E’ passato Natale, verrà Capodanno e l’Etna si è svegliata.
Per fortuna il vulcano catanese non è come il suo collega napoletano e non
combina sfracelli: rutta, vomita, ma non provoca nubi piroclastiche che
ammazzano intere popolazioni. Questo perché è un vulcano a magma basico, vale a
dire che la non acidità del suo magma non procura…stitichezza, ossia non
permette la formazione di “tappi” nel condotto magmatico i quali, quando i gas
interni premono, fanno saltare per aria tutto.
Qualcuno, però, pensava all’Etna in modo diverso…
“Nel 1953 Mattei aveva
tentato la via della geotermia, costituendo insieme alla Finelettrica, la Società Italiana
Forze Endogene (SIFE). La nuova società, in cinque anni, e con un investimento
di due miliardi di lire, doveva incrementare la ricerca nel settore; ma il
mancato accordo sul prezzo di vendita dell’energia elettrica prodotta con i
vapori naturali fece fallire il progetto e la SIFE fu subito sciolta (1954).” (1)
Mattei era un uomo volitivo e coraggioso: non si poneva
limiti al suo agire, giacché il suo compito fu quello di trovare risorse
energetiche per un’Italia che s’apprestava a diventare un grande Paese
industriale. La questione si chiuse rapidamente poiché il prezzo del barile di
petrolio, all’epoca, era veramente
irrisorio (pochi dollari il barile). Perciò, Mattei si gettò a capo
fitto nella ricerca d’accordi con i Paesi produttori, che terminò con lo
schianto di Bascapè, deciso dagli “stati maggiori” internazionali dell’energia,
e non solo energia. Ma non è questa la sede per approfondire quei lontani
eventi.
La domanda che giunge spontanea è: l’Italia, ha mai
esplorato la possibilità di trarre dal sottosuolo una porzione importante del
suo fabbisogno energetico?
Stupirà, ma – a parte Larderello, tuttora attivo – non ci
sono stati altri tentativi: eppure, siamo un Paese che ha sul suo territorio ben 4 vulcani in
attività e, cosa non meno importante, tutta l’aera tosco-laziale è un’area di
“letti caldi” e mica poco caldi!
La storia dell’energia geotermica, in Italia, è quasi tutta
confinata fra gli anni ’30 e gli anni ’60 del Novecento e sono giunte fino a
noi le memorie – potremmo dire quasi “testamentarie” – d’ingegneri e geologi
che lavorarono e sperimentarono, cercando di gestire al meglio il poco
esistente (Larderello), nella totale indifferenza della classe politica e,
soprattutto, delle aziende (ENI, ENEL, ecc) che ebbero in mano il destino
energetico del Paese.
Fa quasi tenerezza leggere le memorie del Dr. Claudio
Sommaruga che, nel 1974, cercava di raccontare i termini di un’avventura
vissuta in perfetta solitudine, nel senso che nessuno gli diede retta (2). Eppure,
grazie alle pompe di calore, riuscì a soddisfare le esigenze di riscaldamento
della città di Ferrara (ed altre) ed un grande impianto a Milano, che funzionò
per il riscaldamento civile dal 1935 al 1971. Poi, amaramente, concluse che
tutto fu “modernizzato” con alimentazione a gasolio o metano.
Nel 2010, infine, fu organizzata una manifestazione in
ricordo di quegli anni eroici e le conclusioni, assai amare, furono espresse
(immagino dallo stesso Sommaruga, o da uno dei suoi allievi) con orgoglio unito
ad amarezza:
“Concludo, con un
conforto e un rammarico. Questa carrellata e testimonianza di una storia
dimenticata, ma tessuta in primo piano dai geotermici italiani: la
constatazione oggi che le nostre speranze giovanili degli anni ’50 non erano
utopie e il rammarico che non siamo stati abbastanza convincenti nella
promozione del ruolo che le fonti geotermiche meriterebbero tra le energie
rinnovabili.” (3)
A latere, queste vicende ricordano altri primati dell’ingegno
italiano – il dirigibile, che con Umberto Nobile ci rese celebri nel mondo,
ricordando che il celebre Norge, il
dirigibile norvegese che per primo giunse al Polo Nord era, in realtà, l’N-1
della Regia Marina venduto ai norvegesi – o come Carlo Ghega, ingegnere
veneziano, che costruì parecchie, ardimentose ferrovie austroungariche, al
punto da essere immortalato nelle banconote da 20 scellini e d’avere una tomba
monumentale al Cimitero Centrale di Vienna. Potremmo continuare con Meucci,
Marconi, ed altri…ma non è il caso: tutti siamo a conoscenza del grande genio
italico. Oggi, in tutto il mondo, si tornano a costruire dirigibili, e noi ce
ne siamo…dimenticati!
Lasciamo queste lamentazioni e torniamo ai nostri vulcani:
tralasciamo il vulcanesimo quiescente (quello che genera i “letti caldi” e che
sta tornando in auge con le pompe di calore), e vediamo i vulcani attivi.
Due sono nelle Eolie (Stromboli e Vulcano) e la ristrettezza
degli spazi agibili, più i legittimi interessi turistici, non consigliano di
costruire chissà quali meraviglie della tecnologia su quelle isole.
Poi c’è il vulcano che più di tutti ha dato preoccupazioni,
sin dal tempo di Plinio il Vecchio: il Vesuvio e tutta l’area flegrea. Il
ragazzo è un tipo imprevedibile, perché è a magma acido: forma spessi “tappi”
che occludono il canale di scorrimento delle lave, poi si sveglia di colpo e
combina sfracelli. Ci sono alcuni studi sullo sfruttamento energetico del
Vesuvio ma, domandiamoci: siccome è capace di restare silente per decine o
anche centinaia di anni per poi svegliarsi come un dio irato, vale la pena
d’investire quattrini su quel vulcano? E non basta: tutta l’area flegrea è
ricca di sorgenti d’acqua calda e sarebbe perfetta per lo sfruttamento
energetico, ma è soggetta a fenomeni di bradisismo, si aprono voragini, ci sono
stati terremoti devastanti.
Rimane l’Etna, che è il maggior vulcano italiano, ed anche
quello che sì ha dato problemi, ma solo per le “sciare” di lava che si aprono
in alta quota e poi scendono in canaloni devastando ogni cosa.
Il vulcano, però, ha le sue bocche più recenti (da secoli)
sul versante sud-orientale, mentre l’area nord-occidentale è da secoli
tranquilla. E, anche se si aprisse una bocca di sfogo su un altro versante, si
potrebbe intervenire (com’è già stato fatto) con canali artificiali di
scorrimento: l’importante, è che l’Etna non è un vulcano esplosivo per sua
natura, come il Mauna Loa delle Hawaii, che da decenni erutta senza mai
esplodere.
Anni fa, m’interessai all’eruzione del 2001: ebbene, in
quella eruzione, l’Etna vomitò una quantità di lava ad alta temperatura
corrispondente, all’incirca, al 6% del fabbisogno energetico complessivo annuo
italiano.
Non si tratta, ovviamente, di far bollire dell’acqua nelle
lave a 1.200
gradi centigradi, perché sarebbe da folli, però ci sono
alcuni interessanti studi sullo sfruttamento del vulcanesimo attivo.
Il maggior impianto, per importanza e funzionalità nel
tempo, è senza dubbio “The Geysers”, nel Nord della California, che alimenta di
energia elettrica l’intera città di San Francisco. Con una potenza installata
di circa 1600 MW, fornisce circa 1.000 MW di energia in modo costante: è molto,
è l’equivalente di una grande centrale nucleare.
E’ stata costruita in una località dove già i Nativi
sapevano dell’esistenza dei soffioni d’acqua calda poi, grazie alla tecnologia,
è stato possibile lo sfruttamento.
L’Islanda (insieme al Giappone) è all’avanguardia negli
studi e nello sfruttamento dell’energia geotermica, già si produce energia
elettrica e quasi tutta l’energia termica per il riscaldamento delle
abitazioni. Presto, mediante perforazioni, raggiungeranno un sito dove le rocce
sono a circa 500 °C,
e quindi produrranno vapore supercritico per alimentare le turbine. L’Islanda,
presto, diventerà esportatrice d’energia, e la Gran Bretagna si è detta
disponibile ad importare l’energia elettrica islandese in eccesso.
In molte parti del Pianeta la geotermia sta interessando il
settore energetico: non è inquinante, non è pericolosa, sfrutta tempi
“geologici”, che agli investitori piacciono. Necessitano ingenti investimenti,
però una volta compiuti la resa degli impianti è costante nel tempo, per molti
anni, decenni…forse secoli…
Mi domandavo se l’Etna non sia sfruttabile in questo senso:
grazie all’innovativo sistema HDR (Hard Dry Rocks) è possibile, dopo aver
scavato un pozzo, immettere acqua fredda e ricavare vapore alla temperatura di
centinaia di gradi, rimanendo all’esterno
della caldera del vulcano (4). Dopo, funziona tutto come in una centrale
termoelettrica, solo che non si consuma un grammo di carbone, né di petrolio o
gas.
Probabilmente, gli sviluppi di quella tecnologia giungeranno
a far circolare l’acqua/vapore non a contatto con le rocce vere e proprie,
bensì solo all’interno di tubi piazzati nei pozzi: le acque termali sono ricche
di sali e corrodono facilmente le attrezzature. In quel modo, circolerebbe solo
acqua distillata.
Non voglio, però, toccare molto gli aspetti tecnici, giacché
questa è materia per geologi ed ingegneri minerari, piuttosto capire come,
dove, quando e perché si potrebbero/dovrebbero attuare queste tecnologie, come
già ricordava il Dr. Sommaruga nel suo accorato ricordo del tempo dei
“pionieri”.
Purtroppo, in Italia non esiste una “centrale operativa” per
quanto riguarda gli aspetti energetici: oddio, c’è, ma è esterna alle
istituzioni democratiche. Ossia il complesso ENI-ENEL, che tutto fa e decide:
s’è visto quale potere abbia messo in gioco l’ENI per il caso Regeni – di là
della sua gravità o delle implicazioni che si possono leggere in quella
tragedia – soprattutto per la caparbietà con la quale ENI ha difeso i suoi
interessi (i nuovi giacimenti di gas egiziani), che sono anche gli interessi italiani
nell’energia e nel Mediterraneo, ma che non sempre sono sovrapponibili e
conciliabili. Forse, se fosse esistita una struttura statale al riguardo,
Giulio Regeni sarebbe stato fermato prima d’infilarsi in guai più grandi di
lui.
Mi ha molto stupito che il M5S abbia fatto poco nel settore
energetico – non m’aspettavo niente dalla Lega, che ha sempre ignorato il
problema – perché parte del suo elettorato era ed è molto sensibile al
riguardo: qui, c’entra poco la questione del riscaldamento ambientale, mentre
si entra nel territorio che fu di Mattei, ossia l’indipendenza energetica o,
almeno, la certezza delle fonti.
Nulla da eccepire sul secondo punto per quanto riguarda
l’ENI, che non ha mai fatto mancare il rifornimento energetico al Paese, però
suscita un po’ d’apprensione che non vi sia una controparte pubblica che
dialoghi con i due colossi dell’energia italiana. Domani, dovremo gestire la
transizione al trasporto elettrico: sicuri che non serva un qualcosa che
funzioni come un Ministero per l’Energia? Senza più utilizzare i “servigi” di
una società privata e quotata in Borsa per questioni che sono legittimamente e
squisitamente d’ordine politico?
L’ENI è una società quotata in Borsa, come del resto lo è
l’ENEL, ma per entrambe esiste ancora la “Golden Share”, ossia la possibilità,
da parte pubblica, d’intervenire per le questioni strategiche. Si tratta di un
quadro normativo fragile, che non consente un reale dialogo fra le parti: sa
più di ricatto per entrambe le parti, non di dialogo.
Abbiamo ancora nella mente l’immagine di Carlo Rubbia che
sbatté la porta e se ne andò in Spagna, per costruire là quelle centrali
termodinamiche nelle quali credeva (Andasol 1,2 e 3), mentre la prima (ed
unica) centrale termodinamica italiana (Priolo Gargallo) fu associata ad un
impianto ENI termoelettrico, depotenziando le peculiarità dell’impianto e
temporeggiando, per la costruzione, finché nessuno si ricordo più (e dubito che
qualcuno lo ricordi ancora) della piccola centrale sperimentale che, peraltro,
è un decimo di potenza installata rispetto a quelle spagnole.
I Paesi produttori hanno il Ministero per l’Energia, mentre
i consumatori hanno soltanto strutture private per acquistarla: è conveniente?
Per qualcuno senz’altro, per la gran parte dei cittadini, ne dubito. Perché lo
Stato, vale a dire quello democraticamente eletto, non può intervenire per le
questioni tecnologiche d’importanza primaria? O un Paese è in grado di decidere
autonomamente, almeno sul suo territorio, le proprie scelte energetiche, oppure
è inutile parlare di sovranità. Tertium, non datur.
(2) http://www.pionierieni.it/wp/wp-content/uploads/SNR-908-Storia-e-rapporti-Geotermia-Italia-Agip.pdf
(4) http://www.agorascienza.it/application/files/5014/9908/8302/B_energia-geotermica_Guglielmetti.pdf
(*) By Stepheng3 - Own work, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=19087599
4 commenti:
Grazie Bersani,articolo sempre molto interessanti e propositivi.
Scusi neh, Bertani non Bersani, qualcuno potrebbe offendersi.
E' vero, tanti si sbagliano. Però, stranamente, i due cognomi non corrspondono ad aree geografiche vicine: Bersani è piacentino, ma quel cognome è diffuso in molte aree piemontesi fino alla Lombardia. Bertani, invece, porta un marchio d'origine preciso: Reggio Emilia.
sarebbe troppo intelligente sfruttare i vulcani per l'energia...come potrebbero magnacciare i maneggioni costruttori di cattedrali nel deserto, Boccia...ti !
Posta un commento