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05 novembre 2017

Ricordando Orwell


Non so se George Orwell, quando scrisse “1984”, si rese conto di cosa e, soprattutto, di “quanto” scrisse in quelle pagine che dovettero transitare nella sua mente come un grande sogno, od incubo, prima di finire impresse sulla carta. Mistero della scrittura onirica: viene da chiedersi se grandi e libere menti, da oltre la “siepe”, ci aiutino nel comunicare, perché si comunichi ad altri, in una catena senza fine.
Stamani, quando mi sono accorto che mancava la corrente, lì per lì mi sono girato dall’altra ed ho continuato il dormiveglia tranquillo ma, sentendo mia moglie armeggiare con i pulsanti di contatore, ho capito che era meglio scendere dal letto.
Tutto nero, senza il minimo rumore: manca il ronzio del frigorifero, il bagliore della stufa a pellet, silenzio assoluto. Fuori, alle prime luci di un’alba scura, piove lentamente e tutto indica tranquillità e sopore ma mia moglie insiste: chiamo l’ENEL.

Dall’altra parte, la solita voce di un call centre che sarà a Bari o a Tirana, risponde d’inserire il codice vattelappesca “che troverà sulla bolletta”: oh certo…al buio, mi metto a scartabellare le vecchie bollette…per fortuna mi salva la domanda di riserva, ossia il numero del vecchio telefono fisso (che, per sola pigrizia, non abbiamo ancora eliminato) e la voce, rassicurante, comunica “che nella zona sono segnalati malfunzionamenti, ma che per le 10 del mattino tornerà la corrente”. Sono le 10.35, ma dell’agognata corrente nemmeno un misero Ampère.

Inutile cercare d’attendere di poter parlare con “l’operatore”: dopo una decina di minuti (dei tre comunicati come tempo d’attesa) preferisco risparmiare la batteria del cellulare. Uno sguardo al web, dal telefonino, non racconta niente: un black out nel savonese di una decina d’ore non merita menzione, così come la Val di Susa bruciata fino alle cime dei monti non doveva esistere come notizia…e qui mi è comparso il vecchio George che diceva “Ricorda…le notizie, la realtà, deve per prima cosa scomparire…noi non sappiamo se l’Alleanza Occidentale combatte con noi o contro di noi, non sappiamo se il bombardamento dei porti del Pacifico sia veramente avvenuto…non sappiamo niente di niente, e rischiamo la vita per sapere qualcosa…”

In compenso, veniamo costantemente informati delle vicende di un tal Briatore, di un certo Sgarbi, o dei ricordi a luci rosse di Sandra Milo: rumore, un fiume di notizie inutili che dovrebbero servire a rallegrare un Paese triste, ma anche ad oscurare – in mezzo a tanto bailamme – ciò che sarebbe meglio che non sapessero.
Come i poveri morti del rifugio appenninico crollato per il terremoto, che – prima d’esser morti – chiamarono fiduciosi il 118, e non vennero creduti.

Richiamo, per sapere novità e la solita vocina aggraziata mi comunica che la riparazione del guasto è posticipata alle 12.30: allora, siamo in presenza di un black out abbastanza importante, non di una misera cabina dove sono bruciati i fusibili.
Il riscaldamento non può partire (pompa di circolazione elettrica), la stufa a pellet per la stessa ragione: si sta al freddo. Ma non è questo il guaio.
Mia moglie, stamani, si è recata in visita presso conoscenti che hanno una persona molto, molto malata e che rimane perennemente a letto. Per alzarla (è molto grassa) si sono attrezzati con un sollevatore meccanico, che funziona a corrente elettrica. Starà nella merda.
Ci sono migliaia o centinaia di migliaia di persone (non so quanto è esteso il black out!) che si trovano a dover risolvere problemi gravi e meno gravi, ma la notizia non s’ha da dare: intorno a me, garriscono i generatori a petrolio dei vicini.

Immagino un consiglio d’amministrazione dell’ENEL, dove presentano le scelte da fare nel prossimo futuro:
1) Incrementare le forniture e gli approvvigionamenti, mediante i quali il fatturato salirà da Tot1 a Tot2. Approvazione piena da parte dei grandi azionisti.
2) Incrementare la manutenzione dei sistemi esistenti, ma – in questo caso – ci saranno dei costi…diciamo che l’incremento da Tot1 a Tot2 sarà esiguo, probabilmente nullo. Coro di disapprovazione.

Ciò di cui non si rende conto questa gente, mentre immagina la grande macchina che produce denaro – svelta ed impeccabile nei risultati – è che non è per niente così: l’imprevisto è sempre in agguato, e questi sono imprevisti da niente. Allarme arancione – anche il lessico fa la sua parte – “Allarme”, ossia “state in guardia”, quando a non stare in guardia sono proprio loro, che a fronte di una Domenica appena un po’ piovosa d’Autunno – senza allagamenti, “bombe d’acqua” (ancora il lessico…), trombe d’aria, venti ad oltre 50 nodi, neve, ghiaccio, ecc – s’arrendono come studentelli alla prima gita scolastica e proclamano il timore d’immani tragedie.
Se non mancasse la corrente, sarebbe solo un’uggiosa ed un po’ noiosa Domenica d’Autunno: perché deve diventare un “allarme arancione”?

I veri allarmi sono altri: li sapranno?

Nel 1883 esplose il vulcano di Krakatoa e si generò lo stretto della Sonda: immane catastrofe, navi catapultate sui monti, enormi massi erratici scagliati a 100 km di distanza, ferrovie contorte come fuscelli, 40.000 morti. L’esplosione fu udita dall’Australia al Madagascar, ossia a 3000 miglia di distanza: viene considerato il più forte boato mai udito in epoca storica. Le polveri lanciate in aria dal vulcano oscurarono parzialmente la radiazione solare per un intero anno: si può affermare che l’agricoltura si “fermò” ovunque, per un’intera stagione agricola.
Siccome in quell’area le zolle tettoniche girano come sulle montagne russe, da quell’esplosione nacque un altro sistema vulcanico, Anak Krakatau (figlio di Krakatoa), che le autorità indonesiane hanno dichiarato zona off limits per la navigazione, vista la brutta abitudine del “giovane” vulcano d’alzare improvvisamente il livello delle acque marine: stavi pescando, e ti ritrovi su una montagnola di cenere. Probabilmente, lì si generò la grande onda anomala che distrusse Sumatra alcuni anni or sono. Ma c’è di peggio.

Nel 1859 ci fu una tempesta magnetica che interessò tutto il Pianeta. Siccome le tempeste magnetiche – in un mondo privo di macchine elettriche, al massimo facevano impazzire le bussole delle navi – non ci furono danni, salvo l’interruzione delle prime comunicazioni telegrafiche.
Non si hanno abbastanza notizie storiche sulla frequenza di questi eventi: oggi, cosa accadrebbe?

I sovraccarichi sulle grandi linee di trasporto elettrico si scaricherebbero sui grandi trasformatori di rete in una frazione di secondo e li brucerebbero all’istante: per ovviare a tali danni, bisognerebbe conoscere in anticipo l’arrivo di una tempesta magnetica e la sua entità per, immediatamente, staccare la rete mondiale dalle fonti di produzione. Una prospettiva che prevedrebbe una struttura mondiale in grado di prendere decisioni di tale portata in pochissimo tempo e senza intralci.
Beh – direte voi – si cambiano i trasformatori…
I trasformatori sono macchine statiche, ovverosia soltanto un anello (o quadrato) di comune Ferro ed avvolgimenti di cavo di Rame: niente di tecnologicamente difficile da produrre.

Il guaio è che queste macchine – proprio perché statiche – sono molto longeve, e dunque la produzione di questi grandi trasformatori è scarsa, praticamente si produce soltanto per nuove linee e centrali di distribuzione dell’energia e per (rare) sostituzioni.
Siccome le aziende produttrici sono poche, e i grandi trasformatori pesano tonnellate, per sostituire tali macchine sulla rete mondiale ci vorrebbero parecchi anni. Altro che black out di 12 ore per una centralina in avaria!
Inutile dire che non esiste nessun piano, concordato anzitempo a livello internazionale, per trovare rimedi a queste calamità che si presentano abbastanza frequentemente nella Storia: in sostanza, sono soltanto aurore boreali d’intensità di gran lunga superiore, dipendenti dai “capricci” del Sole.

Peccato che la Storia delle calamità naturali sia ancora scarsa di dati e poco conosciuta: non andiamo fino al disastro di Toba di 75.000 anni or sono, laddove la popolazione mondiale fu quasi azzerata. Difatti, i biologi s’attendevano una maggior varianza genetica nel genere umano ma, probabilmente, Toba fu una “seconda nascita”: per poco (si stima una sopravvivenza all’evento di poche migliaia o decine di migliaia d’individui) non ci estinguemmo 75.000 anni or sono.

Morale.
Il capitalismo, in realtà, ha smesso da tempo di soddisfare le necessità umane, e di cercare di cautelarsi prevedendo i possibili rischi: si è avvitato in una spirale d’investimenti e profitti che trascende dalla realtà esistente. Si scommette sulla clemenza degli eventi naturali per fare profitti, e si tenta in ogni modo di nascondere ciò che potrebbe suscitare dei dubbi. Una roulette, sulla quale cala un panno quando esce lo zero. Di questa serie fanno parte gli OGM, il riscaldamento globale e tanti argomenti sui quali ci vogliono schierati a chiacchierare e magari ad azzannarci. Senza, ovviamente, prevedere dei rischi che sono reali, comprovati da veri eventi storici: farebbero perdere tempo, troppi pensieri, meno investimenti.

Allo stesso tempo, però, c’è la necessità di far vivere le popolazioni in uno stato d’ansia e d’eccitazione affinché non si ribelli, mediante una comunicazione mirata a debellare ogni speranza d’autosufficienza: un attentato ogni tanto serve, la cronaca nera deve essere assillante, ecc, mentre – sull’altro versante – un mare di notizie ed intrattenimenti che, scatenando la libido, favoriscano la favola dell’eterna cornucopia per molti, ma non per tutti perché gli altri non sono ancora abbastanza “bravi” per godere di quei frutti: corri, ragazzo, corri!
Per questa ragione i giornalisti televisivi sono le figure più pagate dal sistema: ancora una volta, Orwell…

In realtà, solo il 3% della popolazione mondiale gode pienamente i frutti del capitalismo, in Italia circa il 10% (che possiede la metà della ricchezza) e alle masse di diseredati (come ben ricorda Serge Latouche) si presenta il simulacro della scommessa vinta dal mondo Occidentale contro la Natura e contro tutte le avversità. Noi siamo i vincenti: imitateci!

Cosa rispondono?
Beh, se ci sono dei danni, anche gravi…assicuriamoci!
Oh certo, così mangeremo il denaro delle assicurazioni…sempre che, in un Pianeta privo d’energia elettrica per anni, si trovi ancora un assicuratore…vivo!

04 marzo 2015

Guerre e stati sociali







“Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io.”
George Orwell (Eric Arthur Blair)

Fra poche settimane (l’Italia entrò nella 1GM il 24 Maggio del 1915, saranno dunque cent’anni esatti) scatterà l’ambaradan mediatico ed istituzionale delle celebrazioni e dell’orgoglio nazionale. Sinceramente, non comprendo cosa ci sia d’eroico da ricordare se non il grande sacrificio umano, una pura questione di pietas – sia chiaro – che nulla ha a che vedere col trionfalismo altezzoso che ci ammansiranno da ogni parte. Dagli Stati Maggiori ai partiti politici.

Due dati, solo per capire la tragedia: circa 17 milioni di morti (militari + civili), decine di milioni di tonnellate di navi affondate, alcune regioni europee (Mosella, Saarland, Alsazia, Veneto e Friuli, ecc.) distrutte, una crisi economica (e politica) che colpì chi aveva perso (Germania/Weimar, Impero Asburgico/Austria e Impero Ottomano/Turchia moderna) e chi aveva vinto (l’enorme debito inglese nei confronti dei banchieri, che iniziò ad estinguersi solo intorno al 1935, quando bisognò iniziare di nuovo). Insomma, il solito grande affare per i capitalisti e le consuete disgrazie per la povera gente.

Gli storici affermano che, fra cent’anni, le due guerre mondiali saranno raggruppate in una sola “in due atti” – e ne conveniamo – però, come “contemporaneo” (un po’ datato!), non posso esimermi dal sentire quella guerra ancora dietro l’angolo, grazie alle narrazioni di mio nonno e di mia nonna, che mi raccontarono – viva voce – la “rivolta del pane” di Torino nel 1917 ed i torbidi che seguirono quelle vicende, oppure lo sbarco dai treni dei feriti a Reggio Emilia, coi lamenti e le imprecazioni contro Re, Preti ed Imperatori.
L’unica cosa saggia da fare – invece di spendere inutilmente soldi in parate e “rievocazioni” – sarebbe raccogliersi in preghiera (ognuno s’inventi la sua, secondo quel che crede) in un luogo per noi prezioso – un Heimat, come dicono i tedeschi – e piangere per quella povera gente, preda dell’ingordigia di governanti e finanzieri dell’epoca, invitati forzati ad un sabba di sangue, accompagnato da tutte le benedizioni possibili dei cardinali e dei cappellani militari.
Finis della breve trattazione storica, forzatamente incompleta e carente.

Ciò che ci domandavamo, era un quesito che spesso viene ignorato: ossia, quanto conta la fedeltà di un popolo allo scoppiare di una guerra? Quanto si sente “partecipe”? Qual è la “Patria” che sente dentro di sé?

Per prima cosa andiamo a vedere come mai, in Gran Bretagna – ad esempio – la gente s’offriva volontaria per le operazioni di ricerca e disinnesco delle bombe tedesche inesplose: Giorgio VI in persona chiese che a dirigere quelle squadre – composte di 4 persone – fosse un nobile. Le offerte non smisero mai d’arrivare. Ah, dimenticavo un particolare: la vita media di quelle squadre era di circa quattro giorni.
In Germania, invece – pur non sottovalutando l’apporto della Hitlerjugend nella FLAK, la contraerea (ma erano giovani, non dimentichiamolo! Ci andò anche Ratzinger...) – non vi furono movimenti collettivi di supporto, perché tutto doveva essere regolato dall’alto, dai comandi e dal partito nazionalsocialista. Questo quadro di passività della popolazione traspare e spicca dalle pagine di Jörg Friedrich nel suo “La Germania bombardata” (Der Brand, 2002) edito in Italia da Mondadori nel 2004.

Un primo aiuto ci giunge da Richard Titmuss, creatore dello stato sociale inglese del dopoguerra, dunque da un economista – anzi, un politico autodidatta in economia:

“La Guerra non poteva essere vinta a meno che milioni di persone comuni, in Gran Bretagna e al di là della Manica, si convincessero che noi avevamo da offrire qualcosa di meglio del nemico, non solo durante ma anche dopo la guerra”.

Quel “al di là della Manica” fa pensare che la guerra, in realtà, fu tra Germania ed Impero Britannico e gli inglesi seppero coinvolgere gli abitanti dei dominions – indiani, sudafricani, neozelandesi, ecc – in modo impeccabile e coinvolgente. Non vi furono episodi di diserzione – a parte alcuni indiani, presi prigionieri in Africa dai tedeschi ed inglobati in una compagnia dell’Afrika Korp, subito ripresi e fucilati all’istante.  Eppur esistettero, in quei Paesi, movimenti di liberazione (pensiamo a Gandhi) che sarebbero sfociati, nel dopoguerra, nel famoso Suez Act, ossia il ritiro ad Ovest di Suez di tutti i militari britannici (e, soprattutto, della Marina che regnava in quei mari da tre secoli).

Chi erano, dunque, gli inglesi – tanto per citare un esempio – che raccolsero a decine di migliaia i prigionieri italiani (soprattutto) e tedeschi all’indomani di El-Alamein?

Vale la pena d’attingere ad un ricordo personale, ad un racconto in prima persona di chi c’era.
Di là della caciara retorica nazionale, sembrava d’essere in centro a Milano il giorno di S. Ambrogio – raccontava la mia fonte – tanto era il frastuono ed il casino di migliaia d’italiani, colonne di uomini che parevano sbucare dalle sabbie, che correvano ad arrendersi. Erano già disarmati: avevano abbandonato tutto fra le sabbie.
Gli inglesi, appollaiati su qualche raro Bren Gun Carrier, sorridevano fra il divertito e lo stupito da tanto andirivieni e, riavutisi dalla sorpresa iniziale, capirono che bisognava radunare ed organizzare quella marea di uomini tornati ragazzi che chiedevano acqua e una sigaretta: per gli italiani – gli straccioni della guerra tedesca – era finita: basta, si tornerà a casa, fine della fame fra le sabbie africane.
Solo ad un reparto di Camicie Nere – arresosi fra i primi – fu riservato un trattamento più “duro”: furono fatti passare fra due ali di soldati che li presero a calcinculo. Non una violenza: un dileggio. Altro che “l’onore delle armi” chiesto da Sordi a David Niven ne Il mio nemico!

La mia fonte – io scrivo, ma è lui che parla, anche se oramai morto e sepolto – era infermiere della Sanità e fu subito condotto all’ospedale di Porto Said, perché gli infermieri scarseggiavano. Finita la guerra, fu chiamato dal medico del reparto “I’m sorry...non posso lasciarti andare, troppo lavoro...” così rimase a Porto Said fino al 1947, ma dal mese successivo iniziarono a pagargli lo stipendio di un infermiere civile.
Torniamo alla domanda iniziale: chi erano quegli inglesi?

Agricoltori delle Midlands, minatori gallesi, operai di Manchester, portuali di Liverpool, braccianti scozzesi, pescatori delle Orcadi...oltre ai neozelandesi, agli indiani, ai sudafricani...
Perché erano così dignitosamente diversi dagli scugnizzi italiani che s’arrendevano? Eppure, le loro brave batoste le avevano prese anche loro in Africa Settentrionale. Ce lo racconta una fonte eccezionale: George Orwell.

Oh certo, lo conosciamo per la Fattoria degli animali e per 1984...ma forse non tutti hanno letto le sue opere cosiddette “minori”.
Alla metà degli Anni 30, Orwell fu incaricato dal Left Book Club (un'associazione culturale filo-socialista) di redigere un rapporto sulla vita nelle aree minerarie del Nord, nell’area di Sheffield: partì per il Nord e ne uscì un libro, La Strada di Wigan Pier, che non è una meraviglia di racconto, perché nasce come saggio o “rapporto” ed è, forzatamente, intriso di cifre, interviste, sillogismi politici.
E’, però, straordinariamente utile per capire l’atteggiamento della Gran Bretagna imperiale nei confronti della disoccupazione (anch’essi patirono il 1929) e della miseria in genere.
Una Gran Bretagna che non lesinava un sussidio di disoccupazione universale, senza troppe limitazioni, che faceva imbestialire i conservatori dell’epoca i quali non si risparmiavano frasi del tipo “A che serve mantenere tutta quella marmaglia...” oppure il classico “Mangiapane a tradimento!”. In pratica, il Fornero-verbo.

Orwell racconta che un minatore – che faceva una vita da bestia, non dimentichiamolo, perché le gallerie raramente superavano il metro e mezzo – guadagnava una cifra fra le 110 e le 140 sterline annue, per un servizio di sette ore e mezza il giorno.
L’assegno di disoccupazione – che non aveva limiti di tempo – era di poco più di una sterlina la settimana, ossia circa 60 sterline l’anno le quali – Orwell riporta conteggi precisi sui costi di farina, pancetta, ecc – garantivano la pura sopravvivenza, niente di più. Al punto – fa notare – che chi fumava aveva delle grosse difficoltà.
Non c’erano limitazioni di sorta per ricevere l’assegno, perché bastava dimostrare di non avere lavoro; c’era però una sorta “d’ispettorato”: se venivi scoperto a fare un secondo lavoro – anche modesto, bagnare l’orto del vicino ad esempio – avevi dei guai e rischiavi di perdere tutto.

Se noi tentiamo un parallelo (impossibile per il “paniere” d’acquisto) con le condizioni attuali, notiamo però che l’assegno di disoccupazione (consegnato al capofamiglia) era circa la metà di un salario. Se consideriamo un salario fra i 1.500 ed i 2.000 euro il mese, oggi, ne uscirebbe un assegno di disoccupazione di circa 750-1000 euro il mese. Uno sforzo economico notevole per la Gran Bretagna, con precise motivazioni politiche:

“Sicurezza sociale indica l’impegno da parte delle autorità pubbliche per garantire a tutti un reddito minimo di sopravvivenza e per combattere cinque grandi «giganti» cattivi, che minacciano la dignità dei cittadini: la miseria, la malattia, l’ignoranza, il degrado provocato da abitazioni malsane e l’ozio connesso alla disoccupazione e alla dipendenza.” (1)

Si noti che la “dipendenza” – l’ultimo dei “giganti cattivi” – era la possibilità di ricatto che potesse giungere da qualsiasi parte: il disoccupato non cessava d’essere un uomo libero e dignitoso. Quasi un reddito di cittadinanza ante-litteram.
Il risultato?

La sopravvivenza della Gran Bretagna si vide nei tristi giorni dell’assalto aereo tedesco, quando un popolo dignitoso e preciso accettò di buon grado i “consigli” delle autorità, che non furono mai “ordini”. Tutto fu diretto alla produzione di Spitfire, e la popolazione reagì compostamente e con un senso del sacrificio inappuntabile. Uno Stato che dà, può anche (e liberamente) chiedere: uno stato che impone, dovrà sempre mantenere la forza come deterrente per imporre.

Al punto che Karl Doenitz – Comandante in Capo della Kriegsmarine e successore di Hitler per poche settimane – ammise, in un’intervista (2):

D) Ha mai pensato alla possibilità di uno sbarco in Inghilterra?

R) «Non credo, e non credevo, che avremmo potuto farcela, perché le nostre truppe avrebbero avuto bisogno di continui rifornimenti, e la Royal Air Force era abbastanza potente per mandare a monte le nostre operazioni».

In definitiva, gli inglesi videro bene: una popolazione, nei limiti del sopportabile, accetta sacrifici perché sa che, il medesimo Stato, li terrà seriamente in considerazione e non lascerà nessuno fuori, al gelo.
Un’ultima osservazione – che propone proprio Orwell – riguarda la produzione bellica: negli anni ’30 – quando vigevano le norme sulla disoccupazione da lui descritte – il Governo era conscio che la disoccupazione era endemica e provocata dallo sconquasso del 1929. Sapeva anche, però, che la piena occupazione sarebbe stata facilmente raggiunta in caso di guerra, con l’aumento della produzione (e del debito, aggiungiamo noi) e le conseguente economia di guerra.

La domanda da porsi è: come ci sarebbero giunti senza quei sostegni al reddito? La risposta la fornisce Orwell stesso: quando i conservatori si lamentavano degli esborsi per pagare gli assegni di disoccupazione, il Governo rispondeva che, se preferivano, s’annullava tutto. Poi, a vedersela con la gente affamata...chi ci andava? Forse i nobili stessi, in divisa da caccia alla volpe?
Una nazione che ha vissuto una rivoluzione durata un secolo, dove caddero persino le teste dei regnanti, sa bene cosa comporta il rischio e prende gli adeguati provvedimenti.

Come si comportarono, invece, Germania ed Italia?
Lo stato sociale, nei due Paesi, fu diverso: basato sulla genetica in Italia, con molti aspetti eugenetici in Germania. In Italia non vi furono episodi come la “Notte dei Cristalli” – che preparava il passaggio in serie Z dei commercianti ebrei – se non dopo le leggi razziali del ’38 ed in modo molto blando. Lo stesso giorno nel quale firmò le leggi razziali, Mussolini promosse a Generale di Divisione il Generale Levi. Il che, è tutto dire.

In Germania si puntò sulla piena occupazione, la quale aveva dei prodromi: la nazionalizzazione della Banca Centrale tedesca e, appunto, un’economia di guerra in tempo di pace, che non poteva non sfociare in una guerra vera: come andò a finire, lo sappiamo.
I tedeschi puntarono sempre alla difesa della razza ariana, non a quella della popolazione tedesca, fino a giungere ai Lebensborn dell’ultimo periodo. In ogni modo, il concetto è ben spiegato nel libro di Götz Aly, Lo Stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, edito in Italia da Einaudi.
L’Italia, Paese più povero, puntò sulla genetica:

“Dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle nazioni, è la loro potenza demografica. (…) L’Italia, per contare qualcosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti.” (dal cosiddetto “Discorso dell’Ascensione” di Benito Mussolini).

In pratica, contava il numero: dobbiamo riconoscere che, in quegli anni, un po’ ovunque il numero era sinonimo di potenza, poiché la concezione dell’esercito napoleonico tardava a scomparire.
Il problema, però, è un altro: una volta raggiunto il “numero” – e allora vanno benissimo le opere a favore dell’infanzia, i consultori, ecc, tutte opere sociali promosse dal Fascismo – dopo, che ne facciamo? I milioni di baionette, certo, che dopo s’arrendono a decine di migliaia agli inglesi sorridendo e domandando una sigaretta. Senza il minimo problema di “onore” o di “dignità”: a me – sembravano dire – lo Stato non ha dato nulla...e adesso, che vuole? Sciuscià, eccolo da dove esce.

La testimonianza di mia madre è importante per comprendere i livelli di povertà delle campagne: la sua famiglia era una qualsiasi famiglia d’agricoltori del ferrarese. Agricoltori, non braccianti: quelli stavano peggio.
Mia madre raccontava che il suo grande divertimento era pescare: con un ago curvato, una canna di fiume ed uno spago di canapa pescava un mare di pesci gatto, anguille ed altro dal canale dietro casa.
Il problema era che la nonna – che doveva provvedere al desco di una famiglia numerosa – non aveva olio per friggerli: così, li arrostiva sulle braci del camino. Secondo problema (chi conosce la “bassa” lo sa): dove prendere la legna? Non ci sono boschi nella “bassa”.
Così, ci si doveva arrangiare bruciando residui vegetali quali la parte lignea della canapa o gli stocchi del granturco: addirittura – con grandi fatiche – gli uomini sradicavano i ceppi dei gelsi tagliati e i vecchi li riducevano a pezzetti con l’accetta. Poi, dopo tante fatiche, un po’ di polenta con un pesce arrostito, tutti i giorni.
Non c’è da meravigliarsi se – ancor prima della guerra – appena ci fu “l’odore” di un lavoro nell’industria tessile biellese, emigrarono tutti.

Oggi tutto è cambiato: non c’è odor di guerra per l’aria, anche se – lontano dall’Europa – si combatte quasi ovunque. Ma, se tocca a qualche italiano andarci, si tratta sempre e solo dei 100.000 uomini dell’esercito professionale, non i milioni di baionette che coinvolgono la popolazione (e richiedono consenso politico).
Per questa ragione Renzi, Berlusconi e tutta la baracca dei saltimbanchi parlamentari non pongono mai in primo piano il vero problema dello stato sociale e delle finanze italiane: la separazione della previdenza dall’assistenza. Tutto un solo calderone, chiamato INPS. Questo sarebbe il primo passo verso un vero stato sociale.

Il reddito di cittadinanza è un obiettivo del M5S, ma non avranno mai i numeri per approvarlo: i nostri Gauleiter potranno continuare tranquilli a regnare, ampiamente foraggiati con i nostri soldi e protetti dai due battaglioni dei “Lancieri di Montebello”, che stazionano a Roma da decenni, fissi come un pilastro di cemento.
Curioso l’aspetto del “foraggiamento”: soldi che servono soltanto a garantire e verificare gli equilibri interni del potere, non il consenso della popolazione. Oramai, a votare ci và si e no la metà degli aventi diritto e, dosando attentamente le risorse (ossia gli sprechi, le tangenti, ecc), riescono a comprare abbastanza voti.

Quando leggiamo di un finanziamento di qualche milione di euro dato alla fondazione del notabile di turno, oppure di una equivalente tangente, sono soldi che servono a comprare voti grazie alle “ricerche”, agli “studi”, alle “ricognizioni” e quant’altro (i “festival”! (3)), compiute da gente insipiente che non ha nulla da dire, che ha soltanto un voto da dare, ecco quello che conta e perché finisce per contare. Ma, ribadiamo, soltanto per sancire gli equilibri interni.

A noi, lasciano la protesta: c’imbizzarriamo come cavalli selvaggi contro l’euro, la finanza, le banche e tutto il resto – che sono soltanto strumenti del potere! – e non vediamo, ciechi come siamo diventati, che l’unica soluzione è non ascoltarli, non guardarli in Tv, non votarli, coprirli di silenzio.

Possiamo forse sgominare la massoneria internazionale che ci tiene a bacchetta, la finanza europea che ride di noi ed impone sempre nuove gabelle, il Bilderberg che, ogni anno, decide un pezzo del nostro futuro?
Gli unici che ci stanno tentando – e c’era chi credeva che Tsipras potesse risolvere tutto con un colpo di bacchetta magica...e voilà! Tutto a posto! Però, la patrimoniale sugli alti redditi l’ha messa...e da noi? – sono, appunto, i greci e gli spagnoli di Podemos, ai quali dovremmo unirci, non ai conservatori inglesi come Grillo in UE.

Non esistono altre soluzioni, credetemi, altrimenti resteremo solo dei miseri cani alla catena, che abbaiano ad una luna distante e indifferente.