28 settembre 2017

Mi do i pizzicotti


Altro non riesco a pensare di lei, dott. Marco Bella, “ricercatore in Chimica Organica”, come lei stesso si definisce. E, ancor più, mi do altri pizzicotti perché non comprendo come possano – Gomez e Travaglio – pubblicare articoli come i suoi (1). Dopo averci informato che la Magistratura lavora oramai, praticamente, soltanto per la classe politica (ne arrestano uno al giorno), pensano di sorvolare su tutto ciò che scrivono sul Fatto Quotidiano.
Non per questo, però, dobbiamo gettare alle ortiche secoli di libertà di pensiero – cari Gomez e Travaglio – poiché le male abitudini dei ladroni nostrani non coprono il silenzio assordante che l’articolo pubblicato genera. Se Dio vuole, siamo ancora in grado di reagire agli stalinisti (o squadristi, fate voi) della comunicazione parcellizzata, agli sterminatori del libero pensiero, nel nome di una sorta di “tutela” dei cittadini che neppure Platone si sognò mai, e tanto meno Rousseau.

Il nostro dott. Bella – così, tranquillamente – chiede il totale ostracismo dei prodotti omeopatici dalle farmacie italiane, nel nome della Scienza, quella ufficiale, con la “s” maiuscola, che conduce agli altari o getta nella fogna dirimendo i problemi con la spada, senza curarsi di ciò che è dibattito scientifico, filosofico, epistemologico e gnoseologico di 25 secoli.
Mi ricorda una vecchia pubblicità, dove una paffuta casalinga diceva “Mi lasci il mio Dash!”, stringendosi il fustino del detersivo al petto. “Mi lasci il mio Lavoisier”. Vero, Bella?

Non ho proprio nulla contro Lavoisier, perché funziona: i calcoli stechiometrici procedono alla perfezione, i risultati soddisfano pienamente le attese.
Ho avuto, però, dei seri dubbi quando lessi Steiner, molti anni fa, laddove sosteneva che la trasmutazione biologica degli elementi era possibile, citando un esempio sulla quantità di Calcio che veniva sottratto, annualmente, da un ettaro coltivato ad erba medica.

Non sono diventato steineriano, semplicemente ho avuto dei dubbi, come chiunque s’appressi a discutere una teoria scientifica, e ritengo che il liberalismo scientifico non si possa “correggere” con gli editti, pur riconoscendo che la Scienza non può essere “democratica”, poiché in un dibattito scientifico uno vince, e l’altro perde.
Proprio per questa ragione è necessario il massimo liberalismo in campo scientifico, perché molte teorie competano: è l’unico rimedio che conosciamo contro gli assolutismi. In tutti i campi. E mi domando: se un giorno qualcuno dibattesse e vincesse con una diversa teoria, perché dovrei negargli – oggi – la possibilità di farlo?
Ricordiamo che i salassi e le sanguisughe sono cose di poco più di un secolo fa.

Nemmeno sono un fan dell’omeopatia: personalmente, mi curai molti anni fa con l’omeopatia da un luminare dell’epoca in materia, senza rimediare nulla. A rigor di logica, dunque, potrei essere un detrattore convinto di tale teoria, ma non lo sono.
Perché?

Poiché non discuto della sintesi del dicloro-benzene, giacché è assodata da molto tempo la prassi per produrlo, bensì della scelta di un tipo di medicina, che è cosa assai diversa dalla Chimica. Difatti, la Chimica è una scienza, la Medicina non lo è, e non fa parte delle scienze esatte: un tempo usava dire “arte medica”, e non siamo molto distanti dal concetto di “arte”, se consideriamo la dicotomia dialettica fra malattia e malato.

Lei, chiedendo il bando dei medicinali omeopatici dalle farmacie, ha chiesto (e chi è, lei, per farlo?) l’ostracismo di una parte della Medicina, che non collima con i principi scientifici del nostro tempo – concordo con lei che, a rigor di logica, le diluizioni centesimali riducono il principio attivo a quantità infinitesimali – ma non è lei a dover decidere come, perché e se queste quantità influiscono oppure no sul binomio malattia/malato! Eppure, potrebbe darsi che quelle pochissime molecole, andando ad inserirsi in un meccanismo così complesso come la biochimica, umana ed ambientale, sortiscano oggi effetti poco conosciuti, ancora da spiegare. E lei, con un colpo di spugna, vuole cancellare tutto? Lasciamo solo i farmaci della medicina ufficiale: lo sa, vero, cosa significava pharmakon in greco? Veleno.

Inutile raccontarsela a lungo: c’è chi crede nel veleno che distrugge l’avversario e chi pensa, invece, di stimolare la risposta dell’organismo con piccolissime dosi di un altro veleno (spiegazione ridotta all’osso). Chi ha ragione? Non lo so, però ho la speranza che, domani, qualcuno riuscirà a completare il puzzle, spiegando più cose – in un senso e nell’altro – di quanto si riesce a fare oggi.

Facciamo un passo indietro, ed osserviamo a cosa porta una scienza che non si pone mai dubbi.

Per i biologi, quando una specie d’insetti si riduce ad esponente 2 (ossia sotto le cento unità) in un’area ampia si può definirla “non presente”. Questo è ciò che ha portato a dichiarare la zanzara anopheles “non presente in Italia”. Perché se 100 zanzare anopheles (per qualsivoglia motivo) sono presenti in tutta la superficie italiana si può pensare alla “non presenza”, dimenticando però che l’Italia, un tempo, era zona malarica in alcune aree paludose.
E cosa succede?

Che una bambina, la scorsa Estate, muore di malaria: una bambina trentina, che era stata al mare sulla riviera veneta. I medici, dopo attenta analisi (e molto ritardo nella diagnosi), in tre diversi ospedali…se l’anopheles non è presente nel nostro areale, non possiamo pensare che sia malaria…hanno escluso qualsiasi fonte di contagio interna al sistema ospedaliero.
Ma, circa vent’anni or sono, un’altra persona (che si salvò) fu infettata dalla anopheles in quel di Grosseto.
Due aree ex malariche.
Già, 10 alla seconda sul territorio italiano…cosa volete che sia?

Qualcuno ha cercato persino di sfruttare la faccenda a fini politici – basta con gli untori immigrati! – senza riflettere che un “passaggio” dalle coste turche (dove l’anopheles è endemica) è senz’altro più agevole su un mercantile in transito, piuttosto che nella canottiera di un sudanese.

Allo stesso modo, lei ha “condito” la sua assurda richiesta con la questione dei vaccini, sostenendo che l’insieme dei medici omeopati racchiude anche quelli contrari alle vaccinazioni de iure. Ma, scusi un particolare, io non sono medico, ma lei lo è? E anche se lo fosse, come potrebbe sentenziare su quale medicina devo scegliere? Al punto di proibire, sempre de iure, la vendita dei farmaci? Sostenendo che i farmacisti sono professionisti seri? E i medici omeopati cosa sono, dei cretini?

La scienza, quella vera dott. Bella, è costituita da certezze e da dubbi, sempre in perenne conflitto fra di loro e alla ricerca di un (impossibile) equilibrio: per questa ragione la vera scienza marcia con lentezza, quella sicura di tutto è la sua, dove basta un diktat staliniano per risolvere le questioni. E adesso le racconto perché lei può raccontare le sue edificanti storielle urbi et orbi.

Il caro “Fatto Quotidiano”, se si stipula un abbonamento “sostenitore” (costo 500 euro annui), dà la possibilità di scrivere sull’edizione on-line. Sempre che se ne abbia titolo. E qual è il titolo? Non importa…cacciano i soldi? Sono sostenitori? Capirete che parecchia gente, tanto per poter dire “sono un giornalista del Fatto…” risparmia sui pannolini del figlio e scova i 500 euro. I titoli?
Può essere “Ricercatore in Chimica Organica”, oppure “Chief Economist del Fondo Investimenti dell’Oman”, il primo dà il diritto di sentenziare su questioni mediche (e filosofiche) a chi ne sa meno di un barelliere, il secondo, invece, conferisce direttamente la carica di Ministro delle Finanze in pectore. Basta abbondare con roboanti titoli e tante, tante maiuscole fuori posto.

Ad abundantiam, narravano i Latini…che cresceva in ore stultorum…vero dott. Bella? Vero Gomez e Travaglio?


(1) http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/26/farmacie-senza-omeopatia-una-petizione-chiede-di-vendere-fuori-le-stregonerie/3878356/

13 settembre 2017

Ucraina: la rivoluzione “arancione” abbandonata a se stessa


La fotografia che osservate è stata scattata da mio figlio nello scorso mese di Agosto in un piccolo villaggio dell’Ucraina occidentale, uno di quegli agglomerati dove sembra di rivedere ancora Peppone e Don Camillo durante la loro divertentissima visita in URSS. Si notano 20 visi, che spaziano dagli adolescenti fino a persone decisamente anziane per andare in guerra: al centro una foto più in vista (forse un ufficiale?) ma la stranezza non è tanto quella di un monumento ai caduti così naif, quanto – a detta di mio figlio – che quel monumento gli era sembrato un’iniziativa locale, popolare, spontanea. Tanto per capire, a Leopoli non ha avuto modo di notare monumenti od altre iniziative di quel genere: probabilmente, quei venti morti erano persone di quei luoghi, generate dal “ventre molle” dell’Ucraina contadina, nati e cresciuti in quel villaggio ed in quelli vicini.

Questo è il miglior affresco che si possa mostrare per una guerra inutile, che già si sa chi la vincerà, ma non la vincerà nemmeno, perché un provvido armistizio metterà fine al macello, quando – finalmente – questa terra martoriata per l’assurda mania di tracciare confini sulla carta (come in Iraq, ad esempio) sarà divisa in quello che è (più realisticamente) l’Ovest europeo e l’Est russo, la cerniera fra lo sconfinato oriente e la ricca Europa, fra un mondo che ragiona ancora in termini di merci da commerciare ed un altro, che invece pensa solo in soldi da investire.

Comprendere le ragioni di una guerra, analizzando le ragioni geopoliche e geostrategiche è senz’altro più agevole che comprendere chi combatte, per qualcosa e contro qualcosa. Le analisi dei cosiddetti “esperti” sono impeccabili: Tizio ha agito così per difendere Caio, perché se Sempronio avesse vinto su Caio io avrei perso tot potere in quello scacchiere, in definitiva tot soldi in meno per la mia industria pesante, per le mie armi, il mio petrolio, ecc.
Sono, spesso, esercizi retorici necessari, perché aggiungendo un pezzo la volta si riesce a comporre il puzzle e, finalmente, terminare quel dannato file nel quale manca sempre un’inezia per sembrare credibile, e soddisfarci per il lavoro svolto.
Ma a cosa serve?
Della guerra ci sfugge sempre di più l’aspetto umano, quello della sofferenza e della morte, della miseria estrema, della fine della speranza. I giornalisti, oramai, sono sempre “aggregati” ai reparti combattenti – per “ragioni di sicurezza” (che non neghiamo affatto) – finendo così per raccontare solo quel che conviene allo Stato Maggiore.

Ho la possibilità di raccontare qualcosa sull’Ucraina perché mio figlio, nell’appena trascorso Agosto, s’è recato lassù per il matrimonio del suo amico ucraino, col quale si sente affratellato sin dai tempi della scuola media. Non pretendo di raccontare la guerra ucraina, ma di capire come è vissuta dalla gente.

Per prima cosa, vorrei ricordare che mio figlio era già stato lassù nel 2011, l’anno della maturità: fu il nostro regalo per la maturità. Quasi due mesi in Ucraina: tornò che masticava un po’ di russo/ucraino e con alcune bottiglie di vodka. I “vuoti”, per fortuna, rimasero là e tornò non troppo avvinazzato.
Il cambio, all’epoca, era di 1 : 10, ossia 100 euro per 1000 revnj, con un costo della vita (esclusa Kiev e le aree centrali delle grandi città) pressappoco uguale al nostro, ossia con un revnj acquistavi ciò che qui compravi con un euro. Vita da nababbo, dunque: colossali bicchierate di birra al costo totale di 5 euro, pranzi luculliani per la medesima cifra.

C’è da dire che il posto dove andò, e dove è recentemente tornato, è nell’estremo Ovest del Paese, nella regione (Oblast) di Ivano Frankisk. Vita di campagna, in villaggi di mille, duemila anime o ancora più piccoli, contenuti fra due curve di strade infinite che non sai mai dove portano e segnalati da tre lampioni stradali. Quindi, nessuna connessione con quanto sta accadendo nell’Est del Paese, dove Putin – lentamente, ma inesorabilmente – si sta “mangiando” quel che gli interessa, un boccone dopo l’altro.

Lassù, per due diciannovenni con un gruzzolo da spendere, la vecchia Moskvich del nonno a disposizione (l’unica che riusciva a reggere le strade di quei posti, vere e proprie piste zeppe di buchi) non dovette essere una brutta vacanza. C’era un discreto e diffuso orgoglio d’essere ucraini, anche se nessuno si sognava di spendere un revnj – peggio, un’oncia del proprio sangue – per la Patria.
Birra, vodka e ragazze, una patente comprata sul posto per una manciata di euro e tanto tempo per dormire e divertirsi. L’orto dove raccogliere ceste di cetrioli ed il fiume per pescare: cosa vuoi di più dalla vita?

L’idea che mi feci, quando tornò la prima volta, fu quella di un Paese allo “sbando moderato”, dove la vita agreste di un tempo riviveva ad ogni nuovo giorno e, quando dovevi raccogliere le patate, arrivavano un cavallo in affitto ed il vicino ad aiutare. L’inerzia di “nonno Breznev” continua ad aleggiare in quelle terre, dove non è nemmeno arrivata la meccanizzazione agraria diffusa, dove si continuano a saccheggiare ex cattedrali nel deserto di sovietica memoria, comprando, rubando, rivendendo, nascondendo…acciaio e macchinari, mentre altri trafficano vodka e patate e chissà cos’altro.
Una nazione che non ha mai superato la fine dell’impero sovietico ed il suo stalinismo – magari tollerato, in una chiave psicologica da “padre padrone” – ma, inevitabilmente, generatore di certezze. Quale è stato il futuro dell’Ucraina?

L’Ucraina non è la Russia: a Putin bastò (con grande abilità politica, lo riconosciamo) mettere in galera qualche oligarca finché non sputarono il rospo, ossia i soldi. Dopo, tornò a “pescare” dal grande pozzo dove c’è di tutto, dal gas al petrolio, dai metalli (tutti) ai diamanti.
L’Ucraina, invece, rimase quel che era: un posto di contadini, operai metallurgici, minatori ed infermiere grassottelle, che oggi sono tutte in Italia perché, facendo le badanti, inviano ai parenti – risparmiando, ad esempio, 300 euro il mese – l’equivalente (in moneta locale) di 3.000 euro. Questo nel 2011.
Oggi, al cambio, l’euro viene scambiato a quota 33, non più 1 a 10: per 100 euro, mio figlio ha ricevuto 3300 revnj, circa. Un’inflazione tremenda, tre volte in pochi anni.

Lassù, ha sentito dalla radio nazionale ucraina, che quest’anno (2017) sono emigrate in Italia (finora) 150.000 persone. Che vengono, in gran parte, assorbite dal mercato dell’assistenza, ma giungono anche maschi, che lavorano nei cantieri e nelle fabbriche.

La guerra, quella patriottica, non esiste: tutti fanno a gara per trovare amici e parenti che riescano, pagando, ovvio, a far saltare il servizio militare: cosa che, in un Paese con una corruzione forse maggiore che in Italia, riesce spesso.

I soldati che vanno in guerra, sono di due tipologie: gente di mezza età (30-50 anni) che hanno esperienza di guerra perché sono stati addestrati coi metodi dell’ex impero sovietico o negli anni successivi e giovanissimi, sui 20 anni, che ci lasciano semplicemente la pelle.
Quelli un po’ più vecchi sono i più ricercati (e pagati), per questa ragione o tentano la sorte per soldi, oppure scappano: ho conosciuto un camionista ucraino che da tre anni non mette più piede lassù. Dove vive? Sul camion, sempre sul camion salvo, raramente, quando visita parenti (come la sera che lo conobbi) in Italia.
L’immigrazione ucraina non viene avvertita come un pericolo in Italia: sono di religione cristiana (spesso cattolica) ed hanno i medesimi obiettivi di molti italiani: risparmiare per comprarsi una casa, oppure mettere finalmente il sedere sul sedile di un’AUDI alla quale, subito, fanno installare i vetri oscurati. Segno di distinzione e potere, probabilmente.

 Non ho cifre da fornire sulle perdite ucraine, perché lassù – a parte la solita propaganda di tutte le guerre, “noi le diamo e loro le prendono” – non si sa altro: cifre ce ne sono, ma sono talmente distanti, le une dalle altre, da risultare poco credibili. Intanto, le perdite civili vengono assommate a quelle militari, ma di quali “militari” stiamo parlando? Esercito regolare o milizie paramilitari, ossia mercenarie? Dell’altra parte si sa poco o nulla, perché di soldati regolari non si può ufficialmente parlare, ma di certo l’uso di certi sistemi d’arma nelle mani dei “ribelli” testimonia che qualche “istruttore” c’è senz’altro.
Inoltre, non dimentichiamo che i “ribelli” dell’Est hanno a disposizione le informazioni del sistema satellitare russo, preciso e puntuale, mentre all’Ovest non riteniamo che godano di completo appoggio.

In ogni modo, quelle 20 vittime di una guerra lontana 1500 chilometri, vittime ricordate in paesini di 2-3000 abitanti, parrebbero raccontare un salasso mica da poco. Anche la fuga dei maschi in età da servizio militare pare confermare la stessa cosa, catalizzata da una paura strisciante. Mio figlio, nei pochi giorni trascorsi lassù lo scorso Agosto, capì subito che non era il caso di toccare quel tasto: siamo qui per un matrimonio! Che la vodka scorra a fiumi!

Questa guerra ha un andamento lentissimo, propria di tutte le guerre civili: ricorda, per certi passi, il conflitto jugoslavo. Nelle miniere del Donbass – oramai quasi tutte in mano russa – il carbone viene “contrabbandato” verso Marjupol, ancora da “liberare”, affinché i fratelli “russi” non debbano soffrire per il fermo degli altiforni metallurgici. Nell’attesa della “liberazione”.
Così come le nuove autorità “russe” dell’Est emanano nuovi documenti anche per gli abitanti ancora “occupati”, aspettando l’Inverno, la stagione dove il carbone sarà necessario per non congelare e le conquiste, sul terreno, ricominceranno.

Intrighi ce ne sono tantissimi: uomini politici e magnati industriali trattano oramai su due fronti, perché l’Ucraina ha compreso d’essere stata abbandonata da tutti, Germania ed USA in primis. Le vicende di gasdotti superano, per importanza, quel misero conflitto e Putin conviene tenerselo buono, così come Trump non desidera nuove guerre, fredde o calde, con l’inquilino del Cremlino.
Così, Putin può permettersi di sentenziare “Fin quando gli ucraini avranno pazienza…”

I dirigenti di Kiev si rendono conto che sono destinati a regnare su un’Ucraina molto ridotta (perderanno Crimea e Donbass), ma sanno anche che il peso della sconfitta sarà loro addossato subito dopo l’armistizio: prendono tempo, cercando d’arricchirsi il più possibile finche hanno ancora tempo. Domani, si vedrà.
Intanto, altri ragazzini (per obbligo) e quasi vecchietti (per soldi) si preparano a morire nell’Inverno che è alle porte: può darsi che, presto, l’ONU sarà chiamato in causa per delineare un armistizio, poi una futura pace con revisione dei confini.

E’ l’unica soluzione: troppo sbilanciate le forze in campo.
Come i nostri morti della Prima Guerra Mondiale, qualcuno andrà all’assalto, si muoverà nelle trincee scavate nella neve per conquistare un fazzoletto di terra, un ponte, una strada, fino all’ultimo istante.
E’ vero che la guerra accompagna il genere umano dai primordi ma, in casi come questo, quando non c’è più nessuna speranza, l’ONU dovrebbe intervenire per mettere fine ad un disastro annunciato e comprovato sul territorio.

Speriamo che qualcuno si svegli, per quei ragazzi di vent’anni, per quei vecchietti che mai si sarebbero aspettati di ritrovarsi con un fucile in mano. Speriamo.

06 settembre 2017

La Corea ha veramente le armi che ostenta?


Quando, nel 2001, pubblicai “L’impero colpisce ancora” per Malatempora, avvertii che, lassù in un angolo dell’Asia, qualcosa si stava muovendo…ma si sa…Malatempora era una piccola casa editrice ed io uno scrittore sconosciuto. Oggi, quei frutti sono maturati, e l’intero Pianeta ha paura.
La vicenda politica, il dissidio fra Corea del Nord e Stati Uniti, sta lentamente venendo alla luce: in un quadro di sessant’anni di guerra fredda ai suoi confini, la Corea del Nord ha deciso di non fare la fine dell’Iraq e della Libia (che, ricordiamo, erano insieme nel “Asse del Male”).
Per non finire a gambe all’aria, decise in anni lontani di promuovere la ricerca in campo missilistico e nucleare ad uso proprio, mentre i vettori erano, ovviamente, sul mercato internazionale: la Libia, ad esempio, acquistò missili coreani verso gli anni 2000, per poi distruggere tutto e consegnarsi, mani e piedi legati, agli USA & Co.
A ben vedere, la Corea del Nord ha seguito le orme di un altro “Stato del Male”, ossia l’Iran. Evidentemente, conviene essere “Stati del Male”, perché gli altri finiscono come sono finiti. Fagocitati dagli appetiti americani.

Quando Trump ha avvertito Pyongyang che uno Stato nucleare ha degli obblighi (la non proliferazione, il mercato controllato, ecc) ha sfondato una porta aperta, giacché i coreani non hanno mai venduto bombe atomiche, bensì missili. Ci sarebbe da chiedersi da dove sono arrivate le atomiche pakistane, indiane ed israeliane, ma su questo tutti tacciono: il “club” nucleare è a numero chiuso, e se non ha la tessera giusta non puoi entrare.
In altre parole, Pyongyang ha falsificato i documenti ed è entrata dalla porta di servizio. E vuole giocare al tavolo buono, perché è lì che fioccano i soldini e non si deve parlare di sanzioni.

Dobbiamo aggiungere, perché la stampa ufficiale non lo dice mai, che sorvolare con un missile il territorio di un’altra nazione non viene considerato un atto ostile, giacché gli apici di traiettoria sono ben al di sopra dei rituali 60.000 piedi, la quota più alta raggiunta dai velivoli militari.
Anche sull’efficacia dei sistemi anti-missile ci sono molti dubbi: i missili raggiungono gli apici di traiettoria in pochissimi minuti (5-10), e dunque manca il tempo per organizzare una credibile controffensiva.
I famosi “Patriot” non riuscirono ad intercettare gli SCUD iracheni, che uccisero circa 150 cittadini israeliani e nemmeno i successivi tentativi americani di una credibile intercettazione hanno convinto: molti fallimenti, ed una frettolosa certificazione positiva alla prima intercettazione. Non mi ha stupito che il Giappone lasciò passare il missile coreano senza nemmeno provarci. A che pro, poi? La traiettoria era quella di un missile destinato a finire nell’oceano.

Il punto da chiarire è se i coreani hanno veramente quel che dicono di avere, oppure se bluffano.
Il programma missilistico iniziò in anni lontani, quando l’URSS consegnava qualche vecchio SCUD ai suoi alleati, tanto perché si sentissero “affratellati” nel grande universo socialista dove Mosca, ovviamente, dominava. Fin qui, nulla d’eccezionale.
Ma il nonno dell’attuale premier “ciuffetto” – Kim-Il-Sung – era un politico di razza della leva di Mao e di Ho-Chi-Minh, e seppe mettere a frutto quei piccoli, farraginosi, vecchi SCUD. Questo accadeva fra gli anni ’70 ed ’80.
Da quei primi missili nacque il Rodong1, che era uno SCUD migliorato con una gittata di 1000-1500 km, mentre gli SCUD iracheni non raggiungevano certo quelle distanze. Ma siamo negli anni ’90, tempo al tempo.
I coreani mutano strategia: hanno compreso che, se continuano solamente a raffazzonare qualcosa acquistato all’estero, non andranno da nessuna parte: ciò distingue la Corea del Nord e l’Iran dall’Iraq e dalla Libia. In sostanza: capacità interne in termini ingegneristici, elettronici e (poi) nucleari.

Il grande salto avviene col progetto del Taepodong1, un missile bi-stadio in grado di raggiungere gittate fra i 2000 ed i 6000 km, in funzione del carico assegnato. Per questa ragione i coreani hanno puntato molto sulla miniaturizzazione delle testate, e i risultati degli ultimi lanci sembrano confermare questo successo tecnologico.
Curioso, poi, il metodo usato per costruire i vari stadi dei missili, i primi a combustibile liquido (più difficile da trattare) e gli ultimi con stadi già a propellenti solidi, più sicuri e maneggevoli.
Hanno “composto” – un po’ come giocare con il Lego – i missili utilizzando come singoli stadi missili più vecchi, con motori più affidabili: difatti, i lanci falliti sono tutti da attribuire al “flop” dei sistemi d’accensione automatica dei vari stadi.

Anni 2000, compare un nuovo missile, il Taepodong2, missile tri-stadio, e i giochi si fanno più seri, perché il missile ha una gittata di 4500-9000(?) km, sempre in funzione del carico assegnato.
E’ probabilmente un missile di questo tipo ad aver attraversato l’isola di Hokkaido (Giappone) per poi cadere in mare, ed è con questo tipo di missile che le minacce all’isola di Guam hanno preso corpo. Ma non finisce qui.

Tutti s’aspettavano il Taepodong3, un vero ICBM in grado di raggiungere i 13000 km di gittata, ma tutto tacque su questo nuovo progetto.
Con gran furbizia, i coreani decisero di spostare l’obiettivo dei missili, da missili balistici a vettori spaziali, e sono riusciti con due lanci – nel 2012 e nel 2016 – a mettere in orbita qualcosa.
Ma, ai coreani, importava poco mettere in orbita qualsiasi cosa (attività considerata lecita): semplicemente, lavorando sul nuovo missile – definito Unha – hanno acquisito il know-how per costruire i grandi ICBM, necessari per raggiungere il rango di vera potenza nucleare.

Oggi, qual è dunque la situazione?
Premettendo che i coreani stendono molte cortine fumogene su nomi e dati dei loro missili, con i missili Rodong potrebbero colpire agevolmente la Corea del Sud, e con i Taepodong1 il Giappone. Con il Taepodong2 possono, probabilmente, raggiungere Guam, dove sono stanziati migliaia di soldati statunitensi.
Ma anche senza un attacco a Guam, un attacco nucleare sulla Corea del Sud e sul Giappone (dove gli USA hanno grandi basi militari) sarebbe disastroso. E gli USA lo sanno: difatti, i consiglieri militari di Trump hanno cercato in tutti i modi di fargli capire che sì, “tutte le opzioni sono sul tavolo, ma non sono praticabili”.
Putin ha affermato grosso modo la stessa cosa, ed anche i cinesi chiedono che la vicenda confluisca in una trattativa, fermo restando che il rango di potenza nucleare, oramai, alla Corea del Nord va riconosciuto.

Spero vivamente che i coreani lancino il loro missile Unha in versione ICBM con un lancio di prova nell’oceano: questo metterebbe fine ai dubbi (se possono oppure no raggiungere il continente americano), anche se la prospettiva di una guerra nucleare “lampo” – che, comunque, lascerebbe milioni di persone uccise, ferite, a vivere in un ambiente non più ospitale – dovrebbe bastare per scendere a patti.

Nella visione statunitense, la Corea del Sud sta lentamente scivolando verso la figura del vecchio Vietnam del Sud, ossia di una propaggine americana nel continente asiatico. E’ una visione vecchia, da Risiko, di un uomo vecchio come Trump, che non considera il nuovo mondo multipolare che, invece, sia la Russia e sia la Cina ben capiscono.
L’Europa? Quando si è materializzata la paura d’essere anche noi sotto “l’ombrello” nucleare coreano, la Francia ha avuto un ritorno di fiamma d’antica “grandeur”. Ma tutto è finito lì.

Scatenare una guerra nucleare senza che vi sia una ragione di tipo economico o geopolitico –e, ribadisco, per quanto mi sforzi non riesco a trovarne di coerenti con i rischi che si correrebbero – mi sembra una follia: ma forse stiamo solo parlando di bulli di paese, che hanno l’arma nucleare al posto del coltello. Pronti, entrambi, a richiudere la lama al primo sguardo ammiccante: così andrà a finire.

State tranquilli e godetevi questi ultimi scampoli di una legislatura frizzante come un succo di melanzana, con uno spruzzo di birra tedesca e due patatine americane come contorno. Una vera delizia.