Nonostante la cappa di silenzio mediatico che ha circondato e circonda la Grecia, molti si sono resi conto che la rivolta greca non è stata un “furore” di pochi esaltati e nemmeno una manfrina abilmente orchestrata dal Palazzo. E neppure una rivoluzione tentata o fallita.
I fatti avvenuti in Grecia sono stati una rivolta spontanea – attizzata sì dall’assassinio di un ragazzo – ma proposta all’attenzione della Grecia e del Pianeta poiché la situazione economico/politica del Paese sta diventando insostenibile.
Le ragioni sono oramai le stesse ovunque: l’incedere, pressante, dello strapotere finanziario sui redditi da lavoro, la medesima mano della globalizzazione che colpisce dappertutto.
La Grecia è un paese di modesta grandezza, e la popolazione vive perlopiù accentrata in poche città, delle quali l’area di Atene/Pireo fa la parte del leone.
Qui sono scoppiate le contraddizioni più evidenti: 700 euro di stipendio contro 500 di affitto, e non crediamo di dover aggiungere altro. La rivolta greca è quindi un soprassalto di dignità, di chi non accetta più d’essere testimone cieco e silente della tragedia di un’intera generazione, sopraffatta dalla globalizzazione e dalle burocrazie finanziarie europee e mondiali.
Altri hanno equiparato la vicenda alla rivolta delle banlieues parigine: stesse coreografie, identica ribellione con auto date alle fiamme e scontri con la polizia. C’è senz’altro del vero nell’accostare i due fenomeni; entrambi sono stati una rivolta prevalentemente giovanile, e la ragione di fondo le accomunava: percepire d’esser destinati al girone infernali degli eterni esclusi, senza speranza né futuro.
In qualche modo, queste rivolte sono il risveglio dal cotonato baluginare delle “Isole dei Famosi”, la battaglia contro le falsità che i mestieranti della politica destri/sinistri ammansiscono a piene mani.
Viene allora da chiedersi perché l’Italia non sia stata contagiata dal “virus” greco, oppure perché “L’Onda” abbia assunto ben altri toni e differenti prassi nella protesta.
In qualche modo, ci viene in aiuto l’analisi sulle vicende francesi; il “cuore” della rivolta erano le banlieues: periferie anonime, sconclusionate e frammentate come “Guernica” di Picasso, abitate in prevalenza da giovani maghrebini di seconda e terza generazione. La rivolta era una vicenda d’esclusi, di persone che non percepivano più i fendenti del sistema finanziario come sopportabili escoriazioni della pelle, bensì come dolorosi affondi nella carne. I quali, possono essere generati da elementi puramente economici – avere poco o nulla, essere costretti al furto per ottenere soltanto i succedanei del gran circo del consumo – oppure una teorizzazione che può avere molteplici radici e valenze: dalla veloce rilettura di un Islam “traghettato” su sponde politiche alla più comprensibile (per noi), normale vicenda di scontro di classe. Forse, meglio, una combinazione d’entrambe.
Anche le connotazioni “sul campo” – non ce la sentiamo di definirle “tattiche”, perché il termine include, sottendendola, la presenza di un’avanguardia organizzata – sono state differenti: battaglia a tutto campo e quasi senza esclusione di colpi nelle notti francesi (ad indicare un sovrappiù di tensione non più elaborabile, gestibile) e testimonianza anche violenta ma ferma – a viso aperto, vera e propria sfida sul campo al potere, non mediabile con altre letture – nelle vie di Atene.
Infine – se riteniamo che sia accostabile – la rivolta degli studenti italiani, che ha cercato di “mostrare i muscoli”, rimanendo però ancorata a precise richieste da porre alla classe politica, dalle quali s’attendeva una risposta. Non a caso, “l’Onda” ha subito sofferto di contraddizioni al suo interno: i fantasmi della “destra” e della “sinistra” – pur negati a parole – non hanno tardato a manifestarsi, e questo senza prendere in considerazione le puerili provocazioni di Piazza Navona.
In altre parole, “l’Onda” attendeva una risposta che né i greci – e tanto meno gli esclusi delle banlieues – attendevano: i primi proponendo l’improponibile, ovvero la semplice caduta del governo, gli altri non manifestando nemmeno chiare richieste, se non l’evidenziare un livello di sofferenza oramai inesprimibile con altri mezzi.
Siamo quindi di fronte a due fenomeni i quali – pur con differente “intensità” e con modalità espressive molto diverse – hanno posto loro stessi come testimonianza aperta e senza rischio di fraintendimenti: siamo qui per dire di “no” al vostra selvaggia “guerra indiana” contro le giovani generazioni, identificate con la maggior parte dell’insieme dei non-abbienti.
La condizione greca è forse quella che più si avvicina a quella italiana, e viene allora da chiedersi perché la “generazione del 700 euro” italiana non abbia usato gli stessi mezzi espressivi – non stiamo qui parlando di violenza – ossia perché le giovani generazioni italiane considerino ancora il potere politico un interlocutore attendibile. Ossia, da un “Noi non pagheremo la vostra crisi” ad un più esplicito “Pagate da voi la vostra crisi, e sparite”.
Perché – per molteplici motivi – i giovani italiani stanno ancora un pochino meglio, anche se stanno un po’ peggio dei loro coetanei di tanti paesi europei.
Per prima cosa, le differenze di reddito in Italia mostrano una marcate eterogeneità, soprattutto fra il Nord ed il Sud del Paese. Poi fra città e piccoli borghi, quindi per classe sociale.
L’eterogeneità geografica è quella più evidente e conosciuta: l’eterno dibattito italiano sul meridionalismo, il “ritardo” incolmabile.
Anche al Nord, però, la situazione è variegata: il ricco Nord Est è meno ricco di prima ed il Nord Ovest – precipitato per molti anni – pare oggi addormentato fra speranze d’assistenza statale ed improbabili rinascite.
Sarebbe sbagliato, però, identificare le tradizionali aree della vecchia industrializzazione come le uniche produttrici di beni e servizi: l’Emilia Romagna è diventata una delle più ricche aree del Paese e così è anche per estese zone del versante adriatico, fino alla Puglia.
Aprendo una breve parentesi, dobbiamo ricordare che, a monte del declino industriale italiano, ci sono vent’anni di stasi nell’innovazione tecnologica, abilmente catalizzata da gruppi di potere che possiamo indicare genericamente nel binomio ENEL/ENI. La campagna “estetica” di Vittorio Sgarbi contro gli aerogeneratori è un vero e proprio rottame della storia, qualcosa che si riesce difficilmente a comprendere, se non si spiega il passo successivo: le centrali nucleari promesse da Berlusconi. Altro “rottame” storico: il quale, però, riporta in poche mani la produzione energetica.
Si tratta di un fenomeno semplice ma ricco d’attributi, che meriterebbe spazio che qui non abbiamo, poiché capire il motivo del rifiuto italiano a giocare la sfida delle nuove tecnologie energetiche è argomento che sgomenta per la sua insulsaggine.
Roma e le grandi città traggono sostentamento in gran parte dal settore pubblico, ed i mille rivoli della corruzione alimentano altre sacche di ricchezza di dubbia provenienza.
Se analizziamo invece la distribuzione della ricchezza per generazioni, scopriamo che gli “over 40” godono ancora – si tratta, ovviamente, di una generalizzazione – di contratti più stabili e remunerativi. Una considerevole quota della ricchezza nazionale è infine quella degli assegni pensionistici i quali, col trascorrere del tempo, sono cresciuti rispetto ad un tempo. Oggi, si va in pensione con maggiori introiti rispetto ai decenni precedenti.
Questa disparità di ricchezza e precarietà di redditi fra le generazioni ha originato – nella struttura familiare – un trasferimento dalle generazioni più anziane a quelle più giovani: il ben noto fenomeno definito – con scarsa educazione e tanta protervia – dei “bamboccioni” da Tommaso Padoa Schioppa. Sarebbe come definire i ministri economici “saltimbanchi”.
Spesso, sono oramai i redditi dei genitori – che ancora lavorano o sono in pensione – a sostenere (in varie forme e modalità) la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. Un fenomeno principalmente italiano per la sua diffusione, che “lega” le generazioni con un cappio bicipite: il risparmio delle famiglie decresce, e le semplici “iniezioni” per la sopravvivenza non cambiano di una virgola il destino dei giovani.
Questo fenomeno presuppone, però, che la parte meno giovane della popolazione percepisca redditi consistenti, in grado di “coprire” il deficit dei redditi giovanili.
Ciò avviene perché i redditi da pensione – ad esempio – seppur falcidiati dal passaggio all’euro e dalla rincorsa dei prezzi, sono stati generati dagli accantonamenti pensionistici d’anni lontani, quando le fabbriche lavoravano e non c’era ancora stato il ben noto “sacco” del settore produttivo pubblico ad opera della finanza internazionale. Britannia docet.
Questo vale per gran parte del territorio italiano, Centro compreso, mentre assume minor incidenza – per redditi da lavoro o da pensione – nelle aree meridionali, che non hanno mai avuto un tessuto produttivo diffuso, al massimo godono dei redditi del settore pubblico.
Ci sarebbe quindi da attendersi una situazione esplosiva nelle regioni più povere, che sono sempre le stesse: Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia, perché la differenza con le altre regioni è evidente, marcata da tutte le rilevazioni statistiche.
Perché, allora, non ci sono rivolte a Napoli od a Palermo?
Anche qui, dovremo affidarci ad argomentazioni che vanno per sommi capi, poiché le specificità d’alcune aree del meridione esistono, eccome. Basti pensare all’uso spregiudicato dei fondi pubblici che la regione Sicilia opera da anni: là esistono ancora le “pensioni baby” per i dipendenti degli Enti Locali, mentre nel resto del Paese sono scomparse da 15 anni, e l’apparato pubblico è gonfiato a dismisura. La Sicilia ha sempre saputo far valere la propria importanza elettorale, in tutte le stagioni politiche.
Altre aree, come la Puglia, hanno il loro punto di forza nell’agricoltura, che consente un certo margine di reddito in grado di “tappare” qualche buco. Altre zone, invece, hanno alte densità abitative e poche o nulle attività economiche. Qui, ci sarebbe da attendersi un tessuto sociale in perenne rivolta: invece, non avviene.
Il fattore calmierante di molte tensioni sociali è la criminalità organizzata, di seguito – per comodità – definita globalmente come “Mafie”.
La genesi delle Mafie è stata variegata, secondo i luoghi, ma possiamo (tralasciando le origini contadine) definire un percorso che parte dall’estorsione e dalle piccole attività criminali, quindi dal traffico di sigarette e poi di stupefacenti, passa per il traffico d’armi per terminare con il controllo degli appalti pubblici e la collusione (reciprocamente interessata) con la classe politica. Infine, la fase della globalizzazione, vissuta come partecipazione al gran banchetto della finanza internazionale.
In questo percorso, il controllo del territorio è stato essenziale: dapprima per le estorsioni, quindi per le strutture necessarie al traffico internazionale – sigarette, droga, armi, ecc – quindi per i mille addentellati (pensiamo all’edilizia, ai rifiuti, ecc) che permettono la gestione criminale degli appalti. La fase di massima espansione, ossia la finanza internazionale, potrebbe forse fare a meno del tradizionale controllo del territorio, ma le attività finanziarie delle Mafie rimangono legate ai flussi di denaro che essa trae dalle aree che controlla, oppure per le necessità contingenti che certi, lucrosi mercati clandestini richiedono. Pensiamo, ad esempio, alle raffinerie per la droga od alla custodia delle armi.
Un altro aspetto – è difficile, oramai, circoscrivere gli ambiti di “interesse” delle Mafie – è quella che riteniamo la comune gestione economica delle attività produttive, che vengono – ovviamente – “interpretate” dalle Mafie come “territori” nei quali le leggi dello Stato non esistono.
Avremo quindi una panoplia d’attività economiche assai variegate: dalla semplice gestione “in nero” di comuni attività (l’edilizia, ad esempio), fino ad imprese che hanno tutti i crismi della “normalità” – fiscale ad esempio – perché la loro utilità non è nell’azienda stessa, bensì in quello che cela, magari in un sotterraneo od in un retrobottega ben nascosto. Insomma, un tessuto d’Arlecchino per tipologie, diverso secondo le esigenze e le fasi del potere mafioso.
Ovviamente, la popolazione è coinvolta nelle attività delle Mafie e si tratta di una battaglia persa in partenza dallo Stato, giacché l’imprenditoria delle Mafie non sopporta certo i carichi impositivi – fiscali, previdenziali, ecc – che le comuni imprese devo osservare.
Questo, però, fa apparire le Mafie come dispensatrici di benessere: se i dati sulla disoccupazione, in alcune regioni italiane, fossero quelli ufficiali, la popolazione sarebbe alla fame.
Invece, così non è: almeno, non nei termini e nei numeri della statistica ufficiale.
Città come Napoli o Palermo, senza il “contributo” economico delle Mafie, diventerebbero in brevissimo tempo delle lande ingovernabili per lo Stato, che dal fattore calmierante delle Mafie – quindi – trae vantaggio.
Quale interesse avrebbe lo Stato a sconfiggere le Mafie – anche non considerando il reciproco arricchimento dei boss e dei loro referenti politici – se dopo si dovesse accollare l’onere di provvedere alle popolazioni?
Non sarebbe nemmeno possibile sopperire alla bisogna con nuove attività produttive, giacché il tessuto imprenditoriale italiano è fragile, più portato alla rendita finanziaria (di posizione, istituzionale o internazionale) che all’impresa di rischio, che scommette su nuovi prodotti e servizi.
Un’articolata disanima sulle Mafie richiederebbe altro spazio che un semplice articolo, e ci sono scrittori che lo fanno senz’altro meglio del sottoscritto: ciò che ci premeva sottolineare, è che solo le Mafie spiegano la “pace terrificante” di certe regioni italiane, così come in altre il reddito dei giovani viene sostenuto dalle generazioni più vecchie, le quali godono ancora dei frutti maturati in oramai lontani anni di benessere economico. Due fattori che inibiscono e depotenziano qualsiasi rivolta.
Come spezzare questo cerchio inossidabile?
Nessuno, oggi, è in grado di farlo: chi lo sostiene, racconta solo frottole. Le Mafie non temono certo coraggiosi magistrati ed onesti giornalisti: semplicemente, li uccidono.
Ci rendiamo conto che questa sentenza può apparire ingenerosa nei confronti di coloro che s’oppongono (soggettivamente) al potere delle Mafie – e rispettiamo ed ammiriamo il loro coraggio – ma devono convenire che il potere delle Mafie è così vasto, potente ed omnipervasivo che nulla sfugge loro. Sfugge solo ciò che è ritenuto insignificante, oppure ciò che viene tollerato perché non limita il loro potere e riesce, addirittura, a far credere che esista realmente qualcosa che può contrastare il potere dei boss.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi, rifletta sull’ultima stagione di lotta alle Mafie, terminata con gli assassini di Falcone e Borsellino. La fase successiva – inaugurata con l’attentato di Firenze in via dei Georgofili – avrebbe posto lo Stato di fronte ad un ben amaro dilemma: accettare la sfida e rischiare che i principali beni culturali, artistici (e turistici) del Paese sparissero in una nuvola d’esplosivo.
Anche il sostegno, offerto dai padri ai figli, durerà ancora per molti anni, poiché interviene un altro fattore a favorirlo: la scarsa natalità, che finisce per accentrare in poche mani patrimoni (soprattutto immobiliari) che un tempo erano suddivisi fra più attori. Non è raro, oggi, scoprire che gli eredi di otto bisnonni sono soltanto due pronipoti, e questo è un aspetto di concentrazione della ricchezza che tende a calmierare la situazione.
Due roboanti retoriche, sempre sostenute dai media di regime, sono quindi un reale “puntello” per lo Stato corrotto ed imbelle: la “solidarietà” delle famiglie italiane – che conduce, inevitabilmente, ad un generale impoverimento ed al mantenimento della precarietà sociale – e la lotta alle Mafie le quali, per il sostegno che “offrono” invece alla stabilità sociale, se non esistessero dovrebbero essere inventate.
Nulla d’eclatante: solo una meditazione per iniziare meglio, con maggior consapevolezza, il 2009.
I fatti avvenuti in Grecia sono stati una rivolta spontanea – attizzata sì dall’assassinio di un ragazzo – ma proposta all’attenzione della Grecia e del Pianeta poiché la situazione economico/politica del Paese sta diventando insostenibile.
Le ragioni sono oramai le stesse ovunque: l’incedere, pressante, dello strapotere finanziario sui redditi da lavoro, la medesima mano della globalizzazione che colpisce dappertutto.
La Grecia è un paese di modesta grandezza, e la popolazione vive perlopiù accentrata in poche città, delle quali l’area di Atene/Pireo fa la parte del leone.
Qui sono scoppiate le contraddizioni più evidenti: 700 euro di stipendio contro 500 di affitto, e non crediamo di dover aggiungere altro. La rivolta greca è quindi un soprassalto di dignità, di chi non accetta più d’essere testimone cieco e silente della tragedia di un’intera generazione, sopraffatta dalla globalizzazione e dalle burocrazie finanziarie europee e mondiali.
Altri hanno equiparato la vicenda alla rivolta delle banlieues parigine: stesse coreografie, identica ribellione con auto date alle fiamme e scontri con la polizia. C’è senz’altro del vero nell’accostare i due fenomeni; entrambi sono stati una rivolta prevalentemente giovanile, e la ragione di fondo le accomunava: percepire d’esser destinati al girone infernali degli eterni esclusi, senza speranza né futuro.
In qualche modo, queste rivolte sono il risveglio dal cotonato baluginare delle “Isole dei Famosi”, la battaglia contro le falsità che i mestieranti della politica destri/sinistri ammansiscono a piene mani.
Viene allora da chiedersi perché l’Italia non sia stata contagiata dal “virus” greco, oppure perché “L’Onda” abbia assunto ben altri toni e differenti prassi nella protesta.
In qualche modo, ci viene in aiuto l’analisi sulle vicende francesi; il “cuore” della rivolta erano le banlieues: periferie anonime, sconclusionate e frammentate come “Guernica” di Picasso, abitate in prevalenza da giovani maghrebini di seconda e terza generazione. La rivolta era una vicenda d’esclusi, di persone che non percepivano più i fendenti del sistema finanziario come sopportabili escoriazioni della pelle, bensì come dolorosi affondi nella carne. I quali, possono essere generati da elementi puramente economici – avere poco o nulla, essere costretti al furto per ottenere soltanto i succedanei del gran circo del consumo – oppure una teorizzazione che può avere molteplici radici e valenze: dalla veloce rilettura di un Islam “traghettato” su sponde politiche alla più comprensibile (per noi), normale vicenda di scontro di classe. Forse, meglio, una combinazione d’entrambe.
Anche le connotazioni “sul campo” – non ce la sentiamo di definirle “tattiche”, perché il termine include, sottendendola, la presenza di un’avanguardia organizzata – sono state differenti: battaglia a tutto campo e quasi senza esclusione di colpi nelle notti francesi (ad indicare un sovrappiù di tensione non più elaborabile, gestibile) e testimonianza anche violenta ma ferma – a viso aperto, vera e propria sfida sul campo al potere, non mediabile con altre letture – nelle vie di Atene.
Infine – se riteniamo che sia accostabile – la rivolta degli studenti italiani, che ha cercato di “mostrare i muscoli”, rimanendo però ancorata a precise richieste da porre alla classe politica, dalle quali s’attendeva una risposta. Non a caso, “l’Onda” ha subito sofferto di contraddizioni al suo interno: i fantasmi della “destra” e della “sinistra” – pur negati a parole – non hanno tardato a manifestarsi, e questo senza prendere in considerazione le puerili provocazioni di Piazza Navona.
In altre parole, “l’Onda” attendeva una risposta che né i greci – e tanto meno gli esclusi delle banlieues – attendevano: i primi proponendo l’improponibile, ovvero la semplice caduta del governo, gli altri non manifestando nemmeno chiare richieste, se non l’evidenziare un livello di sofferenza oramai inesprimibile con altri mezzi.
Siamo quindi di fronte a due fenomeni i quali – pur con differente “intensità” e con modalità espressive molto diverse – hanno posto loro stessi come testimonianza aperta e senza rischio di fraintendimenti: siamo qui per dire di “no” al vostra selvaggia “guerra indiana” contro le giovani generazioni, identificate con la maggior parte dell’insieme dei non-abbienti.
La condizione greca è forse quella che più si avvicina a quella italiana, e viene allora da chiedersi perché la “generazione del 700 euro” italiana non abbia usato gli stessi mezzi espressivi – non stiamo qui parlando di violenza – ossia perché le giovani generazioni italiane considerino ancora il potere politico un interlocutore attendibile. Ossia, da un “Noi non pagheremo la vostra crisi” ad un più esplicito “Pagate da voi la vostra crisi, e sparite”.
Perché – per molteplici motivi – i giovani italiani stanno ancora un pochino meglio, anche se stanno un po’ peggio dei loro coetanei di tanti paesi europei.
Per prima cosa, le differenze di reddito in Italia mostrano una marcate eterogeneità, soprattutto fra il Nord ed il Sud del Paese. Poi fra città e piccoli borghi, quindi per classe sociale.
L’eterogeneità geografica è quella più evidente e conosciuta: l’eterno dibattito italiano sul meridionalismo, il “ritardo” incolmabile.
Anche al Nord, però, la situazione è variegata: il ricco Nord Est è meno ricco di prima ed il Nord Ovest – precipitato per molti anni – pare oggi addormentato fra speranze d’assistenza statale ed improbabili rinascite.
Sarebbe sbagliato, però, identificare le tradizionali aree della vecchia industrializzazione come le uniche produttrici di beni e servizi: l’Emilia Romagna è diventata una delle più ricche aree del Paese e così è anche per estese zone del versante adriatico, fino alla Puglia.
Aprendo una breve parentesi, dobbiamo ricordare che, a monte del declino industriale italiano, ci sono vent’anni di stasi nell’innovazione tecnologica, abilmente catalizzata da gruppi di potere che possiamo indicare genericamente nel binomio ENEL/ENI. La campagna “estetica” di Vittorio Sgarbi contro gli aerogeneratori è un vero e proprio rottame della storia, qualcosa che si riesce difficilmente a comprendere, se non si spiega il passo successivo: le centrali nucleari promesse da Berlusconi. Altro “rottame” storico: il quale, però, riporta in poche mani la produzione energetica.
Si tratta di un fenomeno semplice ma ricco d’attributi, che meriterebbe spazio che qui non abbiamo, poiché capire il motivo del rifiuto italiano a giocare la sfida delle nuove tecnologie energetiche è argomento che sgomenta per la sua insulsaggine.
Roma e le grandi città traggono sostentamento in gran parte dal settore pubblico, ed i mille rivoli della corruzione alimentano altre sacche di ricchezza di dubbia provenienza.
Se analizziamo invece la distribuzione della ricchezza per generazioni, scopriamo che gli “over 40” godono ancora – si tratta, ovviamente, di una generalizzazione – di contratti più stabili e remunerativi. Una considerevole quota della ricchezza nazionale è infine quella degli assegni pensionistici i quali, col trascorrere del tempo, sono cresciuti rispetto ad un tempo. Oggi, si va in pensione con maggiori introiti rispetto ai decenni precedenti.
Questa disparità di ricchezza e precarietà di redditi fra le generazioni ha originato – nella struttura familiare – un trasferimento dalle generazioni più anziane a quelle più giovani: il ben noto fenomeno definito – con scarsa educazione e tanta protervia – dei “bamboccioni” da Tommaso Padoa Schioppa. Sarebbe come definire i ministri economici “saltimbanchi”.
Spesso, sono oramai i redditi dei genitori – che ancora lavorano o sono in pensione – a sostenere (in varie forme e modalità) la sopravvivenza dei figli e dei nipoti. Un fenomeno principalmente italiano per la sua diffusione, che “lega” le generazioni con un cappio bicipite: il risparmio delle famiglie decresce, e le semplici “iniezioni” per la sopravvivenza non cambiano di una virgola il destino dei giovani.
Questo fenomeno presuppone, però, che la parte meno giovane della popolazione percepisca redditi consistenti, in grado di “coprire” il deficit dei redditi giovanili.
Ciò avviene perché i redditi da pensione – ad esempio – seppur falcidiati dal passaggio all’euro e dalla rincorsa dei prezzi, sono stati generati dagli accantonamenti pensionistici d’anni lontani, quando le fabbriche lavoravano e non c’era ancora stato il ben noto “sacco” del settore produttivo pubblico ad opera della finanza internazionale. Britannia docet.
Questo vale per gran parte del territorio italiano, Centro compreso, mentre assume minor incidenza – per redditi da lavoro o da pensione – nelle aree meridionali, che non hanno mai avuto un tessuto produttivo diffuso, al massimo godono dei redditi del settore pubblico.
Ci sarebbe quindi da attendersi una situazione esplosiva nelle regioni più povere, che sono sempre le stesse: Campania, Calabria, Basilicata e Sicilia, perché la differenza con le altre regioni è evidente, marcata da tutte le rilevazioni statistiche.
Perché, allora, non ci sono rivolte a Napoli od a Palermo?
Anche qui, dovremo affidarci ad argomentazioni che vanno per sommi capi, poiché le specificità d’alcune aree del meridione esistono, eccome. Basti pensare all’uso spregiudicato dei fondi pubblici che la regione Sicilia opera da anni: là esistono ancora le “pensioni baby” per i dipendenti degli Enti Locali, mentre nel resto del Paese sono scomparse da 15 anni, e l’apparato pubblico è gonfiato a dismisura. La Sicilia ha sempre saputo far valere la propria importanza elettorale, in tutte le stagioni politiche.
Altre aree, come la Puglia, hanno il loro punto di forza nell’agricoltura, che consente un certo margine di reddito in grado di “tappare” qualche buco. Altre zone, invece, hanno alte densità abitative e poche o nulle attività economiche. Qui, ci sarebbe da attendersi un tessuto sociale in perenne rivolta: invece, non avviene.
Il fattore calmierante di molte tensioni sociali è la criminalità organizzata, di seguito – per comodità – definita globalmente come “Mafie”.
La genesi delle Mafie è stata variegata, secondo i luoghi, ma possiamo (tralasciando le origini contadine) definire un percorso che parte dall’estorsione e dalle piccole attività criminali, quindi dal traffico di sigarette e poi di stupefacenti, passa per il traffico d’armi per terminare con il controllo degli appalti pubblici e la collusione (reciprocamente interessata) con la classe politica. Infine, la fase della globalizzazione, vissuta come partecipazione al gran banchetto della finanza internazionale.
In questo percorso, il controllo del territorio è stato essenziale: dapprima per le estorsioni, quindi per le strutture necessarie al traffico internazionale – sigarette, droga, armi, ecc – quindi per i mille addentellati (pensiamo all’edilizia, ai rifiuti, ecc) che permettono la gestione criminale degli appalti. La fase di massima espansione, ossia la finanza internazionale, potrebbe forse fare a meno del tradizionale controllo del territorio, ma le attività finanziarie delle Mafie rimangono legate ai flussi di denaro che essa trae dalle aree che controlla, oppure per le necessità contingenti che certi, lucrosi mercati clandestini richiedono. Pensiamo, ad esempio, alle raffinerie per la droga od alla custodia delle armi.
Un altro aspetto – è difficile, oramai, circoscrivere gli ambiti di “interesse” delle Mafie – è quella che riteniamo la comune gestione economica delle attività produttive, che vengono – ovviamente – “interpretate” dalle Mafie come “territori” nei quali le leggi dello Stato non esistono.
Avremo quindi una panoplia d’attività economiche assai variegate: dalla semplice gestione “in nero” di comuni attività (l’edilizia, ad esempio), fino ad imprese che hanno tutti i crismi della “normalità” – fiscale ad esempio – perché la loro utilità non è nell’azienda stessa, bensì in quello che cela, magari in un sotterraneo od in un retrobottega ben nascosto. Insomma, un tessuto d’Arlecchino per tipologie, diverso secondo le esigenze e le fasi del potere mafioso.
Ovviamente, la popolazione è coinvolta nelle attività delle Mafie e si tratta di una battaglia persa in partenza dallo Stato, giacché l’imprenditoria delle Mafie non sopporta certo i carichi impositivi – fiscali, previdenziali, ecc – che le comuni imprese devo osservare.
Questo, però, fa apparire le Mafie come dispensatrici di benessere: se i dati sulla disoccupazione, in alcune regioni italiane, fossero quelli ufficiali, la popolazione sarebbe alla fame.
Invece, così non è: almeno, non nei termini e nei numeri della statistica ufficiale.
Città come Napoli o Palermo, senza il “contributo” economico delle Mafie, diventerebbero in brevissimo tempo delle lande ingovernabili per lo Stato, che dal fattore calmierante delle Mafie – quindi – trae vantaggio.
Quale interesse avrebbe lo Stato a sconfiggere le Mafie – anche non considerando il reciproco arricchimento dei boss e dei loro referenti politici – se dopo si dovesse accollare l’onere di provvedere alle popolazioni?
Non sarebbe nemmeno possibile sopperire alla bisogna con nuove attività produttive, giacché il tessuto imprenditoriale italiano è fragile, più portato alla rendita finanziaria (di posizione, istituzionale o internazionale) che all’impresa di rischio, che scommette su nuovi prodotti e servizi.
Un’articolata disanima sulle Mafie richiederebbe altro spazio che un semplice articolo, e ci sono scrittori che lo fanno senz’altro meglio del sottoscritto: ciò che ci premeva sottolineare, è che solo le Mafie spiegano la “pace terrificante” di certe regioni italiane, così come in altre il reddito dei giovani viene sostenuto dalle generazioni più vecchie, le quali godono ancora dei frutti maturati in oramai lontani anni di benessere economico. Due fattori che inibiscono e depotenziano qualsiasi rivolta.
Come spezzare questo cerchio inossidabile?
Nessuno, oggi, è in grado di farlo: chi lo sostiene, racconta solo frottole. Le Mafie non temono certo coraggiosi magistrati ed onesti giornalisti: semplicemente, li uccidono.
Ci rendiamo conto che questa sentenza può apparire ingenerosa nei confronti di coloro che s’oppongono (soggettivamente) al potere delle Mafie – e rispettiamo ed ammiriamo il loro coraggio – ma devono convenire che il potere delle Mafie è così vasto, potente ed omnipervasivo che nulla sfugge loro. Sfugge solo ciò che è ritenuto insignificante, oppure ciò che viene tollerato perché non limita il loro potere e riesce, addirittura, a far credere che esista realmente qualcosa che può contrastare il potere dei boss.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi, rifletta sull’ultima stagione di lotta alle Mafie, terminata con gli assassini di Falcone e Borsellino. La fase successiva – inaugurata con l’attentato di Firenze in via dei Georgofili – avrebbe posto lo Stato di fronte ad un ben amaro dilemma: accettare la sfida e rischiare che i principali beni culturali, artistici (e turistici) del Paese sparissero in una nuvola d’esplosivo.
Anche il sostegno, offerto dai padri ai figli, durerà ancora per molti anni, poiché interviene un altro fattore a favorirlo: la scarsa natalità, che finisce per accentrare in poche mani patrimoni (soprattutto immobiliari) che un tempo erano suddivisi fra più attori. Non è raro, oggi, scoprire che gli eredi di otto bisnonni sono soltanto due pronipoti, e questo è un aspetto di concentrazione della ricchezza che tende a calmierare la situazione.
Due roboanti retoriche, sempre sostenute dai media di regime, sono quindi un reale “puntello” per lo Stato corrotto ed imbelle: la “solidarietà” delle famiglie italiane – che conduce, inevitabilmente, ad un generale impoverimento ed al mantenimento della precarietà sociale – e la lotta alle Mafie le quali, per il sostegno che “offrono” invece alla stabilità sociale, se non esistessero dovrebbero essere inventate.
Nulla d’eclatante: solo una meditazione per iniziare meglio, con maggior consapevolezza, il 2009.