Ieri, era una giornata un po’ speciale: l’ho passata a tagliar
legna per il prossimo Inverno ed a sistemare la cantina, perché c’è sempre
tanta roba da sistemare e non sai mai dove metterla. Ma da dove piove tutta
‘sta roba?!? Eppure, mi rivoltavo in me stesso perché sapevo, ricordavo, pur
non volendo ricordare, perché il ricordo non è sempre triste, ma è ingombrante.
Il ricordo parte come un missile verso cieli tersi, poi finisce di trascinarsi
appresso mille cosucce da nulla, pinzillacchere, bagatelle…minuzie…e poi, dal
nulla, schizza fuori un drago fiammeggiante e non sei più tranquillo mentre
sistemi le mille quisquilie di una vita, quando ti capita fra le mani un
pallone. 70 anni fa, si schiantò l’aereo del Grande Torino.
Eppure, già 60 anni fa, ero nel prato con le mani legate dietro
la schiena, mentre mio padre tirava palloni un po’ angolati e non forti: dovevo
respingerli di testa. Le mani erano legate per scacciare l’istinto a posare le
mani a terra: dovevo imparare a “scivolare” dai fianchi fino alle spalle senza
farmi male.
Perché, papà, ti sei intestardito a voler fare di due figli due
portieri come te? Perché – papà – non hai capito che avevamo la nostra strada,
diversa dalla tua, io in difesa e mio fratello – più in gamba di me – attaccante?
Domande inutili: poteva capitarmi un padre generale di brigata, e sarebbe
andata peggio. Io, a differenza di te, mi sono limitato ad osservare mio figlio
che correva, dalla tribuna: anche lui col classico “sinistro di famiglia”,
certo mi faceva piacere osservare qualcosa di me e di te anche in lui, ma
questo non consente “invasioni di campo”, e di vita.
Ieri i giornali hanno intessuto la solita retorica sul Grande
Torino. Un po’ melensa, in fin dei conti inutile: conosciamo tutti la storia,
Superga…e via discorrendo.
Certo, è una storia curiosa: un ex tenente colonnello della
Regia Aeronautica alla cloche del velivolo, specialista in volo strumentale,
tradito da un altimetro difettoso. Che si chiamava Meroni (Pierluigi) ed era
stato decorato in guerra per aver salvato un suo commilitone, tale Capitano
Bulgarelli (?), omonimo del futuro attaccante azzurro. Come Meroni (Luigi,
detto Gigi) si sarebbe chiamato un grande attaccante del Toro che – una ventina
d’anni più tardi – avrebbe risollevato le sorti della squadra e giocato in
Nazionale (con Bulgarelli) se…non fosse morto in un banale incidente, travolto
da un’auto mentre attraversava la strada. E chi era alla guida dell’auto? Attilio
Romero – grande tifoso del Toro e vicino di casa di Gigi – che sarebbe
diventato, molti anni dopo, presidente del Torino. Il cerchio si chiude.
Omero ci avrebbe intessuto una tragedia (Eresiade?), ma è una
storia che sa di karma contorti, d’incongrui grovigli, di destini segnati
anzitempo dalle Parche.
Io vi posso raccontare com’era la vita di un giocatore del
Torino dell’epoca, giacché mio padre faceva parte delle giovanili del tempo di
guerra e, nel 1946, stava per firmare il contratto, ma…mio nonno (mio padre era
ancora minorenne) non lo controfirmò. Tragedia familiare. Sì, mio padre nella
parte di Achille, con la sua ira funesta,
ci può stare. Sì, ci sta.
Al termine della guerra, mio padre guadagnava 30.000 lire al
mese, che imponevano 8 ore d’allenamento presso lo stadio “Lamarmora” di Biella
ed un impiego di “comodo”, ossia andava a dormire in un locale della “Piaggio
Aeronautica” di Candelo Biellese, dove la fabbrica toscana s’era trasferita per
le vicende belliche. Dormì un paio d’anni vicino ad una flak tedesca da 88 mm
della difesa contraerea. Una volta gli chiesi: faceva tanto rumore? Non lo so –
rispose – non sparò mai un colpo.
Per fare un confronto, Bacigalupo (il primo portiere)
guadagnava 160.000 lire il mese (fonte: Wikipedia): mia madre, operaia tessile,
nel 1946 prendeva 15.000 lire il mese.
Sarebbe come se, oggi, il portiere della Juventus guadagnasse
intorno ai 12.000 euro il mese: questa poche cifre qualcosa raccontano
sull’attuale suddivisione della ricchezza.
Aprendo una parentesi, confesserò di non credere assolutamente
alle cifre che i club, oggi, comunicano per gli acquisti e gli ingaggi dei
giocatori: sono superiori – ma di molte volte! – al totale degli incassi, dei
diritti televisivi e dei contributi degli sponsor, che sono le voci “attive”
dei bilanci. O sono false le cifre – ossia le squadre barano sulle cosiddette
“plusvalenze” – oppure entrano in gioco i bilanci delle aziende dei presidenti,
e qui la cosa sarebbe ancora più complessa e dunque non quantificabile da un
semplice giornalista. Ci vorrebbe un’inchiesta da parte della Magistratura.
E la vita? Com’era?
In tempo di guerra era tutto un “forse”: non per nulla il
campionato 1943-44 fu vinto dalla squadra di calcio dei Vigili del Fuoco di La
Spezia!
Ogni trasferta era sempre un “forse”, un’avventura che iniziava
sul treno molte ore prima, sempre che il treno non venisse mitragliato, non si
rompesse, non ci fossero bombardamenti all’arrivo…immaginate un po’. I tedeschi
si diedero molto da fare per tenere in piedi una parvenza di normalità, ma i
risultati furono ben lungi dalle aspettative.
La settimana, poi, trascorreva tranquilla (Biella non fu mai
bombardata, per questo il Torino era migrato lassù) anche se i giocatori si
muovevano: mio padre narrava di un bar nei pressi di Piazza Statuto dove
s’incontravano con i “cugini” della Juventus per interminabili partite a
biliardo od alle carte. Sorvolava, ovviamente, su dove passassero le notti: col
senno di poi ho capito che qualche casa di tolleranza li ospitava, ma erano
cose che non si potevano raccontare a un bambino!
Le amicizie, come sempre, dipendevano dal caso: Eusebio Castigliano
era di Livorno Ferraris (fra Vercelli e Chivasso) ed erano molto amici perché
prendevano lo stesso treno per tornare a casa. Mio padre, ancora piangeva
quando vedeva le foto di Castigliano nell’album di famiglia.
Mazzola, invece, aveva il compito di allenarlo a parare rigori
e punizioni e mio padre ne aveva un buon ricordo: sempre accondiscendente,
nello “scoprire” i punti deboli di un attaccante per migliorare il portiere.
Poi, c’erano le “punizioni” – non quelle tirate sul campo –
bensì i giri di corsa sulla pista dell’atletica da compiere come punizione per
i ritardi (talvolta, incolpevoli, viste le condizioni di vita) ma che,
comunque, il regolamento non considerava. Vai e corri, intanto ti fai il fiato.
Ciò che, invece, non molti sapranno, fu che proprio nel buio
della guerra nacque l’innovazione nel mondo del calcio: dopo le disposizioni
tradizionali (detto “Metodo”, ossia due terzini, tre mediani e cinque
attaccanti) il Torino varò il WM, che è praticamente il 3-4-3 del calcio moderno,
con le sue variazioni (4-4-2, 5-3-1, ecc) che oggi osserviamo, soprattutto
nelle partite di Coppa Europea.
Forse, per questa ragione dovrebbe essere ricordato – unico al
mondo, come Alessandro Magno – come “Grande” Torino, ossia qualcosa che sfugge
al freddo computo delle virtù e degli errori: proprio come l’incommensurabile
condottiero macedone.
Il resto è solo una fredda lapide con molti nomi incisi, che
racconta poco o nulla: come in una fotografia, l’istantanea non comprende gli
aneliti di vita vissuta, i sentimenti, a volta qualche acredine di troppo.
C’è ancora una quisquilia, una delle tante in questa vicenda
epica, che sempre mi ha colpito. Mio padre, nel 1949 – oramai lontano dal
calcio professionista – nel Marzo scivolò sulla neve e si ruppe un braccio.
Anche se il destino fosse stato diverso, non sarebbe potuto salire su
quell’aereo. Ma queste sono solo illazioni, perché il destino è sempre fumoso,
a volte beffardo, e sempre difficile da interpretare per noi che ci crediamo
lungimiranti, anziché accettarci come ciechi che s’arrabattano in qualche modo
a vivere.
Accidenti…’sto pallone è ancora gonfio dopo tanti anni…ma dove
ti metto?
Nessun commento:
Posta un commento