La fotografia che osservate è stata scattata da mio figlio
nello scorso mese di Agosto in un piccolo villaggio dell’Ucraina occidentale,
uno di quegli agglomerati dove sembra di rivedere ancora Peppone e Don Camillo
durante la loro divertentissima visita in URSS. Si notano 20 visi, che spaziano
dagli adolescenti fino a persone decisamente anziane per andare in guerra: al
centro una foto più in vista (forse un ufficiale?) ma la stranezza non è tanto
quella di un monumento ai caduti così naif, quanto – a detta di mio figlio –
che quel monumento gli era sembrato un’iniziativa locale, popolare, spontanea.
Tanto per capire, a Leopoli non ha avuto modo di notare monumenti od altre
iniziative di quel genere: probabilmente, quei venti morti erano persone di
quei luoghi, generate dal “ventre molle” dell’Ucraina contadina, nati e
cresciuti in quel villaggio ed in quelli vicini.
Questo è il miglior affresco che si possa mostrare per una
guerra inutile, che già si sa chi la vincerà, ma non la vincerà nemmeno, perché
un provvido armistizio metterà fine al macello, quando – finalmente – questa
terra martoriata per l’assurda mania di tracciare confini sulla carta (come in
Iraq, ad esempio) sarà divisa in quello che è (più realisticamente) l’Ovest
europeo e l’Est russo, la cerniera fra lo sconfinato oriente e la ricca Europa,
fra un mondo che ragiona ancora in termini di merci da commerciare ed un altro,
che invece pensa solo in soldi da investire.
Comprendere le ragioni di una guerra, analizzando le ragioni
geopoliche e geostrategiche è senz’altro più agevole che comprendere chi
combatte, per qualcosa e contro qualcosa. Le analisi dei cosiddetti “esperti”
sono impeccabili: Tizio ha agito così per difendere Caio, perché se Sempronio
avesse vinto su Caio io avrei perso tot potere in quello scacchiere, in
definitiva tot soldi in meno per la mia industria pesante, per le mie armi, il
mio petrolio, ecc.
Sono, spesso, esercizi retorici necessari, perché
aggiungendo un pezzo la volta si riesce a comporre il puzzle e, finalmente,
terminare quel dannato file nel quale manca sempre un’inezia per sembrare
credibile, e soddisfarci per il lavoro svolto.
Ma a cosa serve?
Della guerra ci sfugge sempre di più l’aspetto umano, quello
della sofferenza e della morte, della miseria estrema, della fine della
speranza. I giornalisti, oramai, sono sempre “aggregati” ai reparti combattenti
– per “ragioni di sicurezza” (che non neghiamo affatto) – finendo così per
raccontare solo quel che conviene allo Stato Maggiore.
Ho la possibilità di raccontare qualcosa sull’Ucraina perché
mio figlio, nell’appena trascorso Agosto, s’è recato lassù per il matrimonio
del suo amico ucraino, col quale si sente affratellato sin dai tempi della
scuola media. Non pretendo di raccontare la guerra ucraina, ma di capire come è
vissuta dalla gente.
Per prima cosa, vorrei ricordare che mio figlio era già
stato lassù nel 2011, l’anno della maturità: fu il nostro regalo per la
maturità. Quasi due mesi in Ucraina: tornò che masticava un po’ di
russo/ucraino e con alcune bottiglie di vodka. I “vuoti”, per fortuna, rimasero
là e tornò non troppo avvinazzato.
Il cambio, all’epoca, era di 1 : 10, ossia 100 euro per 1000
revnj, con un costo della vita (esclusa Kiev e le aree centrali delle grandi
città) pressappoco uguale al nostro, ossia con un revnj acquistavi ciò che qui
compravi con un euro. Vita da nababbo, dunque: colossali bicchierate di birra
al costo totale di 5 euro, pranzi luculliani per la medesima cifra.
C’è da dire che il posto dove andò, e dove è recentemente
tornato, è nell’estremo Ovest del Paese, nella regione (Oblast) di Ivano
Frankisk. Vita di campagna, in villaggi di mille, duemila anime o ancora più
piccoli, contenuti fra due curve di strade infinite che non sai mai dove
portano e segnalati da tre lampioni stradali. Quindi, nessuna connessione con
quanto sta accadendo nell’Est del Paese, dove Putin – lentamente, ma
inesorabilmente – si sta “mangiando” quel che gli interessa, un boccone dopo
l’altro.
Lassù, per due diciannovenni con un gruzzolo da spendere, la
vecchia Moskvich del nonno a disposizione (l’unica che riusciva a reggere le
strade di quei posti, vere e proprie piste zeppe di buchi) non dovette essere
una brutta vacanza. C’era un discreto e diffuso orgoglio d’essere ucraini,
anche se nessuno si sognava di spendere un revnj – peggio, un’oncia del proprio
sangue – per la Patria.
Birra, vodka e ragazze, una patente comprata sul posto per
una manciata di euro e tanto tempo per dormire e divertirsi. L’orto dove
raccogliere ceste di cetrioli ed il fiume per pescare: cosa vuoi di più dalla
vita?
L’idea che mi feci, quando tornò la prima volta, fu quella
di un Paese allo “sbando moderato”, dove la vita agreste di un tempo riviveva
ad ogni nuovo giorno e, quando dovevi raccogliere le patate, arrivavano un
cavallo in affitto ed il vicino ad aiutare. L’inerzia di “nonno Breznev”
continua ad aleggiare in quelle terre, dove non è nemmeno arrivata la
meccanizzazione agraria diffusa, dove si continuano a saccheggiare ex
cattedrali nel deserto di sovietica memoria, comprando, rubando, rivendendo, nascondendo…acciaio
e macchinari, mentre altri trafficano vodka e patate e chissà cos’altro.
Una nazione che non ha mai superato la fine dell’impero
sovietico ed il suo stalinismo – magari tollerato, in una chiave psicologica da
“padre padrone” – ma, inevitabilmente, generatore di certezze. Quale è stato il
futuro dell’Ucraina?
L’Ucraina non è la
Russia: a Putin bastò (con grande abilità politica, lo
riconosciamo) mettere in galera qualche oligarca finché non sputarono il rospo,
ossia i soldi. Dopo, tornò a “pescare” dal grande pozzo dove c’è di tutto, dal
gas al petrolio, dai metalli (tutti) ai diamanti.
L’Ucraina, invece, rimase quel che era: un posto di
contadini, operai metallurgici, minatori ed infermiere grassottelle, che oggi
sono tutte in Italia perché, facendo le badanti, inviano ai parenti –
risparmiando, ad esempio, 300 euro il mese – l’equivalente (in moneta locale)
di 3.000 euro. Questo nel 2011.
Oggi, al cambio, l’euro viene scambiato a quota 33, non più 1 a 10: per 100 euro, mio figlio
ha ricevuto 3300 revnj, circa. Un’inflazione tremenda, tre volte in pochi anni.
Lassù, ha sentito dalla radio nazionale ucraina, che
quest’anno (2017) sono emigrate in Italia (finora) 150.000 persone. Che vengono,
in gran parte, assorbite dal mercato dell’assistenza, ma giungono anche maschi,
che lavorano nei cantieri e nelle fabbriche.
La guerra, quella patriottica, non esiste: tutti fanno a
gara per trovare amici e parenti che riescano, pagando, ovvio, a far saltare il
servizio militare: cosa che, in un Paese con una corruzione forse maggiore che
in Italia, riesce spesso.
I soldati che vanno in guerra, sono di due tipologie: gente
di mezza età (30-50 anni) che hanno esperienza di guerra perché sono stati
addestrati coi metodi dell’ex impero sovietico o negli anni successivi e
giovanissimi, sui 20 anni, che ci lasciano semplicemente la pelle.
Quelli un po’ più vecchi sono i più ricercati (e pagati),
per questa ragione o tentano la sorte per soldi, oppure scappano: ho conosciuto
un camionista ucraino che da tre anni non mette più piede lassù. Dove vive? Sul
camion, sempre sul camion salvo, raramente, quando visita parenti (come la sera
che lo conobbi) in Italia.
L’immigrazione ucraina non viene avvertita come un pericolo
in Italia: sono di religione cristiana (spesso cattolica) ed hanno i medesimi
obiettivi di molti italiani: risparmiare per comprarsi una casa, oppure mettere
finalmente il sedere sul sedile di un’AUDI alla quale, subito, fanno installare
i vetri oscurati. Segno di distinzione e potere, probabilmente.
Non ho cifre da
fornire sulle perdite ucraine, perché lassù – a parte la solita propaganda di
tutte le guerre, “noi le diamo e loro le prendono” – non si sa altro: cifre ce
ne sono, ma sono talmente distanti, le une dalle altre, da risultare poco
credibili. Intanto, le perdite civili vengono assommate a quelle militari, ma
di quali “militari” stiamo parlando? Esercito regolare o milizie paramilitari,
ossia mercenarie? Dell’altra parte si sa poco o nulla, perché di soldati
regolari non si può ufficialmente parlare, ma di certo l’uso di certi sistemi
d’arma nelle mani dei “ribelli” testimonia che qualche “istruttore” c’è
senz’altro.
Inoltre, non dimentichiamo che i “ribelli” dell’Est hanno a
disposizione le informazioni del sistema satellitare russo, preciso e puntuale,
mentre all’Ovest non riteniamo che godano di completo appoggio.
In ogni modo, quelle 20 vittime di una guerra lontana 1500 chilometri,
vittime ricordate in paesini di 2-3000 abitanti, parrebbero raccontare un
salasso mica da poco. Anche la fuga dei maschi in età da servizio militare pare
confermare la stessa cosa, catalizzata da una paura strisciante. Mio figlio,
nei pochi giorni trascorsi lassù lo scorso Agosto, capì subito che non era il
caso di toccare quel tasto: siamo qui per un matrimonio! Che la vodka scorra a
fiumi!
Questa guerra ha un andamento lentissimo, propria di tutte
le guerre civili: ricorda, per certi passi, il conflitto jugoslavo. Nelle
miniere del Donbass – oramai quasi tutte in mano russa – il carbone viene
“contrabbandato” verso Marjupol, ancora da “liberare”, affinché i fratelli
“russi” non debbano soffrire per il fermo degli altiforni metallurgici.
Nell’attesa della “liberazione”.
Così come le nuove autorità “russe” dell’Est emanano nuovi
documenti anche per gli abitanti ancora “occupati”, aspettando l’Inverno, la
stagione dove il carbone sarà necessario per non congelare e le conquiste, sul
terreno, ricominceranno.
Intrighi ce ne sono tantissimi: uomini politici e magnati
industriali trattano oramai su due fronti, perché l’Ucraina ha compreso
d’essere stata abbandonata da tutti, Germania ed USA in primis. Le vicende di
gasdotti superano, per importanza, quel misero conflitto e Putin conviene
tenerselo buono, così come Trump non desidera nuove guerre, fredde o calde, con
l’inquilino del Cremlino.
Così, Putin può permettersi di sentenziare “Fin quando gli ucraini avranno pazienza…”
I dirigenti di Kiev si rendono conto che sono destinati a
regnare su un’Ucraina molto ridotta (perderanno Crimea e Donbass), ma sanno
anche che il peso della sconfitta sarà loro addossato subito dopo l’armistizio:
prendono tempo, cercando d’arricchirsi il più possibile finche hanno ancora
tempo. Domani, si vedrà.
Intanto, altri ragazzini (per obbligo) e quasi vecchietti
(per soldi) si preparano a morire nell’Inverno che è alle porte: può darsi che,
presto, l’ONU sarà chiamato in causa per delineare un armistizio, poi una
futura pace con revisione dei confini.
E’ l’unica soluzione: troppo sbilanciate le forze in campo.
Come i nostri morti della Prima Guerra Mondiale, qualcuno
andrà all’assalto, si muoverà nelle trincee scavate nella neve per conquistare
un fazzoletto di terra, un ponte, una strada, fino all’ultimo istante.
E’ vero che la guerra accompagna il genere umano dai
primordi ma, in casi come questo, quando non c’è più nessuna speranza, l’ONU
dovrebbe intervenire per mettere fine ad un disastro annunciato e comprovato
sul territorio.
Speriamo che qualcuno si svegli, per quei ragazzi di
vent’anni, per quei vecchietti che mai si sarebbero aspettati di ritrovarsi con
un fucile in mano. Speriamo.