28 dicembre 2008

Perché l’Italia non sarà mai la Grecia

Nonostante la cappa di silenzio mediatico che ha circondato e circonda la Grecia, molti si sono resi conto che la rivolta greca non è stata un “furore” di pochi esaltati e nemmeno una manfrina abilmente orchestrata dal Palazzo. E neppure una rivoluzione tentata o fallita.
I fatti avvenuti in Grecia sono stati una rivolta spontanea – attizzata sì dall’assassinio di un ragazzo – ma proposta all’attenzione della Grecia e del Pianeta poiché la situazione economico/politica del Paese sta diventando insostenibile.
Le ragioni sono oramai le stesse ovunque: l’incedere, pressante, dello strapotere finanziario sui redditi da lavoro, la medesima mano della globalizzazione che colpisce dappertutto.
La Grecia è un paese di modesta grandezza, e la popolazione vive perlopiù accentrata in poche città, delle quali l’area di Atene/Pireo fa la parte del leone.
Qui sono scoppiate le contraddizioni più evidenti: 700 euro di stipendio contro 500 di affitto, e non crediamo di dover aggiungere altro. La rivolta greca è quindi un soprassalto di dignità, di chi non accetta più d’essere testimone cieco e silente della tragedia di un’intera generazione, sopraffatta dalla globalizzazione e dalle burocrazie finanziarie europee e mondiali.

Altri hanno equiparato la vicenda alla rivolta delle banlieues parigine: stesse coreografie, identica ribellione con auto date alle fiamme e scontri con la polizia. C’è senz’altro del vero nell’accostare i due fenomeni; entrambi sono stati una rivolta prevalentemente giovanile, e la ragione di fondo le accomunava: percepire d’esser destinati al girone infernali degli eterni esclusi, senza speranza né futuro.
In qualche modo, queste rivolte sono il risveglio dal cotonato baluginare delle “Isole dei Famosi”, la battaglia contro le falsità che i mestieranti della politica destri/sinistri ammansiscono a piene mani.
Viene allora da chiedersi perché l’Italia non sia stata contagiata dal “virus” greco, oppure perché “L’Onda” abbia assunto ben altri toni e differenti prassi nella protesta.
In qualche modo, ci viene in aiuto l’analisi sulle vicende francesi; il “cuore” della rivolta erano le banlieues: periferie anonime, sconclusionate e frammentate come “Guernica” di Picasso, abitate in prevalenza da giovani maghrebini di seconda e terza generazione. La rivolta era una vicenda d’esclusi, di persone che non percepivano più i fendenti del sistema finanziario come sopportabili escoriazioni della pelle, bensì come dolorosi affondi nella carne. I quali, possono essere generati da elementi puramente economici – avere poco o nulla, essere costretti al furto per ottenere soltanto i succedanei del gran circo del consumo – oppure una teorizzazione che può avere molteplici radici e valenze: dalla veloce rilettura di un Islam “traghettato” su sponde politiche alla più comprensibile (per noi), normale vicenda di scontro di classe. Forse, meglio, una combinazione d’entrambe.
Anche le connotazioni “sul campo” – non ce la sentiamo di definirle “tattiche”, perché il termine include, sottendendola, la presenza di un’avanguardia organizzata – sono state differenti: battaglia a tutto campo e quasi senza esclusione di colpi nelle notti francesi (ad indicare un sovrappiù di tensione non più elaborabile, gestibile) e testimonianza anche violenta ma ferma – a viso aperto, vera e propria sfida sul campo al potere, non mediabile con altre letture – nelle vie di Atene.

Infine – se riteniamo che sia accostabile – la rivolta degli studenti italiani, che ha cercato di “mostrare i muscoli”, rimanendo però ancorata a precise richieste da porre alla classe politica, dalle quali s’attendeva una risposta. Non a caso, “l’Onda” ha subito sofferto di contraddizioni al suo interno: i fantasmi della “destra” e della “sinistra” – pur negati a parole – non hanno tardato a manifestarsi, e questo senza prendere in considerazione le puerili provocazioni di Piazza Navona.
In altre parole, “l’Onda” attendeva una risposta che né i greci – e tanto meno gli esclusi delle banlieues – attendevano: i primi proponendo l’improponibile, ovvero la semplice caduta del governo, gli altri non manifestando nemmeno chiare richieste, se non l’evidenziare un livello di sofferenza oramai inesprimibile con altri mezzi.

Siamo quindi di fronte a due fenomeni i quali – pur con differente “intensità” e con modalità espressive molto diverse – hanno posto loro stessi come testimonianza aperta e senza rischio di fraintendimenti: siamo qui per dire di “no” al vostra selvaggia “guerra indiana” contro le giovani generazioni, identificate con la maggior parte dell’insieme dei non-abbienti.
La condizione greca è forse quella che più si avvicina a quella italiana, e viene allora da chiedersi perché la “generazione del 700 euro” italiana non abbia usato gli stessi mezzi espressivi – non stiamo qui parlando di violenza – ossia perché le giovani generazioni italiane considerino ancora il potere politico un interlocutore attendibile. Ossia, da un “Noi non pagheremo la vostra crisi” ad un più esplicito “Pagate da voi la vostra crisi, e sparite”.
Perché – per molteplici motivi – i giovani italiani stanno ancora un pochino meglio, anche se stanno un po’ peggio dei loro coetanei di tanti paesi europei.

Per prima cosa, le differenze di reddito in Italia mostrano una marcate eterogeneità, soprattutto fra il Nord ed il Sud del Paese. Poi fra città e piccoli borghi, quindi per classe sociale.
L’eterogeneità geografica è quella più evidente e conosciuta: l’eterno dibattito italiano sul meridionalismo, il “ritardo” incolmabile.
Anche al Nord, però, la situazione è variegata: il ricco Nord Est è meno ricco di prima ed il Nord Ovest – precipitato per molti anni – pare oggi addormentato fra speranze d’assistenza statale ed improbabili rinascite.
Sarebbe sbagliato, però, identificare le tradizionali aree della vecchia industrializzazione come le uniche produttrici di beni e servizi: l’Emilia Romagna è diventata una delle più ricche aree del Paese e così è anche per estese zone del versante adriatico, fino alla Puglia.

Aprendo una breve parentesi, dobbiamo ricordare che, a monte del declino industriale italiano, ci sono vent’anni di stasi nell’innovazione tecnologica, abilmente catalizzata da gruppi di potere che possiamo indicare genericamente nel binomio ENEL/ENI. La campagna “estetica” di Vittorio Sgarbi contro gli aerogeneratori è un vero e proprio rottame della storia, qualcosa che si riesce difficilmente a comprendere, se non si spiega il passo successivo: le centrali nucleari promesse da Berlusconi. Altro “rottame” storico: il quale, però, riporta in poche mani la produzione energetica.
Si tratta di un fenomeno semplice ma ricco d’attributi, che meriterebbe spazio che qui non abbiamo, poiché capire il motivo del rifiuto italiano a giocare la sfida delle nuove tecnologie energetiche è argomento che sgomenta per la sua insulsaggine.

Roma e le grandi città traggono sostentamento in gran parte dal settore pubblico, ed i mille rivoli della corruzione alimentano altre sacche di ricchezza di dubbia provenienza.
Se analizziamo invece la distribuzione della ricchezza per generazioni, scopriamo che gli “over 40” godono ancora – si tratta, ovviamente, di una generalizzazione – di contratti più stabili e remunerativi. Una considerevole quota della ricchezza nazionale è infine quella degli assegni pensionistici i quali, col trascorrere del tempo, sono cresciuti rispetto ad un tempo. Oggi, si va in pensione con maggiori introiti rispetto ai decenni precedenti.
Questa disparità di ricchezza e precarietà di redditi fra le generazioni ha originato – nella struttura familiare – un trasferimento dalle generazioni più anziane a quelle più giovani: il ben noto fenomeno definito – con scarsa educazione e tanta protervia – dei “bamboccioni” da Tommaso Padoa Schioppa. Sarebbe come definire i ministri economici “saltimbanchi”.
Spesso, sono oramai i redditi dei genitori – che ancora lavorano o sono in pensione – a sostenere (in varie forme e modalità) la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. Un fenomeno principalmente italiano per la sua diffusione, che “lega” le generazioni con un cappio bicipite: il risparmio delle famiglie decresce, e le semplici “iniezioni” per la sopravvivenza non cambiano di una virgola il destino dei giovani.

Questo fenomeno presuppone, però, che la parte meno giovane della popolazione percepisca redditi consistenti, in grado di “coprire” il deficit dei redditi giovanili.
Ciò avviene perché i redditi da pensione – ad esempio – seppur falcidiati dal passaggio all’euro e dalla rincorsa dei prezzi, sono stati generati dagli accantonamenti pensionistici d’anni lontani, quando le fabbriche lavoravano e non c’era ancora stato il ben noto “sacco” del settore produttivo pubblico ad opera della finanza internazionale. Britannia docet.
Questo vale per gran parte del territorio italiano, Centro compreso, mentre assume minor incidenza – per redditi da lavoro o da pensione – nelle aree meridionali, che non hanno mai avuto un tessuto produttivo diffuso, al massimo godono dei redditi del settore pubblico.
Ci sarebbe quindi da attendersi una situazione esplosiva nelle regioni più povere, che sono sempre le stesse: Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia, perché la differenza con le altre regioni è evidente, marcata da tutte le rilevazioni statistiche.
Perché, allora, non ci sono rivolte a Napoli od a Palermo?

Anche qui, dovremo affidarci ad argomentazioni che vanno per sommi capi, poiché le specificità d’alcune aree del meridione esistono, eccome. Basti pensare all’uso spregiudicato dei fondi pubblici che la regione Sicilia opera da anni: là esistono ancora le “pensioni baby” per i dipendenti degli Enti Locali, mentre nel resto del Paese sono scomparse da 15 anni, e l’apparato pubblico è gonfiato a dismisura. La Sicilia ha sempre saputo far valere la propria importanza elettorale, in tutte le stagioni politiche.
Altre aree, come la Puglia, hanno il loro punto di forza nell’agricoltura, che consente un certo margine di reddito in grado di “tappare” qualche buco. Altre zone, invece, hanno alte densità abitative e poche o nulle attività economiche. Qui, ci sarebbe da attendersi un tessuto sociale in perenne rivolta: invece, non avviene.
Il fattore calmierante di molte tensioni sociali è la criminalità organizzata, di seguito – per comodità – definita globalmente come “Mafie”.

La genesi delle Mafie è stata variegata, secondo i luoghi, ma possiamo (tralasciando le origini contadine) definire un percorso che parte dall’estorsione e dalle piccole attività criminali, quindi dal traffico di sigarette e poi di stupefacenti, passa per il traffico d’armi per terminare con il controllo degli appalti pubblici e la collusione (reciprocamente interessata) con la classe politica. Infine, la fase della globalizzazione, vissuta come partecipazione al gran banchetto della finanza internazionale.
In questo percorso, il controllo del territorio è stato essenziale: dapprima per le estorsioni, quindi per le strutture necessarie al traffico internazionale – sigarette, droga, armi, ecc – quindi per i mille addentellati (pensiamo all’edilizia, ai rifiuti, ecc) che permettono la gestione criminale degli appalti. La fase di massima espansione, ossia la finanza internazionale, potrebbe forse fare a meno del tradizionale controllo del territorio, ma le attività finanziarie delle Mafie rimangono legate ai flussi di denaro che essa trae dalle aree che controlla, oppure per le necessità contingenti che certi, lucrosi mercati clandestini richiedono. Pensiamo, ad esempio, alle raffinerie per la droga od alla custodia delle armi.

Un altro aspetto – è difficile, oramai, circoscrivere gli ambiti di “interesse” delle Mafie – è quella che riteniamo la comune gestione economica delle attività produttive, che vengono – ovviamente – “interpretate” dalle Mafie come “territori” nei quali le leggi dello Stato non esistono.
Avremo quindi una panoplia d’attività economiche assai variegate: dalla semplice gestione “in nero” di comuni attività (l’edilizia, ad esempio), fino ad imprese che hanno tutti i crismi della “normalità” – fiscale ad esempio – perché la loro utilità non è nell’azienda stessa, bensì in quello che cela, magari in un sotterraneo od in un retrobottega ben nascosto. Insomma, un tessuto d’Arlecchino per tipologie, diverso secondo le esigenze e le fasi del potere mafioso.

Ovviamente, la popolazione è coinvolta nelle attività delle Mafie e si tratta di una battaglia persa in partenza dallo Stato, giacché l’imprenditoria delle Mafie non sopporta certo i carichi impositivi – fiscali, previdenziali, ecc – che le comuni imprese devo osservare.
Questo, però, fa apparire le Mafie come dispensatrici di benessere: se i dati sulla disoccupazione, in alcune regioni italiane, fossero quelli ufficiali, la popolazione sarebbe alla fame.
Invece, così non è: almeno, non nei termini e nei numeri della statistica ufficiale.
Città come Napoli o Palermo, senza il “contributo” economico delle Mafie, diventerebbero in brevissimo tempo delle lande ingovernabili per lo Stato, che dal fattore calmierante delle Mafie – quindi – trae vantaggio.
Quale interesse avrebbe lo Stato a sconfiggere le Mafie – anche non considerando il reciproco arricchimento dei boss e dei loro referenti politici – se dopo si dovesse accollare l’onere di provvedere alle popolazioni?
Non sarebbe nemmeno possibile sopperire alla bisogna con nuove attività produttive, giacché il tessuto imprenditoriale italiano è fragile, più portato alla rendita finanziaria (di posizione, istituzionale o internazionale) che all’impresa di rischio, che scommette su nuovi prodotti e servizi.

Un’articolata disanima sulle Mafie richiederebbe altro spazio che un semplice articolo, e ci sono scrittori che lo fanno senz’altro meglio del sottoscritto: ciò che ci premeva sottolineare, è che solo le Mafie spiegano la “pace terrificante” di certe regioni italiane, così come in altre il reddito dei giovani viene sostenuto dalle generazioni più vecchie, le quali godono ancora dei frutti maturati in oramai lontani anni di benessere economico. Due fattori che inibiscono e depotenziano qualsiasi rivolta.

Come spezzare questo cerchio inossidabile?
Nessuno, oggi, è in grado di farlo: chi lo sostiene, racconta solo frottole. Le Mafie non temono certo coraggiosi magistrati ed onesti giornalisti: semplicemente, li uccidono.
Ci rendiamo conto che questa sentenza può apparire ingenerosa nei confronti di coloro che s’oppongono (soggettivamente) al potere delle Mafie – e rispettiamo ed ammiriamo il loro coraggio – ma devono convenire che il potere delle Mafie è così vasto, potente ed omnipervasivo che nulla sfugge loro. Sfugge solo ciò che è ritenuto insignificante, oppure ciò che viene tollerato perché non limita il loro potere e riesce, addirittura, a far credere che esista realmente qualcosa che può contrastare il potere dei boss.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi, rifletta sull’ultima stagione di lotta alle Mafie, terminata con gli assassini di Falcone e Borsellino. La fase successiva – inaugurata con l’attentato di Firenze in via dei Georgofili – avrebbe posto lo Stato di fronte ad un ben amaro dilemma: accettare la sfida e rischiare che i principali beni culturali, artistici (e turistici) del Paese sparissero in una nuvola d’esplosivo.

Anche il sostegno, offerto dai padri ai figli, durerà ancora per molti anni, poiché interviene un altro fattore a favorirlo: la scarsa natalità, che finisce per accentrare in poche mani patrimoni (soprattutto immobiliari) che un tempo erano suddivisi fra più attori. Non è raro, oggi, scoprire che gli eredi di otto bisnonni sono soltanto due pronipoti, e questo è un aspetto di concentrazione della ricchezza che tende a calmierare la situazione.

Due roboanti retoriche, sempre sostenute dai media di regime, sono quindi un reale “puntello” per lo Stato corrotto ed imbelle: la “solidarietà” delle famiglie italiane – che conduce, inevitabilmente, ad un generale impoverimento ed al mantenimento della precarietà sociale – e la lotta alle Mafie le quali, per il sostegno che “offrono” invece alla stabilità sociale, se non esistessero dovrebbero essere inventate.
Nulla d’eclatante: solo una meditazione per iniziare meglio, con maggior consapevolezza, il 2009.

24 dicembre 2008

Tu scendi dalle stelle…

In questi giorni, tutti scendono dalle stelle: Dei ed Angeli, stelle comete e buoni propositi.
Chi non c’attendevamo proprio che prendesse la cosa alla lettera, sono gli Stati Uniti d’America: sì, proprio i grandi Iuessé.
Con uno scarno comunicato, la NASA ha dichiarato che i tre Shuttle ancora in esercizio, dopo il 2010, “saranno messi in vendita al modesto prezzo di 42 milioni di dollari, ossia circa 30 milioni di euro al pezzo, inclusi pulizia degli interni, asportazione di materiali tossici e trasporto[1].

Insomma, un “tutto compreso” che sa di “barba e capelli”, oppure di un “pacchetto” turistico per Parigi che comprende anche il rituale spogliarello a Pigalle.
Da un lato, non possiamo esimerci d’ammirare il pragmatismo anglosassone: se gli Shuttle fossero stati italiani, le cose avrebbero preso ben altra piega.

Per prima cosa si sarebbe gridato al tradimento per la dismissione della patria ferraglia, quindi si sarebbero immediatamente formati i due comitati: quello della salvezza ad ogni costo e l’altro, per una rottamazione ad incentivi.
Nel primo caso, sarebbe sorta dal nulla una “cordata” che avrebbe immediatamente suddiviso gli Shuttle in parti: quelle “nobili” a noi, e l’amianto e tutta la rumenta ad una “bad company”. Nel secondo caso, sarebbero stati “caricati” sul bilancio statale gli oneri di rottamazione: se, poi, a comprarli fossero stati Tronchetti, De Benedetti e Ligresti, poco importa. Quando si rottama si rottama, e chi se ne assume l’onere ha ben diritto a veder riconosciuta la sua buona volontà!
E’ Natale, e non ce la sentiamo d’approfondire la cosa, perché ci condurrebbe ancora una volta a constatare la pochezza delle nostre “destra” e “sinistra”: stiamo incartando il camion dei pompieri per il nostro primo nipotino, e che gli apparatcik d’ogni colore vadano a quel paese.

Quel che più colpisce è la decisione presa dagli USA: i rifornimenti per la stazione spaziale internazionale saranno eseguiti mediante navicelle russe, europee e (forse) giapponesi. Che diventerà finalmente “internazionale”, senza americani a fare i padroni e gli altri i camerieri.
Che la vicenda degli Shuttle fosse terminata, già si sapeva: a parte il fatto che i velivoli sono giunti al termine della loro vita operativa (le vecchie “ore volo”), tutto l’andazzo non è stato proprio un successo. Su cinque mezzi costruiti, due sono finiti in una palla di fuoco: le vecchie navette (modello Apollo o Soyuz) si sono dimostrate più robuste e sicure, tanto che la NASA progetta per il futuro qualcosa d’analogo.
In realtà, si tratta di un futuro un po’ sfumato, che s’arrovella fra le dispute dei condizionali: “sarebbe”, “potrebbe”, eccetera perché, quel centinaio di milioni di euro che ricaveranno dalla vendita ai musei dei velivoli, serviranno per la pura sopravvivenza dell’Ente.
Da un punto di vista prettamente tecnologico – intendendo in questo la filosofia di progetto – si è trattato del classico “passo più lungo della gamba”, poiché il sogno d’avere un velivolo da/per lo spazio riutilizzabile è svanito nell’evidenza della loro scarsa affidabilità, soprattutto per gli scudi termici.
Certamente, per mettere in cantiere missioni su Marte, serve ben altro che degli Shuttle, i quali sembrano stare insieme con la plastilina. Anche i motori termici soffrono di scarsa autonomia, e bisogna prenderne atto.
Probabilmente, dovrà scorrere ancora molta acqua sotto i ponti: fisici ed ingegneri dovranno arrovellarsi fra nuove scoperte, calcoli e scienza dei materiali, ancora per tanto tempo. Per farlo, ci vorranno soldi che oggi non ci sono nemmeno per salvare la cassa malattia dei dipendenti dell’auto. Figuriamoci per assoggettare i marziani: e se esistessero? Un altro Iraq?

Per trovare fondi, però, bisognerebbe iniziare a gestire meglio quelli che abbiamo: non è trascurando la casa dove abitiamo che possiamo sperare di mettere da parte i soldi per comprarne una per le vacanze. Semplicemente, rischieremmo di dover accendere un mutuo per le riparazioni della prima, e niente seconda casa.

La morale della favola è che abbiamo un solo pianeta, e che per tanto tempo non avremo la possibilità reale di lasciarlo per vivere altrove, senza essenziali cordoni ombelicali. Iniziamo a trattarlo meglio: chissà, con una buona gestione ed il tempo necessario, troveremo anche qualcosa per sostituire le attuali, rudimentali “vele” spaziali.
Con la pazienza e la saggezza dei nostri vecchi, che sarebbe meglio non dimenticare mai.

[1] Fonte: Repubblica, 20 Dicembre 2008

19 dicembre 2008

Governatori e Gauleiter


Salve a tutti. No, non ho avuto un rigurgito di presunzione ed ho deciso di presentarmi come Marco Travaglio sul blog di Beppe Grillo: semplicemente, torno alla luce dopo circa 60 ore di sospensione. Finalmente, tornata la corrente elettrica, posso di nuovo scrivere.

L’inizio è stato soft: tanta neve che scendeva sui tetti e sulla piazza deserta. Minuti: poi, ore e giorni.
Alla fine, più di mezzo metro di neve dappertutto: la mia auto, sotterrata dai vari passaggi dello spartineve, al termine della questione aveva un solo manto che si congiungeva, da terra al tetto.
In queste sessanta ore abbiamo vissuto quasi sempre senza corrente elettrica – no microonde, caldaia (pompa elettrica), ADSL, TV, Radio (non ho più trovato la vecchia radio a pile…), phon, ecc – poi senza pane (impastatrice del panificio ferma) e senza aprire il congelatore: quando va via la corrente, speri solo di salvare quel che c’è dentro e non lo apri per niente.
L’unico cordone ombelicale che ancora ci congiungeva al mondo era il telefono, quello normale, poiché la rete GSM è la prima a saltare. Anche quando è tornata la corrente, in TV c’erano solo canali grigi e muti.
Addossati alla stufa a legna – tecnologie semplici – ed alle candele (buona scorta, fatta più per sfizio che per altro al Lidl, anni fa) abbiamo cotto chapati[1] sulla stufa ed abbiamo trascorso così il tempo, impastando e caricando la stufa, che ci ha fornito abbondante calore per scaldarci e cuocere alimenti, acqua calda ed è stata addirittura usata come rudimentale phon. Si sa, le ragazze non tollerano d’avere i capelli sporchi nemmeno durante le emergenze.

Dalla scuola giungevano notizie contrastanti: era aperta, sì, ma non c’era praticamente nessuno, a parte quelli che abitavano a poca distanza. Altre erano state chiuse con ordinanze dei Sindaci, in qualche caso credo sia intervenuto il Prefetto. Per il resto, ognuno per sé e Dio per tutti.
La ragione di queste differenze è da cercare nella maledetta statistica, poiché chi chiude una scuola perde qualche punto nella classifica di merito che qualcuno, al termine di qualcosa, stilerà. Se, invece, non la chiudi e la passi liscia – ossia non finiscono corriere nei fossi e non cedono tetti – avrai vinto qualche punto nella classifica dei Comuni, nel campionato delle Municipalità, con tanto di bonus e maglietta premio. Dopo tanti anni, e con tanti punti accumulati, la gente comune vince un forno a microonde: i politici, una nomination alla Regione.
Se ti va male, meglio telefonare subito a qualche amico giornalista, per ridurre la cosa al suo “semplice ambito” di “emergenza non prevedibile”.

Ho ritenuto che, mettersi in strada con quel tempo, non fosse una priorità di quelle concesse dalla Protezione Civile in questi casi: d’altro canto, correre il rischio di un incidente per andare in una scuola vuota, non mi pareva cosa sensata. Oltretutto, perché nessuno ti ripaga i danni di un eventuale incidente.
Sui mezzi pubblici c’è poco da fare affidamento: le corriere possono arrivare, ma non comparire per ore. Come le diligenze dei Moschettieri.
La ferrovia, qui da noi, anche quest’anno è “sospesa” come lo fu tre anni fa. Allora, si trattò di “urgenti” lavori da effettuarsi sulla galleria del Belbo – quella che fece costruire Cavour per “forare” la Langa – oggi, invece, si tratta d’ammodernamenti resi necessari per portarla agli standard europei. Sempre la stessa galleria di Cavour, su una linea a binario unico: ma, tre anni fa, non esisteva l’UE? Non sapevano che c’erano dei regolamenti da rispettare? Perché non costruirne una parallela e raddoppiare, finalmente, la linea? Boh…

L’azienda che ha vinto l’appalto per i pullman sostitutivi è la stessa di tre anni fa: su…non fate quella faccia…io non ho scritto niente. Se credete nelle dietrologie, bisogna poi dimostrarle e, a me, della cosa importa assai.
Quello che più mi premerebbe, quando non c’è il treno, è che almeno ci fossero i pullman per sostituirli. Purtroppo, l’azienda che ha vinto l’appalto ha sede in Centro Italia e l’autista più “nordico” proviene da Roma: gente abituata alla neve, ci mancherebbe.
Dopo incidenti avvenuti (o mancati per poco), quando c’è neve la Polizia Stradale impedisce loro d’uscire dai depositi, quindi: rotaie coperte di neve e pullman sostitutivi abrogati. Insomma, non ti rimane che osservare i bagliori della stufa: chi ha un caminetto, gode anche dell’aspetto iconico.
Sia chiaro: non ce l’ho proprio con quei poveracci di Matera e di Campobasso che guidano i pullman. In queste condizioni proibitive, solo chi ha esperienza di neve e ghiaccio, ha pneumatici da neve, catene (quelle, mai viste) e l’insostituibile conoscenza del territorio può prendersi la responsabilità d’afferrare il volante. Un volante al quale sono affidate decine di vite: ne sa qualcosa mia figlia, che tre anni or sono trascorse dodici ore con la corriera scivolata in un fosso, senza riscaldamento e con una buona dose di paura addosso.
Sempre tre anni or sono, a qualcuno dei “dispersi” nella notte sulla A6 TO-SV andò peggio: trascorsero la notte nelle gallerie, mantenendo acceso a turno un solo motore per scaldarsi. Della tanto strombazzata Protezione Civile, nessun segno.
L’ultimo afflato della nevicata dello scorso anno, colpì una donna che era stata a sua volta colpita da infarto: niente paura, c’è l’elisoccorso. Peccato che, quando giunse l’elicottero, nessuno aveva provveduto a sgombrare l’eliporto e la relativa strada d’accesso. Ad ogni buon conto, quando arrivò il carro funebre, la strada era sgombra.

Due parole dovremmo spenderle anche per chi deve sgomberare la neve dalle strade: secondo le direttive, se c’è la neve – stesi complessi memorandum fra le parti – c’è chi deve sgombrarla. Così parrebbe.
Il problema è che i Comuni hanno le casse sempre vuote e, allora, varano aste al ribasso che più ribasso non si può. Anche qui, non vorremmo cedere alle sirene che narrano di rapporti “strettissimi” fra qualche amministratore e le aziende – non lo possiamo affermare perché non ne abbiamo le prove – e quindi vorremmo invitare i lettori a non percorrere i fantasiosi sentieri della speculazione sulle corruttele. Se esse esistessero, magistrati come la Forleo e De Magistris ce lo racconterebbero subito.
In definitiva, i “ribassi” sono così bassi che le aziende puntano su Giove Pluvio: ossia, ci “stanno dentro” solo se non nevica o se nevica pochissimo.
Se i decimetri iniziano a sommarsi ai decimetri, i litri di gasolio e le ore da pagare iniziano a pesare un po’ troppo alla voce “spese”, e finiscono per “raffreddare” i motori. Si “passa”, sì, quel tanto che basta per dire che si è passati, per togliere il “grosso”, sperando che il grosso non diventi enorme.
Inutile dire che le aree di parcheggio e quant’altro non vengono nemmeno prese in considerazione: l’auto ideale, in questi casi, è quella “tascabile”, nel senso che quando arrivi la ripieghi nel portafogli. In alternativa, usare i mezzi pubblici (quando e se ci sono), oppure il treno che è sostituito da autobus senza catene, arrestati dalla previdente Polstrada prima che combinino guai.
Le Ferrovie, interpellate sul motivo della “pause” sempre invernali, rispondono che a loro conviene così: siamo un’azienda, siamo finalmente sul mercato, per Dio! D’estate, si guadagna di più con i treni dei villeggianti che vanno al mare! Che volete che ci freghi di questi straccioni – studenti e lavoratori – che pagano un misero abbonamento!

Terminata l’emergenza, siamo riemersi (dopo aver spalato per ore) e sono tornato a scuola. La prima cosa che ho fatto, è stata collegarmi alla rete per osservare cos’era successo nel pianeta.
Niente di grave: un paio di scarpe per Bush, tanta paura per la temuta esondazione del Tevere, un Governatore in più al Pd + L ed uno in meno al Pd – L, la strabiliante novità delle corruttele fra i boiardi di Stato ed i loro lacché politici. Business is usual.
Ho cercato qualche notizia che riferisse sull’emergenza appena trascorsa, ma ho trovato poco. Mia madre ci riportava qualcosa al telefono – da lei pioveva ed abita in collina, nessun pericolo d’inondazione, al massimo qualche frana di quelle che sulle strade restano recintate dal nastro rosso per anni – e raccontava che i solerti giornalisti del TG3 regionale riferivano che, in provincia di Cuneo, c’era qualche problema…sì…ma lo spettacolo di tanta neve era stupendo e gli albergatori – finalmente! – intravedevano una stagione sciistica come non se ne vedevano da anni! Insomma, mercato über alles.
Qualche minuscola testata locale riferiva che, ancora nel pomeriggio di Lunedì 15 Dicembre 2008, le utenze prive d’energia elettrica nel cuneese erano 48.000. Non ho trovato dati sulla parte di competenza ligure, ma immagino che fossero parecchie anche lì. Insomma, facendo due conti a spanne, c’erano 200.000 persone senza corrente, ma lontane dalle città. Gente che non fa numero né è degna d’informazione: per questo riteniamo di doverlo fare noi – che qui eravamo – per prima cosa come dovere di cronaca.

Se la cosa si concludesse qui, avremmo probabilmente compiuto il nostro dovere di cronisti, ma – siccome la terza pagina ci ha sempre affascinato – non ci limitiamo all’informazione, perché rischierebbe dì tramutarsi in sterile lamentazione.
L’analisi, dopo aver sintetizzato gli eventi, parte proprio dal rapporto fra popolazione e territorio, poiché in Italia riusciamo ad individuare una moltitudine d’universali fra loro concorrenti, oppure simbiotici, in altri casi metà e metà. Si va dai cattolici ai non credenti, dai “destri” ai “sinistri”, dai settentrionali ai meridionali, fino agli eterosessuali ed agli omosessuali, e chi più ne ha più ne metta. Per Guelfi e Ghibellini, il tempo per presentare la domanda è scaduto: ci spiace.
Anzitutto, pochi, sintetici dati sulla disposizione della popolazione italiana sul territorio[2]:

Il 75% circa della popolazione italiana vive in comuni superiori ai 15.000 abitanti.
Il 25% in quelli inferiori ai 15.000 abitanti.
I comuni con più di 15.000 abitanti sono il 15% circa del totale.
Quelli con meno di 15.000 abitanti sono il restante 85%.

Inoltre, il 55% dei comuni è compreso nella fascia da 2000 a 5000 abitanti: più della metà dei comuni italiani, quindi, sono dei “Fort Apache”. Lo squilibrio è evidente.
Gli spostamenti migratori sono complessi, ma tendono comunque all’accentramento: non più verso le grandi città (laddove i centri sono adibiti soprattutto al terziario), ma verso le “cinture”, dove crescono comuni con numero d’abitanti a cinque zeri.
Insomma, la popolazione italiana va verso un “naturale” ed inarrestabile inurbamento: certo, passare giorni completamente isolati, fa passare la voglia di rimanere a Fort Apache. Soprattutto, perché delle migliaia di Fort Apache non frega un accidente a nessuno.

La disposizione della popolazione sul territorio – oggi – ancora compete alla politica? E’ fuor di dubbio che, se lo domandassimo a Stalin o ad Hitler, risponderebbero con un entusiastico “sì” senza condizioni, ma il loro parere – in questi frangenti – non ci può interessare. Soprattutto perché vissero un’altra epoca e poiché non vorremmo dover sloggiare per far posto ad altri: non sono questi i termini della questione.
Se, invece, riteniamo che il “mercato” debba essere prevalente – come sembrano affermare i Pd +/- L – andiamo dai parenti della donna morta perché l’elicottero non è potuto scendere, e magnifichiamo loro le straordinarie potenzialità del mercato. Un consiglio: munirsi di giubbotto antiproiettile o, per lo meno, calarsi un secchio sulla testa a mo’ di elmetto.
In definitiva, fra mercato ed assolutismo politico, finiamo per rimanere schiacciati non dalla neve, ma da una massa d’inconcludenze, da una raffica di non decisioni, da milioni di struzzi con gli occhi nella sabbia ed i culi all’aria. I quali, sollevano il gozzo solo il giusto tempo per rimpinzarsi a dovere.

Si tratta di una questione di risorse? Della loro gestione?
Dipende da quale gestione delle risorse immaginiamo per il futuro.

L’UE non serve a niente, l’UE serve a qualcosa: sfoglia la margherita, intanto fuori nevica.
Eppure, l’UE finanzia interventi sulla rete elettrica per ammodernarla: si deve passare da un sistema centralizzato – produzione in pochi centri e consumo sul territorio – ad uno policentrico, ossia produzione e consumo “spalmate” sul territorio in modo abbastanza omogeneo.
La produzione ed il consumo delle risorse sul territorio, a ben pensarci, segue la naturale presenza delle stesse: il principio vale per l’energia, ma anche per l’acqua, il legname, gli alimenti, ecc.
Ovviamente, non tutte le risorse sono disponibili ovunque in modo omogeneo: le piantagioni d’agrumi scarseggiano qui, in Piemonte, ma per le principali – acqua, energia, legname, alimenti, ecc – possiamo affermare che sono presenti quasi dappertutto.
L’energia, se consideriamo le varie fonti rinnovabili, sarà presente sotto diverse forme: vento sulle coste, sole nel Meridione, biomasse nella Pianura Padana, acqua quasi ovunque, ecc.
La distribuzione abbastanza omogenea delle risorse cozza violentemente con i grandi agglomerati urbani: può esistere soltanto a patto che il costo dei trasporti sia veramente esiguo e che il territorio ancora consenta nuovo cemento per le infrastrutture.
I grandi agglomerati urbani sono vere e proprie “idrovore” di risorse: riflettiamo sulla quantità di farina che deve essere trasportata a Roma, ogni giorno, per avere qualche michetta al desco. Sono approssimativamente 650 tonnellate, il carico di 23 autosnodati. Ogni giorno, per la sola Roma, e soltanto per il pane. Moltiplichiamo gli autotreni per il cemento e la frutta, la carta ed il vino, e otteniamo le paralisi del traffico che ben conosciamo.

Il sistema dei trasporti necessita di profonde trasformazioni poiché, la scelta “tutto strada” operata in Italia molti anni or sono, mostra oggi i suoi limiti. Ho cercato d’analizzare il problema in un libro – “Il futuro dei trasporti”, edito da Arianna Editrice in formato pdf, euro 5,90[3] – che spazia dal problema energetico relativo ai trasporti, ai nuovi mezzi, fino alla re-definizione di un modello più efficiente, che usi le acque (marine ed interne) in alternativa alla gomma.
La scelta del formato pdf è stata quasi “obbligata” per le dimensioni del libro: considerando i costi di stampa casalinga, si può avere il testo per circa 10 euro, mentre in libreria ne costerebbe almeno 20.

Se l’analisi del problema dei trasporti è complessa, e richiede approfondito dibattito, ancor più ne merita il rapporto fra popolazione e territorio. Dal mio modesto punto d’osservazione, posso verificare che i ragazzi che abitano nelle migliaia di “Fort Apache”, terminata la scuola superiore, vanno all’Università e poi non tornano più. Cosa tornerebbero a fare, in zone dove non ci sono aziende ove mettere a frutto le loro competenze?
Le attività produttive per la gestione delle risorse non sono sterili giochi di finanza: sono lavoro, produzione, trasformazione, magazzinaggio. Storie di realtà.
Ovviamente, chi vuole rimanere nei “Fort Apache” dovrà rimboccarsi le maniche il che, vista la panoplia di mezzi tecnici a disposizione, non è più una fatica di Sisifo. Si tratta, più che altro, di una mentalità tipicamente italiana che non ha molti riscontri all’estero.

Un padre italiano, che si sente dire dal figlio: «Da grande, voglio fare l’agricoltore», risponde subito: «Va beh, per ora studia, poi si vedrà» e intanto pensa “Questa è appena sotto, come disgrazia, all’AIDS”.
Poiché, nella lingua italiana, il termine “agricoltore” ha una serie di sinonimi che sono tutti un programma: da contadino a villano, da bifolco a villico, da campagnolo a burino, bovaro, bracciante, colono…
E tutti questi termini sono ammantati da un alone dispregiativo: se tocchi la terra, non arriverai mai al Cielo. In questo, assomigliamo al più antico impero del Pianeta – la Cina – che per millenni fu governata dai Mandarini, funzionari statali che portavano lunghe maniche che coprivano le mani. Il significato dell’abbigliamento era che non dovevano usare le mani per lavorare: concetto molto in voga anche nello Stivale.

In altri paesi europei si pone molta attenzione nel proteggere l’agricoltura e la gestione delle risorse sul territorio (si pensi alla Francia!), oppure la silvicoltura come in Austria ed in Scandinavia. Quando iniziò il mercato dei pellets per il riscaldamento domestico, chi aveva strutture ed organizzazione sul territorio divenne leader del mercato. In questo modo, si opera un’intelligente simbiosi fra industria del legno e gestione degli scarti in funzione energetica: in definitiva, si fornisce alle nuove generazioni dei “Fort Apache” un mezzo di sostentamento dignitoso.

Il problema passa anche per il mondo dell’imprenditoria, che in Italia – a fronte delle sempre presenti richieste di “attenzione” ad ogni Finanziaria – ha mancato clamorosamente la possibilità di creare imprenditoria diffusa con i fondi europei. Noi, li abbiamo usati per costruire truffe e capannoni abbandonati e, quando un magistrato lo scopre (De Magistris), viene trasferito. Perché?
Poiché imprenditoria diffusa – piccole aziende sul territorio, ricchezza per molti – cozza contro un assioma incontrovertibile del capitalismo italiano: il controllo della ricchezza deve rimanere nelle mani di poche famiglie, le quali – grazie alla simbiosi con la classe politica (in definitiva, la vicenda della Campania, cosa racconta?) – continuano ad incrementare ricchezze senza concorrenti.
Tutto il resto ne discende: le leggi che, sulla carta, favorirebbero le cooperative agricole per l’utilizzo delle terre non coltivate, sono depotenziate dai regolamenti attuativi. Le farraginose e complesse procedure per diventare produttori d’energia in loco, seguono l’identico principio. E ce ne sarebbero tante altre.

L’unica leva che potrebbero avere i cittadini, per scardinare un simile obbrobrio, dovrebbero essere le amministrazioni locali. Se non si riesce a farlo, non è solo una vicenda di corruzione.
In Italia, le Regioni sono rette dai relativi Presidenti, i quali sono impropriamente definiti “Governatori”, quasi fossimo negli USA, i quali hanno un sistema politico/amministrativo completamente diverso. Insomma: tu vò fà l’americano
Se riflettiamo sulla genesi e sull’affermazione di questi “Governatori”, scopriamo che sono scelti dapprima dalle segreterie dei partiti senza nessun intervento della popolazione, quindi imposti con delle elezioni che si basano soprattutto sul mezzo televisivo.
In questo modo, chi controlla le reti TV decide gli esiti elettorali, inutile girarci attorno. La scoperta dell’acqua calda? Aspettate.
Dopo la loro elezione, chi ancora ha dei contatti con questi “Governatori”? Che cosa forniscono al cittadino, a parte la sanità più costosa ed inconcludente d’Europa?
Si schierano – in modo assolutamente bipartsan – con le richieste del “mercato”. Mercedes Bresso, da anni, funge da “pompiere” per far digerire agli agitanti della Val di Susa il progetto TAV. Non importa se gran parte della popolazione è contraria: lei, è lì soltanto per eseguire degli ordini, da Di Pietro a Berlusconi, andata e ritorno.
Formigoni sbraita perché la nuova “Freccia Rossa” (il treno superveloce) finisce per far sostare per ore sui binari morti i treni dei pendolari e giunge – per bocca del suo assessore ai Trasporti – a minacciare lo stop per il prestigioso “gioiello” di Trenitalia. Attenzione: non minaccia direttamente, lo fa per interposta persona, così domani potrà smentire, in pieno stile democristo.
E poi: Bassolino e la monnezza, Cuffaro, Del Turco e le loro condanne…insomma, questa gente casca sempre in piedi. Perché?

Poiché il loro ruolo non è quello di “Governatori”: non devono governare nulla, bensì imporre.
L’appellativo che meritano è quello di fonte tedesca: Gauleiter (lett. “Caporegione”), ossia di coloro che s’occuparono di “germanizzare” i territori occupati dal Reich dopo il 1938.
La funzione dei Gauleiter non era quella di “governare”, almeno nell’accezione odierna, ossia quella di ascolto/riflessione/proposizione. Erano dei semplici funzionari che dovevano far rispettare i voleri di Berlino, soprattutto per l’acquisizione di risorse e di forza lavoro.
Riflettiamo su quanti e quali rapporti hanno gli italiani con i loro 20 Gauleiter: nessuno. Chi è mai riuscito ad interloquire con loro? E nemmeno con i loro sottocapi delle Province. Già è difficile parlare cinque minuti con un sindaco.
Sono un ceto dorato che emette decisioni, ma che non ascolta proprio nessuno, giacché la nomina e l’appoggio per la rielezione non verranno loro dai cittadini, bensì dai vertici del Reich.
Se la loro carriera è determinata non dai cittadini, bensì dal soddisfare i desideri che giungono dall’alto, perché dovrebbero “scaldarsi” per ascoltare?

Così, nei mille “Fort Apache”, non prenderanno mai forma le possibilità di trarre ricchezza dal territorio senza violentarlo: alcuni esempi?

Ci sono 850 MW di potenza elettrica che potrebbero essere captati dalle cadute dei piccoli corsi d’acqua (potenze inferiori ai 10 MW)[4], quelli “polverizzati” sul territorio e mai presi in considerazione. Forse, la cifra è ancora approssimata per difetto.
Il patrimonio boschivo continua ad incrementare: dall’Unificazione è più che raddoppiato[5]. Le segherie, invece d’incrementare, chiudono: gli austriaci vendono pellets e ringraziano.
La generazione d’energia potrebbe avvenire anche mediante piccoli aerogeneratori con pale di pochissimi metri e nessun impatto ambientale: caterve di scartoffie da presentare, e non se ne fa nulla.
La produzione olivicola italiana copre soltanto il 30% del consumo d’olio d’oliva, il resto è importato: siamo convinti che, per molti giovani, non sarebbe proprio un’ignominia gestire un oliveto. E’ forse più dignitoso avere un impiego a termine in un call centre per 500 euro mensili?

Chi dovrebbe realizzare gli strumenti per avviare nuovamente una “colonizzazione” dell’Italia dimenticata, spopolata, sempre più selvaggia? Chi potrebbe, nuovamente, far rifiorire la cultura dei mille villaggi?
Noi, pensiamo che questo sia il vero compito di una classe politica, non altro. E non si speri che la riforma federale proposta dalla Lega Nord possa cambiare qualcosa: la nuova “porcata” di Calderoli non presenta nulla di nuovo, se non una re-distribuzione di risorse fra le varie componenti. Lo stesso ministro, ha affermato che «tutti saranno garantiti». Loro, ovviamente.

Ci sarebbe tanto, ma veramente tanto bisogno di buona politica. Giuro che, il prossimo che mi parla di “antipolitica”, lo passo a fil di spada.


[1] Focaccine sottili, simili alle piadine.
[2] Rilevazione ISTAT 2008, Cap. 1.
[3] http://www.ariannaeditrice.it/vetrina.php?id_macroed=1405
[4] Fonte: Tondi, ENEA.
[5] Fonte: Guardia Forestale.

08 dicembre 2008

Tremori e Tremonti

Chi mi riparlerà, di domani luminosi,
dove i muti canteranno e taceranno i noiosi
…”
Fabrizio de André – Cantico dei drogati – dall’album Tutti morimmo a stento, 1968.

Lo scorso 4 Dicembre ho battuto il mio record personale di sopportazione a Porta a Porta: ben 16 minuti. Senza cosce e tette al vento, né truculenti sabba di sangue per l’ultimo delitto “inspiegabile”.
C’era solo, praticamente, Giulio Tremonti che spiegava, ad un uditorio tranquillo e sottomesso, le meraviglie delle sue alchimie economiche. Sedici minuti sono tanti, credetemi.

Ho ascoltato distrattamente, poiché ho preferito cercare sul suo viso, nella scarna scenografia, segni di una Gestalt che potesse spiegarmi come si possa essere così ingenuamente fanciulleschi, scipitamente naif, incoerentemente saltafossi. Nemmeno una cortigiana ritratta da Caravaggio riesce a comunicare sì placida acquiescenza, evanescente e malcelata boria, orgoglio smisurato in un carapace francescano.
Giulio Tremonti è un mago: è il re degli ossimori trasfigurati, il genio dell’eloquio misurato in salsa di peperoncino calabrese. E pochi se n’accorgono.
Ogni suo intervento, anche per spiegare il corretto e parsimonioso uso della carta igienica, si muta incredibilmente in una Lectio Magistralis, nella sapiente codifica dei massimi sistemi i quali – magicamente, in un batter d’ali – si alterano e diventano pragmatismo quotidiano, da spendere nell’edicola sotto casa per l’acquisto di una bustina di figurine.
Anche l’occhio vuole la sua parte, ovvio, e non essendo riuscito a diventare una star della pubblicità – per propagandare la rasatura con il Prep – s’è accontentato di spiegare l’economia per il volgo. Gaudete, pauperes.

A dire il vero, non è che i suoi colleghi lo aiutino molto: prima il Capoccia – quello che ha sempre usato la brillantina Linetti – rassicura che non c’è nessun pericolo, per l’Italia, di precipitare nella crisi economica. Quindi, partendo in contropiede sul filo del fuorigioco, Sacconi anticipa tutti ed insacca con una “rasoiata” a pelo d’erba: finiremo come l’Argentina.
Non s’è ancora spento l’urlo del pubblico che scende in campo Tremonti, il quale afferma che saranno altri a finire come l’Argentina. Non aggiunge altro: a Parigi e a Berlino si trema e l’inquietudine monta – anzi, tremonta – nelle cancellerie europee (!).

Sono un po’ disorientato da sì tanti, dissimili messaggi nell’etere e mi salta alla mente che siano “pizzini” gettati al vento e basta, senza senso. Oppure un senso l’hanno, se trasposti in un’altra storia, non nella pantomima che va in scena nell’Alveare, laddove chiedono a Tremonti se aboliranno le Province e lui – serafico – risponde che tutte le infrastrutture in programma riceveranno, ognuna, uno specifico commissario. Un po’ come se chiedessimo ad un allievo «Parlami del Boccaccio» e lui, sereno, iniziasse con «Dunque…nella letteratura del Novecento…»
Il “glissare” sulle Province è oramai un artifizio retorico, giacché Calderoli – detto “El gordo” – per la sua bozza di riforma federale ha rassicurato: “Tutti saranno garantiti”. Meno gli italiani.
A chi parla allora Tremonti il quale, solo pochi mesi fa, addossava alla globalizzazione ed allo strapotere delle burocrazie finanziarie tutti i mali, mentre oggi rassicura che “ci saranno solo interventi concordati”? Il personaggio non è nuovo a queste sconvolgenti dicotomie – anche nei suoi libri più datati non era tenero con la globalizzazione e le nequizie del sistema economico – solo che la cosa, quando si siede sulla poltrona del Ministero dell’Economia, pare non aver più peso.
C’è, sinceramente, da temere per la salute psichica del pover’uomo, insidiata da molteplici, dirompenti, incontrollati ossimori che rasentano la scissione.
Sarebbe come se il sottoscritto, dopo anni trascorsi a sostenere le energie rinnovabili, presentasse domanda per dirigere una centrale nucleare oppure se Marco Cedolin divenisse, improvvisamente, direttore del progetto TAV. C’è qualcosa che non quadra.

La musica: quando non riesci a superare l’ostacolo, ascolta un po’ di musica. Canta che ti passa.
«Aqualung my friend…» urla nelle cuffie Jan Anderson, ed io vorrei coccolare Tremonti e rassicurarlo: no, my friend, non finiremo in una parco industriale in disuso della vecchia Rotterdam, non dormiremo all’addiaccio fra le lamiere di una rugginosa Liberty semiaffondata. No, non è questo ciò che c’attende.
Sacconi, invece, non possiamo aiutarlo poiché non riesce a trasfigurare nulla, e la malvagità del suo animo è malamente mascherata dalle timide fattezze da fattorino della UPS. Lo dimenticheremo a dormire nel Chaco, nella notte battuta dal vento che scende dalle Ande, con un poncho cinese pagato 5 euro e la cassetta dei Buena Vista Social Club. Il giusto contrappasso.
Brunetta non esprime pareri: dopo la vigorosa partenza nel “fannulloni trail”, è stato colpito da saudade ed il Capoccia lo lascia sempre più spesso negli spogliatoi.

Il Capoccia ha sempre problemi di formazione, non d’informazione, visto che è suo lo stadio, sono controllate tutte le squadre del campionato ed è il Presidente (ed azionista unico) della Lega Calcio.
La formazione, però, lo preoccupa: è una questione di tempo e di decenza. Entrambe, in qualche modo, importanti, anche se la seconda si può tentare d’esorcizzarla con un’alzata di spalle ed una citazione da Erasmo.
Il tempo e lo spazio sono intimamente correlati, già lo raccontava quel violinista che s’arruffò fino a trasfigurare in fisico. Maledizione a quell’Einstein: se avesse vinto Horbigger, sarebbe stato tutto più semplice.

A forza di far giocare sempre gli stessi, nel non voler lasciar strada a qualche nuovo acquisto, finisce che la difesa va in bamba e ti tocca far giocare Maldini a 40 anni. La cosa lo assilla.
Ha tentato la via degli stranieri con un brasiliano naturalizzato – Angeliňo Victor Conçalvo Alfaňo, detto dapprima “Alphan la Tulipe”, poi “Tulipero” – ma non si è rivelata una scelta avveduta: durante un incontro d’ennesima categoria fra la Salernitana ed il Catanzaro, le due tifoserie si sono azzuffate a suon di carte bollate in testa. Papiri di bronzo.
E’ quindi tornato sui suoi passi, cercando nel vivaio nazionale, ma lo scenario è deprimente: gli è toccato nominare vice ministra una pischella che si trastullava nei locali simil hard spagnoli. L’altra pischella un po’ cresciuta l’ha inviata a studiare Biologia ed Economia per fare il ministro dell’Ambiente, ma i risultati sono ugualmente deludenti.
Quando giunse in visita in Italia Gilberto Gil – musicista ed (ora) ex Ministro della Cultura brasiliano – non sapeva se fosse meglio inviare a riceverlo Bondi o Mogol. Dopo aver consultato il sacro testo d’Erasmo, propose Mariano Apicella.
Insomma, dopo Forza Italia – per il neonato PdL – ci vorrebbero forze nuove, e Forza Nuova c’è già: marchio registrato, accidenti.
Nemmeno si può bussare alla porta delle squadre “associate”, perché dopo ti chiedono giocatori in prestito…quelli della Nazionale Alleata – cantine zeppe di gagliardetti littori – non la prenderebbero bene. Soprattutto dopo aver inviato il loro duce nel nuovo Aventino – oggi ha sede presso la Presidenza della Camera – per un curioso contrappasso: chi d’Aventino ferisce, d’Aventino perisce.
Niente, con questi giocatori non si va da nessuna parte – gli balugina in mente nelle notti insonni, quando si vede alzare la coppa del Mondo mentre cavalca un destriero bianco sotto le Piramidi – al massimo si fa uno scopone scientifico, con Fini e Cofferati – rinnovelli padri – in coppia contro i “nonni” Bertinotti e Prodi.

Alza allora la cornetta e chiama lo studio associato “Letta”, zio e nipote, specializzati in emergenze non rimandabili e in soluzioni impossibili.
I due si mettono alacremente al lavoro: consultano il Censis, la Reuters, l’INPS, l’Almanacco di Chiaravalle, l’ISTAT, l’Ansa e il Mago di Forcella poi, a loro volta, chiedono un incontro.
La soluzione è semplice – azzardano i due Dioscuri – se non puoi avele ciò che desideli natulalmente, allola complalo. Così ha sentenziato il saggio del Lifugio della Montagna senza Litolno. Ce lo ha laccontato mentle tolnava.
E dove li prendo, io, i soldi per comperare un’intera squadra di governo? E poi: sindaci, presidenti di Province – non avrete mica creduto alla panzana della loro abolizione, io ho abolito scuola e ricerca, meno problemi, poi abolirò anche quel nanetto saccente di Brunetta, altrimenti nessun dipendente pubblico mi voterà più – ma sapete quanto mi costerebbe? Chi credete ch’io sia, Babbo Natale?
Lo sbotto è stato troppo veemente per la pacata flemma dei due Letti, che si ritirano con un inchino: di più non sappiamo, e il Saggio è già tolnato sulla Montagna senza Litolno. Punto.

Sbollita la rabbia, rilegge in una notte tutta la storia della Filosofia – da Socrate a Popper – e, alle quattro del mattino, è colto da fulminante illuminazione. Un’Epifania in pieno stile agostiniano.
Se raccontassi che c’è una terribile crisi…che per far ripartire i consumi è necessario varare un colossale piano d’infrastrutture, e se per ogni singola infrastruttura nominassi un commissario con il compito di rastrellare una parte del denaro…d’accordo, diremo che è per controllare i tempi di realizzazione, per la trasparenza, per…va beh, qualcosa inventeremo…potrebbe funzionare…
Sono le cinque e un quarto del mattino quando chiama Tremonti, che si sta impomatando il viso per la rasatura, prima di partire per l’Ecofin numero 34 del corrente mese.
Quanto si potrebbe rastrellare con i fondi europei, considerando per noi una commissione del 30%...più i fondi speciali…più quelli acchiappati da Brunetta con la sua “tassa sui malati”, più la vendita di Paolo Guzzanti agli iraniani?

Tremonti, colto di soprassalto, acchiappa la calcolatrice ed il Prep s’infila fin sotto il display, rendendola inservibile. Allora prende il libretto delle giustificazioni del figlio per scrivere, ma il maledetto Prep fa scivolare la penna come sul sapone.
Potresti chiamarmi più tardi? Prova ad azzardare.
E piantala! Devi andare un’altra volta a quegli Ecofin del picchio, dove vi raccontate barzellette sconce, toccate il sedere alle segretarie e poi uscite a dire che avete trovato una soluzione comune? Dammi retta, montanaro, fa ‘sti conti…
Tremonti si lava e riprende la vecchia calcolatrice a manovella…rattle rattle…eh, potrebbe funzionare…con 80 miliardi gettati in cemento, potremmo metterne da parte quasi una trentina, quasi…
E cosa si compra con trenta miliardi?
Dipende: se li vuoi dal vivaio oppure se già giocano…
Fai un mix…insomma…dammi qualche riferimento!
Guarda, con trenta miliardi potrei assicurare cinquecento sindaci – presi dal vivaio, s’intende – poi…un centinaio di Presidenti di Provincia…una decina di Governatori per le Regioni e quattro, cinque ministri decenti…
Non potresti incrementare un po’ i Governatori e i Ministri?
Si può provare…magari riducendo i Presidenti delle Province…
Ma sì, anche se ne lasciamo una ventina a Walter quello s’accontenta: adesso, figurati che fa la lampada per assomigliare a Obama…
Ridono.

Sì, ma come si fa a raschiare 80 miliardi e gettarli tutti in cemento? La gente…
Cosa vuoi che me ne freghi della gente! Facciamo così: io tranquillizzo, dirò che tutto va bene. Poi manderemo quel fattorino dell’UPS…come si chiama, quel Pacconi, Macconi…sì, Tacconi!
E’ Sacconi, l’altro è un portiere…
Va beh, quello. Mandalo a spararla grossa: fagli dire che cadrà il cielo sulla terra…che caleranno gli Unni, insomma, inventatene una…
E poi?
Poi andrai in TV a fare qualche discorso confuso – tu ci riesci, se vuoi, ti viene naturale – per dire metà e metà, che non va bene e che non va male, che si può fare e che non si può fare, che sarà bene e che sarà male…inventati qualche balla come quella della carta d’identità elettronica c’architettammo cinque anni fa. Ricordi?
Si, ma poi non l’abbiamo fatta…
Ma chi si ricorda?

Trova quattro spiccioli alla Caritas – dì loro che renderemo i 120 milioni per le scuole cattoliche – e fai stampare delle tesserine per i poveri…ma insomma: ti devo dire tutto io?
Ma…non sarebbe più semplice mettere quei quattro euro in più direttamente sulla pensione?
Ah, ma allora non capisci proprio una mazza! Gli italiani sono dei fessi: se gli dai 40 euro in più d’aumento, pensano che sia una miseria e – detto fra noi – è vero. Se, invece, dai loro una tesserina magnetica con 40 euro, si sentono importanti: hanno anche loro la loro piccola carta di credito, come quelli che vedono in TV ballare al Billionaire! Sono fatti così: è come se avessero vinto, ogni mese, un “gratta e vinci” da 40 euro. Vuoi mettere la soddisfazione?

Va beh, se lo dici tu…comunque mi sembra un po’ complicato: tu rassicuri, Sacconi spaventa ed io mezzo e mezzo, poi le tesserine…e poi?
Poi…ma come, non hai capito? Li sconcerteremo, così penseranno che – se siamo così sconclusionati – vorrà dire che la situazione è grave, che servono misure eccezionali, magari che i commissari possano anche by-passare la normativa vigente…l’importante è creare il giusto clima…
Dopo facciamo partire il piano, incassiamo – grazie ai commissari – il 30% e torniamo sul mercato, facciamo Bingo! Avremo soldi per sistemare sul territorio, finalmente, un vero partito: mica un’accozzaglia di derelitti che devo sempre pescare io qui e là, e Fini e Bossi conteranno come il due di coppe!

Potreste credere che questa sia solo una storia strampalata, suggerita in qualche modo dalle fantasiose filastrocche dei Jethro Tull: padroni di crederlo, se volete. Ma il buon giorno si vede dal mattino, e gli imperi iniziano a crollare dalle periferie, mai dal centro.
Ecco allora che un’altra vicenda – apparentemente poco spiegabile – sorge in cielo: Renato Soru, Presidente della Regione Sardegna, cade in un’imboscata tesagli dai suoi stessi consiglieri di maggioranza. E su cosa rischia di crollare?
Sulla una legge urbanistica, sui limiti posti alla cementificazione del territorio sardo.
Soru compie una scelta politica lungimirante ed afferma: tramontata all’orizzonte ogni possibilità di re-industrializzazione della Sardegna – anzi, l’isola perderà ancora investimenti e posti di lavoro – l’unico “capitale” che rimarrà saranno le sue bellezze paesaggistiche. Che vanno, quindi, salvaguardate, anche per una mera questione di convenienza economica di lungo periodo.

Se, oggi, la Croazia può vantare dei paradisi ecologici (e turistici) incontaminati, lo deve alle restrizioni che posero a suo tempo i governi cosiddetti comunisti: alle Incoronate, non vi lasciano nemmeno portare un misero fucile subacqueo ad elastici, ed una legge proibisce di “trarre dall’acqua qualsiasi essere vivente”.
Per onestà, riconosciamo che non dappertutto le cose vanno in questo modo: basti pensare allo scempio che, negli ultimi anni, ha sfigurato il litorale da Spalato alla foce della Neretva.
Si tratta quindi di una scelta politica che ha i suoi pro ed i suoi contro, ma che per la Sardegna sembra una via obbligata, altrimenti l’isola perderà il fascino di “perla” del Mediterraneo.

Il compito di bilanciare la necessità di mantenere accessibili i prezzi delle mete turistiche, con l’esigenza di salvaguardare il territorio, è cosa ardua. Certamente, una volta cementato tutto il cementabile, non rimane nulla di bello che valga la pena per andarci in vacanza: se ci rechiamo in un posto dove ritroviamo, nel paesaggio, le stesse icone che scorgiamo dalla nostra finestra, sale in noi la netta sensazione d’essere stati fregati, d’aver buttato i soldi nel nulla.
Eppure, l’attuale governo crede che si possa, ancora una volta, rimediare agli antichi mali italiani con una robusta “iniezione” di ferro e cemento sulle nostre coste. Oppure costruendo ponti, gallerie, viadotti e case a schiera ovunque. E qualcuno, in Sardegna, pare aver dato credito a questo novello “canto delle sirene”, temendo che il fiume di cemento (ed il corrispondente robusto torrente di tangenti) s’arresti agli imbarchi per l’isola.

La panzana che devono raccontare, per un siffatto incedere, è che le fondamenta italiane siano solide: gli italiani sono “naturalmente” parsimoniosi e dediti al risparmio, a differenza degli americani. Il che, è vero e falso allo stesso tempo.
E’ vero che gli italiani sono parsimoniosi, che sanno cavare sangue anche dalle rape, ma è altrettanto vero che il risparmio delle famiglie scema, “attaccato” su più fronti: perdita di posti di lavoro, imprese che chiudono, contratti sempre più precari, welfare da Terzo Mondo, ecc. Oramai, ti paghi tutto: dalle medicine ai figli da mantenere ben oltre i trent’anni.
Sempre più famiglie vivono “a debito”, rientrando (quando ci riescono!) a quota “zero” sul conto solo quando incassano lo stipendio. Per il resto, sono interessi bancari che corrono.

A questo punto, è meglio trarre dall’armadio uno scheletro sempre evocato e fissarlo negli occhi: credere che sanando la truffa sulla moneta tutto, magicamente, si componga in armoniose spire.
Non abbiamo mai nascosto né sottovalutato l’importanza della truffa che viene compiuta sulla moneta, e le poche sperimentazioni condotte – lontano e vicino nel tempo – mostrano che una moneta emessa senza debito è, oltre che eticamente corretta, salutare per l’economia.
Non bisogna, però, affidare solo all’esasperato tecnicismo – quasi fosse salvifico! – la soluzione di tutti i mali: in altre parole, potremmo ritrovarci in una società più ricca, ma ugualmente ingiusta e prevaricatrice per i più deboli.

Il Censis afferma che scorge possibilità di riscatto ma, a leggere con attenzione le dichiarazioni di De Rita, l’amara sentenza è che siamo giunti ad un tale punto della china che saremo obbligati ad un vigoroso colpo di reni. Una tale ipotesi è ovviamente auspicabile, ma non si vede come possa realizzarsi, in un quadro di sempre maggior prelievo di ricchezza dalle classi meno abbienti per il sollazzo di pochi. Pare magia, speranza, più che solida analisi.
Ciò che veramente serve, a questa Italia dissanguata, è definire finalmente chi è l’italiano. Cittadino o suddito?
Dall’Unificazione in poi, il cittadino italiano è transitato – quasi fosse un pacco postale – da un’amministrazione all’altra e da un regime ad uno successivo. Rimanendo suddito.
Ne scorgiamo abbondanti tracce nella nostra storia: dai meridionali, che s’affidarono a Garibaldi e si ritrovarono un re Savoia pari al Borbone. O la truffa compiuta dal Fascismo, nato da fermenti popolari e, alla fine, solidamente coniugato con le borghesie industriali, clericali e finanziarie. Ancora: l’est, che oggi quasi rimpiange la buona amministrazione austriaca.
Infine il dopoguerra, nel quale la democrazia nata dalla terribile guerra sarebbe dovuta essere composizione e sintesi di tutte le istanze dimenticate, mai giunte a compimento, mai sbocciate. L’ennesima delusione, maturata nelle segreterie romane zeppe di continuità con l’Italia Umbertina e Fascista. Ricordiamo che Andreotti si recò personalmente a trattare con Graziani (che la passò “liscia”) per “ricevere” il feudo ciociaro.
L’apoteosi fu la commistione totale della politica italiana degli anni ’80, quando tutti – indistintamente – accettarono il teorema della pura spartizione come modello di prassi politica.
La differenza rispetto a Francia e Germania?
Semplice: in Francia, una bazzecola chiamata Rivoluzione che segnò i francesi per sempre, rendendoli coscienti della loro appartenenza non ad un quarto stato, ma a quello dei citoyen. In Germania, la presenza di un vigoroso movimento marxista, rivoluzionario e socialdemocratico, il quale pone ancora oggi una cristiano democratica come Angela Merkel più a “sinistra” dei nostri rifondaroli.

A cosa serve, allora, questo colossale piano di cementificazione proposto dal governo? A niente, perché non affronta nessuno dei problemi italiani: dalla re-distribuzione della ricchezza al welfare, dal rispetto dei diritti essenziali del cittadino ad una giustizia che non sia burletta che si trascina per decenni.
Inutili sono le rievocazioni retoriche di lontane vittorie pagate con fiumi di sangue, i richiami dai più alti colli alla “responsabilità”, quando si è fatto parte per anni del gran circo della spartizione, o le vuote promesse pre e post elettorali. Nessuna voce giunge al mio cuore, non c’è più verso o parola che riesca ad ingentilirlo.

Adesso, non so se qualcosa vi sembrerà più chiaro ma il cd è terminato, ed ho sonno. Ricordo solo il titolo dell’ultima canzone.
Thick as a brick.

02 dicembre 2008

L’ideologia del regresso

Stupirsi è d’obbligo, ancor prima d’indignarsi, leggendo il recente provvedimento del Governo che riduce ampiamente i benefici fiscali per aumentare l’efficienza energetica delle abitazioni, oltre a penalizzare fortemente la produzione locale di piccoli impianti.
Avevo già ricordato
[1] la sorprendente misura “liberalizzatrice” contenuta nel DM 112, la quale concedeva pieno diritto d’installare – senza richiesta né autorizzazione! – aerogeneratori che non superassero il metro e mezzo d’altezza ed un diametro del rotore di un metro.

Art. 11
3) …gli interventi di incremento dell’efficienza energetica che prevedano l’installazione di singoli generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro…non sono soggetti alla disciplina della denuncia di inizio attività di cui agli articoli 22 e 23…

Sarebbe veramente il caso, per il Governo, di riproporre e pubblicizzare la sorprendente concessione in periodo natalizio, magari con una presentazione in pompa magna a Palazzo Chigi. Tutti insieme: Berlusconi, Brunetta & soci con, da un lato, l’albero di Natale e dall’altro il mulino dei nanetti. Similis similia solvitur.
Inoltre, Mediaset potrebbe creare divertenti gag pubblicitarie con gnomi, nanetti, renne e quant’altro: “Prenota il mulino di Eolo a soli 99,99 euro, riceverai in regalo la barba di Brontolo!

E non c’è mai fine al peggio.
Prima si “risparmia” sulla Scuola e sull’Università, riducendole ai minimi termini, quindi si butta a mare quel poco ch’era stato fatto per cercare d’agganciare il futuro dell’energia.
Giuro che, quando ho letto la notizia, nella mente s’è scatenato un Gestalt nel quale Berlusconi – ultimo condukator del neo socialismo reale – arringava, colbacco calato sugli occhi, le folle plaudenti sulla Piazza Rossa. Non che dall’altra parte siano tanto arguti, ma a sparare certe minchiate c’è rimasto solo lui.

I provvedimenti di restrizione sul risparmio energetico sono semplicemente anti-storici, veri e propri rottami ideologici, inutili per le modeste cifre che faranno risparmiare, a fronte di un’Italia che perderà – e questa volta temo proprio che sarà l’ultimo – il treno delle nuove tecnologie energetiche. A Berlino, immagino, rideranno di gusto: vai a fare cucù dietro alle colonne, fessacchiotto.
Il Berluscon-pensiero, in ambito energetico, è un condensato (modello Readers Digest) di quello che scrive Franco Battaglia nei suoi libri. Non commentiamo neppure.

Potrete prendere visione del guazzabuglio giuridico creato col solito pasticcio in salsa tremontiana: nel DL 29 Novembre 2008
[2] c’è di tutto, di tutto di più: norme sul gioco…la “vendetta” contro Sky…e – all’art. 29, ben camuffate – le norme che “smontano” le agevolazioni fiscali relative all’energia.

In pratica, si riducono le agevolazioni dal 55% al 36% – mica poco – soprattutto se consideriamo che l’IVA non è mai conteggiabile (se non per quelli che la scaricano). Quei 19 punti percentuali di differenza (quasi un quinto!) sono il De Profundis per qualsiasi tentativo di promuovere il risparmio e la generazione diffusa.
“Partiranno” in un sol colpo le agevolazioni (appena sufficienti!) per l’isolamento degli edifici, i collettori solari, il fotovoltaico…e compagnia cantante.
Il maggior danno non saranno le modeste quote energetiche in gioco (il fotovoltaico finanziato è solo per 200 MW di picco): ciò che perderemo, è la possibilità di creare anche in Italia una nuova generazione di tecnici specializzati nel settore. Insomma, know how diffuso che sparisce: porteremo gli alunni in visita alle centrali nucleari. Le ultime del Pianeta, se mai ci saranno.

Invito i lettori a prendere visione di questo articolo (il 29) per rendersi conto di persona di come vengono scritte le leggi: ogni passo richiederebbe vistose correzioni a suon di biro rossa. Sembra fatto apposta per non capirci niente, e questo è proprio lo scopo, perché è l’apoteosi dei pasticci legislativi. Nemmeno si riesce a capire se, chi ha ristrutturato un’abitazione oppure installato pannelli fotovoltaici, avrà ancora diritto ai benefici a suo tempo concessi. A mio parere, no: sono troppi i soldi che Berlusconi deve scovare per il suo megaprogetto di cemento ed acciaio, la colossale operazione tangentizia che consentirà al PdL di radicarsi sul territorio. Non per nulla il nuovo partito è infarcito di ex socialisti: gente che di quelle cose se n’intende.

Infine, la chicca: il concetto di “silenzio rifiuto” per chi chiederà lo sgravio fiscale all’Agenzia delle Entrate.
Sulle prime, sembrerebbe un “silenzio assenso” al quale è stato mutato il segno: da “più” a “meno”, il risultato rientra nei canoni dell’algebra.
Il rapporto fra il cittadino e lo Stato, però, non si regola con l’algebra, e spieghiamo perché questo “meccanismo” è perverso.
Il silenzio assenso prevede che lo Stato conceda al cittadino un diritto: siccome, in caso contrario, ci sarà una comunicazione (ed una motivazione), il cittadino conoscerà le ragioni del rifiuto. Oppure, se scatterà il silenzio assenso, saranno cavoli dello Stato sapere perché l’ha concesso.
Il “silenzio rifiuto”, invece, priva il cittadino della motivazione per la negazione di un diritto – che, è bene ricordare, una precedente legge garantiva, e quindi non stiamo parlando d’aria fritta – il che è gravissimo.
Presento la domanda, non mi viene concesso quel diritto e nemmeno saprò mai il perché: sono metodi da regime autoritario, nero, rosso, verde o bianco che sia.
Il meccanismo consente abusi e prevaricazioni senza limiti, della serie: a lui l’abbiamo concesso, ma il tuo “consenso” è giunto tardi…troppe domande da vagliare…ma…nemmeno dovranno giustificarlo!

Un simile mostro giuridico presupporrebbe un perfetto bilanciamento dei poteri fra il singolo cittadino e lo Stato il quale – oltre alla bazzecola di cambiare le leggi quando e come desidera – ha uno strapotere burocratico che può annichilire chiunque.

Con questa ultima trovata, il Pelatone Condukator è sceso al più infimo livello fra i peggiori capataz che un tempo disonorarono l’America Latina. Oggi, forse in Africa possiamo trovare qualcosa d’analogo. Forse.