“I problemi della
mafia e della camorra ci sono sempre stati e sempre ci saranno, purtroppo ci
sono, bisogna convivere con questa realtà.
Questo problema però,
non ci può impedire di fare le infrastrutture.”
Pietro Lunardi, Ministro delle infrastrutture e dei
trasporti nei governi Berlusconi, dal 2001 al 2006.
“Credo che le questioni
giuridiche emergenti fossero
troppo sottili per la componente laica della corte d’assise.”
Giovanni Fiandaca, “padre” del
diritto penale antimafia, in riferimento alla recente sentenza della Corte
d’Assise di Palermo.
“Gli italiani hanno
votato molto male. Seguo tutto con disgusto,
va tutto di male in peggio.”
Silvio Berlusconi
“Il capolavoro dell'ingiustizia è di sembrare giusta senza esserlo.”
Platone
“Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia,
commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. È la qualità più bella
di un buon rivoluzionario.”
Ernesto (Che) Guevara Linch
Potremmo continuare, c’è solo l’imbarazzo della scelta,
giacché il tema della giustizia è sempre stato uno dei cardini della cultura
umana. Senza fare un sunto dei vari sistemi di giustizia (del tutto inutile, ci
toccherebbe partire dal Repubblica di
Platone) sembra che il problema che viene posto sia: “è necessario che i
cittadini comuni partecipino alla gestione della giustizia (e della
democrazia)?”
Molti anni fa, mi giunse la comunicazione del Tribunale che
mi aveva inserito nelle liste dei giudici “popolari” (non togati) e rimasi pensieroso:
sapevo che i giudici popolari erano chiamati solo nelle Corti d’Assise, convocati
per decidere su fatti gravi, e ne fui un poco allarmato. Se mi capita un fatto
di sangue semplice semplice può andare…ma se mi capita una “rogna” di quelle da
novanta, che faccio? Mi rassicurai, riflettendo che c’erano sempre i due
giudici togati: il nostro compito sarebbe stato solo quello d’esprimere i
nostri pareri, poi si sarebbe giunti ad una sintesi. Non fui mai chiamato, e la
cosa si risolse da sola.
Contrariamente al prof. Fiandaca, però, ritengo che i
giudici togati abbiano bisogno dei giudici popolari, poiché giudicando solo
mediante le norme del diritto – complesse, talvolta apparentemente
contraddittorie, specifiche, zeppe di casi particolari, ecc – possano essere
“trascinati” nel vortice delle mille contraddizioni del Diritto e smarrire il
vecchio buon senso (che, però, fu concesso agli uomini – secondo Cartesio – “in
modo assai parco”).
Come potete osservare, una corte d’Assise è un po’ come un
congegno d’orologi meccanici, ognuno tarato diversamente e con equilibri
personali, che devono trovare una sintesi fra le leggi ed i ticchettii vari. Un
compito arduo.
Tornando a bomba sul processo di Palermo – senza, però, aver
ancora letto le motivazioni della sentenza – saltano agli occhi alcuni punti
focali.
La cronologia della sentenza, senz’altro strana: il
procedimento, però, durava da 5 anni e, dunque, non si può decidere quando è
maturo per giungere a sentenza. La sentenza non è stata pronunciata allo scadere
elettorale, bensì 45 giorni dopo, quando il governo sarebbe potuto essere già
formato.
Il secondo punto è la mancanza di prove, che in parte è
vero: stupisce, soprattutto, la condanna dei Carabinieri e d’altri organi dello
Stato, e l’assoluzione di un ex ministro. Ma, qui, senza le motivazioni, è
impossibile andare oltre.
Ciò che s’intuisce, in questo guazzabuglio di pentiti e
falsi pentiti, è che i giudici (popolari e togati) abbiano ravvisato i segni di
un disegno coerente, di una “storia” che conteneva elementi probatori perché,
perché…non sarebbe potuta andare diversamente!
Dagli attentati “interlocutori” alla Standa degli anni ’90
(da poco acquistata da Berlusconi), agli assassini di Falcone e Borsellino,
fino alle bombe di Firenze e di Milano e infine al fallito (?) attentato
all’Olimpico c’era il segno inequivocabile che la mafia desiderava qualcosa, ed
era ferocemente impegnata per ottenerlo.
E’ altrettanto vero che le forze dell’ordine scardinarono
l’ordine dei corleonesi, ed il potere politico sanzionò pesantemente la loro
detenzione, con il varo del 41-bis.
Ma è anche vero che la mafia, per sopravvivere, abbandonò
una generazione di capi per affidarsi a uomini più giovani – Messina Denaro fa
pensare – che rimarranno indisturbati per decenni. Insomma, una sorta di
“ristrutturazione” dove la lupara non faceva più la parte del leone, mentre ci
s’attrezzava per una sorta di “compartecipazione” occulta sugli appalti, sul
fiume di denaro che lo Stato spende per la manutenzione dell’esistente ed oltre
(vedi Ponte sullo Stretto).
Un incauto Lunardi pronunciò due parole di troppo, forse per
inesperienza in queste faccende, forse per sottolineare che gli accordi erano
chiari e rispettati da entrambe le parti. Un “pizzino” inviato mediante i
media?
Insomma, il quadro accusatorio – se non provato da tracce
evidenti – viene approvato per le forti e probanti coincidenze, evidenti, del
suo svolgersi.
Marcello Dell’Utri era già stato condannato per “vicinanza”
alle cosche nel precedente processo, giunto alla sentenza definitiva: difatti,
Dell’Utri è in carcere. Le prove, in quel caso, ci furono e molto
circostanziate: la vicenda dello “stalliere” Mangano, che Dell’Utri ben
conosceva come affiliato al clan di Porta Nuova a Palermo, ad esempio.
Quella sentenza, però, sanzionava il comportamento di
Dell’Utri fino al 1992: oggi, è stato riconosciuto che il suo “agire” in
combutta con le cosche è continuato anche dopo – nel 1993 fonda Forza Italia,
insieme a Silvio Berlusconi – e non c’è da stupirsi più di tanto. Se mai, c’è
da chiedersi perché la sua “vicinanza” alle cosche fu analizzata solo fino al
1992. Mistero (buffo).
Su tutte le sentenze che vengono emanate, pesano come dei
macigni quelle non emanate, oppure
sconfessate da ulteriori sviluppi. Pochi giorni or sono, alla Procura di
Roma è giunta un’informativa sulla storia infinita di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin:
un atto di scarsa importanza, ma indicativo dei tempi (e dei modi) della
giustizia italiana. Giunto alla Procura di Firenze nel 2012, arriva sulla
scrivania del GIP romano nel Gennaio del 2018. Perché?
Siamo ancora in attesa di sapere chi:
- mise le bombe a Piazza Fontana
- a Brescia
- sul treno Italicus
- alla stazione di Bologna: Fioravanti e la Mambro si sono sempre detti
innocenti per quel crimine, e Cossiga – in punto di morte – affermò che si era
trattato dell’esplosione accidentale di un “trasporto” di esplosivo da parte
dei Palestinesi. Sarà?
- chi abbatté l’aereo di Ustica: anche qui, Cossiga (sempre
prima di morire) affermò che i missili erano francesi. Vabbé.
- come mai un traghetto – il Moby Prince – affonda a Livorno
in una placida sera di Primavera. E la nebbia (provato) non c’era.
Ed altre, misteriose morti mai indagate o risolte: Mino
Pecorelli, Roberto Calvi, l’affaire Moro e tanti altri.
A fronte di queste “defaillances” della giustizia italiana,
il teorema della prova provata senza ombra di dubbio va a farsi benedire,
perché operano centinaia di depistaggi. Forse, imbastire un processo sul cui prodest, e poi cercare di capire se
gli eventi s’incastrano uno nell’altro, con valenza probante, è l’unico modo
per giungere a qualcosa. Insomma, la sequenza degli indizi probanti, fino a
prova contraria, diventa prova di colpevolezza. Nella lunga vicenda di Ilaria
Alpi, ad esempio, sono stati accertati almeno 26 diversi depistaggi, tramite
false testimonianze (di persone poi svanite nel nulla) ed altre prove poi
rivelatesi false od inesistenti.
Se prendiamo in esame l’operato della giustizia italiana dal
dopoguerra in poi, dobbiamo constatare che la sua capacità investigativa e
sanzionatoria è stata bassa, bassissima.
A sua discolpa, però, dobbiamo prendere in esame qual è
stato il quadro nel quale si è mossa.
All’indomani della fine della guerra, fu scattata questa
fotografia:
Quelli che vedete sono Salvatore Giuliano – eccidio di
Portella della Ginestra – e don Vito Genovese, pezzo da novanta della mafia
italo-americana, uomo di don Calogero Vizzini, all’epoca il massimo esponente delle
cosche americane. Come vedete, è in divisa dello US Army. E’ il testimonial del
patto fra il colonnello Charles Poletti e la mafia nordamericana, per il
controllo della Sicilia.
Non è un mistero che gli americani guardassero con
l’acquolina in bocca la
Sicilia appena conquistata…Malta rimarrà agli inglesi…certo,
se avessimo anche noi una bella isola per controllare il Canale di
Sicilia…insomma, aggiungiamo una stellina alla bandiera…ma anche indipendente
va bene lo stesso…
La cosa non andò in porto probabilmente poiché non discussa
né prevista a Yalta, ma la soluzione fu presto trovata: nessuna, fra le Regioni
a statuto speciale italiane, ne ha ricevuta una “speciale” come la Sicilia, anche se
formalmente l’art. 116 della Costituzione la cita insieme alle altre tre.
Inoltre, gli americani hanno ricevuto tutte le basi militari
che desideravano: Sigonella e Comiso, tanto per capirci.
Con la nazione italiana nuovamente costituita, politicamente
e giuridicamente, toccava allo Stato italiano gestire i rapporti con la mafia,
e lo Stato si attrezzò.
I due personaggi ritratti insieme una miriade di volte
testimoniano l’importanza che lo Stato assegnava alla Sicilia: voti,
soprattutto voti per la DC
e, in pratica, “non vedo, non sento e non parlo” sui traffici della Mafia.
Gli affari andarono bene per molti anni, con i fratelli
Salvo – vicini a Salvo Lima – che avevano in appalto la riscossione del 40%
delle tasse raccolte nell’isola (!).
Quando, nei primi anni ’90, l’impianto saltò, Lima fu
ucciso. Cuore, indimenticabile fonte
di risate, ironie e sarcasmi, titolò l’evento: “Salvo Lima come John Lennon: ucciso da un fan impazzito”. Ed era la
tragica verità. Anche se la follia c’entrava poco.
Ciò che si nota, dal rozzo accompagnarsi di un mafioso
americano con un brigante, è il livello che era cambiato: il deus ex machina
della DC, l’uomo innumerevoli volte ministro e capo del Governo, e colui che
teneva i contatti con la fertile provincia per il costante, ed imprescindibile,
controllo delle elezioni.
Ma giunse Mani Pulite, ed un’intera classe dirigente fu
spazzata via: ecco, allora, i “rimpiazzi”:
Gli anni fra il 1990 ed il 1993 sono anni pericolosi: tutto
torna a saltar per aria, e le uccisioni fioccano come grandine improvvisa.
Quando gli equilibri sono nuovamente ripristinati, ecco che la pace dilaga: i
corleonesi sono sconfitti, ma tutto passa nelle mani di un (all’epoca) giovane
capo: Matteo Messina Denaro. Imprendibile, “primula rossa”, come lo furono
Riina e Provenzano. E tutto torna tranquillo, per decenni, miracolosamente.
Ed ecco che, il 18 Aprile 2018, una improvvisa trappola
viene tesa agli affiliati del boss: vengono arrestate 22 persone, giungendo
molto vicino al boss dei boss, sono arrestati due suoi cognati.
Esattamente come avvenne la cattura di Riina, arrestato il
15 Gennaio del 1993, poco prima che Berlusconi salisse al potere per la prima
volta.
Si direbbe che i periodi di “interregno” siano funesti per la Mafia, oppure che anche la Mafia ne approfitti per
ristrutturarsi (o sia obbligata a farlo), così come la classe dirigente.
Sappiamo, però, che la Mafia
non “chiude bottega” se arrestano un suo esponente di spicco, anche il capo dei
capi: si riuniscono, e trovano un nuovo equilibrio da proporre alla
“controparte” politica. Altrimenti, se non c’è accordo, iniziano i guai.
Oggi, ancora non sappiamo chi governerà in Italia nei
prossimi anni: sappiamo che grandi interessi si stanno muovendo intorno alla
presidenza della Repubblica, e parecchi politici ne sono coinvolti.
Difficile credere che, all’interno delle nuove forze
politiche – il M5S e la Lega
(che proprio “nuova” non è) – la
Mafia non sia riuscita ad infilare qualche suo uomo fidato:
magari un giovane ligio ai dettami de “l’antimafia di facciata”, con tanti
“vaffa” nel pedigree, oppure un giovane settentrionale con le corna verdi e la Padania ad ogni piè sospinto.
Difficile affermarlo, ma altrettanto difficile pensare il
contrario.
Noi guardiamo ai grandi leader, che non hanno certo quei
contatti e quelle frequentazioni, ma sapremo presto cosa succederà. Accordi? E
con chi? Niente accordi? Per la prima volta l’ISIS (o chi per lei) colpirà il
territorio italiano?
Lo scenario internazionale, inoltre, non consente
divagazioni: il confronto strategico si fa più aspro, e le basi diventano
importantissime nei periodi di diplomazia “calda”. Di certo, la Mafia è la controparte più
sicura cui rivolgersi, se si vuole mantenere il controllo dell’isola.
Se si farà un “governo del Presidente” – ossia tutti contro
il M5S – sarà molto difficile che duri nel tempo: troppe le tensioni interne,
troppi i “rospi” del passato da sputare.
Però, un governo M5S e Lega è ciò che non solo fa
impallidire Mattarella, ma che ha già ricevuto il pollice verso di Bruxelles,
la diffidenza USA, la storcere di nasi da parte dei finanzieri internazionali.
A parer mio – come
scrissi prima delle elezioni – un governo del Presidente potrà trovare un
equilibrio (centro destra + PD) a patto di estromettere personaggi troppo
difficili da digerire: uno su tutti, Salvini. Non dimentichiamo che un simile
governo – una tale armata Brancaleone – potrà permettersi di perdere per strada
anche una ventina di persone: quante bastano, a Salvini, per salvare la faccia
e tornare fra i “duri e puri”. Per prendere nuovi allocchi alle future
elezioni.
Allora, si tornerà agli accordi sottobanco…qualche capomafia
sarà arrestato ed un nuovo capo proporrà un accordo con il nuovo governo…i due
finti litiganti, gli amici/nemici, si troveranno di nuovo vicini, ma
all’opposizione.
Così va il mondo, perché tutto cambi senza mai cambiare
nulla.
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