26 febbraio 2006

Chiariamo

Ricevo messaggi ed interventi sul mio blog da parte di persone che m’accusano d’essere fili-arabo e di non considerare le cosiddette “ragioni del terrorismo”, ovvero le responsabilità degli arabi per l’attuale situazione: vorrei chiarire una volta per tutte questo nodo, per non lasciare “scheletri nell’armadio” che non m’appartengono.
Sfido chiunque a dimostrare ch’io abbia difeso le sole ragioni di una parte a scapito dell’altra, ammesso che si possa semplificare il problema ad un semplice scontro fra “parti”.
L’incomprensione nasce proprio dal solco che si è scavato fra chi crede ad una guerra fra un ipotetico “Oriente” ed un altrettanto fumoso “Occidente” (anche se, per comodità, usiamo i due termini): una posizione che finisce per risultare non anti-storica, bensì a-storica, ossia estranea alla storia.
Guerre ed imperialismi sono avvenuti all’interno del mondo musulmano per secoli (l’impero Ottomano, ad esempio) così come in Europa: purtroppo, conosciamo bene la storia europea, mentre in genere sappiamo assai poco di ciò che avvenne nel mondo musulmano, ed ancor meno della storia del più antico regno del pianeta, ossia della Cina.
Oggi, la globalizzazione dei mercati ed un possente sviluppo tecnologico hanno – apparentemente – avvicinato realtà che si sono evolute quasi separatamente, ovvero con pochi scambi con il resto del pianeta.
L’ansia che ci pervade dopo l’11 settembre ci porta a cercare soluzioni rapide ed efficaci, mentre possiamo osservare che gran parte delle scelte operate (ad esempio la guerra in Iraq) hanno scatenato altri problemi invece di risolverli.
Il mio modesto contributo è sempre stato quello di far conoscere le pieghe, i meandri di culture che conosciamo assai poco – con le quali però dobbiamo trovare soluzioni – a meno di non continuare nella solita, tragica conta dei morti, di qualsiasi parte essi siano e chiunque li abbia uccisi.
Il problema non è decidere se un morto vale di più o di meno di un altro, non è definire ciò che è e ciò che non è terrorismo, giacché quando l’avremo definito gli avvenimenti non prenderanno, grazie al nostro lodevole sforzo, una nuova piega: il vero problema è porre fine alla conta dei morti.
Ritengo che, prima di decidere cosa fare per sanare recenti ed antiche fratture, bisogna conoscerle per trovare insieme dei rimedi e finirla con i litigi sulla conta dei morti: si può configurare a dovere un computer solo se si conoscono approfonditamente il suo funzionamento e quello dei programmi che lo gestiscono.
Altrimenti, usando il martello, riempiremo soltanto il pianeta di computer scassati.

19 febbraio 2006

Una nuova pozione di veleno

I fatti di Bengasi testimoniano quanto sia oramai precario quel poco di dialogo che ancora sussiste fra il mondo islamico e l’Occidente: negli stessi giorni, in Oriente si è visto un inaudito susseguirsi d’assalti a sedi diplomatiche, di manifestazioni cariche d’odio, fino all’assassinio di parecchi cristiani in Nigeria ed all’assalto di una piattaforma petrolifera. Se qualcuno voleva lo “scontro di civiltà”, ci siamo oramai assai vicini.
Il comportamento dell’ex ministro Calderoli è incomprensibile ed assurdo: solo una persona dotata di scarsissima intelligenza e completamente priva d’acume politico poteva inventarsi una simile pagliacciata, che hanno già pagato con la vita molte persone.
Il dato che però più inquieta è che i fatti sono avvenuti in Libia, ovvero nel paese finora meno toccato dal fondamentalismo islamico, dove l’equilibrio di Gheddafi e la sostanziale forza del regime avevano impedito infiltrazioni dalla galassia fondamentalista.
L’Occidente deve scegliere, se trattare e con chi trattare, quali possono essere le vere motivazioni della contesa – la questione palestinese, l’energia, l’Iraq, l’Afghanistan – e cercare d’intavolare trattative per risolvere i problemi, non per aggravarli. Non si dà fuoco alle polveri per poi fuggie.
Se, addirittura, un ex generale come Sharon aveva compreso che l’unica via è la trattativa, non si comprendono oggi le chiusure di un insignificante (nel panorama politico israeliano) Olmert.
Di questo passo, fra provocazioni, chiusure diplomatiche, assalti ai consolati e quant’altro finiremo ben presto nella trappola preparata da tempo da Rumsfeld, Cheney ed Huntigton. Con l’appoggio incondizionato di un idiota di turno che credeva d’essere un ministro.

08 febbraio 2006

Pioggia di bombe in arrivo

Con il deferimento dell’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’ONU è iniziato il percorso che condurrà gli USA allo scontro con l’Iran: morte, sofferenza, sangue, vedove ed orfani sono già annunciati nel documento firmato a Vienna. Perché?
Anzitutto la ragione ufficiale – come sempre debole ed evanescente – degli impianti nucleari: non esiste nessun trattato internazionale che proibisce lo sviluppo del settore nucleare ad uso civile, e nessuno può dimostrare che Teheran compia il passo per scopi militari.
E se anche così fosse? L’Iran è oramai uno dei pochi stati dell’area a non possedere armi nucleari: se Teheran viene considerata inaffidabile, quanto può esserlo il Pakistan di Musharraf?
La questione delle armi nucleari è vecchia quanto il mondo: se io soltanto possiedo una lancia, tutti dovranno sottomettersi; se invece tutti possediamo una lancia, ciascuno riporrà la propria e si guarderà bene dall’usarla.
Le ragioni che conducono Washington allo scontro con l’Iran sono altre, riassumibili in due motivazioni, entrambe economiche.
La prima è la stessa che condusse – nel 1991 – alla prima Guerra del Golfo: nessun paese con ricchezze petrolifere può permettersi il lusso di trasformare i proventi energetici in un apparato industriale, giacché lo sviluppo economico e tecnologico indebolirebbe il controllo imperiale su quel paese.
L’Arabia Saudita è un lampante esempio di questo concetto: il primo produttore di greggio al mondo – che subdolamente sostiene Al-Qaeda – viene considerato “alleato” giacché i proventi petroliferi sono investiti nella finanza internazionale, pura e semplice carta “garantita” dalle Banche Centrali.
Se – invece di pura e semplice carta – qualcuno inizia a costruire industrie, quelle non sono più carta ma beni, ovvero qualcosa che ha un valore d’uso – e non di pura imputazione – e quindi non soggetto al controllo imperiale.
La seconda ragione deriva dalla prima; per sfuggire al controllo imperiale Teheran ha promosso l’avvio della Borsa Petrolifera: un mercato del petrolio in euro, come già tentò di fare Saddam Hussein pretendendo il pagamento del petrolio con la moneta europea.
L’attuale prezzo del greggio racconta non una, bensì due vicende: l’esaurimento delle risorse ma anche il deprezzamento del dollaro, “scaduto” in cinque anni rispetto all’euro di un buon 35%. Se il greggio iraniano fosse commercializzato in euro, sarebbe un’ulteriore batosta per la Federal Reserve del fuggitivo Greenspan, ed il biglietto verde accentuerebbe la ripida china che lo sta conducendo al disastro.
L’attacco all’Iran è quindi inevitabile – costi quel che costi sul piano politico – anche se ciò significherà la completa deflagrazione dell’Iraq, dell’Afghanistan ed una completa destabilizzazione dello scenario asiatico.
L’alternativa? La destabilizzazione interna USA, con un dollaro da repubblica di Weimar. Oramai, il treno dell’economia liberista richiede interventi radicali e non bastano più le operazioni di maquillage: non serve sostituire il conducente, dobbiamo proprio cambiare treno.