29 marzo 2009

Il migliore dei mondi possibile


Sarebbe un mondo meraviglioso, la terra dell’Eden, se una mattina Ariel ed Yits’aq non si fossero recati in centro, dopo la sbornia del Sabato sera…pardon…per festeggiare la fine dello Shabbat.
Dobbiamo riconoscere che nel Pianeta ci sono gravi problemi: c’è una devastante crisi economica, il futuro potrebbe riservarci nuove guerre, l’energia sarà più scarsa e cara, l’inquinamento ed il mutamento climatico potrebbero azzannarci all’improvviso…tutto sommato, però, potremmo trovare soluzioni, cercare con ostinazione di risolvere, di cambiare. Se Ariel ed Yits’aq non fossero scesi in centro, a Tel Aviv, quella Domenica mattina.
Non sappiamo se ci fosse il sole, ed un fresco vento proveniente dalla Galilea sospingesse i loro passi, oppure se le nubi giocassero a rimpiattino in cielo, scompagnate da quel vento di mare così carico d’aromi e d’umidità.

La sola cosa che sappiamo è che Ariel ed Yits’aq sono scesi in città dal loro sobborgo, magari per rivedere Sarah ed Esther – anche di questo non siamo certi – però lo hanno fatto.
Dove li ha condotti il Fato?
Gironzolando, hanno notato un negozietto d’abbigliamento: che male c’è, nel comprare una maglietta?
Ognuno di noi ha qualche maglietta ricordo – la cicloadunata di primavera o la festa della polenta – oppure quelle più serie, con il vecchio ponte di Mostar e tanti ricordi appesi ad ogni filo.

Ariel ed Yits’aq hanno appena partecipato ad un safari organizzato in terra di Gaza, e non vogliono privarsi di un ricordo, tanto per celebrare d’aver portato a casa la pelle.
Il proprietario del negozio offre, ovviamente, le migliori griffe, ma il prodotto “speciale” sono le magliette ricordo per i militari appena tornati da Gaza. Non potendo appendere alle pareti del salotto la testa imbalsamata di un bambino palestinese – con un safari “proibito” in Kenya ci potrebbe scappare anche la testa di un leone, ma a Gaza non offrono ancora quel servizio – il buon commerciate ha pensato di limitarsi all’icona.
E, per mostrare l’infallibilità dei cecchini con la stella di David, meglio sottolineare che con un sol colpo – risparmiare non è mai peccato nell’ebraismo – si riescono ad abbattere due prede. Come? Sparando ad una donna incinta: con un po’ di fortuna in aggiunta – le gravidanze gemellari non sono così frequenti – anche tre. Non vale ovviamente, prima di sparare, chiedere l’ecografia: ci si deve affidare alla “pancia” e basta, poiché un safari è un safari, ed ogni buon cacciatore deve fidare solo sulla prontezza e sull’istinto.

Potremmo fregarcene altamente di Ariel e di Yits’aq? Potremmo affermare che il nostro mondo necessità sì di profondi mutamenti, ma è ancora sano nei suoi fondamenti?
Prima che Ariel ed Yits’aq entrassero in quel negozio, potevamo avere dei dubbi: dopo, no. Per quale ragione?
Poiché entrare in quel negozio rappresenta il discrimine fra l’apologia della guerra e l’apologia della barbarie, che sono affari ben diversi – non tanto per i risultati sul campo, ahimé, poco dissimili – quanto per i segni, per i diversi imprinting che lasciano nella mente umana.
Una cosa è andare in guerra, altra invece è partecipare ad un safari con prede umane.

Non sappiamo se gli ufficiali selle SS che interravano vivi – fuori solo la testa – i bambini ebrei nei loro poligoni di tiro in alta Baviera, per provare la precisione sulla lunga distanza dei loro Männlicher, conservassero una sorta di ruolino, un carnet, come gli aviatori aggiungono in fusoliera una bandiera per ogni aereo nemico abbattuto. La Storia, a volte, è frugale nei particolari.

Vorremmo però domandare a due “Riccardi” italiani – Pacifici e Di Segni, l’uno presidente della comunità ebraica romana, l’altro rabbino-capo e valente medico – cosa pensano del mondo dopo aver visto quelle magliette.
A Pacifici – che conquistò la presidenza con la sua lista “pro Israele” – vorremmo chiedere in quale articolo del diritto israeliano sia scritto che in guerra non è solo permesso trucidare le donne incinte, bensì ne sia permessa l’apologia. Dunque, non è possibile relegare l’evento ad un “danno collaterale”: dopo Abu Ghraib e le torture, siamo giunti alle magliette della vergogna?
E, per favore, non giri attorno al problema come una pianta di zucca – sostenendo “che i negazionisti hanno detto o che gli iraniani hanno fatto” – ma risponda alla domanda, perché una pianta di zucca gira sempre e solo in tondo, attorno ad un letamaio.

Da Di Segni, invece – visto che Israele è uno Stato confessionale – vorremmo sapere dove, nella Torah, sia prescritto di trucidare qualsiasi nemico, donne incinte comprese. E vogliamo aggiungere alla ricerca, affinché non rimangano dubbi, anche i due Talmud e, già che ci siamo, incorporiamo anche la letteratura religiosa cosiddetta “minore”. Di Segni saprà perfettamente a cosa ci riferiamo.
Anche al rabbino, domandiamo d’essere preciso e di non lasciarsi prendere la mano da vecchie e nuove polemiche con i cristiani ed i musulmani: chiediamo solo, da acclarato studioso delle Scritture, di conoscere il versetto dove sia prescritto l’assassinio delle donne incinte e la sua apologia.
Per essere precisi, ci risparmi le tante citazioni sulla potenza del “Dio degli Eserciti”, perché quelle già le conosciamo: le donne incinte, e basta.

Al Presidente della Camera Gianfranco Fini – che a suo tempo appoggiò la “crociata” contro Saddam Hussein – vorremmo chiedere, nella sua veste di “grande amico” d’Israele, a quale pena condannerebbe chi uccide volontariamente le donne incinte. C’è un cappio ancora caldo a Baghdad.
Infine, all’onorevole Fassino – fondatore dell’associazione “sinistra per Israele” – vorremmo domandare quanto, a suo giudizio, sia “sinistro” veder circolare esseri umani con quelle magliette indosso.

Si potrà affermare che la notizia non è nuova, ed è già passata su Internet – cogliamo dunque l’occasione per ringraziare chi lo ha fatto – ma, a nostro avviso, è stata “triturata” nel frullatore dei media troppo velocemente.
Torniamo dunque a riproporre la riflessione sulle due apologie, guerra/barbarie poiché, se la prima è disdicevole, la seconda è criminale: fulmineo veleno per le menti.
Perché, signori miei, non si tratta solo di ciò che avviene in Israele, bensì di ciò che passa sui media dell’intero Pianeta: avremmo desiderato almeno un afflato di condanna, e invece il silenzio delle istituzioni assorda.
A forza d’aggiungere vergogne e mistificazioni, c’è da chiedersi se questo Pianeta sia ancora un posto degno d’essere calpestato con piedi gentili, un luogo ove portar rispetto per gli antenati che c’hanno preceduto, oppure se certe macchie non insozzino definitivamente ogni orizzonte, rendendolo improponibile, e dunque solo da distruggere.

Di certo, sappiamo che due Sturmschützen circolano per Tel Aviv, dopo aver scambiato una stella gialla con le mostrine, nere, delle SS. E, questo, non potrà mai più essere – a dispetto dei nostri sforzi – il migliore dei mondi possibile: anche per noi che siamo lontani dai parchi-safari palestinesi, per tutti.

23 marzo 2009

Quando i buoi sono scappati

Leggiamo sulla stampa che il segretario del PD, Franceschini, ha oggi lanciato le “linee guida” per i prossimi appuntamenti elettorali: vere forche caudine per il neo segretario, giacché oggi non si tratta di vincere o di perdere, bensì di limitare i danni. Insomma, se finirà 5-3 il PD potrà riflettere su quale futuro inventarsi mentre, se finirà 5-1, probabilmente la “deriva” del PD sarà inarrestabile. Il risultato è tutto nella “forbice” fra il 20% ed il 30%.
A parziale giustificazione dell’attuale segretario (parziale, perché prima era vice segretario), c’è da dire che “l’eredità” politica di Veltroni è paragonabile all’Italia del 1945 od alla Germania del 1918: un incubo.
Il partito, in pochi anni, ha “bruciato” nella mai ammessa lotta fratricida fra Veltroni e D’Alema tutte le sue energie: basti pensare che, per uscire dalla “guerra civile”, ha dovuto nominare un segretario di provenienza democristiana.
Ora, i due sono completamente fuori gioco: D’Alema giocò male le sue carte nel 1999 – Kosovo e Bicamerale – mentre Veltroni ha distrutto, con la sua idea bislacca di “chiudere” a sinistra, l’unica opposizione possibile. Ricordiamo che il governo Prodi cascò per i voti contrari di Dini e Mastella: il primo rapidamente migrato nel PdL, mentre il secondo è ancora là che bussa alla porta di Berlusconi. Invece, la “colpa” ricadde sulla sinistra: mistero.
“Cosa fatta, capo ha” – recita il proverbio – ed è oggi inutile rimestare quelle acque.
Ci ha negativamente sorpreso, invece, il ritorno di un tormentone chiamato “quote rosa”: il 40% delle liste, nel PD, sarà riservato al gentil sesso.
Ci spiace dover riconoscere che il Ministro Mara Carfagna, riguardo alle “quote rosa”, ha ragione: non si può promuovere per editto il gentil sesso, senza riconoscere che la partecipazione in politica delle donne, in Italia, sconta un ritardo abissale. Qui, una Angela Merker od una Segolène Royal sono impensabili perché manca il retroterra, ovvero un “sostanzioso” numero di donne in politica, dalle quali possano emergere personalità di spicco. Quando, però, (in casi rari) una personalità emerse – ricordo, una per tutte, Tina Anselmi – la falce manovrata dalle segreterie fece subito piazza pulita.
Ovviamente, la nostra “concordia” con Mara Carfagna termina qui, poiché le donne dell’attuale governo – si pensi all’acclarata incompetenza della Gelmini, il vero Ministro dell’Istruzione è Brunetta (sic!) – sono indubbiamente ben al di sotto del già scarso livello dei loro colleghi maschi.
Inoltre – nel PD – per metter fine all’improponibile candidatura di un certo Bassolino in Campania, saranno “azzerate” tutte le candidature di amministratori già in carica. Chi metteranno?
I due argomenti – “quote rosa” e “azzeramento” – sono collegati e rimandano ad un problema più generale, ovvero alla formazione di una classe politica.
Non potrei, purtroppo, che ripetere quanto già scrissi nel mio “Storia di lucidatori di sedie” (http://www.carlobertani.it/storia_di_lucidatori_di_sedie.htm ) – ed invito i lettori a leggerlo, non per spocchia o per “io l’avevo detto”, ma soltanto per risparmiarmi la fatica della ripetizione – laddove spiegavo la genesi della classe politica italiana, partendo dagli anni ’60.
Franceschini invita il partito ad un forte rinnovamento, ad inserire nelle liste personalità provenienti dal mondo della cultura e delle professioni, ma dubitiamo che il suo appello avrà successo: sono troppe le persone, all’interno del PD, ad essere il “lista d’attesa” da anni. Sgomitano da decenni, nell’attesa di un “posto”.
Riflettiamo sul colossale fallimento della “Fabbrica del programma” di Romano Prodi – quando l’Ulivo poteva essere vincente – e portiamola all’oggi: quante possibilità ha Franceschini?
Le “personalità” che dovrebbero rinnovare il PD, saranno ovviamente ricercate sulla base della fedeltà elettorale – dimenticando che anche il coriaceo PCI promuoveva le candidature esterne al partito – e qui cascherà l’asino, poiché persone “allevate” per decenni in questo andazzo non potranno che riproporre schemi e strategie già conosciute, utilizzate e perdenti.
La prova?
Nel 2004, il sottoscritto inviò a Romano Prodi la copia di un suo libro con allegata la proposta per un piano energetico basato sulle rinnovabili: la risposta (che conservo) mi chiedeva d’appoggiare la trasformazione di sei centrali da petrolio a carbone. Ovviamente, rifiutai.
Chi accettò, ballò un grazioso minuetto suonato dall’orchestra del Titanic, finì per diventare “consulente” dell’uno o dell’altro (non ci riferiamo, ovviamente, al prof. Rubbia, fuori della mischia) e per due anni scaldò le sedie, nel loggione del secondo governo Prodi.
Rassegniamoci: l’Italia vivrà fino in fondo questo “para- fascismo” berlusconiano – precisiamo, con virgolette e “para” – e non ci sarà più opposizione. Non vorrei essere nei panni di chi erediterà l’Italia, nel 1945 che verrà.

21 marzo 2009

Dietro le quinte del “Obamismo”

Il presidente Obama impazza ai quattro venti sulle reti televisive, compiendo anche qualche gaffe: sappiamo, quando l’attività ferve, che un errore linguistico – come quello sulle Paraolimpiadi – può scappare. Fossero questi i problemi.
L’esaltazione è al massimo: quello che non condividiamo è il giocoso ottimismo di Vittorio Zucconi[1] – forse la miglior “penna” italiana negli USA – come se bastasse essere giovane, negretto, simpatico ed atletico per rovesciare decenni di soprusi, interferenze interne nella politica d’altri Paesi, sciagurate scelte economiche, truffe finanziarie, innaturali compari strategici, omissioni climatiche…con in aggiunta una spocchia ed una presunzione senza pari.

Quando si hanno le pezze al sedere – caro Barack, caro Vittorio – la prima cosa da fare è un bagno d’umiltà.
Lo ha ricordato, con naturale ed estrema semplicità, l'ayatollah Ali Khamenei – massima autorità degli sciiti iraniani – affermando “ho sentito slogan sul cambiamento, ma il cambiamento non si è visto[2].
Comprendiamo le “peste” (o “la” peste?) nelle quali si trova impelagato fino al collo il giovane Presidente USA: dopo otto anni di sciagure “targate” Bush, la china da risalire è dura e deve lottare su più fronti, interni ed internazionali.
Siccome Barack – nei suoi affetti personali – pare baciato dalla fortuna più di un “galletto” come Clinton o di un “sorvegliato speciale” come Bush, sembra aver dimenticato che, in amore come in politica, ciò che regge al tempo sono i compromessi, il buon senso e le concessioni. I buoni propositi, dopo i tradimenti, lasciano il tempo che trovano.
E, di “mogli tradite”, la diplomazia americana ne ha interi harem, sparpagliati nei cinque continenti (non abbiamo notizie di guai dall’Antartide). Più, ovviamente, mogli, fidanzate, compagne ed amanti deluse che si ritrova in casa.

E’ proprio di oggi la notizia che un’antica fidanzata – con la quale, nel passato, ci fu baruffa forza 9 – ha sbattuto la porta e se n’è andata, senza nemmeno curarsi dell’argenteria o di chiedere gli alimenti.
Il Ministro della Difesa spagnolo, la signora Carme Chacon, Giovedì 20 Marzo 2009 ha annunciato direttamente ai militari spagnoli in Kosovo, appena scesa all’aeroporto di Djakova, che sarebbero tornati a casa[3].
Tralasciamo il minuetto diplomatico fra le cancellerie europee, quel “io l’avevo detto”, “no, non l’avevi detto”, “sì, l’ho fatto e non avete sentito”, “no, l’hai detto mentre eravamo voltati”.
Suvvia, signori, queste sono manfrine e giochetti che si fanno alla scuola elementare: “Marco ama Francesca”, “no, ama Giada e lo sa anche la maestra”, “li ho visti mano nella mano in cortile”, “no, Giada m’ha assicurato che andrà solo al suo compleanno”.
Insomma, signori Ministri degli Esteri (‘Gnazio, hai sentito?), lasciate il banco delle elementari e rendetevi conto che siete in diplomazia. Dovreste dissertare su Metternich, Bismarck, Pitt, Napoleone…e non di compleanni.

Il succo della vicenda è che 632 militari spagnoli lasceranno a breve una delle aree più “calde” del Kosovo, quella dove ci sono le enclave serbe, a serio rischio d’estinzione per la “magnanimità” del “presidente” kosovaro Hashim Tachi, un tizio che ha scansato il Tribunale dell’Aia nominandosi presidente di qualcosa che non si sa bene cos’è[4]. Anche Milosevich era presidente, o sbagliamo? Pronto, signora del Ponte? Tuut, tuut…sempre occupato…
La vicenda rischia di diventare un boomerang per l’Italia, perché gli spagnoli sono schierati proprio nel settore di competenza italiano e quindi toccherà all’Italia, in primis, metterci una pezza. Cioè alle nostre tasse…pardon, tasche.

Parentesi: la novella delle indipendenze “auto-proclamate” ci sembra proprio un bel passo in avanti della diplomazia internazionale. Ciascuno fa, del suo (presunto) territorio, ciò che vuole. Potrei fondare “Bertania”? Mi dicono di no.
A prima vista parrebbe la soluzione più semplice, ma come la mettiamo con quelli che abitano sì in quei posti, ma si sentono legati ad altri? Tutti i veneti vogliono un Veneto indipendente? Non ci sembra proprio: i dati elettorali parrebbero negarlo.
L’andazzo, ci sembra ancora una volta mutuato dalla scuola elementare, laddove – quando si litigava con il compagno di banco – si tirava una bella riga in mezzo e si minacciava: “Se oltrepassi il confine, ti pungo con l’ago del compasso”. Torniamo a chiedere alle diplomazie internazionali di salire, almeno, alle medie. Fine della parentesi.

La questione spagnola non è un fulmine a ciel sereno: è, semplicemente, la naturale risposta ad un pessimo andazzo che ricalca tutte le missioni internazionali.
“Si va tutti insieme e si decide di partire tutti insieme”: certo, però quel “tutti insieme” finisce per essere un semplice fonogramma da Washington.
Ricordiamo che, in Kosovo nel 1999, 19 aviazioni operarono (compresi gli AMX di D’Alema) così d’amore e d’accordo che – quando gli USA decisero di bombardare l’ambasciata cinese (una quisquilia, ovviamente, in diplomazia) – lo fecero senza avvisare nessuno. E la Francia iniziò a “passare” i piani di volo ai serbi: fu veramente una famiglia gioiosa e colma d’amorosi sensi. Si vide il seguito in Iraq.
Perché, oggi, la Spagna si smarca?

Per prima cosa, poiché l’aquila americana – dopo l’Iraq – non fa più paura a nessuno: con tutti i guai che hanno a casa loro, cosa potranno fare? In Italia non ci siamo ancora arrivati. In Francia, invece, ci sono ricascati.
In seconda battuta perché c’è una crisi economica e, se si “taglia” lo stato sociale, non si capisce perché non si possano tagliare i fondi destinati all’Italian Infantry Army in Kosovo. Che, pur essendo praticamente un corpo di spedizione dell’esercito americano, viene pagato dai contribuenti italiani. La Spagna ci è arrivata: noi, restiamo “fedeli alleati” e costruiamo nuove basi yankee come a Vicenza.

Queste sono controversie del breve e medio periodo – magari con qualche compensazione economica, un tempo, si sarebbero appianate – ma gli USA potrebbero oggi garantire al massimo qualche tonnellata di bond tossici. Thank you, not.
Nel lungo periodo, invece, questo “ritiro” è il segno di quel che sta avvenendo in America Latina.
La Spagna non fu nazione sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, e non aveva più – praticamente – possedimenti coloniali: particolari da non sottovalutare.
Gli stati latinoamericani pervennero da soli all’indipendenza, mentre il “boccone” più prelibato del restante impero coloniale spagnolo – le Filippine – fu ingurgitato proprio da Washington, imbastendo una false flag all’Avana (lo strano “attentato” alla corazzata Maine) in pieno stile Pearl Harbour od 11 Settembre.
Tutto passa in diplomazia, ma tutto resta, poiché gli interessi rimangono: se qualcuno ha dei dubbi, s’informi sulla “penetrazione” del Banco di Bilbao in America Latina.

A Sud di Monterrey, gli USA possono contare soltanto più su un “Fort Apache” in Colombia: per giunta, messo talvolta sotto scacco dai vicini. Se parlate dei gringo in Argentina, persino Maradona si mette alla testa di un treno per andare ad urlare la rabbia stratificata, quella di decenni di soprusi.
E poi Morales, Chavez, la Bachelet…oh, trovarne uno che si prostri a Washington: il Cile, aveva persino – timidamente – proposto un’affiliazione all’Unione Europea, mettendo in grave imbarazzo Bruxelles. Non scambiamo gli accordi commerciali di Lula con Bush per i biocarburanti: quelli sono affari e basta, e business is business.

Dove può trovare “sponda” la nuova America Latina – che s’è oramai affrancata dall’essere il “cortile di casa” di Washington – se non nell’antica madre/matrigna, ma pur sempre la nazione con la quale ha comunanza di lingua[5]?
Sappiamo d’accordi economici stabiliti fra il Brasile e l’India, militari fra il Venezuela e la Russia e poi Cina un po’ per tutti, ma Madrid rimane, per i latinoamericani, un faro. Molto, molto di più di Roma, che non ce la farà mai a scalzarla: basta osservare come sta andando la vicenda di Battisti.
La comunanza di lingua è un fattore importantissimo – oggi spesso ignorato, nel nome del cosiddetto “inglese internazionale” – ed invece, mentre l’impero americano declina, torna ad essere legame forte: riflettiamo che un libro in italiano può avere al massimo 60 milioni di potenziali lettori, uno in spagnolo rasenta il mezzo miliardo.

Per questa ed altre, moltissime ragioni, consiglieremmo ad Obama di meditare meglio sulla sua politica: per ora soltanto un ensemble di spot ben congegnati ad uso russo/cinese/europeo, che però rischiano d’esser mal compresi nel resto del Pianeta. Ad esempio, quel “noi non negozieremo il nostro stile di vita”, ascoltato nel suo discorso d’insediamento, non ci è parso un gran biglietto da visita.
Il problema – caro Barack, caro Vittorio – è che di “mogli deluse”, all’interno degli USA, iniziano ad essercene troppe, e guai all’inquilino di Pennsylvania Avenue se dovessero saldarsi con i riottosi harem sparsi per il Pianeta: correremmo il rischio d’osservare, per la seconda volta, un film già visto.

Perché, Barack Hussein Obama, potrebbe rapidamente trovarsi – suo malgrado – rinominato in altro modo: Michail Sergeevič Gorbaciov.

[1] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-5/zucconi-21mar/zucconi-21mar.html
[2] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-5/risposta-iran/risposta-iran.html
[3] Fonte: “Repubblica”, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/spagna-kosovo/spagna-kosovo/spagna-kosovo.html
[4] Per avere maggiori delucidazioni sulle vicende kossovare, vi rimandiamo caldamente a Miguel Martinez su Kelebek (http://kelebek.splinder.com/ ). Soprattutto la “Storia di Reska”, uno dei più commoventi brani letterari pubblicati nell’ultimo decennio.
[5] Anche se il Brasile è di lingua portoghese, le affinità linguistiche (soprattutto sintattiche) sono molte. Basti pensare che gli spagnoli “nazionalisti” considerano il portoghese “un dialecto del gallego”.

19 marzo 2009

Torniamo ad Augusta?

Le esternazioni di Papa Ratzinger sul preservativo – la sua inutilità, secondo il suo pensiero – hanno riattizzato fuochi mai sopiti fra la Santa Sede ed il resto d’Europa. Fuori del coro, è rimasto soltanto lo Stato della Chiesa – quello con i nuovi confini, che vanno dal Brennero a Lampedusa – mentre anche la cattolicissima Spagna ha fatto spallucce, decidendo d’inviare stock di preservativi in Africa.
Notiamo che, ancora una volta, la rivolta dei “principi” del Nord s’è fatta sentire: per fortuna, in modo meno “eclatante” rispetto al ‘500. Ci è risparmiato il sangue.
La posizione della Chiesa – non vorremmo apparire maleducati od anticlericali – ci sembra quella del medico che cura la dissenteria con i tappi: proporre la famiglia come l’antidoto alla frammentazione sociale, in Africa, è proprio curare il sintomo senza cercare la causa del male.
La frammentazione della società africana, la sua disgregazione – perché basi condivise di socialità non esistono più – ha precisi artefici, con tanto di nomi e cognomi. Si parte da Vasco da Gama per finire con Kitchener – tanto per citare due colonialisti – passando per una pletora d’avventurieri colorati dalla scia del sangue.
La Chiesa Cattolica, in quei secoli – ricordiamo il Concilio di Trento (1545 – 1563), la “pubblicità” (necessità di pubblicazioni) del matrimonio, dunque il non riconoscere i matrimoni fra africani, quindi la possibilità per i negrieri di separare le famiglie – ha immense responsabilità nel lungo calvario dei neri.
La seconda parte delle dichiarazioni di Ratzinger è rivolta contro gli integralismi: ora, nessuno difende qui l’integralismo, inteso come l’essere refrattari all’altrui credo, per finire nel maleodorante stagno del “noantri” e basta.
Dobbiamo però riconoscere che le uniche istanze di ricostruzione di una cultura non europea, non bianca, non importata – in Africa – giungono dall’Islam. Molte scelte degli islamici non ci piacciono, ma riflettiamo che avvengono in un panorama deserto, una tabula rasa dove – come affermò Léopold Sédar Senghor, ispirato poeta e politico africano – “Il ventre delle donne africane, la cassaforte di una cultura lunga 30.000 anni, fu violata”.
Oggi, chi violò, pretende di possedere le miracolose “chiavi” per riaprire il forziere: non esiste più nessun forziere, c’è invece da ricostruire la società africana su nuove basi, che solo loro potranno trovare e scegliere. Il fenomeno delle Corti Islamiche somale ne è – con tutti i limiti “naif” del caso – un esempio, e noi occidentali armiamo gli etiopi per distruggerle, per riportare tutto al nostro dominio neocoloniale.
Da ultimo, notiamo che solo lo Stato della Chiesa Esteso non si pronuncia, forte di quel “cuius regio, eius religio” stabilito ad Augusta (1555) per dirimere le diatribe fra Protestanti e Cattolici. Evidentemente – vista l’aperta confessione del Gran Ciambellano Papalino di Palazzo Chigi – siamo rimasti soli: chiederemo la revisione della Pace di Augusta?
Bisognerà radunare nuovamente i principi tedeschi, dalla Sassonia alla Renania, qualche Asburgo, più un messo pontificio (qui, non ci sono problemi) ed un po’ di comparse.
Il sottoscritto si candida, sempre che non vi siano più autorevoli richieste, per svolgere il compito d’amanuense, scrivano, imparziale segretario del nobile consesso. Sarebbe così divertente che lo farei gratis.

18 marzo 2009

Togliersi la “scimmia”

Finalmente, ci sono riuscito. Ci sono voluti anni ma, adesso che ne sono fuori, non posso tacere e devo confessare la mia tossicodipendenza di decenni, oggi sconfitta.
Come ho iniziato?
Eh, come tanti: ogni buon genitore, di fronte a queste disgrazie, dà la colpa alle “cattive compagnie”. Invece, le cattive compagnie c’entrano poco; se sono veramente “cattive”, non perdono tempo per scovarci: siamo noi a cercarle. Esse, non ci cercano e non c’impongono niente.
Perché si va a cercarle?
Poiché la vita che facciamo ci va a noia, perché desideriamo dare uno “sguardo” oltre il recinto, per provare nuove emozioni, valicare nuovi orizzonti…ognuno ha le sue ragioni.
Certo, dopo – quando hai la “scimmia” – il tuo orizzonte scema vertiginosamente in una caligine che, ogni giorno, diventa più fosca. Hai perduto il tuo orizzonte naturale e ne hai trovato uno che, a prima vista, pareva invitante: dopo, vaghi smarrito, come un orfanello in una metropoli.
Come iniziai? Non posso esimermi dal raccontarlo.

Cominciai presto, a nove anni, perché la noia m’attanagliava.
Non mi bastavano più i sogni ed i giochi all’aria aperta – cacciare di frodo gli uccellini con il Flobert (sì, ho fatto anche quello…), fare a botte (da ragazzini…) fra bande nel quartiere, giocare a pallone sul sagrato della chiesa, sognare di pilotare un caccia mentre ero seduto al volante di una “Millequattro” FIAT demolita, osservare di soppiatto la ragazzina dei sogni mentre faceva i compiti… – no, quel mondo non mi bastava più. Volevo emozioni “forti”.
Così, riuscii a strappare ai miei genitori il permesso di stare alzato dopo “Carosello” il sabato sera: acconsentirono, e non immaginarono a quali danni m’avrebbero esposto.

Fui iniziato da due ragazze più grandi – succede sempre così, straniere, gente esperta di vita – che portavano il nome di Alice ed Ellen Kessler, tedescone di Cermania con gambe mozzafiato.
Così, la settimana scorreva lentissima, nell’attesa del sabato sera che m’avrebbe finalmente donato la dose d’immaturo Eros del quale abbisognavo: la “scimmia”, si sa, è dura.
“Dadaumpa” era il brano musicale ch’addolciva con melliflue note i pochi minuti ch’accompagnavano l’oramai unico senso della vita mentre, fasciate da calze scure, le due Fräulein roteavano le tornite estremità ai quattro venti.
Io – come, immagino, milioni di ragazzini dell’epoca – rimanevo pietrificato, saliva azzerata, occhio pallato: fu un fenomeno collettivo e socializzante – in quella Italia dove la parola “clericalismo” non esisteva, perché si sovrapponeva perfettamente alla vita di tutti i giorni – ossia milioni di giovani “candelabri” che levitavano, all’unisono, al cielo dell’Eros.
Inutile raccontare il “dopo”: ci ha magistralmente pensato Carlo Verdone (quando, ancora, era un vero regista) – in “Al lupo! Al lupo!” – a fare il conto delle pippe estive di due fratellini al mare: numero pippe giornaliere x giorni x mesi x anni, ecc.

I primi tempi scorsero così, fra gambe mozzafiato e la roca voce di Nicolò Carosio che descriveva una Nazionale sempre eroica, raramente vincente. I primi tempi con la “roba”, però, non sono tragici; si pensa di riuscire a gestirla: «Sì, mi “faccio”, ma ho tutto sotto controllo…»
Ci pensarono, per fortuna, le prime avventure giovanili a staccarmi un poco dalla “roba”: finalmente, la ragazzina dei sogni potevo abbracciarla e tentare qualche timida toccatina di tette, con rischio di sberla.
Ancor più, la contestazione giovanile: già in quelle sere di Maggio, però, c’erano note stridenti. «Non vieni, stasera, al collettivo?» «No, dai, c’è “Canzonissima” e non la voglio perdere…ci sono tutti quelli del “Cantagiro”…»
Pur nell’inflessibile e rigida morale leninista, quello era considerato un peccato veniale, una piccola concessione alla morale borghese: ah, compagno Stalin, saresti dovuto intervenire per tempo!

In ogni modo, dobbiamo riconoscere che quel che passava la TV non era tutta robaccia tagliata, amfetamina allo stato puro: con il “Marco Polo” di Giuliano Montaldo, probabilmente, si toccò l’apice delle belle produzioni storiche, ma tutto il neorealismo italiano – da Rossellini a Scola – passò per il piccolo schermo.
Le opere di Eduardo, Govi, Pirandello…e molto del teatro transitò nel glorioso bianco e nero, così come la lirica.
Anche i telefilm non erano proprio da buttare: Perry Mason fu un “cult” dell’epoca, tanto che ancora oggi viene trasmesso. E l’indimenticabile Maigret di Gino Cervi?
Passarono gli anni, vennero le Brigate Rosse e la Legge Reale, la quale – di fatto – chiuse gli italiani nelle loro case: ti fecero passare la voglia d’andare in giro a forza di posti di blocco e perquisizioni.

Per gli italiani, che trascorrevano le serate sempre di più in casa loro, nei primi anni ‘80 apparve Hazzard, simpatica serie che era trasmessa dalle reti Mediaset.
Particolare non di poco conto, poiché le nuove reti “libere” dovevano cercare il proprio pubblico fra quello di mamma RAI. Cosa c’era, di meglio, che una banda di ragazzetti svegli, i quali prendevano in giro un potere stupido (Boss Hog) cavalcando un’auto dal nome evocativo – il “Generale Lee” – ossia il grande nemico degli stati del Nord?
Il vecchio zio era la tradizione, la sorella l’antitesi della “casalinga di Voghera”, Boss e Rosco…beh, gli stupidi di turno…e i due ragazzi vincevano sempre alla grande. Messaggio: il vecchio potere cristallizzato è da abbattere. Schiantatelo qui, nella nuova TV libera, indipendente dai politici e dai loro lacchè.
Chi è il proprietario? Un tizio che si guadagnava da vivere suonando nelle orchestrine sulle navi…uno che si è fatto da solo, proprio come i due di Hazzard. Un uomo da Hazzard.

Il resto ne discese: per far dimenticare la televisione di qualità – ossia un mezzo che presentava una panoplia di messaggi, anche fra di loro contrastanti, ma di buon livello culturale – era necessario proporre qualcosa che fosse più semplice da “digerire”. Oltretutto, doveva essere facilmente frammentabile per farne uno “spezzatino”, dove patate e carote erano la pubblicità: con il tempo, la carne è diventata sempre più rara.
Quali effetti poteva avere un simile approccio, nei confronti di una popolazione ancora abbastanza naif, legata a valori tradizionali?
Non ci fu critica né simbiosi, ma solo sovrapposizione di un mondo che ne scacciò un altro: ed oggi litigano – mi vien da sorridere – per la nomina del presidente della RAI!
Mentre la prima TV combatté l’analfabetismo con apposite trasmissioni, la “nuova” TV promosse in pieno l’analfabetismo o, almeno, quello di ritorno: non è necessario saper leggere Pavese o Calvino, basta interpretare la lingua quel tanto che basta, per decifrare l’etichetta di un prodotto.
Da proposta culturale si trasformò in messaggio quasi subliminale: la “scimmia” era pronta. Oggi, l’Italia è il trionfo dei telefonini, mentre l’accesso alle reti telematiche addirittura, nell’ultimo anno, è diminuito, in controtendenza con il resto d’Europa.

In genere, la “scimmia” – ho notato negli anni – colpisce di più le ragazzine che i ragazzini: dovendo, i secondi, cercare le prime, è ovvio che alle sopraccitate rimane più tempo per intrattenersi. Scherzi a parte, le ragazzine maturano prima e, mentre i compagni – a microfono spento – confesseranno che qualche volta, il Lego, va beh…solo più qualche volta…le loro coetanee già nuotano nell’oceano delle emozioni.
E allora vai!
Ore, pomeriggi, serate, trascorsi di fronte ad uno schermo dove scorrono emozioni a fiumi: lui nella parte di lei, lei nella parte dell’altro, tutti insieme appassionatamente! Al termine, il lieto fine: compare il principe azzurro di turno – bello, belloccio, elegante, lacrimevole, affettuoso, contrito per il tradimento… – e lei perdona, perdona sempre. Baci e abbracci.
Rimasi basito quando due genitori, convocati perché la loro creatura studiava pochino, mi chiesero: «Professore, glielo dica lei di non guardare più Maria de Filippi!»

Per i più grandi, invece – visto che il porno, nell’era delle reti peer to peer, non tira più – bisogna inventarsi qualcosa. I pusher sono sempre al lavoro per cercare nuove prede.
Il calcio tira, tira sempre: come fare?
Per prima cosa si toglie il gioco giocato dai teleschermi: non vorrete mica emozionarvi per un assist millimetrico, per una girata vincente che “becca” il “sette”…no, queste sono cavolate…
Godetevi Mughini, Maurizio Mosca e il Biscardone che vi raccontano quel che vedono, mentre blaterano e cospargono di fiori secchi il camposanto del calcio: se v’addormentate, c’è pronta la solita coscialunga, la pronipote della Pairetti. La inquadrano, “camera bassa”, ad intervalli regolari: fateci caso.
Così saprete tutto della cugina dell’amante del vice allenatore…in compenso, vi faranno vedere due tiri in porta e buonanotte: ai primordi della TV, trasmettevano ogni Domenica un tempo di una partita di serie A.
I buoni pusher, sono lì per farvi venire l’acquolina in bocca: fai l’abbonamento, fai la sottoscrizione…e ti godrai il calcio! Ossia, quello che i pusher chiamano ancora calcio. Quello delle “sciabolate”.
Ogni tanto, vado a vedere una partita delle giovanili. Da bordo campo, sento l’allenatore che urla: «Raddoppia, vai sulla fascia, aiutalo!»…«Rientra, rientra! Guarda l’uomo!», osservo il movimento sul campo delle giovani “reclute”. Quello è calcio: chi ha giocato lo sa, mica campionati e mondiali truccati.

Se il calcio non interessa, bisogna comunque intrattenere: nel placido mare dell’intrattenimento a basso costo – il classico “uomo che ha morso il cane” – qualcosa deve spiccare. Ecco, allora, la “specializzazione”, per tutte le tasche, per tutte le menti.
Se siete tipi tranquilli, i quali ancora credono che l’Italia sia uno dei più bei posti per vivere, instilleranno in voi il seme dell’avventura e del rischio, portandovi in un’isola caraibica abitata da personaggi conosciuti (sempre in TV) che giocano a Robinson Crusoe. Peccato che, quando non sono impegnati nelle riprese, gli attori siano alloggiati in un hotel a 5 stelle della vicina isola, poiché l’isola dei “dimenticati”, all’opposta costa è un deposito di rifiuti e sta causando gravi problemi all’ecosistema locale. Insomma, l’isola “delle scoasse” – per dirla in veneto – in tutti i sensi.

Amate la giustizia? C’è Forum, dove la gente comune trova soddisfazione in un tribunale – notare la finezza! – ch’è la replica italiota di un’aula di giustizia statunitense. Là sì che c’è giustizia: ecco il messaggio che deve passare.
Accompagnai, parecchi anni or sono, un’amica – attrice dilettante e brava – a Milano perché doveva girare una puntata di Forum: le diedero 700.000 lire. Capito mi hai?

Se siete incavolati per le mille ingiustizie dello Stivale, “beccatevi” Mi Manda Rai 3, dove tutte le ingiustizie saranno ben sottolineate, e tutto continuerà come prima. Amate la scienza? Perdinci! Abbiamo lo studio associato Angela & Angela, che vi propone di tutto di più: dalla medicina all’archeologia, dalla storia alla tecnica. Il nipotino, probabilmente, lo faranno studiare canto: così, ve la canteranno anche in musica.
Peccato che la scienza di Piero Angela sia un frullato di veline copiato qui e là da qualche sito Web, mentre sui grandi enigmi della Storia si tace. Sempre.

E si continua: siete di “sinistra”, ma moderata? Ecco servita in prima serata la grande abbuffata di Ballarò, il più maestoso frullato di cazzate mai visto. Per di più, non raccontate, urlate.
Se, invece, siete di “sinistra” – ma estrema – c’è pronto San Toro a convogliarvi sulla giusta strada, la via del retto, con il bel pistolotto iniziale del Marchinooddiocomesonobravo e la ex schermitrice che si schernisce, erobravaanchelàmaquiguadagnopiùsoldi.
Ogni tanto, inscenano qualche gazzarra per farvi credere che lì c’è confronto vero, salvo poi scivolare negli abissi della più noiosa banalità para-istituzionale. Fui il primo a denunciare l’andazzo con un articolo – “’O Mullah” – dove criticavo l’approccio di Travaglio all’Afghanistan: spiegare Kabul e dintorni non è una questione di mullah, bensì bisognerebbe chiedersi perché una terra così povera sia, oramai da secoli, in preda a continui sconquassi geopolitici ed a guerre. Mi restituirono una valanga d’improperi.

Il chiodo fisso della TV – di questo media mono-direzionale – è “intrattenere” ed “informare”: giochiamo un po’ con i sinonimi.
Intrattenere è in-trattenere, ossia trattenere in un luogo, sia esso concreto od astratto: “trattenere” può diventare bloccare, ed allora sarete bloccati (trattenuti) lì, in quel luogo. Questo è lo scopo.
Dopo essere stati “trattenuti” sarete in-formati, ossia “formati” – sinonimi: plasmati, modellati, configurati… – in quel posto, in quel modo.
Non si tratta di rinverdire l’Orwell che tutti conosciamo, bensì d’averne coscienza, consapevolezza: troppo spesso dimentichiamo che la “scimmia” è infida, sfaccettata, melliflua.

Da tempo, la mia TV è sempre spenta: e, quando dico “sempre”, è veramente sempre: al più, quando leggo sul Web che c’è stata baruffa forza 9 o qualche gaffe mielodrammatica, la guardo su Youtube. Si perde meno tempo.
Poiché il gran problema della TV è il vostro tempo: devono rubarvelo, altrimenti rischiereste “fuoruscite” incontrollabili.
Mi sono chiesto, a fronte dei miei impegni, come faccio a reggere: scrivere qualche articolo il mese, magari continuare il libro che hai “aperto”, andare a scuola – con gli annessi e connessi – occuparmi di madre e suocera sole – con annessi giardini, rubinetti che perdono, sedie da riparare – più i figli e trovare ancora il tempo per concedermi le amicizie e qualche sogno ad occhi aperti.
Fare l’insegnante m’avvantaggia ma – credete – meno di quel che si può immaginare: se non mi fossi tolto la “scimmia”, dovrei “tagliare” senz’altro qualcosa.

Il conto è presto fatto: due ore il giorno x giorni x mesi x anni – come per le pippe di Verdone – fanno cifra: in un solo mese, sono 60 ore. In 60 ore, c’è il tempo per leggere un libro, un bel po’ d’articoli e magari per scriverne tre o quattro. Oppure, cambiando il “mix”, per andare a funghi, riparare una finestra, correre sulla spiaggia. O, ancora, un melange d’entrambe le situazioni: a patto di non cedere e sopportare, solo per i primi tempi, la “scimmia”. Dopo, si prova un gran senso di leggerezza.

So benissimo che la maggior parte di voi fa spallucce alla TV: lo spero vivamente, e quindi potrei aver scritto della banalità.
Vi propongo, allora, una sfida: installate una multipresa a monte della TV, quelle con l’interruttore che s’illumina. Poi – a parte il film che guardate in DvD, e concediamo le previsione del tempo, del traffico o qualche piccola “incursione” sui Tg/Televideo per osservare rapidamente come “butta” – contate quante volte in un mese quella spia s’accende.

Zero: siete fuori, lontani dal recinto e non ve ne può fregar di meno.
Da zero a dieci: siete fuori dal recinto, ma ogni tanto tornate nei pressi per osservare come vanno le cose là dentro: attenti, i pusher girano soprattutto fuori…
Oltre dieci: beh…lo so, la “scimmia” è dura…

Inutile meditare quale potrà essere il futuro del nostro sciagurato Paese, immaginare nuove aggregazioni, una nuova classe politica, meno “riforme” e più buon senso, poiché tutto proverrebbe dall’input della “scimmia”: non sarebbe roba vostra.
Spegnere quel led: spegnerlo, sempre.

17 marzo 2009

Epifani al bivio

Per domani – 18 marzo 2009 – la CGIL, insieme ad altre sigle di minore importanza, ha indetto uno sciopero per il personale della scuola, dell’università e della ricerca.
Dopo molti anni, l’unità sindacale con CISL ed UIL sembra definitivamente frantumata: come per la crisi economica, “nulla sarà più come prima”.
Eppure, già sappiamo – e lo sanno anche i dirigenti della CGIL – lo sciopero, anche se riuscirà, finirà con la sconfitta del sindacato di Corso Italia. Perché?
Non si tratta delle nuove norme, per ora solo “immaginate” dal governo, che dovrebbero sancire la fine del diritto di sciopero: qui, il problema è politico, di rappresentanza sindacale.
Per decenni, la “Triplice” è andata avanti, apparentemente, mediando ogni decisione, su basi decisamente squilibrate: la UIL, nei luoghi di lavoro, è praticamente inesistente. In alcune realtà, addirittura, alcuni delegati sindacali erano “prestati” alla UIL per mantenere una parvenza d’esistere.
La CISL conta su qualche numero, ma sono veramente una piccola minoranza rispetto al seguito della CGIL. L’UGL: chi era costei?
Un sindacato che, invece, conquista sempre maggior seguito fra i lavoratori è l’UNICOBAS/SdL, che ha dimostrato – lo scorso autunno – d’essere in grado di portare in piazza dei “numeri” paragonabili a quelli della “Triplice”.
Qui, c’è qualcosa che non quadra.
Se la CGIL è isolata – e CISL/UIL/UGL, in accordo con il governo, la stanno arrostendo sulla graticola – un modo per uscire dall’impasse sarebbe potuto essere un accordo con i COBAS.
E invece no, si va allo sciopero praticamente da soli, sicuri di perdere.
La risposta, allora, possiamo trovarla solo nel pessimo andazzo che Epifani sembra aver copiato da Veltroni: “soli è meglio”. S’è visto con quali risultati: il Paese regalato al piduista di Arcore.
“Meglio soli” perché, partecipando a questo minuetto, a queste misere schermaglie, i dirigenti della CGIL sanno che non perderanno, domani, la poltrona di questo o di quell’ente che è stata loro promessa, oppure l’inserimento nelle liste elettorali.
Un misero e triste rondò con salterello finale, che finirà – per i lavoratori – nella piazza della ghigliottina. Per loro, ovviamente, mentre i capataz saranno in salvo con dorate poltrone all’INPS, oppure blatereranno le loro litanie, inascoltati, dai banchi del Parlamento. Vergogna: tornassero non a celebrare, ma a rileggere Di Vittorio.

PS: con oggi, inizio una serie di brevi post che saranno d’attualità, di critica politica spicciola sulla cronaca, e che non invierò ad altri blog (liberi, comunque, di copiare citando la fonte). La ragione? Mi sono reso conto che i miei articoli – che mi piace scrivere in questo modo, curati ed esaustivi – sono troppo lunghi per molte persone che hanno poco tempo, ed hanno cadenza piuttosto lunga. Perciò, ci saranno due tipi di post: le brevi cronache (che, ritengo, troverete solo qui) e gli articoli che saranno ripresi anche da altro blog. Buona lettura.

10 marzo 2009

Il mercato è morto! Viva il mercato!


Più questa crisi avanza, e più m’accorgo ch’era assolutamente certo che avvenisse. Lo sapevo da tanto: anzi, era una domanda che avevo iniziato a pormi quand’ero adolescente.
Nessuno proferiva la parola “crisi” negli anni ’60: il vocabolo utilizzato era “congiuntura”. La “congiuntura”, etimologicamente, è qualcosa che “congiunge” due periodi ed è quindi un elemento di labile rottura nel continuum temporale: dunque, la “congiuntura” può essere anche un periodo favorevole, un “giro di boa”. L’uso del termine, in economia, deriva dal tedesco Konjunktur, e non è che un passaggio leggero fra due, diversi approcci del capitalismo internazionale.
E’ interessante notare che la “congiuntura” non considera essenziale l’intervento umano: è una sorta di leggera influenza, che si risolve da sola, stando a letto e bevendo spremute d’agrumi.
Il passaggio dai sistemi elettromeccanici controllati dall’uomo – nella grande industria – a quelli a controllo numerico (informatico), degli anni 70-80 del Novecento, può essere indicato come un fattore determinante della “congiuntura”, ossia il transito da un sistema meno automatizzato (maggior presenza umana) ad un altro più efficiente, per la diminuzione delle ore/lavoro necessarie per produrre un singolo bene.
Fin qui, nulla di strano: basta rileggere Marx.

Oggi, il termine è desueto: solo per una questione di stile? Parrebbe di no, ed alcune “prudenze” linguistiche sono state addirittura consigliate dal Presidente del Consiglio. Perché?
La tessera P2 n. 1816 – Silvio Berlusconi – lavora alacremente per ridurre l’Italia ad una sorta di “grande Mediaset" – questo lo sappiamo – laddove un solo Konducator indica la via da seguire. Gli altri, seguono.
Ne è un esempio la recente bagarre scoppiata in seno al Consiglio dei Ministri – Scajola ha abbandonato la seduta sbattendo la porta ed esclamando il classico “non finisce qui” (finirà lì Scajola, mi creda, e lei tornerà ad assentire, ossequiente, come sempre ha fatto, così come i suoi colleghi Bossi, Bondi, Gelmini, Carfagna…) – perché Berlusconi ha avocato a sé la gestione di tutti i fondi stanziati per fronteggiare la crisi (in gran parte “riciclati” da precedenti stanziamenti, addirittura del precedente governo, si veda la prima stesura del D.M. n. 122).
In effetti, quelli che Berlusconi indica come “abbondanti risorse” stanziate, in realtà sono soltanto indicazioni di bilancio ma, in cassa, non c’è nulla. Per questa ragione strombazzano solo grandi opere: perché, per fare quelle piccole (per le quali, sarebbe difficile accampare scuse) i soldi dovrebbero scucirli davvero.
Ovviamente, tutti hanno mostrato il borsellino drammaticamente vuoto, ma il Konducator è passato oltre, adducendo che la situazione richiede procedure eccezionali. Perché? Per superare la crisi.

Ecco, il termine che viene oggi usato per indicare le mestizie nella quali siamo imprigionati.
L’etimo della parola “crisi” – krisis (gr) – non indica, però, un elemento di per sé negativo poiché significa “scelta” o “giudizio”, ossia un’azione che prevede la partecipazione attiva del soggetto: sì, scegliere, proprio quello che ci viene impedito di fare.
E’ allucinante leggere i comunicati dell’Epsco (Consiglio per l'Occupazione, la Politica Sociale, Salute e Consumatori), dove si leggono le proposte per affrontare la crisi economica e la disoccupazione[1]:

(la crisi) “sta arrecando grossi danni ed esige interventi urgenti,,,(per prevenire e combattere la disoccupazione) senza intaccare le riforme del mercato del lavoro…evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro…affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate…

Siamo nelle mani di una masnada di folli e nessuno, ovviamente, ha intenzione di cambiare strada: le cose vanno bene così e, se dovessero peggiorare, accelereremo ancor più nel percorso che ci ha condotti a questo sfacelo. Speriamo che il muro, in fondo alla via, non sia di cemento armato.
Ovviamente – se qualcuno potesse scegliere – le scelte dovrebbero essere agghindate d’aggettivi, anzi, è quasi essenziale indicare, tramite la coloritura di un aggettivo, ciò che c’attende. Avremo così scelte difficili, gioiose, liberatorie, drammatiche, ininfluenti, coraggiose…

L’unico aggettivo proibito dal Konducator è stato proprio quel “drammatico”, subito cassato a Tremonti, perché – checché se ne dica – la tessera P2 n. 1816 è il più formidabile comunicatore della Penisola. I suoi fini sono marci fino al midollo, ridurrà l’Italia ad una pletora di zombie – perché è bravo a comunicare e ad organizzare, ma manca della cultura di base necessaria per svolgere una vera funzione politica e di governo – ma, sull’esternazione, nessuno lo batte. Potrete scrivere e blaterare ciò che vorrete: lui, farà la solita battuta cretina, s’arrufferà in ragionamenti semplici, da mercato rionale, e quel 60% d’italiani che non legge mai un libro abboccherà contento. Non c’è niente da fare.
Si può batterlo usando le sue stesse armi, soprattutto l’informazione e la satira: questa asserzione, è rivolta a coloro i quali credono che basti una solida “linea Maginot” per la difesa della Costituzione (per la tutela della quale, sia ben inteso, il sottoscritto ha firmato). Lui, della Costituzione, se ne frega: pubblicherà (a nostre spese) qualche libercolo nel quale comparirà con la solita calza di nylon per mascherare le rughe e magari racconterà una barzelletta.
Perché la parola “crisi” deve essere bandita? Poiché esiste sempre quel 20% di persone che leggono e s’informano, le quali oggi non hanno peso ma domani, qualora i morsi della rovina economica dovessero dissanguarci, potrebbero ricordare che c’era “crisi”, e dunque scelta. Quali scelte?

Spicchiamo, prima, un salto indietro nel tempo, quando c’era soltanto “congiuntura”.
Una delle immagini che iniziò a sconcertare, nella placida prima “congiuntura” degli anni ’60, fu quella dei trattori che distruggevano tonnellate d’arance nel Meridione. Per comprendere quanto quelle immagini fossero dirompenti, dobbiamo riflettere che non erano ancora trascorsi vent’anni dalla Seconda Guerra Mondiale, quando un chilo di pasta era ciò che s’aveva per campare una settimana. Distruggere il cibo?!? Una bestemmia, e così era colta dalla maggior parte degli italiani i quali, già allora, non s’accorsero che quelle erano già “scelte”, solo che qualcuno le compiva al posto nostro. Conosciamo la ragione di quelle distruzioni: sovrapproduzione, concorrenza internazionale, ecc…ma il messaggio che – già allora! – passò era che si doveva, in primis, salvaguardare il mercato degli agrumi. Siccome il “mercato” non poteva che salvaguardarsi da solo, s’applicava la legge della domanda e dell’offerta, e via col tango.
Senza scomodare la scomodissima ragione illuminista, basta il buon senso per capire che non è logico né razionale impiegare ore/lavoro, concimi, energia, ecc, per poi schiacciare il prodotto sotto le ruote dei trattori: c’era, evidente, un vulnus perché, da quando mondo è mondo, le derrate alimentari servono per sfamarsi.
Dopo qualche anno di trasmissioni della solita scena – i trattori che schiacciano, ecc – la notizia non fu più notizia, e s’addormentò nel retrobottega dei palinsesti televisivi. Così, il primo imprinting era stato dato.

Ma gli anni ’60 – da qualcuno definiti “favolosi”, non saprei perché – volgono al termine e, nel 1969, una scolaresca attende, nelle assolate giornate di Maggio, che s’arrivi finalmente a Luglio per correre alla lotteria della nuova maturità – “provvisoria”, beninteso – declamata come la rivoluzione della scuola italiana, quella del ministro Sullo. Tanto “provvisoria” che durò fino al 1999.
La tensione per la nuova maturità scivola, sotterranea, fra i banchi e fa caldo: la finestra è aperta, giungono effluvi di fiori e la voglia è poca. Anche il professore – un meridionale colto, fisico un po’ flaccido, aria perennemente stanca – non ha gran voglia, e allora si parla. “Si fa” a domande e risposte: talvolta si tenta ancora oggi di farlo, solo che si corre il rischio che ti domandino se hai guardato l’Isola dei Penosi.
Un allievo medita, ricorda precedenti discussioni – formali ed informali – e domanda «Professore, lei sostiene che è inevitabile una contrazione della manodopera nell’industria poiché il fordismo e la produzione su vasta scala s’affermano ovunque. Il fenomeno produce inesorabilmente disoccupazione: chi non avrà lavoro, che farà?»
Il professore quasi ringrazia per la domanda, che consente a quella piccola comunità di scapolare una mezzora noiosa, ma si rende conto che la risposta non può essere che sintetica: «Vede (allora, ci si dava del “Lei”), solo lo Stato può compensare la diminuzione dell’occupazione: le persone che non troveranno occupazione nell’industria saranno assorbite dai servizi. Il mondo dei servizi al cittadino è in espansione: quella è l’unica strada percorribile.»
Certo – pensa il ragazzo – meno occupati a costruire automobili e più infermieri negli ospedali…ma…chi paga?
Intanto, altri stanno argomentando e deve attendere il suo turno.
Finalmente, può porre la domanda: «Professore, se lei afferma che i disoccupati saranno assorbiti nei ruoli pubblici, il gravame economico per lo Stato aumenterà, dovranno aumentare le tasse…insomma, chi pagherà?»
Il professore non aveva una risposta, però lui era il professore e gli altri semplici allievi: «Come le ho già detto, lo Stato sarà la cassa di compensazione, ci sarà un’inevitabile aumento dei dipendenti statali.»
Già, lui può ripetere due volte la risposta senza rispondere: se lo fai tu, mica la passi liscia. Di più: è pure fortunato, perché suona la campanella.

In ogni modo, il professore ebbe ragione: l’anno seguente (1970) fu varato l’ordinamento regionale ed iniziò “l’otto volante” della spesa pubblica. Nuove competenze furono inventate per nutrire l’espansione incontrollata del ceto politico da piazzare nelle Regioni, le Province furono compensate – già allora, per salvarle! – con la ripartizione del personale scolastico, mentre i Comuni ebbero le Circoscrizioni. Gli italiani, impararono che non si può essere presi a calcinculo solo dallo Stato, ma anche dalle amministrazioni periferiche.

Eppure, riflettere su questi brevi aneddoti, può aprire molte “porte” sull’infinito dissertare del malaugurio economico che stiamo vivendo. Oops! Scusate: se Saddamoni mi sente, mi dà del disfattista.
Non vale sperticarsi in tremebondi aruspici: chi lo fa, compie un’azione semplice, ossia “lo scrivo, poi i casi saranno due. O l’evento non si compirà – e sarò presto dimenticato – oppure si manifesterà, e allora potrò scrivere il classico articolo sul “io ve lo avevo detto”. Non è questo il modo di fare informazione.
Sulle radici internazionali e geopolitiche di questa crisi non intendo ripetermi; chi vorrà prenderne visione, potrà leggere il mio “Ma cos’è questa crisi?”: oggi, vogliamo addentrarci fra le possibili soluzioni.
La prima considerazione da fare è che la logica del mercato che si auto-regolamenta è fallita: a dire il vero, non è mai esistito un mercato completamente libero dall’intervento umano, ma alcune situazioni (gli USA prima della Grande Depressione, ad esempio) s’avvicinarono molto.
Allo stesso modo, non è mai esistita un’economia completamente diretta dallo Stato: anche nell’URSS, il 3% delle terre coltivabili era a conduzione privata.
In mezzo a queste due, estreme impostazioni, c’è la cosiddetta economia “mista”, la quale si nutre d’entrambi i principi, cercando – in questa difficile mediazione – di trovare l’equilibrio più soddisfacente. Ma non finisce qui.

Un altro fattore da considerare è l’aggregazione sul territorio dei soggetti economici – chi produce beni e servizi – che l’affermazione degli stati nazionali riunì in universali piuttosto ampi, mentre – precedentemente – i “localismi” avevano maggior peso. Si pensi, ad esempio, alla Germania prima dello Zollverein.
Quindi, la produzione e la ripartizione delle risorse devono tener conto d’entrambi i fattori: geografici e politici, per riassumere in breve i due aspetti.
Oggi, il “succo” della crisi – che non riteniamo sarà la fine del capitalismo, così come lo osserviamo – è che uno spostamento verso il liberismo economico ha prodotto guai a non finire. Non ci riferiamo soltanto agli ultimi atti – la truffa di creare valore fasullo dal nulla, per compensare una ricchezza che è migrata verso altri lidi – poiché quel processo è iniziato già con la deregulation di Reagan, con la politica antipopolare della Thatcher, con la dismissione a prezzi stracciati delle Partecipazioni Statali. Insomma: il mondo ha preso l’abbrivio verso forme di Far West, liberandosi delle “pastoie” che una schiera d’economisti keynesiani pretendevano d’imporre. Dimenticando che Keynes fu solo una delle “cure” per la Grande Depressione: l’altra, fu la Seconda Guerra Mondiale.
Cercare aiuto dalle parti di John Maynard Keynes, oggi, sarebbe come chiedere a Pietro Badoglio un parere per uscire dall’impasse in Afghanistan: è l’angolo degli sprovveduti, poiché il pianeta ha mutato pelle.
Gli stati che applicarono le dottrine keynesiane erano nazioni poco o per nulla indebitate, che possedevano la gran parte dei mezzi di produzione del pianeta e che avevano, proprio nel resto del pianeta, le fonti d’approvvigionamento di materie prime a basso costo, poiché la manodopera era coloniale.

Si può ragionevolmente ipotizzare d’applicare “ricette” usate all’epoca nel nostro tempo? Modificarle? Modernizzarle? Probabile, ma bisogna allora affrontare quella scelta – krisis – che si tende a negare con mezzi e mezzucci mediatici.
In definitiva, dovremmo stabilire quale sistema economico applicare, cercando di non incorrere in plateali errori del passato e neppure esternare affermazioni sì accattivanti ed apparentemente risolutive, che però nessuno sa quali frutti potranno produrre.
Il primo approccio è sempre l’analisi: ciò che è stato applicato nelle epoche storiche a noi vicine (andare lontano complicherebbe la faccenda, dovremmo introdurre sempre più fattori di “correzione”) ed osservare quali effetti produsse.

Per quanto riguarda la dimensione delle entità economiche, oggi si tende a ritenere che economie su piccola scala siano più a misura d’uomo e che il pianeta possa, con questo approccio, meglio sopportarci.
Si tratta di un’avvincente ipotesi, ma mancano gli elementi per affermare che un mondo di comunità sarebbe migliore di quello attuale. Anzitutto, quali attributi assegnare a queste comunità? L’autosufficienza produttiva totale? Lo scambio? Perché – se si ammette lo scambio, ossia se non si ritiene percorribile la via dell’autosufficienza – si torna a dissertare di valore, e dunque di monete o quant’altro per assegnare un valore alle merci.
L’autosufficienza non può essere raggiunta da piccole comunità – la “base” è troppo ristretta per reggere nel tempo – e quindi, allargando i confini della comunità, nasce inevitabilmente la necessità di stabilire ruoli in qualche modo “istituiti”, e dunque – anche se ad un livello forse praticabile – “istituzionali”.

Chi scrive ha alle spalle un’esperienza di vita comunitaria – che è stata addirittura, recentemente, oggetto di studio per una tesi di laurea – e può assicurare che le dinamiche sociali, anche in gruppi ristretti, ricalcano in pieno atteggiamenti e pratiche delle comunità più complesse.
In genere, le comunità degli anni ’70 partirono con un naturale spontaneismo mutuato dal comunismo utopistico, e finirono in liti per dividersi le seggiole. Perché? Poiché le dinamiche socioeconomiche esterne alla comunità rimanevano le stesse: si aveva un bel dire che s’era tutti uguali, ma chi aveva uno stipendio, od era benestante, era un tantino più uguale degli altri.
In ogni modo, una sola esperienza non può essere considerata esaustiva dell’argomento: al più, rende più coscienti dei pericoli insiti nel lasciar correre l’ottimismo.
Esistono esperienze da osservare, per trarne insegnamenti?

L’India dei “mille villaggi” di Gandhi rimase nella mente del grande pensatore indiano, ed oggi osserviamo cos’è diventata l’India. Le comunità ebraiche dei kibbutzim, all’inizio, furono veramente avveniristiche: l’educazione collettiva dei giovani, e la ripartizione del lavoro di stampo socialista, erano un bagaglio più europeo che insito nella cultura ebraica.
Quell’approccio, portato soprattutto dagli askenazi dell’est, era la grande cultura socialista e libertaria che aleggiava nella prima metà del Novecento in Europa: là trovò una primitiva applicazione, ma c’era un peccato originale.
Cercare le vette della socialità su una terra che è stata rubata, lentamente trasformò quelle comunità in fortini, al punto che oggi Tzahal li considera, praticamente, degli avamposti. Non crediamo ad una pratica d’evoluzione sociale, quando il tuo compagno di strada è un Galil a tracolla.
L’unica comunità che sfida i secoli è senza dubbio quella degli Amish, ma qui siamo in presenza di valori religiosi molto restrittivi, che implicano la rinuncia alla modernità: siamo certi che saremmo in grado di rifiutare la tecnologia degli ultimi due secoli? La vedo dura, soprattutto perché ho provato personalmente a falciare l’erba con la falce: dopo mezza giornata, chiesi ad un amico di prestarmi il trattore.
Nelle società che ancora adottano l’organizzazione tribale troviamo equilibri che sembrerebbero reggere, ma ci sono due fattori da considerare: per prima cosa, queste comunità sono in estinzione – forse non demografica, ma certamente culturale – e poi, noi non siamo stati allevati in una cultura tribale!

Il ritorno alla piccola comunità potrebbe derivare da uno sconquasso – economico, bellico, ambientale, ecc – ma, in questo caso, non abbiamo gli elementi per decifrare il quadro: si sconfina nella profezia. Quanti esseri umani sopravvivrebbero? In quali condizioni? Dove? Con quali e quanti strumenti tecnologici? Le domande sono veramente troppe.
Possiamo ricordare che il ritrarsi in comunità avvenne nei secoli che seguirono il crollo di Roma, ma quelle furono necessità contingenti, mica scelte. Oltretutto, il Medio Evo – apice delle piccole comunità – non fu certo il migliore dei mondi possibili, basta leggere le cronache del tempo.
Oggi, siamo una società segnata dalla tecnologia (a differenza di quel lontano mondo), ma la tecnologia richiede che esistano centri che la producano, sistemi di scambio, controvalore da fornire, ecc: siamo in grado di reggere (e desideriamo) un arretramento tecnologico? Chi s’affida frettolosamente a qualche frase letta qui e là, ma anche a seri autori che teorizzano un ritorno al “piccolo”, riesce a comprendere cosa sarebbe un mondo privo di quelle certezze alle quali siamo abituati? Si fa presto a “quotare”.
Chi si metterebbe, in un mondo di piccole comunità slegate, a raffinare il Silicio per i circuiti? Oppure, all’opposto, chi ancora sa bardare un cavallo?

Ciò nonostante – e questa è la colonna sonora del nostro vagare ondivago fra tesi opposte – si sente un gran bisogno di rinsaldare legami comunitari, di tornare ad avvertire nel vicino di casa un amico, non una targhetta sulla porta. Il mondo del dopoguerra era così: almeno fra i ceti popolari, i bambini passavano forse più tempo in casa d’altri che nella propria. Giocavano insieme ed i nonni raccontavano storie fantastiche ad uditori eterogenei: nei cortili giungevano musicisti popolari che si guadagnavano da vivere così, con le poche lire gettate dai balconi al termine dell’esibizione.
Avremmo un gran bisogno di un mondo che ricalcasse quei valori, ma decenni di pessime abitudini (in gran parte imposte) ci hanno snaturati: tutte le rilevazioni – Istat, Eurispes, ecc – raccontano un’Italia composta da “poltiglia sociale”.
Forse, la strada di ricostruire l’empatia perduta trova troppi ostacoli nell’esigenza – divenuta un’iperbole con la globalizzazione – d’essere placidi ed acquiescenti individui, “coerenti” con le necessità del “mercato” (che sta fallendo).
Proviamo, allora, a sondare dalle parti dei sistemi economici, ossia quello che l’esperienza ci può insegnare.

I regimi autoritari della prima metà del Novecento non ci potranno fornire molti spunti per la nostra analisi: il Nazionalsocialismo tedesco durò, guerra a parte, soltanto 6 anni, e un’economia di guerra non può essere presa come valido cespite per l’analisi.
Il Fascismo italiano durò più tempo, ma partì come forza rivoluzionaria e terminò come zerbino, dapprima della classe imprenditoriale poi – nelle ultime fasi della guerra – dell’alleato germanico. Chi ha ancora dei dubbi su questa genesi, rammenti che la “Marcia su Roma” sarebbe stata facilmente impedita da una compagnia di Carabinieri, se il Re non avesse consentito loro di giungere a Roma: in fin dei conti – pensò il Savoia – meglio questo Mussolini che i bolscevichi. Un incarico “pro tempore”, fino al Luglio del 1943.
Più durevole l’esempio iberico, poiché la penisola rimase per molto tempo “addormentata” da regimi i quali, più che “fascismi”, furono “clericalismi” autoritari. In effetti, le innovazioni iberiche furono assai poche, e la penisola giunse agli anni ’70 del Novecento con un’economia prevalentemente agricola, arretrata rispetto al resto d’Europa. In aggiunta, per il Portogallo, ci fu l’annosa questione coloniale: la prima e l’ultima nazione direttamente coloniale della storia.
In sostanza, nessuno di quei regimi tentò una via d’uscita dal capitalismo, o il superamento dello stesso con nuove forme d’aggregazione sociale, che non fossero imposte con l’autoritarismo dell’epoca. Soprattutto il Fascismo ed il Nazionalsocialismo crearono valide, per l’epoca, forme di sostegno sociale (l’ OMNI, Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, ad esempio), oppure – questo solo in Germania – restituirono allo Stato la sovranità monetaria.
In definitiva, i regimi autoritari dell’epoca si connaturarono con un principio di preminenza dello Stato sul cittadino: di per sé accettabile formalmente, un po’ meno per come venne applicato. Alla fine, i cittadini divennero semplicemente “milioni di baionette”. Morte sotto la neve.

Sull’altra sponda troviamo il mondo del socialismo reale: termine coniato per mascherare con eleganza il fallimento della prospettiva socialista, così com’era stata pensata da Lenin.
Ma, per contrappeso, la società sovietica che riaprì le porte al mondo non era più la sterminata landa desolata, l’infinita steppa russa del 1917. Era una nazione che possedeva una tecnologia con i fiocchi: aveva, però, i piedi d’argilla prodotti da un conflitto economico mai risolto, quello fra l’ideologia e la realtà. Per questa ragione fu “socialismo reale”, quasi un ossimoro.
A nostro avviso, l’esperienza sovietica è stata troppo frettolosamente scapolata: vuoi per un malcelato senso d’orgoglio da parte di chi aveva “vinto”, vuoi per il traboccante senso di colpa di chi aveva “perso”. In realtà, non c’era nulla da “vincere” o da “perdere”: c’era da capire. Forse, oggi possiamo farlo senza acrimonie.
Il gran fallimento della società sovietica, più che le difficoltà produttive (che, comunque, ci furono), fu il dramma della distribuzione. Ci sono molte cronache al riguardo, e non le riporto solo per questioni di spazio.
La vita del cittadino sovietico trascorreva nell’ossessione delle “liste”: per ogni bene s’entrava in lista. Anche per sostituire un pezzo del frigorifero c’era la corrispondente lista: il funzionamento del frigorifero dipendeva dalla produzione di una lontana fabbrica dell’est, sempre che non intervenissero altri fattori (spostamento di manodopera per altri scopi, mancanza di materie prime, ecc) a complicare il quadro.
Se moltiplicheremo questo andazzo per ogni oggetto, capiremo facilmente poiché l’URSS – a differenza della Russia odierna, terra di grande corruzione – fosse una sterminata plaga di piccola corruzione, che dilagava dal piccolo villaggio al funzionario di partito, a tutti i livelli. Ogni mezzo, per procurarsi quel dannato pezzo del frigorifero, era usato.
Il crollo dell’URSS avvenne prima della recente rivoluzione digitale, del Web ovunque, e sarebbe interessante vagliare quale potrebbe essere l’impatto del mezzo informatico in una società che producesse sufficienti beni – anche se suddivisa in molte comunità economiche – per la loro distribuzione. E’ un aspetto da non sottovalutare, poiché i costi di trasporto sono spesso il tallone d’Achille della filiera distributiva.
Ciò che l’URSS non riuscì mai a risolvere furono i rapporti economici interni: oscillò sempre fra stagioni di piccole liberalizzazioni, che incrementavano la produttività, ad altre di restrizioni di stampo ideologico, che ottenevano l’effetto opposto. Qui, c’è poco da imparare: se l’espansione continua del mercato non funziona più, possiamo credere ad uno Stato che s’assume la responsabilità di produrre e distribuire beni?
Diversa è stata la risposta della Cina: Pechino sta usando il capitalismo quasi “dosando” gli interventi in economia, nella ricerca di una difficile alchimia. Anche se, a prima vista, i cinesi hanno semplicemente sposato il capitalismo di mercato, non dimentichiamo che intendono mantenere il controllo dell’economia in mani pubbliche:

“…anche se la proprietà dello Stato rimarrà il principio fondamentale di base dell’economia nazionale, tutte le forme di proprietà – di Stato, collettiva e privata – dovranno essere messe in gioco nello sviluppo dell’economia…è necessario attenersi al principio dello sviluppo congiunto di settori economici multipli tra i quali la proprietà pubblica svolga un ruolo dominante; è necessario trasformare ulteriormente i meccanismi di gestione delle imprese di proprietà dello Stato e istituire un sistema imprenditoriale moderno che soddisfi i requisiti richiesti dall’economia di mercato[2].

Certamente, quel “soddisfare i requisiti richiesti dall’economia di mercato” stride alquanto con la prima parte del testo, e facciamo tanti auguri ai cinesi di riuscire in un’impresa che sembra più un volo pindarico.

Abbiamo concluso: non c’è altro. Le sperimentazioni economiche del Novecento terminano qui, ed è tutto ciò che abbiamo per capire dove potremmo andare a parare.
L’aspetto veramente terrificante del “mercatismo” – da Reagan in poi – è stato quello, dapprima, di liquidare come insulsaggini tutti gli altri tentativi, per poi finire in un cul de sac senza soluzioni.
Certamente, oggi non abbiamo la possibilità – per via democratica – di mettere in discussione delle ipotesi di cambiamento radicale: possiamo solo subire ed addormentarci mentre guardiamo Ballarò.

Detto questo, rimane una via che potremmo definire “socialdemocratica” (in senso storico), ossia la faticosa via dell’aggregazione sociale su obiettivi, anche minimi, ma condivisi.
Scendere in trincea per difendere questo o quell’orpello del passato sarebbe tempo sprecato: che ci frega di salvaguardare labari littori o passi dell’oca sulla Piazza Rossa? Ai disoccupati non servono: serve, invece, iniziare a riflettere sulle possibili vie d’uscita dall’imperante (e fallimentare) “mercato”. Con quello che abbiamo, con l’esperienza che siamo riusciti a trarre, magari con qualche guizzo d’ingegno: sarà dura, ma non abbiamo altra via che la riflessione su cosa siamo stati, su cosa non siamo riusciti ad essere, su cosa potremmo diventare.
Qualche intervento – coerente con l’attuale Costituzione – è possibile: se qualcuno ascoltasse. Anzitutto, non è vero che lo stato nazionale ha completamente abdicato a legiferare, che lo spauracchio dell’Unione Europea è sulla porta, attento ad ogni minima mossa. Tanto per capirci, in Francia le donne vanno in pensione a 60 anni, ma nessuno solleva la questione di portare l’età a 65. Sarà perché che le burocrazie europee sanno che con l’Italia “sempre si vince”?
Con l’avanzare della crisi, ben presto gli stati dovranno compiere delle scelte, ma Bruxelles è lontana e le popolazioni vicine. Sta a noi farci sentire: proviamo ad indicare qualche idea come esempio, tanto per far comprendere dove vorremmo andare a parare, sperando che queste indicazioni ne catalizzino altre.

Se consideriamo un incentivo alla decrescita la produzione di beni più durevoli, lo Stato ha a disposizione il Codice Civile, anzi: c’è addirittura uno specifico Testo Unico al riguardo. Oggi, la garanzia dei beni che utilizzano energia elettrica (quasi tutti, perché anche l’auto ha l’impianto elettrico) è limitata a 2 anni. Domanda: perché, un bene che durerà circa 10 anni (automobile), deve essere coperto da garanzia per soli due? E se si rompe dopo due anni ed un giorno? Non si può certo estendere la garanzia a vita, ma raddoppiarla de iure sarebbe già un bell’incentivo per costruire qualcosa che non si rompa appena scade la garanzia. Il trucco l’abbiamo compreso da tempo.

Gli inglesi, tempo fa, scoprirono con orrore che tenevano in funzione una centrale elettrica soltanto per mantenere in tensione milioni d’alimentatori inutilizzati: ogni aggeggio elettronico ne ha uno. Telefonini, televisori, computer, ecc: perché non imporre, per il mercato italiano, l’obbligo di un interruttore con led che segnali se l’apparecchio è in tensione? Poi, saranno cavoli di ciascuno di noi se vuole pagare di più per niente.

La benzina sale, la benzina scende, ma sale in fretta e scende piano. Sappiamo a cosa serve il trucco: a far credere che esista una Robin Tax. Perché non si torna al prezzo controllato, oppure si stabilisce – giornalmente! – la variazione, ad effetto immediato? Le reti telematiche, a cosa servono? La sera, insieme alle previsioni del tempo, dovrebbe essere pubblicato il prezzo massimo per il giorno seguente. Scaroni: cuntent?

Nel mio precedente articolo – “Venti nucleari” – ho indicato una strada per creare ricchezza e lavoro dalle rinnovabili e destinarla ad usi sociali: perché, oramai quasi solo in Italia, non si fa un solo passo in quella direzione? Ah, già: faremo le centrali nucleari…

Le burocrazie europee si scervellano per mantenere la gente al lavoro nelle aziende: ma, signori miei, anche chi non ha un master ad Harvard sa che, se non si vende ciò che si produce, è inutile costruirlo. Avranno visto quei Tg degli anni ’60, quelli delle arance?
Abbiamo invece bisogno di un sacco di lavoro in altri posti: le intemperie di questo rigido inverno hanno ridotto le strade a dei tratturi. Tinteggiare le aule di una scuola è un’impresa da incubo: si sprecano più soldi in telefonate, riunioni e quant’altro che a “dare il bianco”.
Il patrimonio artistico è sempre più abbandonato, al punto che solo pochi giorni fa, in Piazza della Signoria, qualcuno ha staccato un dito al “Ratto di Polissena” di Pio Fedi. Un po’ di sorveglianza e di manutenzione, è chiedere troppo?

Se non vogliamo chiamarli lavori “socialmente utili” inventiamoci un sinonimo, ma diamo uno stipendio almeno decente a chi perde il lavoro, se in cambio si occupa delle mille incombenze puntualmente dimenticate. Non lanciarsi verso impossibili iperboli, oppure raccontare che la crisi è causata dalla cattiva informazione; ma come si fa a dire (Berluskaiser): “non leggete più i giornali”?
Ramsetoni – è solo un avatar di Saddamoni, Napoloni, Cesaroni, ecc – vorrebbe inviarli tutti, novelli schiavi della Nubia, a rialzare l’ottava meraviglia del Pianeta, a Messina. Da Napoli, bisognerebbe urlargli, in coro: ma facitece ‘o piacere!
Perché? Non ci sono i soldi per fare quell’inutile orpello! Testa dura, eh?

Dove si possono trovare soldi?
Ricordiamo che fu proprio Tremontoni, nel 2003, a cambiare le aliquote IRPEF: ridusse le tasse ai ricchi!
Il risultato?
In Italia, la distribuzione delle ricchezza è fra le più inique: il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale. In pratica, una persona su dieci si prende quasi la metà, mentre le altre nove si dividono il resto. Questo ci ha fatto precipitare al livello di USA e Polonia, e solo il povero Messico ha una ripartizione della ricchezza più iniqua della nostra. Nessun altro, in Europa, vive una così drammatica differenza di reddito fra le classi sociali.
Perché non iniziare ad aumentare le tasse, progressivamente, a chi guadagna più di 100.000 euro l’anno? Se chi guadagna 100.000 euro ne dovesse pagare 1000 in più, si ridurrebbe in miseria? Ecco dove trovare i fondi per finanziare i disoccupati, non prelevandoli dall’INPS (che ha un attivo di 11 miliardi!) per poi, alla fine della questione, aumentare di nuovo l’età della pensione per far cassa!
Purtroppo per noi la classe politica – intera – fa parte di quel 10% dorato, e non si farà, da sola, un simile autogol: sempre che non s’inizi, in tanti e continuamente, a ricordarlo. Tutti i giorni: scrivendo sui blog, facendo girare messaggi via mail, su Facebook, ecc.

Certo, dissertare sui massimi sistemi può essere utile, ma ricordiamo le parole di un grande presidente, Sandro Pertini: «La democrazia inizia con la pancia piena».


[1] Fonte: Repubblica, 9 Marzo 2009, http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/economia/crisi-19/ue-disoccupati/ue-disoccupati.html
[2] “Decisioni su alcune questioni relative all’instaurazione di un sistema economico di mercato socialista”, Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista cinese, 14 novembre del 1993. Fonte: Michele Fabbri: “Economia socialista di mercato o capitalismo tout court?” http://www.marxismo.net/fm188/14_cina.html

01 marzo 2009

Venti nucleari

Finalmente, il dado è tratto, ed è uscito il numero quattro.
Quattro nuovissime centrali nucleari che saranno inaugurate – la prima, beninteso – nel 2020. Perciò…se avete figli piccoli, promettete loro: «Per il tuo diciottesimo compleanno, quando avrai preso la patente, papà e mamma ti porteranno a vedere il primo avvio della prima centrale nucleare italiana.» Almeno loro, saranno soddisfatti.
Se vi domanderanno dove sarà, glissate, chiedete notizie della scuola o della festa di compleanno: se ancora insistono, per disorientarli, domandate loro se in Nuova Zelanda la gente cammina a testa in giù. Funziona: garantito.
Sì, perché non potreste dire loro che dovrebbero essere costruite in località off-limits, circondate da cannoni anticarro e contraerea, e sarà necessario un pass soltanto per transitare a dieci chilometri dal sito. Tanto, non capirebbero e chiederebbero: «Perché, se è una cosa bella, non ci possiamo andare già Domenica?».

Se fossimo cattivi ed ingenui potremmo continuare con questo tono, ma siamo certi che il lettore sarebbe tediato da una sfilza di ragioni (che potrebbe trovare facilmente su innumerevoli siti qualificati) per le quali le centrali nucleari italiane sono una ciofeca incommensurabile. Faremo presto: le scorie, la sicurezza, il prezzo e la scarsità d’Uranio, i costi astronomici, l’interminabile fase di costruzione, la fine della “cuccagna” derivante dall’Uranio proveniente dalle testate dimesse per gli accordi Salt, il problema energetico italiano che viene, così, accoppiato a quello francese…e potremmo continuare, ma oggi non siamo ingenui, solo cattivi. Di più: ci ha già pensato Ugo Bardi[1] a smontare l’ennesima boutade berlusconiana.

Quando siamo cattivi, però, iniziamo col domandarci perché abbiamo così bisogno di questi quattro macinini ad Uranio, e perché non è stata costruita nessuna centrale solare termodinamica (pronto? Priolo Gargallo? C’è qualcuno? Non doveva essere per il 2009? La Spagna ne sta costruendo 28!) o perché l’Italia non abbia ancora – a fronte delle 23 installazione attive in Europa e delle 20 in costruzione – un vero campo eolico off-shore, ossia in mare.
Fin qui, siamo ancora molto ingenui ed anche un poco retorici, ma aspettate. Sì, perché l’Italia il suo primo campo eolico off-shore lo avrebbe da tempo…se…se…se…
E’ questa una storia interessante da raccontare, perché ci sono anime buone, traffici non proprio belli – anzi, decisamente brutti – e tanti, tanti cattivoni. Una premessa: la storia iniziò quando ancora regnava Prodi e termina con Berlusconi, pressappoco fra il 2006 ed il 2008. Cominciamo.

C’era una volta un principe milanese[2] che voleva costruire la prima centrale eolica off-shore in Italia: munito di strumenti adatti e molto denaro, voleva installarla al largo di Termoli e Vasto, sulla costa molisana. Sì, proprio là dove fanno quella buona pasta.
L’impianto doveva essere costituito da 54 aerogeneratori da 3 MW di potenza ciascuno, per una potenza complessiva di 162 MW ed una produzione (stimata sulle mappe eoliche del CESI) che avrebbero soddisfatto la domanda d’energia elettrica per 120.000 famiglie: mica da buttare.
La prima curiosità che avrà il lettore sarà quel misterioso “CESI”: niente paura, si tratta solo dell’ente che sta stendendo – e via via migliorando – il primo “atlante” delle risorse eoliche italiane. E’, in pratica, una società mista, pubblico/privata, con l’ENEA che detiene il 51% del capitale. Cosa dicono queste mappe?
Raccontano una realtà assai triste per i bollitori d’atomi e per gli alchimisti del carbone “pulito” (ma, avete mai incontrato qualcosa di più sporco del carbone? Sì, lo so, ma è difficile bruciarla in centrale, meglio farla fermentare per produrre metano): dicono semplicemente che – a volerlo cercare – il vento per far girare i mulini, in Italia, c’è ed è pure corposo.
Dov’è? Principalmente in mare, proprio là dove nessuno può vedere gli aerogeneratori e non può, quindi, lamentarsi perché “distruggono” il paesaggio.
E’ un segreto gelosamente custodito? No, è pubblico e tutti possiamo accedervi dal Web[3].
La mappa fornisce la velocità del vento a varie altezze ed altri dati: con la grafica ed i colori, è così chiara che può consultarla anche un bambino.
Le aree più interessanti sono tre: la costa meridionale Adriatica, il Canale di Sicilia ed il Sud della Sardegna, proprio nei pressi del famoso Capo Teulada, quello che le nostre navi da guerra si divertono – da secoli – a demolire a cannonate. A nostre spese.

Dobbiamo precisare che lo sviluppo dell’eolico avanza con gli stivali delle sette leghe e già, in Norvegia, stanno sperimentando aerogeneratori (5 MW l’uno) che non poggiano più sul fondale, bensì “fluttuano” assicurati a tre ancore[4]. Le soluzioni sono parecchie: dall’aerogeneratore ancorato direttamente al fondale alla piattaforma eolica: quindi, già oggi, anche aree più distanti dalle coste sono fruibili.
Problemi per la navigazione? Nessuno, perché sono adeguatamente segnalati (riflessione radar, sistemi ottici, acustici, ecc) e poi, con quello sviluppo in altezza, anche un radar comprato per pochi dollari sulle bancarelle ad Hong Kong li “becca”. Alla faccia del clutter[5].
Problemi per la pesca? Sì, forse qualche limitazione ma, se non creiamo delle aree di ripopolamento, è inutile lamentarsi del prezzo del gasolio per i pescherecci: è il pesce che manca. Al punto che il 40% del pesce che consumiamo è già d’allevamento: i campi eolici off-shore sarebbero un bell’incentivo per iniziare a meditare sul ripopolamento ittico.
Per il turismo? Se prendete il largo da Termoli senza radar, in una giornata nebbiosa, senza carte nautiche né GPS, e pretendete pure d’andare in Croazia…beh, lasciatevelo dire: sareste morti ugualmente, perché siate fessi.
Se, invece, scendete in spiaggia e all’orizzonte scorgete nel baluginare della nebbia estiva qualcosa che si muove – ma non riuscite a distinguere se è l’Olandese Volante o l’omino della Michelin – e vi scappa «Ecco: quei maledetti m’hanno rovinato la giornata! Non tornerò mai più qui!» la sentenza è ancora peggiore, perché non potete essere che Vittorio Sgarbi. Lo so, è dura.

Forte di queste premesse, il nostro principe meneghino s’appressò alli Bruzzi e presentò la regolare domanda (con ampia documentazione) alla regione Molise, che un tempo era una dipendenza delli Bruzzi.
Apriti cielo!
Il Presidente di quella Regione – tale Michele Iorio – andò in bestia: come, a questi nordisti ancora non basta averci colonizzati, vogliono pure la nostra aria? Bello vero? Quasi convince.

Dobbiamo – abbiamo premesso che oggi ci sentiamo cattivi – aprire una parentesi su questo personaggio, il tal Iorio Presidente, perché non è solo un uomo politico, è un personaggio da Bagaglino.
Basti pensare che il tizio ha infarcito la sanità molisana (soffocata dai debiti) di parenti ed amici oltre qualsiasi decenza[6]:

Nicola Iorio (fratello): primario di Neurofisiopatologia all’ospedale “Veneziale” di Isernia.
Rosa Iorio (sorella): direttrice del distretto sanitario regionale di Isernia.
Sergio Tartaglione (cognato): primario di Psichiatria al “Veneziale” e presidente dell'Ordine dei Medici di Isernia.
Luca Iorio (figlio): medico chirurgo al “Veneziale”.
Vincenzo Bizzarro (cugino): ex direttore del distretto sanitario regionale di Isernia, oggi consigliere regionale di Forza Italia.
Luciana De Cola (moglie del cugino): vice direttrice sanitaria al “Veneziale”.
Raffaele Iorio (figlio): direttore medico al centro medico privato (Hyppocrates), convenzionato (ovviamente!) con la Regione.
Davide Iorio (figlio): lavora per una multinazionale estera che svolge – guarda a caso – consulenze per la Regione Molise.
Giovanna Bizzarro (cugina): funzionaria della Regione Molise.
Paolo Carnevale (cognato): direttore dell’Azienda Regionale per la Protezione Ambientale di Isernia.

Per gli “amici” si va da Ulisse Di Giacomo, primario del reparto di Cardiologia, senatore e coordinatore regionale di Forza Italia e, scendendo per importanza, fino a Giuseppe Scarlatelli, figlio del suo portavoce, assunto negli uffici del distretto sanitario di Termoli con l'incarico di “correttore di bozze” del giornalino (!) dell'ente.

Michele Iorio non è solo un uomo politico…è una famiglia politica, no, ci sbagliamo…non troviamo le parole…ecco: è una “Trimurti” politica, elevata però al cubo.

Questi sono i “difensori” del “vento molisano”, ma troveremo delle sorprese.
Per difendersi dal meneghino invasore, vengono erette in fretta e furia difese e barricate ed è subito chiamata in causa la Territoriale Armata Rivoluzionaria. Il TAR del Molise dà ovviamente ragione a patron Iorio, ma non s’aspetta che il Consiglio di Stato cassi quella sentenza[7], motivando che le istituzioni delegate alla Cultura ed al Turismo (in primis il Ministero) non hanno titolo per fermare il progetto.
La sentenza getta fuori dalla mischia Francesco Rutelli, il quale – nella famosa puntata di “Annozero” dedicata all’energia (quella con Rubbia che cercava di balbettare qualcosa ai politici) – aveva rassicurato d’aver già provveduto a fermare l’eolico in altre parti d’Italia (c’è la registrazione, attenti…). Che fare?

Un impianto off-shore produce sì energia elettrica in mare, ma deve portarla a terra per convogliarla nella rete di distribuzione: un semplice cavo sottomarino, mica roba da fantascienza. Però, però…
Ecco un appiglio per fermare il “mostro”: noi non concediamo l’attraversamento del Molise ai cavi del meneghino…questione di permessi, carte bollate, infiniti bastoni fra le ruote…oh, saremo padroni a casa nostra?
Qui c’è il colpo di scena, che – mi rendo conto – getterà nello sconforto chi ancora crede esista un barlume d’opposizione: si schierano, compatte ed unite sulle coste molisane, la 7° Panzerdivisionen “Von Iorien” (Forza Italia) ed il 10° Royal Tank Regiment “The Black Mount Peter’s” (IDV) che prendono posizione a difesa del Vallo di Termoli. Alla faccia di Prodi, Pecoraio Scannato e verdicchi tutti, il buon Di Pietro s’affianca al governatore di Forza Italia. Kamarad e Tommies uniti nella lotta: fosse una novità.
La bagarre “molisana” avviene nella primavera del 2007, e ci sono delle “chicche” da avanspettacolo, come “l’incontro” che il consigliere provinciale Cristiano di Pietro ottiene dal Ministro delle Attività Produttive. In pratica, va a trovare papà a Roma e poi sentenzia ed emette comunicati.

Il buon “papà” così si giustifica[8]:
«Si tratta di un progetto nato più nel sottoscala che nelle sedi opportune…Non sono stati coinvolti né gli enti locali, né la popolazione…In ogni caso, poiché la procedura autorizzativa non investe il mio ministero, ma quello dei Trasporti, mi sono già messo in contatto col collega Bianchi.»
Traduzione dal politichese: siccome non sono passati dalla mia anticamera, nisba. Vorremmo sapere come la mette con il suo compare Grillo, l’alfiere delle rinnovabili.

Siccome il Vallo di Termoli è invalicabile, e non vale la pena sbarcare in una fortificata Calais quando puoi farlo in Normandia, il meneghino compie una riflessione: se il Molise è impraticabile, non si potrà sbarcare in Abruzzo?
La costa abruzzese dista soltanto pochi chilometri in più: per un elettrodotto sottomarino non fa quasi differenza.
Di più: in Abruzzo, regna Ottaviano della Sublime Porta, il quale non ha mai mostrato repulsioni per i mulini a vento, al punto di volerne piazzare addirittura qualcuno nel suo paesello, Collelongo, dove ha già “benedetto” un impianto fotovoltaico.
Il Turco, però, sa – da quando mondo è mondo – che deve vedersela con Greci e Persiani. I primi stanno a Roma, l’odiato ex PM di Mani Pulite ora Ministro delle Attività Produttive, i secondi ce li ha addirittura in casa, nella persona di Alessandro Ciciani, il figlio di sua sorella, il quale (Forza Italia) guida un comitato anti-aerogeneratori proprio a Collelongo, il suo comune di residenza[9].

Quindi, il buon Ottaviano – che già si ritrova una serpe in seno – deve vedersela anche con il (suo) ministro dei Lavori Pubblici, il quale impera a Roma e pure nella molisana.
Il quadro – ci rendiamo conto – si complica assai: il (buon?) Rutelli (Ministro della Cultura e del Turismo) nella parte di Ponzio Pilato – l’imperatore Tiberio (Consiglio di Stato) m’ordina di non intervenire! Bacinellaaaa…– il perfido Di Pietro nelle vesti di Richelieu, Ottaviano chi è? Potremmo chiedere aiuto ad Alexandre Dumas padre, perché questa è una storia di cappa e spada. Ci sarà anche una bionda milady? No, bionda no, nera: con i capelli lunghi e gli orecchini alla zingara. Così va meglio.
Dalle Tuileries, Ottaviano scorge l’antico nemico, spauracchio d’ogni socialista, che ancora una volta si mette di traverso e conta di fargliela pagare. Oh, parbleu, maledetto des Pierres: assaggerai la mia lama!

Ecco, allora, l’affondo: se il Molise non concede, noi potremmo…

Il tempo scorre, il meneghino aspetta una missiva ma…casualmente…ecco – estate 2008 – scoppiare il “caso” Del Turco, ossia la scoperta che Ottaviano imperava sulla sanità abruzzese, e la sua Guardia Pretoria esigeva assi e sesterzi da ogni buon cerusico.
Ciò che stupisce, è la veemenza che viene usata nei confronti del Proconsole dei Bruzzi: oh, un mese d’arresto, mentre Previti (condanna definitiva) s’è fatto cinque giorni. Ci sono sempre, ovviamente, due pesi e due misure ma, nel caso di del Turco, sembra quasi di rivedere la “mano” d’altri tempi, quando l’Uomo del Monte (Nero) regnava al Palazzo di Giustizia di Milano.
Ovviamente, non sappiamo se Del Turco abbia acchiappato soldi oppure no – la consuetudine oramai consolidata “all’acchiappo” farebbe pensare di sì – ma non possiamo affermarlo con certezza.

Ciò che stride, in questa vicenda, è quella che potremmo definire quasi “urgenza”. Si potrà affermare che Berlusconi volesse mettere le mani sui Bruzzi, ma non ci sembra questa una priorità per la sua azione di governo.
Siccome la sanità è oramai il “buco nero” del bilancio italiano – e tutti, destra e sinistra, la usano come serbatoio di soldi e voti – Berluska correva pure un rischio: quello di vedersi resa la pariglia da qualche altra parte. Si sa: il “terzo potere” è bipartisan, con un occhio sempre attento alle “riforme” che possano togliere loro stipendi da nababbi e privilegi.
Un’azione così violenta, nel panorama politico italiano, deve avere “sotto” potenti e pressanti giustificazioni: se fossimo cattivi ed ingenui, potremmo credere ad un “vigoroso” interessamento per i Bruzzi da parte del Falso Pelato, ma oggi siamo solo cattivi ed abbiamo bandito ogni ingenuità. Al più, concediamo l’adagio di “prendere due piccioni con una sola fava”.

Ovviamente, tutto è concluso: i meneghini sono tornati a bere l’aperitivo sotto il Duomo, Iorio continua ad infilare parenti ed amici nella sanità molisana e Di Pietro cerca sempre nuovi mezzi per rimanere sull’onda. Se non aver fermato definitivamente la società “Ponte sullo Stretto”, quando era ministro, fu spiegato con una penale da pagare (tutto da verificare), i gran sostenitori del Pietruzzo Nazionale dovrebbero spiegare come mai il Masaniello di Bisaccia finì per schierarsi, nella vicenda, con Berlusconi, Iorio, l’ENI, l’ENEL e con il loro araldo, un tizio di nome Vittorio Sgarbi, del quale una collega di partito – Letizia Moratti – affermò che nei confronti del suo (ex) assessore alla cultura doveva giocare un duplice ruolo, “quello di sindaco e di psicoterapeuta”.
Sarebbe troppo chiedere a Pietruzzo perché infilò nelle liste dell’IDV un personaggio infido come De Gregorio – il quale cambiò casacca immediatamente, iniziando da subito a far navigare con l’acqua alla gola il governo Prodi – ma riteniamo che i suoi fans troveranno tantissime giustificazioni. Ma, lo abbiamo premesso, oggi siamo solo cattivi e non ingenui.

La vicenda veramente conclusa – questo è il dato importante – è la costruzione del primo impianto eolico off-shore italiano, che sarebbe stato un vero spauracchio: perché, se l’appetito vien mangiando…
Adesso, l’attenzione s’è spostata sulla Sicilia: gli aerogeneratori del trapanese erano controllati dalla Mafia! Ma come si riescono a fare simili scoperte dell’acqua calda? In una regione nella quale anche per vendere lupini con una bancarella ambulante devi avere l’imprimatur del mammasantissima di turno, possiamo credere che sfuggisse un simile affare? Sarà pure energia “pulita”, ma i soldi che passano per la Sicilia viaggiano sempre fra i soliti nomi.
Infine, Vittorio Sgarbi – dopo aver sbattuto l’ennesima porta (Comune di Milano) – se ne va a fare il sindaco di Salemi: se lo saranno tolto di mezzo, penseranno i più.
Quelli cattivi e poco ingenui, invece, sanno che la Sicilia è una delle regioni più “gettonate” per l’eolico: scarso valore dei terreni, buona ventosità, nessun problema amministrativo. Là, si sa sempre a chi rivolgersi.
Ecco allora il nostro Sancho Panza (cavaliere, no, proprio no…) scendere nella Mancia…pardon…nella Sicilia dove iniziano ad esserci troppi mulini a vento. Un caso? Certo, ma la sua prima dichiarazione – come sindaco – è[10]:

“Farò di tutto perché non vengano più installate quelle terribili pale eoliche che tanto rovinano il paesaggio. Dovranno passare sopra di me per installarne di altre. Chi ne vorrà di altre cominci a pensare di infilarsele in quel posto…”

Qualcuno, si domanderà cosa c’entrino le centrali di Berlusconi: c’arriviamo.
Posto che ogni KWh prodotto con l’eolico toglie una fettina di petrolio all’ENI, già l’impianto di Termoli avrebbe portato via un pezzettino di torta. Il vero problema, però, era il futuro.
Se a qualcuno fosse venuto in mente di costruire tre grandi impianti off-shore – Puglia, Canale di Sicilia, Sardegna – il panorama energetico nazionale sarebbe mutato. Eccome, mica per dei decimali.

Proviamo, per una volta, a pensare in grande.
Tre estese installazioni off-shore, nei tre punti precedentemente indicati, che utilizzassero piattaforme ancorate ad una distanza di 20 Km dalla costa, consentirebbero d’installare circa 10.000 aerogeneratori da 5 MW di picco.
Immaginiamo tre “corridoi” lunghi circa 200 Km ciascuno, (provvisti di canali per la navigazione ad intervalli regolari) larghi circa due chilometri: “immaginiamo”, perché da terra non si vedrebbe nulla.
Siccome in quelle aree il CESI stima una produzione alla massima potenza per circa 3000 ore/anno, s’otterrebbero ogni anno circa 150.000 GWh, che rappresentano il 44% circa del fabbisogno elettrico italiano (anno 2006).
L’investimento richiesto sarebbe dell’ordine dei 50 miliardi di euro[11], da diluire in un decennio: come trovare i soldi?

Emettendo dei “bond energia”, garantiti dallo Stato, con un rendimento più elevato degli attuali titoli, e quindi più “appetibili” (il costo di produzione eolico è così basso che, anche con il petrolio ai minimi, è ampiamente remunerativo), prediligendo “tagli” piccoli, per incentivare l’azionariato popolare.
Perché sarebbe possibile creare ricchezza a fini sociali con l’eolico?

Il conto è presto fatto: un MW di potenza installata, produce in mare (mappe CESI) 3000 MWh l’anno e costa (installazione) un milione di euro. In 30 anni di funzionamento, il nostro MW produrrà 90.000 MWh i quali, al prezzo di 75 euro/MWh[12], fanno la rispettabile cifra di 6.750.000 euro. Dopo, servirà soltanto sostituire le parti rotanti (con minori costi) per avere altri 30 anni d’energia, e così via.
Dopo cinque anni, l’investimento del milione di euro sarebbe già ripagato: poi, 25 anni d’energia gratis! Con le centrali di Berlusconi, si parla di 30 anni! Forse.
Ci sono pochi investimenti che garantiscono una così elevata redditività: senza rischi, senza inquinamento, senza intervenire nel paesaggio, senza lasciare pesanti “eredità” (scorie) alle generazioni future e senza dover investire per anni e non ricavare nulla. Difatti, l’eolico è il metodo di produzione energetica che più incrementa, ovunque.

Un simile progetto, consegnerebbe all’Italia – due anni prima che una fumosa centrale berlusconiana avvii la turbina – il 44% della richiesta elettrica contro l’ottimistico (e quando?) 15% di Berlusconi. Di più: la produzione, scaglionata in un decennio, fornirebbe energia già dal primo anno, non undici anni dopo.
Altro effetto benefico, la nascita di un’industria italiana dell’eolico: decine di migliaia di posti di lavoro, a tempo indeterminato e ben retribuiti. Infine, un investimento – “popolare” e sicuro – per i piccoli risparmiatori, la gente comune, quelli che mettono da parte i 1000 euro per il nipotino.
Non consideriamo gli aspetti ecologici, ossia gli impegni di Kyoto: già queste ragioni sono sufficienti per scatenare la bagarre, per far eleggere Sgarbi in Sicilia, per mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, da Di Pietro a Iorio, fino all’enigmatico Rutelli. Tutti assatanati, destra e sinistra, che corrono appresso ai denari di ENEL ed ENI.

Anche la pretesa discontinuità dell’eolico è un argomento per sordi: certamente, non possiamo immaginare il mondo delle rinnovabili come quello del petrolio! Ad esempio: perché non dirottare, nei week-end (industrie ferme), quote d’energia per la generazione d’idrogeno per i trasporti? Oppure compensare la discontinuità con le biomasse? Quelle stagionali con il solare termodinamico? Suvvia: qui servono teste pensanti, non i blateranti arruffoni che c’ammansiscono di cazzate dal teleschermo!

Se qualcuno si sente spaventato da questi numeri – Oddio! Andiamo a costruire una “grande opera” – rifletta che, dal 1830 al 1880, in Italia furono costruiti 10.500 Km di ferrovie: la velocità dei trasporti, in mezzo secolo, decuplicò, giacché prima era ancora la stessa delle vie consolari romane.
Le grandi opere che non servono sono la TAV ed il Ponte sullo Stretto, mentre investire in un sistema energetico, che risolva definitivamente il problema, vuol dire evolversi, non involgersi.
Potrete sempre optare per la produzione su piccola scala, ma sarà molto meno redditizia, poiché sulla terraferma difficilmente si superano le 1700 ore/anno: quasi la metà.
Per questa ragione, sarebbero convenienti le grandi installazioni in mare, mantenendo però il controllo – con rigidi protocolli normativi, che implichino il re-investimento dei proventi a scopo sociale, per rendere impossibile il “dirottamento” da parte dei soliti noti – alla parte pubblica.
Il problema energetico richiederebbe altri interventi – ben lo sappiamo – soprattutto per avere “casse di compensazione” sulla discontinuità della fornitura: biomasse, termodinamico, metano da rifiuti, piccolo idroelettrico, risparmio energetico, ecc, ma non vogliamo trasformare un articolo in un saggio.

Berlusconi promette (dopo il 2020!) d’iniziare ad incidere sulla ripartizione delle risorse energetiche – che sarebbero comunque importate (l’arricchimento dell’Uranio avverrebbe in Francia) – per un 10-15% del mercato elettrico. Con i tre impianti ipotizzati, invece, si sarebbe ricavato il 44% della richiesta nazionale: e, con la semplice manutenzione, per sempre!

E, qui, consentitemi di togliermi un sassolino dalla scarpa.
Nel 2004, informai Prodi (al tempo, era ancora Presidente della Commissione Europea) della questione e proposi – visto che l’Italia era rimasta indietro nella tecnologia degli aerogeneratori – di scegliere la strada della produzione su licenza, coinvolgendo le principali aziende meccaniche italiane: FIAT, Ansaldo, OTO Melara, Italcantieri, ecc.
Senza, però, avviare poi la produzione nel nostro Paese, sarebbe stato inutile coinvolgere le aziende: insomma, era un problema di simbiosi. Produco aerogeneratori perché servono, servono perché c’è un problema energetico e per risolverlo c’è un piano.
Lo informai, inoltre, della necessità d’avviare sperimentazioni (come stanno attuando in altri Paesi) sulle correnti sottomarine e sullo sfruttamento delle caldere dei vulcani attivi a magma basico. Oggi potrete giudicarmi un ingenuo, ma sono trascorsi cinque anni: mai negare, anzitempo, la buona fede.

La risposta (che conservo) fu molto deludente: non è mio costume pubblicare la corrispondenza privata, e mi atterrò a questo nobile principio del vecchio giornalismo. In altre parole, se mi fossi trombato Diana, non sarei subito sceso – ancora sudaticcio – dall’editore sotto casa.
La prova che quanto affermo è vero? E’ nei fatti.
Salvo le chiacchiere, nulla è stato avviato nei due anni del governo Prodi.
Il piano era semplice: ogni anno, versiamo a paesi esteri tot miliardi per l’approvvigionamento energetico. Una parte di questi soldi, “dirottiamola” in investimenti nell’industria italiana – non importa se dovremmo pagare le royalties per le licenze – e creeremo decine, forse centinaia di migliaia di posti di lavoro, come ha fatto la Germania.

Se quel piano fosse iniziato quando lo proposi, oggi non avremmo bisogno di quelle improbabili centrali, e sarebbe possibile iniziare già domattina a lavorarci, se solo ce ne fosse la volontà. Ma, da un governo così cieco come l’attuale, non possiamo attenderci che promesse al vento.
Il problema – che è veramente bipartisan, la vicenda Di Pietro/Iorio lo dimostra – è che in Italia, a fronte di uno dei problemi più importanti che abbiamo – l’energia – non esiste un dicastero competente. Sì, c’è una “appendice” del ministero delle Attività Produttive: va bene…serve un po’ di vapore per le filande…lo troveremo…
Invece, l’energia è uno dei principali “nodi” della nostra democrazia malata poiché, chi controlla l’energia, controlla le nostre vite.
In realtà, le scelte energetiche sono decise fuori del controllo democratico: chi le compie?
Due attori, ENI ed ENEL, hanno in mano il destino energetico italiano e non sono sottoposti a nessun controllo reale, al punto che ENEL si permetteva (e ancora si permette) di farci pagare in bolletta un contributo per le energie rinnovabili per poi, con arzigogoli linguistici, farlo confluire sugli inceneritori e, addirittura, sul petrolio, considerando il cracking degli idrocarburi pesanti un’attività di “riciclo”. I Moratti han copiosamente vendemmiato.

La risposta, giunti a questo punto, è chiara: se Berlusconi punta sul nucleare, il PD è da sempre legato all’ENEL (ricordiamo Chicco Testa), Scaroni è un ex pupillo socialista e Di Pietro s’adatta e ci marcia pure, chi rimane?
Un cadavere che si rivolta nella tomba: solo Enrico Mattei pensò ad un futuro “democratico” per l’energia, poiché si riteneva un serio ed onesto servitore dello Stato. Oggi, siamo certi che guarderebbe avanti, non indietro: ma il mondo dell’energia non è per gli ingenui, e chi va fuori dal gregge paga, oppure non viene nemmeno ascoltato.

I siti per le centrali nucleari – elettori di destra, dove siete? – saranno comunicati (34, secondo le indiscrezioni di Scajola) solo dopo le elezioni europee. Prima, cari elettori del PdL, andate tranquilli a giocare con le crocette nella cabina elettorale: dopo, vi diranno se il vostro comune sarà militarizzato per decenni.
Gli abitanti dei 34 misteriosi siti (centrali, scorie, ammennicoli vari) vedranno il valore delle proprie abitazioni precipitare ad un decimo: nessuno vuole abitare vicino alla rumenta nucleare.
La vostra casa varrà un decimo di prima? E che gliene importa: basta che crediate a quel che blatera Sgarbi!

Noi, che siamo cattivi, non vogliamo così male agli abitanti di Salemi – dove il buon Vittorio ha posato le chiappe – al punto d’augurare loro una bella centrale nucleare.
Chiediamo – per un giusto ed inattaccabile contrappasso – che una sia costruita a Ferrara, proprio nei pressi dell’avita magione sgarbiana.
A quel punto, giuro che porterò il mio nipotino in visita e gli dirò: «Vedi, quello è un grand’uomo: per essere coerente con le sue idee, ha accettato il deprezzamento della sua abitazione da 500.000 a 50.000 euro. D’altro canto, con tutto quello che aveva fatto per le centrali…»
L’altra, spero la costruiranno ad Imperia – presso “Villa Scajola” – perché? Perché mi piacerebbe comprare per due soldi un bel villone in Riviera. A quel punto, sopporterei anche la centrale.

PS: Da qualche parte, ho scritto più volte la parola “buoni”. Scusate i refusi.

[1]Italia, Francia e il nucleare. Fonte: http://aspoitalia.blogspot.com/
[2] La società EFFEventi, http://www.effeventi.com/
[3] Link: http://www.cesiricerca.it/Testi/link.aspx?idN=10 cliccare su “Atlaeolico”.
[4] Fonte: http://www.bcp-energia.it/wind_energy_project/hywind_offshore_wind_turbine_energia_eolica.php
[5] Il clutter è un fenomeno di riflessione radar causato dalle creste delle onde in condizioni di mare agitato. In pratica, genera sullo schermo radar un “disturbo” di punti luminescenti, che possono causare problemi nell’individuazione di piccoli natanti. Non è certo il caso di “bersagli” alti 100 metri.
[6] Fonte: “La Repubblica”. http://www.repubblica.it/2009/02/sezioni/cronaca/iorio-isernia/iorio-isernia/iorio-isernia.html
[7] Fonte: http://www.anev.org/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=43
[8] Fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Scienze_e_Tecnologie/2007/03_Marzo/08/eolico.shtml , Corriere della Sera, 3 Marzo 2008.
[9] Fonte: ANSA, 8 marzo 2008.
[10] Fonte: intervista concessa al quotidiano on-line ILoveSicilia il 7 Luglio 2008.
[11] Per l’eolico a terra, si stima un costo di un milione di euro per MW installato. In mare, il 25% in più: però, un così vasto progetto godrebbe d’importanti risparmi “di scala”. Tutti i calcoli sono al netto dei “Certificati verdi”.
[12] Dato corrispondente alla settimana 16-22 Febbraio 2009, con il prezzo dell’energia già in calo. Fonte: http://www.affaritaliani.it/ultimissime/flash.asp?ticker=240209104012