11 dicembre 2006

Vieni avanti, cretino!

Il blog di Ugo Bardi (ASPO Italia) brilla di luce propria, al punto che tutte le notizie hanno lo stesso share di commenti: zero.
Per farsi un po’ di pubblicità, allora, attacca quelli che sul Web vengono magari letti un poco di più e molto spesso commentati.
Veniamo al dunque.
Scrissi qualche giorno or sono un articolo (pubblicato su Comedonchisciotte, Disinformazione, Piazza Liberazione, ecc e facilmente reperibile) dove spiegavo che le aspettative di una guerra contro l’Iran avevano senz’altro catalizzato l’impennata dei prezzi petroliferi della scorsa estate, soprattutto se consideriamo che la guerra in Libano aveva tutta l’apparenza di una prima destabilizzazione dell’area. Mi riferivo, ovviamente, ai future a tre-quattro mesi sui contratti per la consegna autunnale.
Sulla guerra libanese non credo che ci sia molto da commentare: la stessa amministrazione americana ha spesso affermato di voler attaccare Siria ed Iran. Dal loro punto di vista era perfettamente coerente: si trattava di “chiudere” un cerchio strategico iniziato a Kabul ed a Baghdad.
Oggi, sappiamo che il progetto del “Nuovo Medio Oriente” è sostanzialmente fallito: con il licenziamento di Rumsfeld e Bolton la fazione neocon ha perduto le sue più importanti pedine nell’organigramma dell’Amministrazione Bush.
L’inaspettata resistenza di Hezbollah ha scompaginato le carte strategiche di USA ed Israele e, in definitiva, ha finito per “calmierare” il mercato del greggio.
Tutto ciò, secondo Bardi, è pura fantasia ed il prezzo del petrolio “vaga” da un estremo all’altro secondo fumosi e sconosciuti parametri. Vada a chiederlo ai broker a Rotterdam – se non ci crede – invece di scrivere osservando soltanto il cielo di Firenze (peraltro, stupendo, soprattutto nella stagione invernale).
Sempre secondo Bardi (cito testualmente) “Israele ha comunque ottenuto gli obbiettivi strategici che si era prefisso”: è quali erano, caro Bardi, di buona grazia?
Colpire la fascia di confine per evitare il lancio di razzi? Ma, se questo era l’obiettivo, perché Israele non ha scatenato tutta la sua potenza militare nell’area a sud del Litani, invece di colpire Beirut e scatenare una prevedibile reazione nazionalistica? Sono gli stessi dubbi comparsi su Haaretz e sul Jerusalem Post, tutti indirizzati ad Olmert e Peretz.
Bardi non è colto dal dubbio – per carità, appena una riflessione – che l’obiettivo di Israele fosse quello di cambiare gli equilibri interni del Libano? Favorire la fazione filoamericana contro quella filo-siriana di Hezbollah, scatenare una nuova guerra civile per poi intervenire dopo che qualcun altro aveva portato a termine il “lavoro sporco”? A ben pensarci, lo stesso copione di Sabra e Chatila, solo che si è rivelato un boomerang (rivolgersi a Siniora per i particolari).
Ma veniamo alla chicca (sempre Bardi): “Di bombardare l'Iran se ne riparla a primavera”. Vorremmo sapere chi gli ha “passato” questa “chicca” (oh, Bardi, attento al Polonio…), perché soltanto pochissimi giorni or sono il nuovo Segretario alla Difesa Gates ha affermato – di fronte alla commissione parlamentare che doveva convalidare la sua nomina al Pentagono – che una guerra alla Siria “non è più in agenda”, mentre quella all’Iran è da considerare come “extrema ratio”. Insomma: ragazzi, la baracca chiude.
Potrebbe “riaprire” qualora una nuova amministrazione ottenesse l’assenso completo e convinto dell’Europa, ma questo è un altro paio di maniche: se ne riparlerà dopo il regno dell’Anatra Zoppa.
Da ultimo, non mi piace utilizzare titoli che possono apparire offensivi, ma a Bardi piacciono: lui usa cose del tipo “Ridi, ridi, imbecille!”. Capirà.

10 dicembre 2006

Il buco nero delle democrazie

Te ne sei andato finalmente – maledetto – erano 33 anni che lo aspettavamo: da quel 11 settembre del 1973, quando sperammo fino all’ultimo che le forze democratiche del Cile riuscissero ad avere la meglio sui tuoi sgherri nazisti, la tua Gestapo latino-americana.
Aspettavamo e speravamo, acquistavamo “La Stampa”, poi “Stampa Sera” ed infine “La Gazzetta del Popolo” per avere notizie: abbiamo visto con i nostri occhi i caccia bombardare la Moneda, uccidere quel presidente legittimamente eletto dal Cile democratico.
Bell’inganno questa “democrazia” che ci spacciano come sinonimo di libertà: non so quanti oppositori ha ucciso Saddam Hussein, non so se Ceausescu era quel “satrapo” che a quel tempo dipinsero, ma so per certo che tu eri un assassino che ha ucciso 30.000 oppositori politici.
So che Milosevich non fu diverso da Tudjman e da Itzebegovich: il primo è morto nel carcere dell’Aia, gli altri come liberi fringuelli. Il giudice della corte dell’Aia Carla del Ponte dev’essere cieca da un occhio, quello destro, perché a sinistra ci vede fin troppo bene: a parte te, come ha fatto a non acchiappare i tuoi degni compari Videla e Galtieri?
Abbiamo trepidato per giorni sulla sorte degli amici che sapevamo intrappolati nel maledetto stadio di Santiago: sappiamo che a Victor Jara hai fatto tagliare le mani prima d’ucciderlo.
No, non mi sta bene questa tua morte perché avrei desiderato vederti inchiodato in un tribunale come Goering e Keitel, che uccisero la gente a decine di migliaia come te.
Mi resta una sola consolazione: il presidente Allende rimarrà per sempre – nell’immaginario dei latino americani – assiso nel paradiso dei libertadòr, mentre tu bruci all’Inferno – cabròn maldecido – perché se non stai bruciando all’Inferno c’è una sola soluzione: l’Inferno non esiste.

29 novembre 2006

Caro Ministro Di Pietro

Ho assistito quasi per caso alla puntata di Matrix nella quale si è confrontato – sullo scottante argomento dei brogli elettorali – con l’ex Ministro Scajola di Forza Italia, se ben ricordo martedì sera, ospiti di Mentana su un sempre più asfittico Canale 5. Perdoni se non ricordo la data con precisione, ma sono assai poco appassionato – come un numero sempre maggiore di italiani – ai vostri pour parler.
Le scrivo dal Web senza nessun accenno polemico, semplicemente per metterla in guardia da – ahimé – altre brutte figure nelle quali potrebbe incorrere quando parla di sistemi informatici. Lei è Ministro del Lavori Pubblici, ed un minimo di conoscenze nel ramo dovrebbe averle.
Sorvoliamo su un dibattito nel quale non c’era contraddittorio, e nel quale anche Mentana giocava il ruolo della camomilla, per venire al “clou” che mi ha colpito.
Intervistato da una giornalista, un esperto americano di reti informatiche spiegava come fosse possibile intervenire su un flusso di dati – con sistemi completamente automatici – per variarlo. Non siamo ai limiti estremi della tecnologia, ma ai primordi, giacché tutti sappiamo che un semplice trasformatore può variare tensione e corrente elettrica.
Nel caso in questione, si trattava di stabilire se sia possibile intervenire durante il trasferimento di dati nelle reti informatiche mediante appositi software, e l’informatico americano ha spiegato con parole semplici (inframmezzate da una traduzione) come non esista un sistema assolutamente sicuro da intrusioni.
Le rammento che Jack Norton – titolare di una delle maggiori software house dal pianeta – alla domanda che lo interrogava su quale potesse essere il computer più al riparo da intrusioni esterne, rispose: «Un computer spento».
Lei – Ministro dei Lavori Pubblici – come pensa che siano trasferiti i dati dalle sedi elettorali, alle Prefetture, fino al Viminale? Con autocarri dove viaggiano materialmente le schede? Carrozze a cavalli? Telefono? Piccioni viaggiatori?
No, viaggiano sulle comuni reti telefoniche: la precauzione (come per i flussi dei dati Bancomat e tanti altri) risiede nel sistema di protezione di quei dati, che è assicurato – mediante l’apposizione di procedure di Login (o privilegi, ossia codici che vengono chiamati in gergo informatico nick-name e password) – dalle autorità competenti, siano esse politiche od amministrative (funzionari dei ministeri).
Il problema che lei non ha compreso non è quello di stabilire se ci sia stata infedeltà da parte di qualche funzionario o tradimento da parte di qualche politico, bensì di chiarire che anche una semplicissima transizione di dati via fax è aggredibile da chi desidera cambiare o carpire quei dati.
Per rinfrescarle la memoria, vorrei ricordarle l’incidente diplomatico che occorse negli anni ’80 fra gli USA e la Nuova Zelanda per il tentativo – operato da Microsoft – di penetrare nella rete militare della difesa neozelandese, quando l’azienda americana aveva ricevuto l’assenso per ricostruire la sola sezione amministrativa del settore difesa neozelandese.
Negli anni – europei e russi, americani ed israeliani, cinesi ed iraniani – si sono sempre più specializzati nel controllo delle reti informatiche e la recente guerra nel Libano ha mostrato come una struttura, che ritenevamo di semplici guerriglieri come Hezbollah, sia riuscita a penetrare nel sistema di difesa delle navi israeliane. Altrimenti – se così non fosse – nessun missile avrebbe colpito il bersaglio.
Tutto ciò è anni luce avanti rispetto al semplice controllo di una rete informatica comune come quella telefonica (pur protetta) di un Ministero.
Ora, lei giustamente s’affida al controllo che esercitano settori della magistratura su quei dati per espresso mandato costituzionale: ciò che le sfugge, è che quei controlli avvengono a valle delle possibili intrusioni.
Al riguardo, ci sono testimonianze che insospettiscono – come quella di Emanuele Somma – informatico e rappresentante di lista nel seggio 244 di Roma: «Alla fine di tutto ho trovato nel bidone dell'immondizia fuori del seggio tutto il software, i codici e le password per accedere al sistema di trasmissione dei dati.»
Ed ecco la testimonianza di una coordinatrice dello scrutinio elettronico in un plesso elettorale in Puglia:
«Per quattro volte ho potuto re-immettere i dati. Senza controllo, senza nessuno che mi firmasse la conformità ho potuto tornare indietro nel sistema quante volte volevo. Avrei potuto inserire qualsiasi tipo di dato.» Sono testimonianze che, per chi conosce almeno un poco quel mondo, agghiacciano.
Lei invece – Ministro della Repubblica – di fronte alla testimonianza dell’esperto statunitense si è limitato a definirle “americanate”. Ora, caro Ministro Di Pietro, le ricordo che i bellissimi film dove Alberto Sordi giocava la parte dell’italiano che voleva apparire americano fanno parte della nostra infanzia, quando nelle nostre campagne si vedevano ancora carretti a cavalli e fascine sui basti degli asini.
Il mondo è cambiato – caro Ministro di Pietro – non sono forse mutate le radici del diritto che lei ben conosce, ma tutto ciò che il diritto sorveglia ed amministra nasce dalla constatazione dei fatti, quella che lei – forse più correttamente – definirebbe “una fase inquirente”.
Ebbene – per cercare d’esprimermi in un linguaggio forse a lei più accessibile – se le dicessi che un magistrato ha lavorato per anni su incartamenti falsi, giacché qualcuno ha trovato il modo di sabotare la fotocopiatrice della Procura, lei che risponderebbe?
Come vede, ho cercato di trovare un punto d’incontro su un terreno a lei più familiare: altri, meno attenti alle lacune altrui, potrebbero tranquillamente affermare che un Ministro dei Lavori Pubblici che non conosce le basi del funzionamento delle reti informatiche…beh…
La prossima volta, quando ascolta un esperto informatico, non concluda rapidamente che sono semplicemente delle “americanate”: che risponderebbe – lei – se affermassi che il codice di Hammurabi era una semplice “mesopotamata”?
Un cordiale saluto
Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

26 novembre 2006

Sono solo voti?

La vicenda dei possibili brogli elettorali è l’ennesima tegola che cade su un sistema politico fatiscente come quello italiano, laddove – riflettiamo – siamo stati costretti a scegliere fra nominativi che erano stati scelti per noi dai partiti stessi. I cittadini scelgono chi dovrà rappresentarli in Parlamento? No, sono i rappresentanti a scegliere loro stessi.
Se l’Italia non fosse abituata da decenni a sopravvivere alle sue sciagurate classi politiche potremmo preoccuparci, ma – per fortuna – così non è: il fornaio continua a cuocere il pane ed il ferroviere a condurre il treno. In barba a tutte le loro alchimie.
C’è però una categoria silente, che sembra non accorgersi di nulla, ed invece memorizza e quasi – oseremmo affermare – somatizza queste nequizie.
Sono i giovani, i ragazzi, quelli che definiamo “telefonino-dipendenti” e che immaginiamo soltanto impegnati a guardare cartoni animati e ad inviare messaggi con il cellulare.
Sono completamente avulsi dalla pochezza della classe dirigente italiana? Apparentemente sì: appena nominate la parola”politica” volgono lo sguardo in un’altra direzione, ma sarebbe superficiale affermare che la cosa non li tocchi.
L’ombra di tanto inutile clamore, il pour parler dei noiosissimi dibattiti televisivi, l’evidenza spiattellata ogni giorno della corruzione dilagante li attraversa come un rumore di fondo che annoia e colpisce allo stesso tempo, un sordo colpo basso vibrato quotidianamente alle loro speranze d’adolescenti che sono appena usciti dal mondo delle fiabe.
I risultati? Apparentemente incomprensibili, come i recenti, terribili episodi di violenza catapultati – come un messaggio dissacrante – sul Web, così come le riprese dei loro giochi sessuali.
Sembra quasi che questo mondo silente c’invii dei messaggi in codice – terrificanti nella loro essenza – ma diametralmente opposti al politically correct, sexually correct, behavioral correct: non dimentichiamo che il termine latino corrigo non ha in sé una valenza morale, ma solo quella di “contenimento” o ”correzione” di qualcosa di non accettato. Da ultimo, non dimentichiamo che – in spagnolo – il carcere viene anche definito il corregidor. Se le parole sono pietre, la semantica non è acqua fresca.
A forza di pontificare sentenze sulla “correttezza” dei comportamenti sociali – e di presentare, all’opposto, una platea di nuovi Dei televisivi che sono al di là “del bene e del male” – cosa potremmo attenderci?
Uno stridore latente, una violenza profonda che sottostà nel profondo dell’animo e della psiche e che si manifesta in modi assolutamente non comprensibili, così come il mondo “degli adulti” inizia a diventare qualcosa di lontano ed incomprensibile, da rifiutare e da rintuzzare con manifestazioni violente nella loro essenza, ma esattamente correlate al messaggio iniziale. Filmato Web contro “corretto” documentario televisivo. Comportamento palesemente violento contro ipocrisia distillata.
Al prossimo episodio “terrificante” che i media sbatteranno in prima pagina, prima di scuotere semplicemente il capo, chiniamolo e riflettiamo.

24 ottobre 2006

Parole in libertà

La diplomazia internazionale è rimasta stupita per le affermazioni del presidente russo Putin riguardo alle accuse di scarsa libertà d’informazione in Russia e – più in generale – sulla reale democrazia in quel paese.
La cosa ha stupito perché non erano state rivolte a Putin specifiche accuse, anzi, il rappresentante spagnolo al vertice finlandese sull’energia era stato piuttosto “diplomatico”: aveva affermato che “l’UE fa affari con paesi assai meno democratici della Russia, ma la stessa UE desiderava avere un rapporto privilegiato proprio con la Russia”. Insomma, non c’era poi tanto da arrabbiarsi.
La diplomazia italiana si è affrettata a minimizzare le esternazioni di Putin, che invece era andato “giù pesante” nelle sue affermazioni, giungendo a dire che “per come l’Europa aveva trattato la Jugoslavia, doveva tacere sulla Georgia e sulla Cecenia”.
A meno di credere che Vladimir Putin sia uscito improvvisamente di senno, dovremmo chiederci il perché di tanta veemenza.
Il presidente russo è persona fredda e calcolatrice, esperto judoka, e tutti sanno quanto la pratica delle arti marziali nipponiche conduca al controllo della mente e della parola. Allora, perché?
Il fenomeno si spiega proprio partendo dalla sede dell’esternazione: una conferenza internazionale sull’energia.
Qualcuno si è accorto che la Russia – nel silenzio internazionale – per risolvere un dissidio con la Georgia ha semplicemente bloccato tutte le frontiere – terrestri, marittime ed aeree – di Tbilisi? Un atto che spesso prelude alla guerra, e che se la controparte non cede non lascia più spazio alla diplomazia.
Perché Mosca torna a proporsi nello scenario internazionale con toni da grande potenza?
Il signor Putin sta – metaforicamente – seduto accanto a due rubinetti del metano: uno porta il gas in Europa mentre l’altro – con la costruzione del futuro gasdotto – porterà energia in Cina. Per quanto tempo la Russia avrà a disposizione questo ricatto? Per circa mezzo secolo.
Nel frattempo, l’UE riuscirà – solo nel 2010 – a coprire le proprie necessità energetiche con fonti rinnovabili per il 10% circa, se l’obiettivo sarà centrato. Il rimanente 90% verrà dal petrolio, dal metano, dal carbone e dal nucleare (meno del 10%).
Il metano è essenziale per l’UE, giacché l’Europa si è impegnata a rispettare il Protocollo di Kyoto, ed il gas è la fonte meno inquinante.
Dunque, per i prossimi 50 anni, l’UE sarà ricattabile dalla Russia per il proprio approvvigionamento energetico (la Russia, oltre al gas, ha anche petrolio e notevoli riserve di carbone) e non avrà molte “contropartite” da offrire, giacché la Russia sa produrre anche alta tecnologia.
Forse, quelle esternazioni sulla mafia ed altre facezie del genere erano da interpretare come un messaggio occulto, di quelli da leggere fra le righe.
Volete stare al caldo anche il prossimo inverno?
Attivare i neuroni prima della parola.

06 settembre 2006

Il piano monco

Continuano blandamente gli incontri fra i rappresentanti dell’UE e dell’ONU con la diplomazia iraniana: i resoconti di queste trattative sono avvincenti come potrebbe esserlo un cartone giapponese di pessima qualità trasmesso in prima serata.Alle richieste europee Teheran ha già risposto: il nodo cruciale della questione – l’arresto dell’arricchimento dell’Uranio – non è più in agenda per il governo iraniano. Ora, dopo che Russia e Cina si sono pronunciate contro le sanzioni all’Iran, per gli USA rimane solo l’opzione militare. L’opzione militare contro l’Iran, però, prevede soltanto un attacco atomico: non esistono altre possibilità, né semplici attacchi aerei (causerebbero pochi danni alle infrastrutture iraniane, in gran parte sotterranee) né un impraticabile attacco via terra. Il piano americano si doveva svolgere con la consueta tattica del “salto della rana”, ossia con la conquista di primi capisaldi nell’area per poi completare il puzzle: il primo doveva essere il Libano (con estensione alla Siria) e sappiamo com’è andata a finire. Un attacco all’Iran dovrebbe fare i conti con un apparato di difesa in grado di colpire le navi americane, con i nuovi velivoli che l’Iran costruisce utilizzando avioniche di provenienza russa (Mig-29) e con un apparato di difesa antiaerea superbo. Ci vorrebbero mesi per mettere in ginocchio l’Iran e, con la situazione irachena che esploderebbe ancor più (il 65% degli iracheni sono sciiti, e quasi tutti gli ayatollah ed i mullah sono iraniani), Bush finirebbe in un girone infernale ancor più basso di quello che attualmente occupa. I generali al Pentagono – con in testa il gen. Abizaid, comandante in capo delle forze armate USA – si sono espressi contro un attacco nucleare all’Iran, poiché sarebbero loro, dopo, a “goderne” i frutti in Iraq ed in Afghanistan. Dall’altra parte Rumsfeld e la sua cricca di neocon: in mezzo, un presidente che non conosce nemmeno l’ABC della strategia internazionale. La situazione ricorda molto la fine del Terzo Reich, con i vecchi generali prussiani schierati contro Hitler e la sua ghenga, i quali facevano accordi sottobanco con i russi per ritirarsi in pace e che tentarono anche d’uccidere il dittatore con un attentato, che fallì. Non mi piace insistere troppo su paragoni storici che trovano i loro limiti nel continuo mutare della storia stessa, ma questo Libano del 2006 mi ha rammentato Stalingrado: non una limpida vittoria, bensì la fine dell’avanzare incontrastato del nemico. Se gli USA non attaccheranno l’Iran – in quel caso si tratterebbe di un azzardo anche difficile da ipotizzare, per gli sconvolgimenti che creerebbe – non rimarrà loro che la ritirata dall’Iraq e dall’Afghanistan, nell’attesa che una nuova classe politica americana prenda il posto degli sciagurati che oggi comandano a Washington. Oggi gli USA possono ancora tentare di “salvare il salvabile” con una politica d’apertura al resto del mondo, come richiesto oramai da molti esponenti politici americani: domani, potrebbero trovarsi – metaforicamente – prigionieri nel bunker di Berlino.

17 agosto 2006

Brutte sorprese per Israele

E’ incredibile costatare come un mese di guerra – nel mondo globalizzato delle alleanze “a geometria variabile” – possa mandare a gambe all’aria strategie abilmente preparate con anni di lavoro diplomatico, militare e – soprattutto – d’interventi dei servizi segreti.
Il “Libano 2006” era stato abilmente preparato: dapprima l’uccisione di Rafik Hariri (che la Siria non aveva nessun interesse ad assassinare) aveva lo scopo d’allontanare le truppe di Damasco dal territorio siriano e di spostare il baricentro politico libanese verso Israele. Poi la risoluzione 1559, che prevedeva il disarmo di Hezbollah, avrebbe consegnato su un piatto d’argento il Libano agli israeliani, che si sarebbero “sistemati” a trenta chilometri da Damasco.
Il penultimo atto sarebbe stato l’attacco alla Siria da ovest (Israele) e da est (truppe USA in Iraq), per ottenere un duplice risultato: evitare che una futura tripartizione dell’Iraq consegnasse la parte sunnita ai siriani e quindi l’ultimo atto, ossia ottenere il completo isolamento dell’Iran per un attacco.
Questo mese di guerra ci ha invece mostrato cataste di bombe partire dagli USA per giungere in Israele, mentre – dall’altra parte – Russia, Cina, India, Vietnam e Corea del Nord rinforzavano l’Iran, che a sua volta inviava i razzi in Siria, la quale riforniva Hezbollah: un vero e proprio scenario da “guerra fredda” o, se preferite, una piccola riedizione del copione vietnamita, che è stato rispettato fino in fondo con la sconfitta israeliana.
La forza d’interposizione che si andrà a posizionare in Libano è stato l’escamotage che Israele ha dovuto accettare per non infilarsi nel classico cul de sac, ovvero in un nuovo Vietnam senza vie d’uscita. Non lasciamoci ingannare dalle apparenze: una forza ONU sotto comando francese ai confini d’Israele è una novità di quelle “pesanti”, quasi una bestemmia per Tel Aviv. Ricordiamo che Israele aveva più volte sprezzantemente affermato che, ai suoi confini, avrebbe accettato solo truppe americane.
Ancora una volta – dopo Cuba, il Vietnam e l’Iraq – i signori della guerra hanno dovuto inchinarsi ad una piccola forza guerrigliera determinata a resistere, costi quel che costi. Di fronte alla determinazione, il re di bombe è nudo.

04 agosto 2006

Le code di paglia della RAI

Tutti sono moderatamente felici – alla RAI – per i risultati dell’azienda, ad iniziare dal Ministro Gentiloni: ottimi risultati economici, buona qualità, concorrenza sconfitta. Per migliorare ancora la qualità dell’azienda sarà istituito un secondo indice per misurare la qualità del servizio: oltre al consueto Auditel – che misura lo share di gradimento – ci sarà anche un nuovo indicatore per valutare la qualità dei programmi trasmessi.
Ebbene, il nuovo “indice” sembra già nascere con il pollice verso, perché dopo alcune settimane di guerra – di una guerra della quale non si riesce a comprendere quale sarà la fine – la RAI non ha trasmesso un solo programma d’approfondimento dedicato all’evento, non una trasmissione.
Oggi è facile affermare che – ad Agosto – tutti sono in vacanza…la gente vuole divertirsi…i giornalisti sono in ferie…
No, non la beviamo. La guerra è iniziata il 12 Luglio: all’inizio di Luglio, gli italiani non sono ancora in vacanza, i giornalisti non sono in vacanza. Soprattutto, non sono in vacanza coloro che si prendono le bombe israeliane in testa.
Se si fosse trattato di un attentato di Al-Qaeda – come avvenne lo scorso anno in Gran Bretagna, proprio a Luglio – sarebbero scesi rapidamente in campo tutti i sapienti Soloni di regime per spiegarci anche l’ultimo capello della vicenda, ovviamente secondo il real pensiero di mamma RAI.
Dove sono – oggi – i Magdi Allam, i Franco di Mare, i Bruno Vespa, gli Igor Man, e poi i Caracciolo, i Mimum, i Mannoni, i generali, gli ammiragli…
Sono tutti in Costa Smeralda ed hanno spento il telefonino?
No, perché vorremmo informarli che in Libano si sta combattendo una guerra vera, di quelle che non si vedevano – per l’asprezza degli scontri, per l’incertezza dei risultati – da decenni, una guerra dove le nazioni dell’area potrebbero scivolare rapidamente in un conflitto generalizzato, con l’uso di missili con testate nucleari, chimiche e batteriologiche. Non lo dicono quattro scalzacani sul Web, lo afferma ufficialmente e con gran timore il Ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema.
Forse – visto che non si poteva sparare a zero sull’islamico di turno – mamma RAI non se l’è sentita d’affrontare un argomento dal quale i sostenitori delle guerre di Bush e di Israele sarebbero potuti uscire con le ossa rotte? Sappiamo d’essere una colonia USA nel Mediterraneo, ma non sapevamo ancora d’essere anche agli ordini di Tel Aviv.

15 luglio 2006

Diverso tutti gli anni, e tutti gli anni uguale

.Com’è attinente il verso di Guccini, se riflettiamo sul povero Vicino Oriente! Se rifletto che – quando scoppiò la guerra del ’67, il vero “giro di boa” fra arabi ed israeliani – ero un giovane studente ed oggi, mentre conto gli anni alla pensione, sono ancora qui a parlarne…
La notizia dell’attacco al Libano sembra la solita solfa che prelude a nuovi morti e rinnovate distruzioni – sempre uguale – ma racchiude, come prevede l’infinito copione medio-orientale, degli elementi di novità.
Israele dichiara di voler “cancellare” Hezbollah dal Libano, e sembra voler tener fede alle promesse, ma anche Bush voleva “eliminare” il terrorismo in Iraq (che, prima, non esisteva) ed invece ha aperto le porte dell’Iraq ad Al-Qaeda od a chi per essa.
L’attacco israeliano, in poche ore, ha cancellato decenni di sforzi del Libano per tornare ad essere un paese normale: tutto ciò è già avvenuto, con la distruzione sistematica delle infrastrutture ed il crollo dei flussi turistici. Da oggi, il Libano è nuovamente un nuovo francobollo medio-orientale in attesa di destinazione: protettorato israeliano? Siriano? ONU?
Chi ha più probabilità d’avvantaggiarsi della situazione è proprio Al-Qaeda, che da anni muove pedine nel Vicino Oriente per entrare il quel “mercato” di sangue, che fino ad un anno fa era controllato dalle formazioni guerrigliere regionali e non dal nuovo network del panarabismo al tritolo.
L’operazione in Libano – come dichiarato dagli israeliani stessi – sarà “lunga” e nessuno ne dubita: fecero la stessa dichiarazione gli USA prima dell’invasione dell’Iraq, ed oggi sono ancora là a contare lo stillicidio dei morti.
Prova ne sia, che gli USA hanno avvertito Israele dei rischi di un “indebolimento” del governo libanese: hanno capito la lezione irachena, mentre gli israeliani sembrano non aver meditato abbastanza su cosa significa impegnarsi in una guerra quando il nemico può fare affidamento su un prezzo del petrolio che viaggia oramai verso gli 80 $ il barile.
Benvenuti nel Grand Hotel del Libano, che riapre i battenti dopo meno di due decenni di pace – sembra affermare Hezbollah – che potrebbe in breve tempo essere sostituito dal network internazionale del terrore, quello che tira le fila dagli sperduti paesini del Pakistan. Chi non sa osservare e capire ciò che lo circonda, assicura sangue e dolore ad altre generazioni.

17 giugno 2006

La realtà supera, ancora una volta, la fantasia!



“Lo hanno arrestato come un bandito!”

Emanuele Filiberto di Savoia

“Ma un bravo poliziotto, che sa fare il suo mestiere,
sa che ogni uomo ha un vizio, che lo farà cadere…”

Francesco Dé Gregori – Il bandito e il campione

Primo di Aprile 2006: se qualcuno vi avesse avvicinato in strada, per chiedervi quali di questi tre eventi era il più probabile nei famosi “prossimi 100 giorni”:

Berlusconi perde le elezioni;
La Juventus finisce in serie B;
Vittorio Emanuele IV arrestato per associazione a delinquere e sfruttamento della prostituzione.

Avreste risposto con un’alzata di spalle : «Oh grullo, che stai a dire: Berlusconi lè belle che cotto, lo dicon anche i sondaggi…le altre son tutte bischerate…»
Invece viviamo nel più fantasmagorico cabaret planetario mai esistito, dove il gioco delle parti è oramai la regola e non l’eccezione: i re gestiscono un giro di puttane e i grandi capitalisti un giro di arbitri; le une e gli altri – dobbiamo ammetterlo – sono figure di grande potere, giacché amministrano i più amati aspetti ludici dell’esistenza, gioco e sesso.
Ma la storia non finisce nemmeno qui: poteva mancare il giornalista-profeta che aveva intuito tutto?
In anni lontani, quando in paesi come il Sudafrica c’erano regimi dichiaratamente razzisti e la comunità internazionale aveva dovuto – almeno pro-forma – sottoporli all’embargo sull’acquisto di armi, il nostro reale rampollo divenne rappresentante della Agusta (sì, quella degli elicotteri) e, non si sa come, riuscì ad aggirare – forse grazie alle sue nobili origini – le maglie dell’embargo.
Gli elicotteri dell’Agusta sorvegliavano dall’alto, e talvolta intervenivano, quando c’era il rischio che il famigerato battaglione Buffalo – composto dalla peggior feccia bianca sudafricana – non ce la facesse a raggiungere il “target” giornaliero di neri ammazzati come cani.
Non contento di tutto ciò – mentre si trovava sul suo panfilo al largo della Corsica, sul confine delle acque territoriali italiane in una calda estate degli anni ‘70 – il regal rampollo si rammentò che i suoi avi nascevano per censo già ammiragli: all’avvicinarsi di un’imbarcazione battente bandiera del Reich germanico, forse sopraffatto da atavici rancori, sparò con un Garand (arma da guerra, vietata la sola detenzione, pena anni 9 e mesi 6 di reclusione) contro il vascello nemico.
Risultato: un giovane turista tedesco morto dopo settimane d’atroci sofferenze.
Beh, direte voi, ma il Codice Penale, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, l’enciclica Pax Christi, il manuale delle Giovani Marmotte non affermano forse che chiunque, nobile o plebeo, uccida volontariamente deve essere condannato alla pena riservata agli omicidi?
Ma certo! Cosa credete, che il progresso del diritto dai tempi di Montesquieu sia acqua fresca? Perdinci! La corte francese (competente per territorio) si riunì e giudicò quell’atto infame.
Il processo fu però avocato dalla Procura Generale di Parigi: non era il caso di lasciare ai plebei giudici corsi il grave fardello di segnare il destino di un re. La città che aveva ghigliottinato Luigi XVI e Maria Antonietta non volle perdere il privilegio di rinnovare le proprie tradizioni: il re vada alla sbarra come un qualsiasi cittadino! Liberté Egalité Fraternité!
Una perfida fata morgana confuse – però – la lucidità di quei giudici: quando il boia stava già oliando la lama della ghigliottina, improvvisamente giunse, inaspettata, la piena assoluzione.
In Italia la sentenza non fu proprio ben accolta, vista anche la scarsa popolarità della monarchia sabauda; in uno spassoso fondo su “L’Espresso” Giorgio Bocca chiese di sospendere la disposizione transitoria che vietava l’ingresso in Italia agli eredi al trono maschi: “Tornate altezza, tornate” – scriveva – “vi troveremo anche un posto all’INPS, basta che non andiate più in giro per il mondo a farci fare queste brutte figure.”
Sì, forse abbiamo fatto bene – seppur tardivamente – a seguire il consiglio di Bocca, ma il guaio è che adesso il tormento l’abbiamo in casa!
Certo che il buon Principe – sempre sfuggito alle maglie della giustizia – se proprio “bandito” non è, dobbiamo almeno ammettere che ha accumulato nel corso degli anni un discreto “pedigree” giudiziario, solo che il rango ha offuscato tutto.
Se uno qualsiasi di noi avesse ucciso – senza ragione apparente – il figlio di un miliardario tedesco dove si troverebbe ora? Come minimo a sfogliare le albe con il sole a scacchi per qualche decennio: e poi raccontano che il “sangue blu” non porta vantaggi; domani stesso cercherò d’acquistare su Internet un titolo nobiliare, lo pagherò in una sola “botta” con il PostaPay.
C’è però un aspetto giuridico che vorremmo sottoporre all’attenzione del giudice Woodcock, ossia il problema della cittadinanza. Il real rampollo ebbe a lamentarsi pochi giorni or sono – nel bianco salotto delle Supreme Porte, ospite dell’Insetto – che «tuttora, non aveva la piena cittadinanza italiana».
Ma, allora, siamo in presenza di un cittadino extra-comunitario che ha contravvenuto alla legge Bossi-Fini, grazie alla quale – non dimentichiamo – schiere di pericolosi delinquenti con i piedi scalzi sono rispediti al mittente affinché non infettino l’italico stivale! E non finisce qui.
Una delle ultime “riforme” del governo Berlusconi inseriva nel corpus giuridico un concetto interessante: pene minori per gli incensurati e maggiorate per i recidivi.
Facciamo il punto: traffico d’armi ed omicidio (sul giudizio della corte francese, va beh…) ed oggi associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, collusione con la criminalità organizzata e sfruttamento della prostituzione. Sarebbe stato meglio se i giudici francesi l’avessero schiaffato dentro alla (ricostruita) Bastiglia: già, perché adesso siamo noi a dover togliere le castagne dal fuoco al rampollo Savoia.
Come dite? Condannarlo? Gli unici Re imprigionati che ricordo furono Maria Stuarda, Giacomo I, Luigi XVI e lo zar Nicola II. Meglio non sfidare la Storia.
Dal punto di vista strettamente giuridico – se i difensori del Principe accettassero un consiglio – suggerirei di puntare sulla Bossi-Fini: in fondo, si tratterebbe solo di rispedire al mittente uno dei tanti sans papier che ingombrano le piazze italiane. Uno di più od uno di meno…sì, forse sarebbe la soluzione migliore: coperto dal pietoso velo della notte, il Principe potrebbe partire – incolonnato in mezzo ai Mahmud ed agli Hassan – da un aeroporto secondario con destinazione la Libia od il Marocco, con scalo straordinario a Ginevra. Sarebbe il primo extra-comunitario svizzero ad essere rispedito al mittente: sì, forse è l’unica soluzione onorevole.

31 maggio 2006

Burle di tutto il mondo, unitevi!


Con il recente referendum per l’indipendenza, in Montenegro la democrazia ha toccato il fondo: se vorrà continuare su questa strada, dovrà munirsi di piccone ed iniziare a scavare.
Anzitutto lo scenario: alla presidenza del comitato organizzatore del referendum viene nominato Frantisek Lipka, slovacco, che nel 1992/93 "mise in scena" (è oramai il caso di cambiare linguaggio…) la separazione ceca e slovacca senza uno straccio di consultazione popolare. Deciso così, nei palazzi del potere.
Forti dell’esperienza, nel 2006 in Montenegro la compagnia teatrale decide d’ampliare prospettiva e di gestire anche l’appuntamento elettorale. Fatti i dovuti conti, si fissa il quorum al 55% degli aventi diritto – che in Montenegro sono 480.000 – poiché non è possibile sancire l’indipendenza con la maggioranza semplice ed un quorum al 60% è irraggiungibile.
Detto fatto: chiuse le urne la sera precedente, il 22 maggio alle 3 di notte iniziano a circolare per Podgorica cortei d’auto che plaudono all’indipendenza: lo spoglio non è ancora iniziato, ma per chi sa "fiutare" l’aria dei Balcani quei cortei hanno un preciso significato, mica come i nostri festeggiamenti per una vittoria elettorale o della nazionale di calcio.
Quelle persone sono il segnale che il premier indipendentista Milo Djukanovic inizia ad inviare alla controparte: se il risultato non fosse quello atteso dalla fazione indipendentista (e dall’UE), dietro a quelle avanguardie si muoverebbero altre forze, forse meno festanti e più arcigne.
Fantasie? Sproloqui? No, Djukanovic ha seri motivi per "mostrare i muscoli" già alle tre di notte, perché l’esito è tutt’altro che scontato. Nonostante le precauzioni prese – facilitazioni per il ritorno in Montenegro dei votanti residenti nell’UE, con viaggi gratis, e parallelo "ritardo" nei trasferimenti di quelli provenienti dalla Serbia – la partita è risicata, risicatissima.
Giunge l’alba, un’alba gravida di responsabilità per il piccolo e montuoso paese balcanico, ed inizia lo spoglio: alle dieci e trenta, Frantisek Lipka – lo slovacco – si presenta di fronte ai media nazionali ed internazionali per annunciare che la vittoria è stata raggiunta con il 55,4% dei sì contro il 44,6% dei no. In pratica, per 2.000 voti in più il Montenegro ha sancito l’indipendenza da Belgrado.
Piccolo particolare: alle 10.30 di quel 22 maggio rimanevano da scrutinare circa 25.000 schede elettorali, ossia il 5% degli aventi diritto. Sapremo mai cosa c’era scritto in quelle 25.000 schede elettorali? Forse sì, forse no, ma tanto la notizia era già stata battuta da tutte le agenzie e rimbalzava sui media del pianeta.
Dalla democrazia dell’alternanza a quella degli equilibri, da quella assembleare a quella partecipata, siamo passati alla democrazia dello spettacolo. Il via lo diedero le elezioni americane del 2000 – quando, per un solo voto, a sciogliere il nodo fu un giudice della Corte Suprema USA nominato dal padre di uno degli sfidanti, ovvero Bush II il Giovane – e di lì in avanti sono entrate in scena le "macchinette elettorali", le schede consegnate insieme alle tessere per il pane (Iraq) e quant’altro. Il Montenegro non poteva permettersi quell’armamentario tecnologico, ed allora si torna ai vecchi sistemi: si proclama l’indipendenza per acclamazione cinque ore prima che inizi lo spoglio. Malatempora currunt.

21 maggio 2006

Il ruggito dell’agnello

Mentre gli italiani stanno compiendo in questi giorni un importante passo in avanti – iniziando a capire che il calcio è soltanto la metafora della politica – per le vicende estere si continua a credere che Europa e Stati Uniti siano coloro che menano a loro piacere le danze del pianeta, e questo è un errore.
Se gli USA amano il tintinnar di sciabole, in Oriente si preferisce far ascoltare il fruscio del gas nelle condotte: il ricatto energetico russo è oramai evidente anche per chi fa finta d’esser sordo.
Se gli europei (da noi ENI) non concederanno a Gazprom una quota dei loro mercati il gas russo finirà in Cina che – grazie alla crescita economica ed alle enormi riserve valutarie – può pagare di più rispetto ad europei ed americani.
Forte di questi contratti, Gazprom va a “caccia” di stock di metano nell’intero pianeta e sta acquistando da paesi terzi ciò che un tempo era la riserva di caccia di Exxon/Mobil. Solo dieci anni or sono, un impotente Yeltsin consentiva agli oligarchi russi di spadroneggiare ed alle compagnie americane d’impadronirsi delle riserve russe: in un solo decennio la situazione si è completamente rovesciata, ed oggi sono le “sette sorelle” americane ad essere sulla difensiva nei confronti dell’aggressività del colosso russo.
La Cina ha un contratto per 300.000 barili giornalieri con il Venezuela di Chavez, importa petrolio e gas da paesi come Angola, Sudan, Congo, Nigeria…ed intesse rapporti economici con questi paesi fornendo loro tecnologia, soprattutto in campo militare.
Fra pochissimi anni saremo di fronte ad uno scenario nel quale le tre potenze orientali (Cina, Russia ed India) inizieranno a cogliere i frutti dei loro investimenti in politica estera, ed al cosiddetto “Occidente” non rimarranno che due strade: partire all’attacco in mille piccole guerre nell’intero pianeta o cedere lo scettro.
Per questa ragione è importante seguire lo sviluppo della crisi iraniana, laddove Europa e Stati Uniti non riescono a strappare alle controparti Russia e Cina nemmeno l’avallo per porre sanzioni economiche all’Iran, altro che guerra.
Comunque vadano le cose – con la pace o con la guerra – il destino di Europa e Stati Uniti è segnato: con un indebitamento colossale, ed una crescita economica che è pari ad un terzo rispetto a quella delle economie orientali, il declino è inevitabile.
Tutto ciò pone di fronte l’Europa (ed il nuovo governo italiano) a difficili scelte: seguire gli USA nei loro ruggiti oramai stonati e fuori tempo massimo, oppure gestire un atterraggio “soft” come saggiamente seppe compiere l’Impero Britannico?
Il baricentro mondiale si sposterà inevitabilmente nell’area del Pacifico, molto lontano dal Mediterraneo e dall’Atlantico: da Singapore e da Shangai, così come da New Delhi e da Vladjivostok, è quasi impossibile avvertire timidi belati che vorrebbero apparire ruggiti.

16 maggio 2006

Di crisi d’astinenza da calcio non è mai morto nessuno

Tutto c’attendevamo, in questa infuocata primavera elettorale, meno che il mondo del calcio crollasse su sé stesso. Qualcuno potrà affermare che non è una novità: chi non ricorda giocatori che si vendevano le partite, “combine” d’ogni tipo e quant’altro?
La crisi del calcio fa paura non per gli effetti che produrrà – i quali saranno in ogni modo catastrofici per le finanze d’alcune squadre – bensì perché ha rivelato che l’intero mondo del pallone era un simulacro vuoto, un quadro dipinto solo con i pennelli della corruzione e dell’inganno: qui non si tratta delle solite “mele marce”, è l’intero frutteto che è andato in malora.
Eppure, decine di solerti giornalisti dell’informazione hanno dissertato per decenni sul nulla: serate passate di fronte al teleschermo per capire se un arbitro aveva sbagliato oppure no sono da buttare nel cestino come carta straccia. Hanno rubato milioni di ore agli italiani presentando uno spettacolo completamente fasullo: sarebbe come se oggi – dopo aver trascorso una campagna elettorale lunga un anno – ci raccontassero che avevano scherzato, che Berlusconi e Prodi sono amici per la pelle e che si è trattato solo di una burla.
Lo scherzo però finisce se riflettiamo che quelle migliaia di ore di trasmissioni sono servite per rimpinguare le casse degli sponsor, delle squadre, dei giocatori, delle TV, dei vari “faccendieri”…
Il problema – che in questi giorni tutti cercano di dribblare – è la pesante sconfitta del mondo dell’informazione: qualcuno può ragionevolmente pensare che il mondo dell’informazione sportiva fosse all’oscuro di tutto? E’ veramente difficile da sostenere.
Se ampliamo un poco l’orizzonte, potremmo chiederci come lo stesso mondo dell’informazione ci tratta per cose assai più importanti – la guerra, la situazione economica, l’energia, la giustizia – perché non possiamo pensare che tutti gli allocchi finiscano per fare i giornalisti sportivi e le “teste pensanti” siano convogliate verso la politica e l’economia.
Se il sistema dell’informazione è così fragile da non accorgersi che pochissime persone gestivano in piena libertà il mondo del calcio, ci sarebbe da rabbrividire al pensiero che – nella stanza accanto – chi scrive la pagina politica o quella economica usi gli stessi (fasulli) metodi d’indagine.
In realtà, è il sistema dell’informazione ad essere crollato su sé stesso – prima di quello del calcio – e ciò trae origine dalla struttura stessa dell’informazione. Su quella televisiva c’è poco da dire: il solo paese al mondo che ha come Presidente del Consiglio il maggior proprietario di TV private (oltre all’Italia) è la Thailandia, dove un discusso presidente “muove” maggioranze e parlamentari a suon di scoop sui suoi network.
Il vero “buco nero”, però, è la carta stampata dove – grazie al finanziamento governativo concesso ai giornali di “area politica” (600 milioni di euro l’anno) – il potere politico ha in mano i “cordoni della borsa” per controllare cosa scrivono migliaia di giornalisti, controllati a loro volta da centinaia di direttori, i quali sanno bene che non possono correre il rischio di scontentare i loro mecenate. I quali, a loro volta, per controllare l’informazione usano i soldi pubblici, ossia i nostri.
Non vorremmo che a questo asfittico mondo dell’informazione fosse sfuggito che un certo Licio Gelli ha manovrato per anni la politica italiana come Moggi ha fatto nel calcio, oppure che qualche parlamentare si sia lasciato “comprare” come gli arbitri.
Senza calcio si può anche sopravvivere: senza limpida informazione si finisce per diventare una landa d’automi lobotomizzati, gente senza speranza che si racconta storie mai avvenute, oppure storie accadute e mai conosciute. Enrico Mattei, Piazza Fontana, Ustica, Bologna, Ilaria Alpi…che in Italia sia esistito un “Moggi” che non s’occupava di calcio?

10 maggio 2006

Fra un po’ il TG1 scoprirà anche l’acqua calda


Aspettiamo pazienti, perché Clemente J. Mimun e la sua allegra brigata di trovanotizie prima o dopo riusciranno a meravigliarci: scopriranno il treno a vapore, la lampadina elettrica, il ferro da stiro, diamo loro tempo.
Dopo l’attentato afgano che ha ricondotto in patria le salme di due poveri alpini, l’organetto nazionale ha scoperto la vera ragione dell’efferato crimine: Gulbuddin Hekmatyar – uno dei "signori della guerra" afgano – ha giurato fedeltà ad Osama Bin Laden. Ecco perché ammazzano i nostri soldati: ha giurato…
Il "buon" Hekmatyar era stato riconosciuto dagli americani come "rappresentante regionale": una sorta di "governatore" che regnava nel sud. Su quali sudditi? Sui Taliban ovviamente. Ma non è possibile…
C’è sempre peggio al peggio, credetemi, perché questo losco figuro – che sarebbe dovuto essere un fedele feudatario del filoamericano Karzai – trent’anni fa militava insieme ad Ayman Al-Zawahiri nella Fratellanza Musulmana. Si sarà ravveduto, direte voi.
Quindici anni fa, prima di entrare in Kabul per consegnarla ai Taliban, la bombardò con l’artiglieria per settimane uccidendo 25.000 persone e ferendone 100.000. Appena entrato in città si dedicò alla ricerca di chi aveva sostenuto i sovietici: filo-russi o no che fossero, molti finirono impiccati ai ganci dei carri-attrezzi dopo che avevano loro cavato gli occhi da vivi, tagliato i testicoli ed infilato il tutto in bocca.
Durante il regno dei Taliban il nostro "governatore" si vantava di girare per le vie di Kabul con una bottiglietta di vetriolo in tasca, pronto a spruzzarlo addosso alle donne che non avevano il viso completamente velato.
Dopo la caduta dei Taliban fece di necessità virtù e si dedicò ad opere di bene (sic!) nel sud-est del paese: probabilmente ogni tanto faceva un "salto" in Pakistan, tanto per prendere un tè insieme ad Osama ed a Ayman. Poi, tornava a fare il "governatore" per Karzai.
Al nord, invece, l’ex paracadutista sovietico Dostum – che alterna la vodka al Corano – esige le tasse sulle importazioni e sulle esportazioni verso le repubbliche dell’Asia centrale ed intasca tutto senza inviare niente a Kabul, più i proventi dell’oppio e dei giacimenti di gas.
Questi sono solo due dei "rappresentanti regionali" che gli americani riconobbero come interlocutori validi, contro il parere della Loya Girga – l’assemblea tribale afgana – e dell’ex re Zahir Shah, ma ce ne sono altri. Bella compagnia trovarono: dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Ovviamente, nulla trapela dagli studi del TG1: chissà se una sola volta – magari molti anni fa – Mimun giurò a sé stesso di raccontarci per una sola volta la verità? Chissà. E chissà quando potremo riportare i nostri alpini a casa. Vivi.

04 maggio 2006

La strategia dell’orbo

Dopo l’atroce morte dei militari italiani a Nassirya è scattata l’inevitabile – quanto vana – caccia ai responsabili, come se fosse possibile decifrare dalle fumose rivendicazioni sul Web oppure dai dati tecnici dell’attentato stesso la “matrice” dell’attacco.
Nella complessa galassia irachena è praticamente impossibile risalire a chi ha deposto materialmente la mina: tutti i gruppi della guerriglia irachena se ne assumeranno la paternità, fin troppo facile da prevedere.
Dai dati tecnici si potrà sapere ancor meno: si tratta di una comunissima mina anticarro costruita negli ultimi vent’anni e qualsiasi esercito del pianeta ne ha a disposizione decine di migliaia. Lo scoppio dell’ordigno espelle verso l’alto un dardo formato da metallo fuso ad altissima temperatura (migliaia di gradi) che penetra la corazza fondendola come una lama calda penetra nel burro: dopodichè, si sprigiona nell’angusto abitacolo un calore pari a centinaia di gradi centigradi. Gli abiti s’incendiano all’istante e si è uccisi in pochi attimi dall’aria rovente che penetra nei polmoni: una fine orribile, possiamo solo sperare che abbiano perso i sensi nell’attimo stesso dell’esplosione.
Più facile invece capire l’obiettivo strategico di un attentato realizzato chiaramente per uccidere in una zona ritenuta “tranquilla” o, almeno, meno pericolosa del resto del paese.
Qui s’innestano due vicende: il contrattacco americano nella zona di Ramadi, che ha lo scopo di colpire uno dei “santuari” della guerriglia sunnita: si tratta dello stesso copione già messo in atto a Falluja, che produrrà migliaia di morti fra la popolazione civile e scalfirà appena le formazioni guerrigliere.
Il secondo motivo è invece più velato e guarda più al domani che all’oggi: qualora il tam tam di guerra nei confronti dell’Iran aumentasse di tono, sarebbero proprio le province meridionali dell’Iraq – Bassora, Nassirya, la zona dei laghi di Amara – ad essere investite poiché di fede sciita e confinanti con l’Iran.
Questo strano attentato ha quindi il sapore di un duplice avvertimento: siamo in grado di colpire le truppe occupanti ovunque – sembrano affermare i guerriglieri – e se sarà attaccato l’Iran nel sud dell’Iraq scoppierà l’inferno. Una ragione in più per limitare il finanziamento della missione (che dovrà essere approvato a giugno) alla sola “benzina per tornare a casa”: altrimenti, i nostri soldati precipiteranno dall’oggi al domani nel prossimo tritacarne che Washington sta preparando per l’Iran. Siamo stanchi di vedere sbarcare le bare dei nostri soldati a Ciampino: cambiamo canale, per favore.

26 aprile 2006

L’oblio elettorale


Dopo la scorpacciata di dati elettorali viene il momento di tirare le somme, e non sono somme molto favorevoli per l’Italia.
Nell’infinita diatriba delle dichiarazioni, dopo la girandola delle poltrone, dovremo affrontare il problema dei conti pubblici ma nessuno ha più parlato d’energia.
Nel frattempo, il petrolio ha superato un nuovo "scalino" – passando dai 65$ ai 75$ il barile – e non ci sono motivi per credere che le quotazioni scenderanno: anzi, dopo gli inevitabili assestamenti il nuovo prezzo oscillerà fra i 70 e gli 80 dollari, fino al prossimo inverno.
Per l’Italia ciò rappresenta un maggior esborso di circa 4 miliardi di euro l’anno: sono numeri da legge finanziaria, in grado di cambiare in meglio od in peggio le condizioni di vita di milioni d’italiani.
A chi saranno affidate le competenze per affrontare uno dei più gravi problemi all’orizzonte? Continueremo nella solita sarabanda di conflitti fra Ministeri ed Enti Locali per decidere, infine, di non decidere niente?
Lo "stellone" italiano non può durare all’infinito, e già nello scorso inverno siamo stati obbligati a ricorrere alle scorte strategiche di metano per far fronte alla penuria di rifornimenti. Dovremo attendere nuovi black-out od interruzione dei servizi perché qualcuno se ne occupi?
Terminate le disfide elettorali è il momento di raffreddare gli animi e riflettere: per non restare al freddo.

14 aprile 2006

Un lampo nella notte

La querelle fra l’Iran e gli USA sta andando avanti oramai da mesi e mesi: deferimento al Consiglio di Sicurezza, rapporti degli ispettori dell’AIEA, un sotterraneo tintinnar di sciabole. Niente, però, di difforme dal normale: business is usual nel panorama internazionale, fino a ieri.
Fino all’altro ieri il fronte internazionale appariva compatto nel chiedere all’Iran di rinunciare al programma nucleare, ma era pura parvenza, giacché chi ha fornito e fornisce tecnologia nucleare all’Iran è la Russia.
Fino all’altro ieri Mosca ha sperato d’incassare l’intero piatto, ossia di riuscire – grazie alla pressione internazionale – a spostare l’arricchimento dell’Uranio sul territorio russo (con ghiotti guadagni), ma la notizia che gli iraniani hanno iniziato il processo a Natanz supera oramai quella prospettiva.
La notizia del giorno non è l’annuncio da parte di Teheran d’aver dato inizio alla fase d’arricchimento – che richiederà comunque molti mesi o qualche anno per produrre il combustibile per le centrali o per le bombe – ma la dichiarazione del ministro degli esteri russo Lavrov sull’ipotesi di un attacco militare.
«La questione iraniana non è risolvibile con le armi» ha dichiarato Lavrov, punto e basta.
La situazione di stallo non poteva durare all’infinito, con i russi impegnati a costruire centrali in Iran ed il governo apparentemente schierato con Londra e Washington: hanno tirato la corda fin quando hanno potuto farlo, ma qualcosa deve aver premuto su Mosca per ridefinire la sua posizione.
Gli accordi fra Teheran e Mosca sono accordi segretissimi: chiunque s’azzardi a mettere in bocca all’uno od all’altro frasi od ipotesi lo fa in modo assolutamente auto-referenziale, senza uno straccio di prova.
L’improvvisa urgenza russa nasce allora da altri sussurri, raccolti dai servizi segreti e presentati con estrema urgenza sulla scrivania di Putin.
Evidentemente, la faida interna al Pentagono – che vedeva addirittura alcuni generali pronti alle dimissioni per un eventuale attacco all’Iran – si è composta ed ha vinto la fazione di Rumsfeld. L’attacco – che potrà avvenire anche fra mesi – è stato deciso ed i piani stanno segretamente procedendo.
La Russia si è esposta perché sa che un’Europa dipendente dal gas russo non potrà fare altro che qualche dichiarazione di “fermezza”: roboanti affermazioni che saranno sopravanzate dagli avvenimenti.
La Cina, invece, rimane silente giacché “succhierà” gas e petrolio iraniano per i prossimi 25 anni, grazie agli accordi stabiliti con Teheran.
La Borsa Energetica in euro di Teheran va fermata prima che i suoi effetti siano visibili sul dollaro, e questo Washington lo sa benissimo: da qui, probabilmente, la decisione.
Mentre alcuni analisti si sforzavano di comprendere la strategia USA dai movimenti delle task force americane, una risposta chiara e non richiesta è giunta dal Cremlino. Un lampo che illumina la notte a giorno.

30 marzo 2006

Fatterelli di poco conto

Le recenti elezioni in Bielorussia ed in Ucraina sembrano avvenimenti di scarsa importanza, ed invece mostrano l’asprezza dello scontro fra l’est e l’ovest del mondo. L’est – in questo caso – non è l’Islam ma la Russia, che occupa gran parte del cosiddetto “Oriente” del mondo.
L’affermazione di Lukashenko era scontata – ed elezioni vinte con il 93% dei suffragi non mostrano certo una “cristallina” democrazia – ma un’opposizione che non va oltre qualche sporadica protesta dimostra che il sostegno al regime è saldo.
In Ucraina ha vinto la fazione filo-russa, ma di stretta misura. Dopo appena un anno, gli “arancioni” sono già in crisi perché lo “strappo” con Mosca ha evidenziato la debolezza dell’economia ucraina, troppo dipendente dalle forniture russe di metano.
Mentre avanza il nuovo gasdotto che porterà in Europa il gas russo passando nel Baltico – e tagliando fuori, di fatto, Bielorussia, Lituania, Ucraina e Polonia – le classi dirigenti di quei paesi sono chiamate ancora una volta a scegliere fra gli (improbabili) aiuti economici di un’Europa praticamente “ferma” sotto l’aspetto economico, le evanescenti promesse americane – che devono anzitutto fare i conti con la crescita spropositata del debito interno ed estero – e Mosca.
Mentre fluttuano monete ed azioni, pare che la nuova moneta del pianeta sia l’energia: non più l’oro per definire i rapporti di forza, non più il dollaro bensì petrolio, gas e carbone.
“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” cantava Fabrizio de André: i patrimoni finanziari ed azionari possono essere oggi le pietre angolari del potere, domani carta straccia. L’energia servirà oggi per riempire il serbatoio dell’auto, domani per portare in vacanza i nostri figli e dopodomani per far funzionare i computer dei nostri nipoti. E questo i russi lo sanno.

15 marzo 2006

Il tribunale dei vinti

Non si comminano più sentenze capitali, non è bello, non è politically correct. E’ disgustoso osservare il miglio verde della vita di un condannato: no, meglio una fredda notizia che comunica la morte di Slobodan Milosevic, definito il “satrapo”, il “sanguinario” e via discorrendo.
Nello stesso giorno, il presidente del tribunale che sta giudicando Saddam Hussein dichiara che – qualora – Saddam sia condannato e – ancora qualora – sia condannato a morte, allora fra la sentenza e l’esecuzione non trascorrerà più di un mese.

Stupefacente consecutio d’eventi improbabili, verrebbe da dire: un magistrato previdente ed ossequioso del suo mandato.
La signora Carla Del Ponte – che dirige il tribunale dell’Aia – si è mostrata assai rattristata della morte di Milosevic: senza di lui sarà difficile giungere a delle conclusioni certe, alla tanto osannata verità processuale.
La realtà è diversa: diritto internazionale alla mano, Milosevic aveva dimostrato che quel tribunale non poteva condannare un ex capo di stato catturato come un ladro di polli, che la guerra del 1999 era stata una guerra d’aggressione senza il minimo straccio di giustificazione giuridica sul piano internazionale.

Milosevic era gravemente malato di cuore: qualsiasi tribunale avrebbe dovuto sospendere le udienze per un ricovero ospedaliero – ma così non è stato – e domani ci racconteranno che l’autopsia non ha nulla da rivelare, e che ognuno ha compiuto il suo dovere. L’operazione è riuscita, il paziente è morto.
Ricordiamo che la signora Del Ponte fu colei che avrebbe dovuto ritrovare il famoso “tesoro di Craxi” e che invece non trovò proprio niente: nel frattempo, Craxi era morto. Verrebbe da toccarsi quando la si nomina.

In ogni modo, se si sentisse disoccupata, le ricordiamo che sono tuttora nell’attesa d’essere giudicati Pinochet e la banda di generali argentini che attuarono il “piano Condor”: trentamila oppositori politici uccisi in un decennio nel silenzio totale dei tribunali internazionali. Sempre in America Latina, almeno una mezza dozzina di ex-capataz (Bolivia, Peru, Colombia, Ecuador, ecc) campano tranquilli con accuse di genocidio, traffico d’armi e di droga, corruzione, sterminio di indio, ecc. Dei “battaglioni della morte” salvadoregni la signora sa qualcosa?
Troppo distante l’America? Perché non richiamare all’Aia i comandanti del famigerato battaglione Buffalo, che seminò morte e distruzione fra i neri nel Sudafrica dell’apartheid? Potremmo continuare, ma sarebbe noioso e doloroso acclarare la scoperta dell’acqua calda, ossia che la giustizia internazionale si muove in una sola direzione.
Inviamo – metaforicamente – alla signora l’icona delle tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo. Come dicono a Napoli: ma faciteme ‘o piacere…

08 marzo 2006

Non è più troppo presto

Perché il problema energetico non può più attendere soluzioni?
Le ragioni sono molte, per l’Italia la dipendenza energetica dal petrolio ci sta strangolando, il gas sarà sempre più caro, il carbone richiede lunghi tempi di ristrutturazione delle centrali mentre se decidessimo di tornare al nucleare sarebbero necessari decenni.
Dobbiamo quindi investire in ricerca per trovare metodi di captazione delle energie naturali a basso costo, per sostituire quel 90% d’energia creata con i fossili che finisce per strangolare anche l’economia.
Non possiamo, però, restringere il problema al solo aspetto dell’approvvigionamento nazionale: è la salute del pianeta ad essere a rischio.
Gli oceanografi inglesi dell’Università di Southampton hanno riscontrato che negli ultimi sette anni il flusso della Corrente del Golfo è diminuito del 30%, a causa dello scioglimento dei ghiacci polari che formano una specie di "barriera" d’acqua dolce e fredda, la quale impedisce alla corrente d’avanzare.
Inoltre, grazie ad alcune immersioni effettuate con i sommergibili della Royal Navy, hanno riscontrato che dei 12 "camini" che rappresentavano i luoghi dove la Corrente del Golfo s’inabissava per compiere il percorso inverso verso il Golfo del Messico, ne esistono solo più due.
In sostanza, il grande "termosifone" – che permette al Nord Europa d’avere temperature di 10 gradi circa superiori rispetto a quelle che avrebbero per la loro latitudine – sta svanendo nel totale silenzio dei media.
Stiamo modificando equilibri così grandi che non sapremmo, dopo, come porvi rimedio, giacché nessuno è in grado di modificare un sistema chimico, fisico e biologico che ha le dimensioni della Biosfera.
Cercare d’ottenere dalle classi politiche un intervento per modificare l’approvvigionamento energetico è quindi un compito che tutti dovremmo avvertire come "nostro", in quanto appartenenti alla stessa specie.
Nascondere la testa sotto la sabbia significa soltanto non vedere l’istante nel quale partirà la fucilata del cacciatore.

06 marzo 2006

Il mondo è bello perché strano

Ci sono persone che credono negli UFO, altri nello spiritismo, altri ancora ritengono Silvio Berlusconi un grande statista: il bello della vita è proprio questo, ovvero la speranza che ci sia sempre qualcuno che riesca a divertirci con le sue trovate.
Potrete leggere ciò che scrive il signor "sereupi80" un commento relativo ad un mio post sulla TAV, che troverete più sotto: è stupefacente come i nostri simili riescano a meravigliarci.
Anzitutto s’inizia mescolando la TAV, gli islamici, Cuba, le bestemmie ed altro ancora: io ci avrei aggiunto anche la salsa Tartara e la letteratura norvegese, cosicché il melange era completo.
Secondo quel tizio sarei un “islamofilo” (e che cosa vuol dire?) che difende a spada tratta i barbuti ayatollah e se la prende con un povero Calderoli, colpevole solo d’aver confuso il ruolo di un ministro con quello di un pecoraio che ha lasciato le pecore a Bergamo: sinceramente, non sono nemmeno riuscito a capire cosa vuole quel signore, figuriamoci se è possibile rispondergli.
Su una cosa, però, è stato chiaro: lancia in resta, si è messo ad irridere coloro i quali ritengono che Milano potrebbe diventare un porto fluviale.
Il problema, talvolta, è spiegare non ciò che potrebbe essere, bensì ciò che in realtà era.
Milano divenne un porto fluviale intorno al 1.200, quando fu completato il collegamento fra il Lago Maggiore, il Ticino, l’Adda ed i Navigli. I Navigli nacquero come fossati per la difesa e furono affidati a metà del XII secolo a mastro Guglielmo da Guintellino per le prime realizzazioni, ma ben presto furono sfruttati come vie di trasporto. In una barca, a quei tempi, si potevano trasportare tonnellate, in un carro quintali. A metà del XV secolo fu completato il Naviglio Pavese e, nel 1819, l’arciduca Ranieri d’Austria inaugurava il collegamento fra il lago Maggiore e Venezia.
Dopo l’unificazione iniziò la grande epopea della ferrovia, ma in altri paesi (Francia, Germania, Belgio, Olanda, Austria, ecc) non fu trascurata la rete fluviale ed oggi la sola Germania ha circa 7.500 Km di canali per la navigazione interna, la Francia 7.000, la Russia ben 105.000. Non dimentichiamo che l’UE ha attribuito alla navigazione sul Danubio la stessa importanza che hanno le reti ferroviarie ed autostradali.
Il Po era e potrebbe tornare navigabile da Casale Monferrato al mare, con diramazioni verso Milano ed il Lago di Garda, e potrebbe così supplire alla drammatica carenza d’infrastrutture della regione padana, nella quale è concentrato il 50% della domanda di trasporto.
Il risultato? In Germania, l’incremento dei costi dalla produzione al grossista è del 3%, in Italia del 5%: proprio il punto della “filiera” nella quale sono importanti i trasporti. L’Italia, una penisola, ha dimenticato la sua rete fluviale e la navigazione di cabotaggio costiero, si è riempita di TIR ed autostrade e non ha risolto nessun problema di trasporto, giacché i costi sono sempre più alti che nel resto d’Europa.
Per risistemare la rete padana di trasporto fluviale basterebbero 500 milioni di euro (non miliardi), e sarebbero probabilmente risparmiati da altri interventi infrastrutturali (raddoppi autostradali, ecc).Le risposte, se vogliamo vederle, ci sono: basta non arroccarsi su posizioni assurde. Comunque, visto che sarei un “islamofilo”, voglio ricordare che il califfo Al-Rashid (Baghdad, 900 d. C. circa) mantenne sotto il controllo dello stato solo due settori: l’esercito e la gestione dei canali. Lo stesso fecero e fanno la maggior parte dei paesi europei, ma noi italiani siamo così furbi che – quando ascoltiamo queste argomentazioni – le irridiamo.
Sic stantibus rebus.

05 marzo 2006

Il trionfo del geriatrico

In questi giorni i partiti stanno preparando le liste elettorali; con la nuova legge elettorale noi elettori non avremo la possibilità di scegliere i candidati, potremo soltanto indicare un simbolo: chi è nella lista di quel simbolo ce lo dovremo tenere e basta.
Ha suscitato sorpresa la candidatura nelle liste dell’Unione di Franca Rame, attrice, moglie e compagna di vita del premio Nobel per la Letteratura Dario Fo.
Fatto salvo che la presenza di Franca Rame qualifica l’Unione in senso positivo, dobbiamo rilevare che queste persone (o, magari, lo stesso Dario Fo) già da tempo avremmo dovuto chiamarle per occupare quegli scranni.
Il problema di questa classe politica è la paura: anche decisi e combattivi avversari del berlusconismo, della P2, della mafia sono chiamati ad entrare in Parlamento quando hanno oramai un’età veneranda. Pochi italiani di grande livello intellettuale sono chiamati a rappresentare il Paese in Parlamento: Leonardo Sciascia fece una breve comparsa alcuni decenni or sono, d’altri – oggi – non ricordo.
Il paese invecchia e ci sono pochi giovani: grazie alle sapienti riforme previdenziali, una generazione stanca arranca nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici. Stufa perché ha visto colleghi giovanissimi andare in pensione, ed ora sa che per controbilanciare quei lontani privilegi dovranno rimanere attaccati alla macchina, alla scrivania, alla cattedra con un catena per ancora molti anni.
Strano paese il nostro, nel quale se non hai almeno sessant’anni sei ritenuto un giovane senza esperienza, una persona della quale non ci si può fidare. Lo stesso discorso vale per un altro premio Nobel, Carlo Rubbia, cacciato dal governo in carica dalla presidenza dell’ENEA, che oggi vive e lavora in Spagna dove sta portando avanti importanti progetti in campo energetico (dei quali, ahimè, avremmo un disperato bisogno).
Anche la destra cade nel medesimo errore, giacché non si comprende proprio perché una persona come Marcello Veneziani – con il quale si può anche essere in disaccordo su tutto – non entri in Parlamento: a ben vedere, è la “testa pensante” più raffinata che potrebbero presentare. D’altro canto, se hanno “fatto fuori” un costituzionalista del calibro del prof. Fisichella, si può capire perché ritengano Veneziani un potenziale pericolo.
Giovani italiani emigrano all’estero perché sanno che le loro ricerche serviranno solo ad ingrassare il palmares del barone di turno, sanno che in questo paese il giovane è visto più come un pericolo che come un’opportunità: aria nuova, fresca, idee rivoluzionarie. Vade retro Satana.
Auguriamo ogni bene a Franca – per la sua lunga e sincera militanza, sul palcoscenico e nella vita – ma ci piacerebbe vederla seduta accanto ad una giovane – trenta, quarant’anni – per esser certi che quell’esperienza e quella determinazione nel difendere lo stato di diritto delle persone, la dignità dei lavoratori, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, una equa ripartizione della ricchezza e la laicità dello Stato non diventino il solo bagaglio di una vita, ma siano trasmesse alle nuove generazioni. Altrimenti, ahi noi.

26 febbraio 2006

Chiariamo

Ricevo messaggi ed interventi sul mio blog da parte di persone che m’accusano d’essere fili-arabo e di non considerare le cosiddette “ragioni del terrorismo”, ovvero le responsabilità degli arabi per l’attuale situazione: vorrei chiarire una volta per tutte questo nodo, per non lasciare “scheletri nell’armadio” che non m’appartengono.
Sfido chiunque a dimostrare ch’io abbia difeso le sole ragioni di una parte a scapito dell’altra, ammesso che si possa semplificare il problema ad un semplice scontro fra “parti”.
L’incomprensione nasce proprio dal solco che si è scavato fra chi crede ad una guerra fra un ipotetico “Oriente” ed un altrettanto fumoso “Occidente” (anche se, per comodità, usiamo i due termini): una posizione che finisce per risultare non anti-storica, bensì a-storica, ossia estranea alla storia.
Guerre ed imperialismi sono avvenuti all’interno del mondo musulmano per secoli (l’impero Ottomano, ad esempio) così come in Europa: purtroppo, conosciamo bene la storia europea, mentre in genere sappiamo assai poco di ciò che avvenne nel mondo musulmano, ed ancor meno della storia del più antico regno del pianeta, ossia della Cina.
Oggi, la globalizzazione dei mercati ed un possente sviluppo tecnologico hanno – apparentemente – avvicinato realtà che si sono evolute quasi separatamente, ovvero con pochi scambi con il resto del pianeta.
L’ansia che ci pervade dopo l’11 settembre ci porta a cercare soluzioni rapide ed efficaci, mentre possiamo osservare che gran parte delle scelte operate (ad esempio la guerra in Iraq) hanno scatenato altri problemi invece di risolverli.
Il mio modesto contributo è sempre stato quello di far conoscere le pieghe, i meandri di culture che conosciamo assai poco – con le quali però dobbiamo trovare soluzioni – a meno di non continuare nella solita, tragica conta dei morti, di qualsiasi parte essi siano e chiunque li abbia uccisi.
Il problema non è decidere se un morto vale di più o di meno di un altro, non è definire ciò che è e ciò che non è terrorismo, giacché quando l’avremo definito gli avvenimenti non prenderanno, grazie al nostro lodevole sforzo, una nuova piega: il vero problema è porre fine alla conta dei morti.
Ritengo che, prima di decidere cosa fare per sanare recenti ed antiche fratture, bisogna conoscerle per trovare insieme dei rimedi e finirla con i litigi sulla conta dei morti: si può configurare a dovere un computer solo se si conoscono approfonditamente il suo funzionamento e quello dei programmi che lo gestiscono.
Altrimenti, usando il martello, riempiremo soltanto il pianeta di computer scassati.

19 febbraio 2006

Una nuova pozione di veleno

I fatti di Bengasi testimoniano quanto sia oramai precario quel poco di dialogo che ancora sussiste fra il mondo islamico e l’Occidente: negli stessi giorni, in Oriente si è visto un inaudito susseguirsi d’assalti a sedi diplomatiche, di manifestazioni cariche d’odio, fino all’assassinio di parecchi cristiani in Nigeria ed all’assalto di una piattaforma petrolifera. Se qualcuno voleva lo “scontro di civiltà”, ci siamo oramai assai vicini.
Il comportamento dell’ex ministro Calderoli è incomprensibile ed assurdo: solo una persona dotata di scarsissima intelligenza e completamente priva d’acume politico poteva inventarsi una simile pagliacciata, che hanno già pagato con la vita molte persone.
Il dato che però più inquieta è che i fatti sono avvenuti in Libia, ovvero nel paese finora meno toccato dal fondamentalismo islamico, dove l’equilibrio di Gheddafi e la sostanziale forza del regime avevano impedito infiltrazioni dalla galassia fondamentalista.
L’Occidente deve scegliere, se trattare e con chi trattare, quali possono essere le vere motivazioni della contesa – la questione palestinese, l’energia, l’Iraq, l’Afghanistan – e cercare d’intavolare trattative per risolvere i problemi, non per aggravarli. Non si dà fuoco alle polveri per poi fuggie.
Se, addirittura, un ex generale come Sharon aveva compreso che l’unica via è la trattativa, non si comprendono oggi le chiusure di un insignificante (nel panorama politico israeliano) Olmert.
Di questo passo, fra provocazioni, chiusure diplomatiche, assalti ai consolati e quant’altro finiremo ben presto nella trappola preparata da tempo da Rumsfeld, Cheney ed Huntigton. Con l’appoggio incondizionato di un idiota di turno che credeva d’essere un ministro.

08 febbraio 2006

Pioggia di bombe in arrivo

Con il deferimento dell’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’ONU è iniziato il percorso che condurrà gli USA allo scontro con l’Iran: morte, sofferenza, sangue, vedove ed orfani sono già annunciati nel documento firmato a Vienna. Perché?
Anzitutto la ragione ufficiale – come sempre debole ed evanescente – degli impianti nucleari: non esiste nessun trattato internazionale che proibisce lo sviluppo del settore nucleare ad uso civile, e nessuno può dimostrare che Teheran compia il passo per scopi militari.
E se anche così fosse? L’Iran è oramai uno dei pochi stati dell’area a non possedere armi nucleari: se Teheran viene considerata inaffidabile, quanto può esserlo il Pakistan di Musharraf?
La questione delle armi nucleari è vecchia quanto il mondo: se io soltanto possiedo una lancia, tutti dovranno sottomettersi; se invece tutti possediamo una lancia, ciascuno riporrà la propria e si guarderà bene dall’usarla.
Le ragioni che conducono Washington allo scontro con l’Iran sono altre, riassumibili in due motivazioni, entrambe economiche.
La prima è la stessa che condusse – nel 1991 – alla prima Guerra del Golfo: nessun paese con ricchezze petrolifere può permettersi il lusso di trasformare i proventi energetici in un apparato industriale, giacché lo sviluppo economico e tecnologico indebolirebbe il controllo imperiale su quel paese.
L’Arabia Saudita è un lampante esempio di questo concetto: il primo produttore di greggio al mondo – che subdolamente sostiene Al-Qaeda – viene considerato “alleato” giacché i proventi petroliferi sono investiti nella finanza internazionale, pura e semplice carta “garantita” dalle Banche Centrali.
Se – invece di pura e semplice carta – qualcuno inizia a costruire industrie, quelle non sono più carta ma beni, ovvero qualcosa che ha un valore d’uso – e non di pura imputazione – e quindi non soggetto al controllo imperiale.
La seconda ragione deriva dalla prima; per sfuggire al controllo imperiale Teheran ha promosso l’avvio della Borsa Petrolifera: un mercato del petrolio in euro, come già tentò di fare Saddam Hussein pretendendo il pagamento del petrolio con la moneta europea.
L’attuale prezzo del greggio racconta non una, bensì due vicende: l’esaurimento delle risorse ma anche il deprezzamento del dollaro, “scaduto” in cinque anni rispetto all’euro di un buon 35%. Se il greggio iraniano fosse commercializzato in euro, sarebbe un’ulteriore batosta per la Federal Reserve del fuggitivo Greenspan, ed il biglietto verde accentuerebbe la ripida china che lo sta conducendo al disastro.
L’attacco all’Iran è quindi inevitabile – costi quel che costi sul piano politico – anche se ciò significherà la completa deflagrazione dell’Iraq, dell’Afghanistan ed una completa destabilizzazione dello scenario asiatico.
L’alternativa? La destabilizzazione interna USA, con un dollaro da repubblica di Weimar. Oramai, il treno dell’economia liberista richiede interventi radicali e non bastano più le operazioni di maquillage: non serve sostituire il conducente, dobbiamo proprio cambiare treno.

29 gennaio 2006

La vittoria di Hamas era ampiamente annunciata...

Chi semina vento…

La vittoria di Hamas nelle recenti elezioni in Palestina stupisce solo chi vuole farsi stupire: un rapporto del dicembre 2005, steso dai capi missione europei a Gerusalemme – e tenuto segreto agli stessi parlamentari europei – chiarisce che non ci si poteva attendere altro. Non lo afferma esplicitamente, ma lo lascia trasparire fra le righe:

“Le attività di Israele a Gerusalemme costituiscono una violazione sia di quanto previsto dagli obblighi previsti nella Road Map, (la demolizione delle case palestinesi e la costruzione illegale di colonie israeliane n.d.A.) che da quelli del diritto internazionale. Nella Comunità Internazionale, noi ed altri abbiamo esposto con chiarezza le nostre preoccupazioni in numerose occasioni, con diversi effetti.
I palestinesi, senza eccezione, sono profondamente allarmati per Gerusalemme Est. Temono che Israele “se la cavi”, con la copertura del disimpegno da Gaza. Le azioni di Israele rischiano inoltre di radicalizzare l'atteggiamento della popolazione palestinese di Gerusalemme Est, che fino ad ora è stata relativamente tranquilla.”

Tutti sapevano della “radicalizzazione” in atto, che in quella insanguinata terra significa semplicemente lo spostamento dalle posizioni possibiliste di Fatah a quelle meno concilianti di Hamas.
Tutta la vicenda nasce e muore in Israele, perché il vero potere è nelle mani dei dirigenti israeliani: perché tenere in carcere il principale esponente di Fatah, Marwan Barghouti, perché continuare con la strategia degli “omicidi mirati”, perché lasciare campo libero ai coloni per la costruzione di colonie in Cisgiordania?
La risposta è semplice quanto terribile: perché – nonostante la schiacciante potenza militare – Israele non riesce a “vincere” il conflitto contro i palestinesi, che non potrà mai essere vinto, eppure s’illude di farlo.
Mentre si chiede ad Hamas di riconoscere Israele, ci si dimentica che Israele non ha mai riconosciuto uno Stato Palestinese con confini precisi, ma solo una Autonomia Palestinese. Perché mai il riconoscimento non potrebbe essere reciproco? Al valico di Rafah – che segna il confine fra l’Egitto e la Striscia di Gaza (dalla quale gli israeliani se ne sono ufficialmente andati) – sventola tuttora la bandiera con la stella di Davide, ed Israele mantiene il controllo della frontiera.
Tutto ciò, come poteva essere interpretato dai palestinesi? Come l’ennesimo pasticcio israeliano, che a parole concede territori ai palestinesi – mentre nei fatti lo nega – continuando ad occupare la Cisgiordania.
Quando ci si basa sul diritto internazionale, autonomie, stati e colonie sono termini che hanno precisi significati: evidentemente, a Tel Aviv manca un buon dizionario del diritto. O forse non l’hanno mai acquistato perché non conveniva acquistarlo. Auguri, allora, per i prossimi “incontri” fra una dirigenza israeliana al collasso politico ed i “verdi” di Hamas, che negli ultimi sei mesi hanno organizzato una milizia popolare di 15.000 effettivi, ben armati ed addestrati (con l’aiuto dell’Iran). Forse, i dirigenti di Hamas hanno letto quel dizionario.

04 gennaio 2006

Fuori della notizia

La fulminea “guerra del gas” di Capodanno fra Russia ed Ucraina, terminata con una fulminea pace, impone una riflessione. Quanto vale una notizia? In altre parole, cosa ci può raccontare una notizia?
Se si tratta di qualcosa che conosciamo approfonditamente può darsi che ci dica qualcosa, ma siamo ogni giorno bombardati da migliaia di notizie: l’intero pianeta corre dietro alla notizia, alla news, allo scoop. E dopo?
Dopo, ci rimangono spesso le poche righe dell’ANSA o della Reuter – ovvero la notizia – ma quelle righe possono avere significati molto diversi, secondo il contesto dal quale sono nate, oppure dagli attributi (spesso nascosti) che non conosciamo.
Eppure sembriamo vivere solo di notizie: la fialetta d’antrace con la quale Powell cercò d’ottenere il voto del Consiglio di Sicurezza contro l’Iraq era una notizia. Falsa, ma un paio di notizie come quella che fanno rapidamente il giro del pianeta valgono quanto dieci libri o cento articoli d’approfondimento.
S’impone una riflessione approfondita non solo sulle fonti, ma anche sul valore delle notizie in sé stesse, che – private dei loro attributi naturali, ovvero del contesto dal quale nascono – valgono quanto la classica rondine che non fa mai, da sola, primavera.