniziò la “rat-line” (via dei topi), ossia il percorso che portava gli ex nazisti a ricevere nuove identità e documenti italiani, poi a Roma, dove soprattutto i religiosi croati “sistemarono” centinaia di persone, quindi a Genova, dove il cardinal Siri li imbarcava, con la buona volontà dei Costa, sulle navi e li spediva in Sudamerica. Che gioielli di bontà cristiana: tutto sotto gli occhi di Pio XII, che era stato nunzio apostolico per molti anni in Germania (firmando nel 1933 un Concordato dove riconosceva il partito nazista) e, nel 1936, come Segretario di Stato aveva soggiornato a lungo in Argentina.

 

La domanda da porsi è allora: perché gli americani strinsero quel patto scellerato con quella gente? Che, notiamo, in larghissima parte abbandonò la Germania, la quale era timorosa d’essere accusata di nazismo per secoli: molti comportamenti, ad esempio, sono tollerati più in Italia o Spagna che in Germania. Lo Horst Wessel Lied, l’inno nazista, in Germania è reato suonarlo ed ascoltarlo, e la legge viene fatta rispettare.

 

Quando, se ben ricordo era il 2003, mia figlia si recò in Argentina con il fidanzato per conoscere la sua famiglia le chiesi, qualora si fosse ritrovata a San Carlos de Bariloche – considerata il rifugio dei nazisti argentini – di telefonarmi, e lo fece.

Qui era Estate e laggiù Inverno, sotto i contrafforti delle Ande: mia figlia desiderava darmi delle informazioni, anche se il gelo sentivo che l’attanagliava, ma avvertivo che non sapeva cosa raccontarmi. Sì…sulla piazza c’era una birreria in stile bavarese…ma che prova è? Magari possiamo trovarla anche a Roma od a Bari. Le case erano in stile nordico, ma erano quasi sulle Ande…la notizia più curiosa fu che, lì vicino, era sopravvissuta una comune hippie da anni lontani e che erano diventati famosi perché costruivano delle bellissime stufe in terracotta.

Ciò che pensai, mentre lei parlava, fu che si trovava in un teatro di posa abbandonato.

 

Un teatro di posa che era servito, per molti anni, per immagazzinare, controllare e decidere la destinazione di ricchezze inaudite: per noi italiani, la fine – mai conosciuta – dell’Oro della Banca d’Italia trafugato dapprima a Fortezza, in Alto Adige. La parte sparita e mai recuperata ammontava a due tranches del 1944, una di circa 64 tonnellate confluite nella Reichsbank di Berlino e l’altra di circa 7 tonnellate prelevata dal Ministero degli Esteri tedesco. In totale, circa 71 tonnellate mai ritrovate, e viene da chiedersi cos’avessero trasportato i sottomarini a San Matias: 71 tonnellate erano il carico di due sottomarini e mezzo, se le nostre ipotesi del capitolo precedente sono corrette.

 

Ma, se da una parte i servizi americani tollerarono questi traffici, dall’altra chiesero qualcosa in cambio.

Anzitutto, la democrazia in Argentina era un optional: dal 1950 al 1970 l’economia crebbe parecchio e la povertà diminuì fino a toccare un valore minimo del 7% (forse anche grazie all’enorme ricchezza precipitata sull’Argentina?). I governi democratici si succedevano a periodi dittatoriali, fino al 1976, quando prese il potere la giunta Videla. Lì, fu la catastrofe con almeno 30.000 desaparecidos, persone scomparse e mai più ritrovate.

Parallelamente, in Cile nel 1973 andava in scena la seconda rappresentazione: il golpe militare del generale Pinochet, che inaugurò un periodo di disgrazie e morti senza fine.

Mentre la presenza e l’attività di Klaus Barbie – il boia di Lione – è documentata in Argentina ed in Bolivia, quella di Walter Rauff, SS-Obersturmbannführer (simile a Colonnello) nelle SS è documentata in Cile, dove godette della protezione di Pinochet fino alla sua morte, avvenuta nel 1984.

Fra Cile, Argentina, Bolivia e Brasile non si conosce il numero delle vittime né la precisa identità dei loro assassini: si sa che il neofascista italiano Stefano delle Chiaie operò in Argentina sotto la dittatura e poi in Bolivia, in quel grande intervento che prese poi il nome di Operazione Condor. I nazisti, probabilmente operarono dietro alle quinte, senza intervenire direttamente, ma delle tracce le lasciarono, ben evidenti.

 

Colonia Dignidad fu una di queste.

Un orrore nazista, creato nel 1961 da un ex caporale della Wermacht, medico o infermiere che sia stato (un medico caporale?): Paul Schäfer, a 350 chilometri da Santiago del Cile, costruì un campo dove una apparente setta idolatrava il loro leader, pedofilo e nazista fino al midollo, con un annesso ospedale dove un medico (?) tedesco, Harmut Hopp, riforniva di bambini il suo capo, mentre altri li utilizzava come cavie per i suoi esperimenti. Pare che da Colonia Dignidad sia passato anche Josef Mengele, il medico-boia di Auschwitz: non vi è la certezza, ma il marchio sembra proprio il suo.

Nel campo era proibita qualsiasi attività sessuale e, grazie agli psicofarmaci, la gente viveva imbambolata più che tranquilla. D’altro canto, un “campo” circondato da un recinto elettrificato qualche ricordo lo fa rinvenire, e non sono bei ricordi.

 

Vissuto per molti anni nella totale indifferenza, il “campo” divenne tristemente famoso dopo il golpe di Pinochet del 1973, quando parecchi “indesiderati” gli fecero visita e scomparirono per sempre. Sotto Pinochet, il campo fu inviolabile: nessun magistrato poteva indagare e chi lo faceva veniva trasferito, se insisteva spariva. D’altro canto, la presenza della DIMA – la polizia segreta del regime d Pinochet – era abituale a Colonia Dignidad.

Quando, finalmente, in anni recenti si riuscì a penetrare nel “campo”, si scoprirono depositi di armi e di munizioni, molte risalenti all’ultimo conflitto mondiale e, ben celato sotto terra ma perfettamente funzionante, addirittura un carro armato.

Harmut Hopp, il “medico” dell’ospedale, condannato in Cile, è tornato in Germania dove vive libero, mentre Schäfer è morto a Santiago nel 2005 in carcere, dopo essere scappato in Argentina e ripreso.

 

Colonia Dignidad fu scoperta per la fuga di un suo “adepto” che rivelò al mondo quella ignobile presenza: ma quante sopravvissero, in silenzio, sia come “campi di adepti” o come semplici strutture dei servizi segreti? In fin dei conti, agli USA interessava soprattutto il Rame cileno e che l’URSS non mettesse piede in Sudamerica: paradossale, ma  gli aerei che bombardarono il palazzo della Moneda, uccidendo il presidente Allende, erano Mig-21 cileni.

 

Così, la lista di nomi che segue (probabilmente molto incompleta) è tutta composta da gente scomparsa in Europa e ricomparsa in Sudamerica, e mai più tornata per affrontare la giustizia nei Paesi dove l’avevano offesa (salvo Eichmann e Priebke):

 

Josef Mengele, Adolf Eichmann, Klaus Barbie, Gerhard Bohne, Walter Kutschmann, Erich Priebke, Erich Muller, Walter Rauff, Josef Schwammberger…ed i meno noti:

-Ludolf von Alvensleben, ex ufficiale delle SS in Russia.

-Josif Berkovic, fascista croato.

Gerard Blaton, collaborazionista belga.

-Michel Boussemaere, fondò l’associazione Vlaanderren in Argentiniae.

- Bytebier Gerard, collaborazionista belga condannato a morte.

-Bytebier Michel, suo fratello.

-Franz Calcoen, già condannato a Bruges.

-Kurt Christmann, ex ufficiale delle SS e colonnello della Gestapo.

-Pierre Daye, collaborazionista belga.

-Jan Durcanksy, ministro della Repubblica indipendente slovacca.

-Erwin Fleiss,capo delle SS nel Tirolo.

-Fridolin Guth, partecipò al fallito colpo di stato austriaco del 1934.

-Hans Friedrich Heffelmann, accusato di aver preso parte al programma di eutanasia di Hitler.

-Friedrich Rauch, ex ufficiale delle SS e vicino al Fuhrer.

-Eduard Roschmann, ex comandante del ghetto di Riga.

-Bilanovic Vjubomir Sakic, ex comandante del campo di concentramento di Jasenovac, Croazia.

-Franz Votterl, ex dirigente della Gestapo e ufficiale delle SS.

-Guido Zimmer, ex comandante delle SS a Genova.

-Albert Rits, ex ufficiale delle SS.

-Fritz Lantschner, coinvolto nel colpo di stato in Tirolo del 1934.

 

Queste persone, però, giunsero in Argentina tramite la cosiddetta “rat-line” ossia le protezioni e le falsificazioni delle identità in gran parte create in Alto Adige e poi in Italia, come ricordavamo all’inizio, ma viene da pensare che prima giunsero delle “avanguardie” le quali, per prima cosa s’incaricarono di spostare in Argentina le copiose ricchezze rapinate in tutta Europa dai nazisti e quindi di sistemare degnamente i “profughi” che arrivavano dall’Europa. Ecco perché, all’epoca, San Carlos de Bariloche era un “teatro” molto attivo divenuto, nel 2003 (quando ci passò mia figlia) un teatro di posa abbandonato.

C’è inoltre da ricordare che la Spagna, anche se oramai controllata più rigidamente dagli ex-Alleati, forse chiuse più di un occhio a cavallo del 1950, e nessuno poteva controllare chi partiva da Vigo per il Sudamerica, soprattutto se dotati di documenti falsi e d’identità non facilmente riconoscibili: d’altro canto, lo faceva tranquillamente anche l’Italia.

Non dimentichiamo, inoltre, che tutto avveniva con la bonaria distrazione dei servizi segreti americani, che ebbero poi molti contatti con quella gente: ricordiamo che, dopo il 1970, ci fu un momento nel quale nell’America Latina non ci fu più un solo governo democratico.

 

In fin dei conti, non sappiamo quanti ex nazisti giunsero in Sudamerica – probabilmente, i nomi scoperti sono soltanto la punta dell’iceberg – e la Storia ufficiale ha taciuto, sia per i limiti di ricerca attuati dai servizi segreti di mezzo mondo ed altri storici per aperta collusione.

Allora, vista la situazione di stallo nella quale gli storici si sono trovati, perché continuare a negare l’evidenza di moltissime prove che indicherebbero la sopravvivenza di un’ideologia perversa e soltanto utile a fini strategici?

In fin dei conti, la guerra al bolscevismo inaugurata da Hitler continuò in America Latina, oggi forse connotata più dai grandi cartelli internazionali del traffico di droga piuttosto che da ideologie anticomuniste ma, comunque si voglia definirlo, un brutale assassinio della tanto sbandierata democrazia.

 

Chissà se un giorno, cancellati gli omissis dai documenti secretati, i nostri nipoti sapranno veramente quel che è accaduto.

09 giugno 2021

La conferenza postbellica di Jalta (terza parte)

 

Il golfo di San Matias, oggi, in Argentina

Nel Maggio del 1982, durante la guerra delle Falkland/Malvinas, una fregata antisommergibile argentina navigava lentamente al largo del Golfo di San Matias, circa 500 chilometri a Sud di Buenos Aires: il sonar di bordo dava la caccia ad un eventuale sommergibile inglese che navigasse da quelle parti.

Un bimotore dell’aeronautica volava con rotta Sud con pressappoco gli stessi compiti della fregata: il Paese era in guerra contro la Gran Bretagna, e tutti dovevano cercare i maledetti inglesi.

Vide in lontananza la fregata argentina e, a scanso d’equivoci, la chiamò con la radio. “Tutto tranquillo, qui sotto non c’è niente…e da lì, si vede qualcosa?” “Niente, anche da qui niente, bella giornata per esser già Autunno, vero?” “Già, proprio una bella giornata…adios amigo…”

 

“Adios…” ma il pilota osservò meglio e, sotto le onde, gli parve proprio di aver notato per pochi attimi la sagoma di un sommergibile: virò di bordo compiendo un largo cerchio per tornare dov’era pochi minuti prima. Si abbassò, e fu allora che lo vide. “Attenzione: avete un sottomarino a poppa! Presto! Attenti!” urlò nella radio.

In pochi secondi il mare, a poppa della fregata, divenne bianco di spuma a causa dei motori che ruggivano per allontanarsi rapidamente. L’aereo compì un altro giro, si portò sulla verticale del rilevamento visivo e, senza aspettare altro, sganciò due bombe di profondità, che scoppiarono dopo una manciata di secondi. Anche la fregata virò di bordo e si portò dove aveva visto scoppiare le bombe: per sicurezza, ne aggiunse quattro delle sue. Altri geyser d’acqua del limpido Autunno argentino. Poi, si mise in ascolto col sonar: niente, nessun rumore, né d’eliche che fuggivano e neppure di paratie che si schiantavano. Entrambi fecero rapporto ai loro comandi che li elogiarono per l’azione congiunta. Amen.

 

In realtà, non era il primo falso avvistamento: era da anni che molti avevano notato qualcosa di simile in quelle acque, al punto che i pescherecci passavano lontani per non rimetterci le reti. Anche gli ufologi hanno trovato storie interessanti per i loro lettori: condendo il tutto con luci verdi e un poco di suspense, riuscivano ad accalappiare i loro lettori.

 

Prima di proseguire, però, dobbiamo fare la conoscenza di Abel Basti, un giornalista argentino che ha trascorso la vita a ricostruire l’avventura del nazismo in Sudamerica. Pazientemente, negli anni, ha raccolto testimonianze e concatenato indizi, al punto di sostenere che Hitler non morì nel bunker di Berlino, bensì fuggì in Argentina ed in altri Paesi del Sudamerica.

In questa sua lunga ricerca sono venuti alla luce molti nomi – uno l’abbiamo avuto sui nostri giornali, Erik Priebke, il “contabile” delle Fosse Ardeatine – ma tanti altri si nascosero in molti luoghi ed oramai sono morti da tempo.

Recentemente, durante dei lavori di risistemazione del Credit Suisse, sono stati trovati 12.000 nominativi di ex nazisti che avevano conti milionari proprio in quella banca, quando era ancora la tedesca Schweizerische Kreditanstalt: non possono non essere sospettati quei 3 miliardi di marchi ricevuti per i 1.000 passaporti in bianco, oppure qualche carico d’Oro giunto chissà come?

 

Uno dei pregi di Abel Basti è proprio quello d’essere completamente ignorato dalla stampa anglosassone: recentemente, una piccola casa editrice italiana ha pubblicato un suo libro, ma il resto non varca il confine della lingua castigliana, ossia lo spagnolo. E, spesso, viene presentato come un visionario: userò, in questo articolo, alcune delle sue ricerche insieme ad altre, riconducibili ad altre fonti, ma la mia stima per il giornalismo di Abel Basti è infinita.

 

Tornando al 1945, pare proprio che il golfo di San Matias – un posto quasi deserto – fosse diventato uno dei luoghi più gettonati della Terra. Nell’unico commissariato di San Antonio Oeste, l’unico commissario era tempestato di richieste, stranezze, avvistamenti...e quant’altro la popolazione gli raccontava. Ed erano tutte concordi quelle voci: sottomarini sconosciuti navigavano al largo, poi s’avvicinavano a terra, tornavano al largo…alcuni pescatori avevano addirittura notato quei grossi battelli rifornirsi da petroliere argentine.

E lui, cosa poteva fare? Aveva solo una barchetta…giusto per girare in porto…che andassero a lamentarsi a Bahia Blanca o a Mar del Plata dove c’era la Marina!

Un giorno, però, un abitane del luogo andò a riferirgli che al Sud della Baia, proprio di fronte a dove sorgeva l’immensa tenuta di un piantatore tedesco, c’era stato movimento. Non sapeva dire di più…però rumori d’autocarri o trattori…voci, luci nella notte…in un posto dove, in genere, regnava il silenzio più assoluto, soprattutto la notte.

Va bene…andrò a vedere…chiamò due poliziotti del suo comando, salirono in auto e scesero verso Sud: quando intravidero, in lontananza, i grandi edifici e la sontuosa villa della tenuta, scesero fino alla spiaggia.

 

Là giunti, capirono immediatamente che qualcosa d’importante era capitato: sulla sabbia, che l’Oceano in fretta cancellava, erano impresse nitide orme di camion, forse trattori o cingolati…doveva essere successo proprio un bell’ambaradan, pensò il commissario. Decise di salire fino alla tenuta, che si trovava a qualche centinaio di metri dalla spiaggia, per chiedere cosa sapessero della strana vicenda.

Camminarono sulla via sterrata del bosco, proprio fra le orme nitide e ben incise nella rena, segno che di lì era passato qualcosa di molto pesante…ma alla villa non giunsero mai…perché, improvvisamente, si trovarono inquadrati da quattro mitragliette dietro le quali c’erano quattro SS in divisa, che fecero loro segno di girare i tacchi e d’andarsene.

Prima d’obbedire, il commissario riuscì a “fotografare” nella sua mente l’immagine: erano proprio quattro SS…notò le mostrine nere, il piccolo stemma sull’elmetto ed i mitragliatori che maneggiavano erano i classici Schmeisser tedeschi. In seguito, e sotto altri cieli sarebbero diventati, con qualche modifica, il primo Kalashnikov. Dopo quella “fotografia” visiva fece un cenno di saluto, girò i tacchi ed i tre tornarono verso la spiaggia.

 

Il commissario era tranquillo, gli agenti un po’ meno…ma li tranquillizzò…vedrete, domani come li concio…certo – pensò – stilare un rapporto dove racconto d’esser stato fermato sotto la minaccia di quattro SS…e chi mi crederà?

Il giorno seguente si recò a Bahia Blanca, dove c’era il suo superiore diretto e gli raccontò l’incredibile avventura, siglata in un preciso rapporto che, per prudenza, aveva fatto leggere e controfirmare anche ai due agenti.

Il superiore gradì molto il rapporto, si complimentò con il commissario per la sua arguzia – ma anche per la sua prudenza – e gli comunicò che, da quel momento, la cosa era di sua competenza e degli alti gradi della Polizia: gli raccomandò di dimenticare la brutta vicenda, ci avrebbe pensato lui. Il commissario però, tornato al suo commissariato, rifletté sulla cosa: non c’era stato, da parte del suo superiore, il minimo cenno di sorpresa o di dubbio, d’incredibilità.

In fin dei conti, però, lui aveva fatto il suo dovere e, consegnando il rapporto, non aveva più compiti per quella storiaccia. Perciò, si dimenticò di tutto e riprese la vita di tutti i giorni: i “superiori” non si fecero più vivi e non citarono mai più la storia. Amen.

 

La “cosa” la riprese in mano Abel Basti, decenni dopo, quando intervistò e filmò le stesse persone che avevano, in gioventù, raccontato le medesime cose al commissario. Anche lo scrittore volle recarsi su quella spiaggia, parlò con la gente e, finalmente, un pescatore gli chiese di salire sulla sua barca.

Insieme, passarono la linea dei frangenti e giunsero in mare aperto: dopo qualche minuto e guardando sempre a terra il pescatore, come per fare un rilevamento visivo, arrestò il motore e si mise ai remi.

 

Il mare era calmo e limpido lontano dai frangenti della costa ed il pescatore remava in piedi, osservando sempre quei misteriosi punti a terra. Dopo un po’ si fermò e gli disse: “vai a prua ed osserva il fondo con attenzione”.

Lo scrittore si sporse dalla prua ma, lì per lì, non vide altro che sabbia sul fondo. “Osserva meglio” lo riprese il pescatore dando, ogni tanto, un leggero colpo di remi.

Solo allora si accorse che la sabbia non era uniforme: pareva quasi che si fosse adagiata su qualcosa di grande, lungo e tondo…improvvisamente un fulmine gli attraversò la mente: un sottomarino!

Solo allora il pescatore raccontò la sua storia, che Basti annotò con cura.

 

“Mio padre” iniziò il pescatore “quella notte era qui, anzi…un poco più a Sud e stava gettando la rete. Forse la sua fortuna fu proprio quella d’essere fermo e più lontano, con una barca modesta, a gettare la rete e nessuno se n’accorse, altrimenti dubito che l’avrebbe raccontata.

I sottomarini erano tre o quattro e s’erano arrestati poco prima della linea dei frangenti, dove c’era ancora un poco di fondo per quei bestioni. Dalle loro pance vomitavano fuori ogni genere di mercanzia, tutto sigillato nelle casse di legno…due grandi motobarche – che mai aveva visto da queste parti – facevano la spola fra i sottomarini e la spiaggia, dove venivano scaricate da molti uomini e caricate su camion e rimorchi che dei trattori conducevano nel bosco, molto probabilmente fino alla villa, da dove parte una strada che confluisce sulla grande arteria che porta dal Nord fino alla Terra del Fuoco.

Lo scarico andò avanti tutta la notte: mio padre rimase nell’ombra perché le uniche luci erano il riverbero che scaturiva dai boccaporti dei sottomarini, mentre a terra erano solo i fari dei camion a fare un po’ di luce. Tutta l’operazione mostrava d’esser stata progettata con cura e gli uomini addetti alle barche ed alle fasi di caricamento erano moltissimi, e tutti si muovevano come se avessero previsto tutto quello che dovevano fare senza una parola, un grido, una risata.

Terminato lo scaricamento, scesero gli equipaggi dei sottomarini mentre quei bestioni, lentamente e senza il minimo rumore si allontanarono dalla costa: dopo circa un’ora, tornarono a terra dei canotti pneumatici con pochi uomini a bordo. Mio padre, all’epoca, non capì perché quegli uomini tornassero separatamente dagli altri sui battelli pneumatici ma, trascorso qualche tempo, quando le reti iniziarono ad impigliarsi sul fondo, qualcuno notò quei grossi ostacoli, oramai coperti di reti e di sabbia e mio padre comprese che quella piccola pattuglia aveva il compito d’affondare i sottomarini in acque profonde.

Forse fu la stanchezza, forse la fretta oppure l’alba che s’appressava e la stima della distanza dalla costa li trasse in inganno: i sottomarini sono posati su un fondale di 30-40 metri che, all’epoca, consentiva nelle giornate di mare calmo d’osservarne le ombre sul fondo. Forse dovevano condurli più al largo…non capì mai il motivo della fretta…ma, all’epoca, non esistevano ancora le odierne attrezzature per l’immersione e l’immersione con l’Ossigeno – già praticata all’epoca – non consentiva di scendere più di 12-15 metri, pena la morte e forse pensarono, semplicemente, che nessuno se ne sarebbe accorto o sarebbe potuto immergersi per indagare.

In quegli anni, oltre a mio padre anche qualcun altro doveva essere in mare perché – nonostante mio padre comprese subito che era meglio non parlarne con nessuno – fiorirono dei racconti fantasiosi: qualcuno raccontò di una coppia che scese sulla barca circondata da alti ufficiali, ma mio padre non vide nulla del genere perché, alla distanza cui si trovava, non poteva distinguere il sesso o le uniformi delle persone sui sottomarini.  

Quando comparve l’aurora, pareva che non fosse successo niente: le grandi barche a motore erano scomparse, tutta quella gente s’era volatilizzata…camion, sottomarini, più niente…mio padre ritirò la rete e tornò in porto. Tutto qui.”

 

Anzitutto, dobbiamo chiederci perché quel pescatore parlò: ma erano gli ultimi anni del millennio, forse già i primi di quello nuovo e l’Argentina s’era oramai lasciata alle spalle la dittatura da molti anni. Oramai la democrazia era solida e s’alternavano, al comando, destra e sinistra come un minuetto. E poi, era una storia strana solo per gli altri, per i gringo e gli europei…mica per loro…che queste storie le avevano ascoltate da padri e madri già quand’erano bambini.

Abel Basti si recò a Buenos Aires e fece una richiesta ufficiale alla Marina perché mandasse qualche sommozzatore ad osservare se c’erano e cos’erano quei mostri sotto le onde, ma la Marina rispose che non aveva soldi da sprecare per delle ricerche inutili. Avvisò, dunque, che lui stesso avrebbe incaricato un paio di sommozzatori per andare a vedere: la Marina rispose che le immersioni, nel golfo di San Matias erano proibite a causa delle pericolose correnti. Ribatté che liberava la Marina da qualsiasi responsabilità in merito e, questa volta, gli rispose il ministero dell’Interno: ricordando che su quel tipo d’indagini vigeva il segreto di Stato. Amen.

 

Stupisce osservare, a così tanti anni di distanza, come le operazioni segrete della Germania in Argentina ebbero una pianificazione certosina, iniziata già negli anni ’30 con mezzi di penetrazione finanziaria, con loro uomini nelle istituzioni, proseguita durante la guerra con l’installazione di stazioni radio che tenevano d’occhio il movimento dei convogli britannici e lo comunicavano a Berlino e conclusa…conclusa…quando?

Doenitz, a metà del 1944, ordinò ai sommergibili di non operare più in Atlantico sotto il 18° parallelo che, guarda a caso, corrisponde proprio alle coste argentine. Perché?

Poiché, per prima cosa, gli Alleati avrebbero trascurato di pattugliare l’immensa area, come fecero, ma ai tedeschi quel “risparmio” conveniva? Le navi inglesi ed americane si sarebbero sposate più a Nord, dando la caccia ai tedeschi in una zona meno ampia. E i tedeschi si privavano di una zona di “caccia” in mare molto vasta e difficilmente controllabile, soprattutto per i convogli che doppiavano il Capo di Buona Speranza per immettersi in Atlantico?

Doveva essere un motivo importante e vitale. Per la guerra? Doenitz, oramai sapeva che era perduta difatti, proprio in quei mesi, raggiunse il massimo numero di sommergibili operativi – più di 400 – semplicemente perché limitò le missioni, oramai diventate quasi tutte missioni suicide. Li teneva in porto, al massimo li mandava a Bergen perché l’Artico, in Inverno, consentiva maggior protezione da navi ed aerei Alleati.

L’Argentina era il luogo “sicuro e protetto” come lui stesso aveva fumosamente indicato? Allora, bisognava tenerci lontani gli Alleati. Quadra perfettamente.

 

Se la popolazione si fosse allarmata nel vedere sommergibili vicino alle coste argentine, i tedeschi avevano preparato tutto…li fecero arrivare alla luce del sole…per arrendersi!

Qui posso confermare, per conoscenza personale, cosa avvenne.

 

Mia figlia fu fidanzata per qualche tempo, una ventina di anni fa, con un ufficiale di Marina argentino d’origine italiana. Si recò in Argentina  la girò in lungo ed in largo e il fidanzato venne a conoscermi mentre la sua nave era in porto a Capodistria.

Ricordo ancora il giovanotto, seduto sul divano di fronte a me, che mi raccontava la storia della sua famiglia, nata italiana e diventata argentina.

Era una famiglia che con il mare aveva vissuto per generazioni: in Argentina non esistono Istituti Nautici e l’unico modo per diventare ufficiale di Marina Mercantile è diventarlo nell’Armada.

Il padre dovette salire, con le pale in mano, per staccare i cadaveri dalle pareti della stiva dell’incrociatore General Belgrano, silurato dagli inglesi nella guerra del 1982.

 

Il nonno, invece – nato ancora in Italia, all’Elba – si trovava di guardia, la mattina del 10 Luglio 1945 (la Germania s’era arresa due mesi prima) a Mar del Plata, uno dei principali porti argentini: ricordiamo che il 10 Luglio dell’emisfero australe corrisponde, meteorologicamente, al 10 Gennaio dell’emisfero boreale.

 

Il povero marinaio si trovava nella torretta di controllo del porto e la bruma invernale e mattutina lasciava intravedere poco o nulla di ciò che gli era attorno: probabilmente ascoltava la radio o si riscaldava un po’ di caffè dal bricco del fornello ad alcool che gli teneva compagnia.

Possiamo immaginare quando, gettando l’occhio sul tranquillo bacino del porto, vide sbucare dalla bruma un sommergibile tedesco con tanto di bandiera del III Reich al picco. Rimase gelato.

Oltretutto, il sommergibile aveva un cannone in coperta, che gli pareva puntato proprio contro di lui e parecchi marinai in coperta, mentre un ufficiale con il binocolo pareva scrutarlo col binocolo dalla torretta.

Eppure, anche se a quell’ora era solo, doveva scendere per capire cosa stava succedendo ma scese dalla torre disarmato: se questi la mettono giù dura, sia chiaro che io m’arrendo.

 

Quando fu a lato del sommergibile, oramai fermo, i marinai gli gettarono le cime che lui, conciliante, assicurò subito alle bitte. Poi, scese un ufficiale: forse il comandante? Gli parlò con cortesia, ma lui non capiva niente di quello che diceva: insomma, per farla breve, non riusciva a capire chi doveva arrendersi ed a chi.

Prima che scoccassero le fatidiche 8 del mattino ed il porto riprendesse a vivere, i tedeschi avevano già messo a terra una passerella e se la stavano filando di gran carriera: uscirono dal porto e se la diedero a gambe per chissà dove. In pochi minuti l’U-530 fu quasi deserto, salvo qualche ufficiale che rimase a bordo e lui, dopo essersi riavuto dalla sorpresa, corse a telefonare ai suoi superiori per dire loro che…dunque…c’era un sommergibile tedesco ormeggiato e lui non capiva cosa volessero e cosa dovesse fare…insomma, aiuto!

L’Oberleutnant zur See Otto Wermuth, il comandante, era però una persona gentile e comprensiva: quando giunse finalmente un ufficiale che parlava inglese dichiarò di volersi arrendere. E l’equipaggio? Allargò le braccia sconsolato: eh, sono scappati…

 

L’U-530 non stupì molto gli americani – prontamente accorsi, ed oramai “alleati” dell’Argentina dopo la tardiva dichiarazione di guerra alla Germania del Marzo 1945 (!), ultimo Paese del Sudamerica ad attuarla  – perché si trattava di un sommergibile moderno e di grande autonomia (tipo IX C), in grado di raggiungere l’Argentina con i propri mezzi. Dotato, inoltre, di radar e snorkel: che avesse fatto la scorta ai veri sottomarini di San Matias? Eppure, non un solo siluro mancava all’appello.

Wermuth fu interrogato a lungo dagli americani, ma non uscì nulla d’interessante. Avevano l’autonomia per raggiungerla, invece di finire in un campo di raccolta per prigionieri inglese: perché non farlo?

 

Diversa fu, invece, la situazione dell’U-977 quando giunse, il 17 Agosto 1945, ad arrendersi pure lui a Mar del Plata. Ma pensa te: invece di recarsi a Portsmouth per arrendersi, calano fino in Argentina, proprio dietro l’angolo.

Prima di tutto il sommergibile comandato dall’ Oberleutnant zur See Heinz Schäffer era un sommergibile di media crociera (tipo VII C), in grado di raggiungere con gran difficoltà l’Argentina o di non riuscirci affatto, col rischio di rimanere senza gasolio in pieno oceano.

Inoltre, mentre l’U-530 era in perfetto ordine e perfettamente funzionante, l’U-977 era sporco, disordinato e mancavano all’appello alcuni siluri. Il comandante dichiarò d’essersi fermato alle isole di Capo Verde “per dare un bagno all’equipaggio”, poi fu sospettato dell’affondamento – a guerra terminata – del vecchio incrociatore brasiliano Bahia, ma il comandante si difese affermando che, all’epoca dell’affondamento del Bahia, si trovava ancora in acque nordamericane. Ma se si trovava in acque americane, dopo aver attraversato l’Atlantico, come aveva fatto a raggiungere l’Argentina? Non aveva sufficiente autonomia! E i siluri mancanti?

Gli americani requisirono i due sommergibili, interrogarono a lungo i due comandanti, per sicurezza secretarono gli interrogatori con valanghe di “omissis” e, qualche anno dopo, i due tornarono in Germania, per scrivere libri sulle loro avventure e, soprattutto, sulla loro innocenza da qualsiasi intrigo. Gli equipaggi – ossia i pochi che ritrovarono – scelsero d’andare dove volevano: i più, rimasero in Sudamerica.

 

Se le vicende dei due sommergibili sono molto diverse o più o meno credibili, dobbiamo riconoscere che – affiancandoli ai (presunti) veri sottomarini di San Matias – erano la ciliegina sulla torta. Avete notato dei sommergibili? Eh, stavano navigando per arrendersi in Argentina…

Difficile anche ipotizzare un loro carico per l’Argentina, giacché (soprattutto l’U-977) non avevano spazio di carico quasi per niente. Però, l’attenzione internazionale (molto scarsa) si concentrò sui due sommergibili che s’erano arresi e dimenticò in fretta il golfo di San Matias, almeno i pochi argentini che erano a conoscenza di quelle vicende. Amen.

 

I sottomarini del tipo XXI potevano essere usati come navi da carico? Entro certi limiti, assolutamente sì.

I sottomarini tipo XXI erano molto grandi, stazzavano circa 2000 tls, il doppio dei loro predecessori, ed avevano 6 lanciasiluri a prua: non servivano più i lanciasiluri di poppa, giacché si poteva inserire qualsiasi angolo di deviazione prima del lancio. Ma, avevano ben 17 siluri di riserva conservati in un apposito locale a poppavia della camera di lancio:

 

Disegni dell'epoca di Type XXI

Ogni siluro pesava 1,5 tonnellate perciò, se consideriamo che nel lungo viaggio l’imperativo era di non farsi scoprire, i siluri di riserva erano inutili. Oltretutto, l’equipaggio di missione standard era di 57 persone le quali, in un lungo viaggio soltanto di trasferimento, non erano più necessarie: ad esempio, tutti i siluristi o gli addetti alle armi contraeree non servivano. Si può ipotizzare un peso di 30 tonnellate risparmiato. Ricordiamo che 100 uomini con bagaglio leggero pesano intorno alle 10 tonnellate, solo per fare un esempio:

 

Il compartimento di prua, senza siluri ed adatto per il carico di 30 t

Il vano di carico, dunque, era uno spazio lungo circa una decina di metri, largo 5-6 metri con un’altezza di 3-4 metri, in grado di ospitare merci per 30 tonnellate, che potevano essere bilanciate (entro certi limiti) con lo spostamento di acqua fra le casse di compenso di prua e di poppa, mantenendo così il sottomarino in assetto. Forse lasciarono uno stretto passaggio fino alla camera di lancio, oppure ignorarono anche quel problema, ossia un improbabile combattimento.

 

Il carico di questi mezzi fu soprattutto Oro e metalli preziosi, pietre preziose, opere d’arte, valuta ed armi: almeno, ciò che possiamo ipotizzare. Probabilmente anche prodotti chimici e/o medicinali di varia natura, ma non possiamo andare oltre nelle ipotesi.

Molto probabilmente, il carico era un mix di persone e merci, considerando il risparmio di personale dalla tabella standard d’armamento: forse una ventina di passeggeri ed il resto tutto destinato a carichi molto “paganti”, in ogni senso, se consideriamo che a Colonia Dignidad (come vedremo in seguito) furono trovate molte armi dell’epoca.

Se, veramente, l’Argentina potesse togliere il segreto di Stato su quei sottomarini affondati in trenta metri d’acqua, avremmo delle risposte, ma temo che – se ci fosse quel pericolo – alcune salve di bombe di profondità cancellerebbero tutto, anche se i relitti – comunque – sarebbero facilmente riconoscibili.

Ma, per ora, nessun governo argentino di destra o sinistra, di golpisti o democratici, d’alto o basso profilo, l’ha fatto. Amen.

 

Continua nelle quarta parte, perché la storia da raccontare è ancora lunga.

07 giugno 2021

La conferenza postbellica di Jalta (seconda parte)

 

Il sottomarino Wilheilm Bauer,  ex tipo XXI della 2° Guerra Mondiale

La Germania del 1939 era una gabbia zeppa di lupi, e quasi tutti volevano la guerra: il problema – si fa per dire – è che nessuno sognava una guerra identica a quella dell’altro.

C’era chi voleva una guerra per abbattere il bolscevismo sovietico, chi contro la Francia per vendetta nei confronti della pace di Versailles del 1919, chi vedeva rosso soltanto a pensare all’Impero Britannico…chi tornava dall’emigrazione negli USA per aiutare la Patria, chi vedeva un alleato nell’Italia, altri non si fidavano per niente degli italiani, chi voleva gli spagnoli al loro fianco…chi rammentava le antiche saghe vichinghe…probabilmente l’alleato più sconosciuto era il Giappone: lontano, misterioso, sconosciuto.

 

I primi due anni di guerra andarono bene per la Germania, ma già nel 1941 le cose presero a precipitare: prima ancora di Pearl Harbour Hitler decise la sua guerra contro il bolscevismo, sicuro che la Gran Bretagna avrebbe senz’altro capito…ma insomma…come si fa a non capire che stiamo dalla stessa parte?

Hitler desiderava iniziare le guerra fredda con una decina d’anni d’anticipo ma gli altri non erano d’accordo…e molte cose cominciarono ad andare storte: i racconti degli esuli ebrei terrorizzavano la popolazione, anche se la vera e propria Shoa non era ancora iniziata. E poi, Londra temeva Berlino e non si fidava: si erano liberati di un Re che puzzava troppo di Nazismo e, forti del potere coloniale, pensavano di sistemare prima le faccende con i tedeschi e solo in un secondo momento occuparsi dei sovietici, che già da molti anni combattevano con i finanziamenti ai Russi Bianchi. Per gli inossidabili imperiali britannici, fu un calcolo forse troppo azzardato.

Quando gli USA entrarono in guerra, molti tedeschi e la maggior parte degli italiani iniziarono, Ciano ed Umberto in testa, a temere l’inevitabile sconfitta.

 

Statunitensi e britannici erano entrambi potenze del mare e del cielo, perciò fu proprio in mare ed in cielo che i progettisti tedeschi furono spronati in un lavoro disperato e, in fin dei conti, inutile. Anche a causa della poca lungimiranza nazista.

A parte il programma nucleare, che fallì per la non-collaborazione e successiva fuga di Nils Borg e per il pessimismo sui risultati di Heisenberg, le speranze puntavano su due invenzioni: il caccia a reazione ed il sottomarino vero e proprio, vale a dire non dipendente dalla combustione con l’ossigeno per la propulsione.

Il primo obiettivo fu raggiunto in fretta: già nel Luglio del 1942 l’aereo con due reattori a getto sotto le ali decollò per il primo volo, ma qui ci si mise, misteriosamente, proprio Hitler di mezzo. Il Messerschmitt Me-262 era un caccia, nel 1942, molto simile strutturalmente ai Mig-15 e Mig-17 che volarono 10-20 anni dopo, sennonché, Hitler voleva farlo diventare un bombardiere (!).

Ci provarono tutti gli Assi della Luftwaffe a spiegargli che un caccia che raggiungeva i 900 chilometri orari era una novità unica nel panorama aviatorio dell’epoca, ma non ci fu niente da fare, al punto che la decisione di Hitler appare sconclusionata anche volendo ammettere che lo pensasse realmente.

Forse, Hitler voleva usarlo come minaccia per riuscire ad ottenere una pace separata col Regno Unito, ed attendeva con ansia che la missione di Rudolf Hess – volato in Scozia per incontri con l’aristocrazia britannica – desse dei frutti i quali, però, non giunsero mai. Ed Hess fu condannato all’ergastolo anche se la vera Shoa, al momento della sua fuga, non era ancora iniziata: fu trattenuto – oramai novantenne e solo (tutti gli altri erano già usciti) nel carcere di Spandau – fino a quando Gorbaciov decise di togliere il veto sovietico il quale era appoggiato, stranamente, da un analogo veto inglese.

Comunque, Rudolf Hess decise d’impiccarsi per togliersi di torno…anche se il suo medico raccontò che non era più in grado, a quell’età e con le sue forze, d’impiccarsi da solo. Che volete: qualcuno gli avrà dato una mano…

 

Tornando al nostro povero ed incompreso Me-262, i problemi si rincorsero l’uno con l’altro.

Per diventare un (pessimo) bombardiere leggero si perse un anno ed un secondo anno per riavere un caccia veramente funzionante, al punto che i primi Me-262 giunsero ai reparti nel Giugno del 1944, oramai troppo tardi per contare qualcosa, anche se diedero agli Alleati parecchi grattacapi.

 

Nello stesso Giugno del 1944 entrava in servizio la seconda arma “futuribile” di Hitler: i sottomarini classe XXI e l’U-2501, il primo, scendeva in mare ad Amburgo.

 

Abbandonata l’idea del sottomarino nucleare o delle turbine Walter – troppo lontane nel futuro per sperare in una realizzazione ancora utilizzabile – la Kriegmarine optò per un sottomarino che, negli anni ’40, assomigliava già ai sottomarini a propulsione diesel/elettrica degli anni ’60-70.

Gli U-Boot del tipo XXI erano in grado di navigare sott’acqua per lunghi periodi e per lunghe missioni: solo per fare un esempio, un tipo XXI era in grado d’immergersi di fronte a Genova e, navigando a quasi 300 metri di profondità (all’epoca, completamente invisibile), dopo 4 giorni di navigazione a velocità economica, solo grazie alle batterie, emergere di fronte a Napoli.

Poche ore a quota periscopica, usando i motori diesel tramite uno snorkel per ricaricare le batterie, ed il sottomarino poteva tornare negli abissi: la stessa energia elettrica garantiva la purificazione ed il condizionamento dell’aria in immersione.

Tanto per capirci, le principali Marine del Pianeta giunsero a questi risultati solo intorno al 1970, giacché il sottomarino diesel/elettrico è silenziosissimo, confrontato con i chiasso delle turbine di un sottomarino nucleare, identificabile già a molte miglia di distanza.

 

Il programma di costruzione prevedeva il montaggio in nove settori completi di tutti i collegamenti elettrici ed idraulici già preparati, per costruirli in serie in piccoli cantieri sui fiumi dell’interno e sottrarli così ai bombardamenti. Tre giorni di sosta nel cantiere di assemblaggio ed il sottomarino poteva prendere il mare.

Fra il Giugno del 1944 ed il termine delle ostilità furono consegnati (secondo le fonti) dai 118 ai 121 sottomarini alla Kriegmarine, che entrarono dunque in servizio.

Cosa ne fecero, i tedeschi, di un’arma del genere, la quale poteva individuare ed attaccare con siluri elettrici senza l’uso del periscopio, soltanto col rilevamento degli idrofoni ed il calcolo di rotta e velocità grazie ad un calcolatore elettro-meccanico? Un mezzo con un’autonomia di 15.500 miglia marine, in grado di giungere quasi ovunque nel mondo?

Non ne fecero nulla.

 

Appena un sottomarino terminava un ciclo di addestramento di 4 mesi, cambiava comandante e tornava nel Baltico per un nuovo ciclo, ad libitum: converrete che per una nazione che richiamava i ragazzi e li schiaffava sui carri armati a morire, c’è qualcosa che non quadra. L’attuale pontefice emerito, Benedetto XV, fu richiamato nella Flak, la contraerea e lì servì il suo popolo. Ed Hitler.

 

Furono costruiti anche sommergibili dello stesso tipo ma per uso costiero, il tipo XXIII e, negli ultimi giorni di guerra, due di quei piccoli sommergibili affondarono tre navi al largo della Scozia, senza essere scoperti dalle navi di scorta.

Un sommergibile del tipo XXI, invece, il pomeriggio del 7 Maggio 1945 – e dunque a guerra oramai conclusa da poche ore – si lasciò sfilare nel periscopio a 500 metri di distanza l’incrociatore britannico Norfolk (altre fonti indicano Suffolk, erano gemelli) e la squadra di navi che lo seguivano le quali, probabilmente, stavano tornando ai loro ancoraggi consueti di Scapa Flow, nelle Orcadi. Lo annotò sul libro di bordo che consegnò al suo ritorno a Bergen, dove si arrese mostrando con un ghigno malefico il giornale di bordo al suo interlocutore britannico: nessuno degli inglesi aveva rilevato niente.

 

Il progetto di quei sommergibili fu steso fra il 1940 ed il 1942, approvato da Doenitz nel 1943 ma solo nel 1944 il primo sottomarino entrò in servizio: già a Dicembre del 1944 erano parecchi i sottomarini in servizio e, a Bergen in Norvegia, fu creata la prima flottiglia di soli tipo XXI.

 

Nel 1943, però, Doenitz – futuro successore di Hitler nella carica di Cancelliere – fece una comunicazione assai strana e sibillina, almeno per i tempi:

 

“La Marina da Guerra del Reich costruirà, molto lontano da qui, un sicuro rifugio per il nostro capo, Adolf Hitler, affinché l’ideologia del Nazismo non vada perduta.”

 

Strana, perché nel 1943 la guerra non era certamente vinta ma era ancora lontana da una fine inevitabile ed una dichiarazione sibillina, perché parlava di luoghi molto “lontani” e “sicuri”.

Per inciso, questa dichiarazione portò poi, nel dopoguerra, a mille congetture che condussero gli americani ad inviare una task force in Antartide, che perse inutilmente vite umane nella ricerca di qualcosa che nemmeno sapevano cosa potesse essere, in un posto dove c’erano solo ghiaccio, qualche rara roccia e temperature proibitive, che condussero ad incidenti aerei per il ghiaccio ed a morti congelati per le temperature siderali.

 

Nel frattempo, però, qualcosa si muoveva.

Juan Domingo Peròn – futuro presidente/dittatore argentino – che nei primi anni ’40 era in Italia, aggregato alle truppe alpine per fare “esperienza” col grado di colonnello, sparì dall’Italia per ricomparire all’ambasciata tedesca a Berlino…per fare cosa? Eh…

Dopo la guerra furono sequestrati, in Argentina, alcuni passaporti perché intestati a persone non corrispondenti per età od altri dati di varia natura: il problema era che i passaporti non erano falsi, bensì regolarmente emessi dalla Repubblica Argentina, senza ombra di dubbio! Che mistero.

Qualcuno parlò, ed ammise che nel 1943 Peròn scambiò con i tedeschi 1.000 passaporti argentini in bianco, a fronte della cifra iperbolica di 3 miliardi di marchi: oddio, nel 1943 i tedeschi potevano far girare le rotative della zecca come volevano, e non era un problema consegnare miliardi di carta ad un colonnello argentino che se li sarebbe portati in Patria. La cosa più difficile fu esaudire la seconda richiesta: l’invio in Argentina di 2.000 SS armate ed addestrate.

Pensate che voglia raccontarvi una fuffa? Nella terza parte dell’articolo incontreremo “nel luogo sicuro e lontano” proprio quelle SS e vedremo come la cosa andrà a finire.

 

Tornando ai sommergibili, la domanda più ovvia è sapere che fine fecero: 6 furono affondati in mare da aerei Alleati, e questo è un dato certo…per l’altro centinaio ci sono poche certezze e tante supposizioni senza prove. Alcuni furono presi dai sovietici, dagli americani, inglesi, francesi…incamerati nelle loro Marine e studiati attentamente…uno, addirittura, fu recuperato dal fondo dai tedeschi, che lo tennero in servizio fino al Maggio del1970, l’U-2540, rinominato Wilhelm Bauer, che oggi si trova a Brema ed è una nave-museo.

Altri furono trovati sul fondo, sabotati dai loro equipaggi…qualcuno sotto le macerie dei bunker…ma una certezza per tutti sulla loro fine non c’è.

Ma una ricostruzione degli eventi dovrà pure essere stata fatta – direte voi – almeno dalla Bundesmarine, la Marina del dopoguerra: certo, è stata fatta con teutonica precisione. Chi fu il primo comandante della nuova marina del dopoguerra della RFT? L’ammiraglio Friedrich Ruge, che era stato comandante della Flotta del Nord nella Marina del III Reich: un sottoposto di Doenitz. Dunque…

 

Ma torniamo un momento al 1945, a quella conferenza di pace di Jalta: cosa cercavano, oramai, i contendenti?

Si contendevano con qualsiasi mezzo gli agenti segreti del III Reich, chi per sapere come difendersi (i russi) chi per sapere come “tagliare le ali” ad un’Unione Sovietica che si era fatta non più il ricettacolo dei comunisti del pianeta, bensì una potenza militare di prim’ordine. Erano oramai lontani i tempi dei convogli artici per rifornire la Russia nel 1942: negli ultimi anni di guerra la produzione bellica sovietica, per alcuni settori, superava addirittura la produzione americana.

I servizi segreti tedeschi divennero allora terreno aperto di caccia: vuoi con i soldi, con i ricatti o con le “benevole” concessioni.

Furono centinaia le persone che passarono di qua o di là della futura Cortina di Ferro e nulla contava, veramente, cosa avessero combinato durante la guerra: soprattutto erano molto ricercati gli appartenenti ad ODESSA, la rete di spionaggio tedesca, la quale aveva anche un settore dedicato alla fuga nei Paesi esteri se le circostanze lo avessero richiesto.

Il suo principale esponente, l’ammiraglio Canaris fu giustiziato dai nazisti il 5 Aprile del 1945 accusandolo di tradimento, ma più probabilmente per chiudere la bocca definitivamente alla “mente” che più sapeva di quelle vicende.

 

Così, i sommergibili poterono prendere il largo? Lo vedremo nella terza ed ultima parte.