05 maggio 2019

Destini

Ieri, era una giornata un po’ speciale: l’ho passata a tagliar legna per il prossimo Inverno ed a sistemare la cantina, perché c’è sempre tanta roba da sistemare e non sai mai dove metterla. Ma da dove piove tutta ‘sta roba?!? Eppure, mi rivoltavo in me stesso perché sapevo, ricordavo, pur non volendo ricordare, perché il ricordo non è sempre triste, ma è ingombrante. Il ricordo parte come un missile verso cieli tersi, poi finisce di trascinarsi appresso mille cosucce da nulla, pinzillacchere, bagatelle…minuzie…e poi, dal nulla, schizza fuori un drago fiammeggiante e non sei più tranquillo mentre sistemi le mille quisquilie di una vita, quando ti capita fra le mani un pallone. 70 anni fa, si schiantò l’aereo del Grande Torino.

Eppure, già 60 anni fa, ero nel prato con le mani legate dietro la schiena, mentre mio padre tirava palloni un po’ angolati e non forti: dovevo respingerli di testa. Le mani erano legate per scacciare l’istinto a posare le mani a terra: dovevo imparare a “scivolare” dai fianchi fino alle spalle senza farmi male.
Perché, papà, ti sei intestardito a voler fare di due figli due portieri come te? Perché – papà – non hai capito che avevamo la nostra strada, diversa dalla tua, io in difesa e mio fratello – più in gamba di me – attaccante? Domande inutili: poteva capitarmi un padre generale di brigata, e sarebbe andata peggio. Io, a differenza di te, mi sono limitato ad osservare mio figlio che correva, dalla tribuna: anche lui col classico “sinistro di famiglia”, certo mi faceva piacere osservare qualcosa di me e di te anche in lui, ma questo non consente “invasioni di campo”, e di vita.

Ieri i giornali hanno intessuto la solita retorica sul Grande Torino. Un po’ melensa, in fin dei conti inutile: conosciamo tutti la storia, Superga…e via discorrendo.
Certo, è una storia curiosa: un ex tenente colonnello della Regia Aeronautica alla cloche del velivolo, specialista in volo strumentale, tradito da un altimetro difettoso. Che si chiamava Meroni (Pierluigi) ed era stato decorato in guerra per aver salvato un suo commilitone, tale Capitano Bulgarelli (?), omonimo del futuro attaccante azzurro. Come Meroni (Luigi, detto Gigi) si sarebbe chiamato un grande attaccante del Toro che – una ventina d’anni più tardi – avrebbe risollevato le sorti della squadra e giocato in Nazionale (con Bulgarelli) se…non fosse morto in un banale incidente, travolto da un’auto mentre attraversava la strada. E chi era alla guida dell’auto? Attilio Romero – grande tifoso del Toro e vicino di casa di Gigi – che sarebbe diventato, molti anni dopo, presidente del Torino. Il cerchio si chiude.
Omero ci avrebbe intessuto una tragedia (Eresiade?), ma è una storia che sa di karma contorti, d’incongrui grovigli, di destini segnati anzitempo dalle Parche.

Io vi posso raccontare com’era la vita di un giocatore del Torino dell’epoca, giacché mio padre faceva parte delle giovanili del tempo di guerra e, nel 1946, stava per firmare il contratto, ma…mio nonno (mio padre era ancora minorenne) non lo controfirmò. Tragedia familiare. Sì, mio padre nella parte di Achille, con la sua ira funesta, ci può stare. Sì, ci sta.
Al termine della guerra, mio padre guadagnava 30.000 lire al mese, che imponevano 8 ore d’allenamento presso lo stadio “Lamarmora” di Biella ed un impiego di “comodo”, ossia andava a dormire in un locale della “Piaggio Aeronautica” di Candelo Biellese, dove la fabbrica toscana s’era trasferita per le vicende belliche. Dormì un paio d’anni vicino ad una flak tedesca da 88 mm della difesa contraerea. Una volta gli chiesi: faceva tanto rumore? Non lo so – rispose – non sparò mai un colpo.
Per fare un confronto, Bacigalupo (il primo portiere) guadagnava 160.000 lire il mese (fonte: Wikipedia): mia madre, operaia tessile, nel 1946 prendeva 15.000 lire il mese.
Sarebbe come se, oggi, il portiere della Juventus guadagnasse intorno ai 12.000 euro il mese: questa poche cifre qualcosa raccontano sull’attuale suddivisione della ricchezza.

Aprendo una parentesi, confesserò di non credere assolutamente alle cifre che i club, oggi, comunicano per gli acquisti e gli ingaggi dei giocatori: sono superiori – ma di molte volte! – al totale degli incassi, dei diritti televisivi e dei contributi degli sponsor, che sono le voci “attive” dei bilanci. O sono false le cifre – ossia le squadre barano sulle cosiddette “plusvalenze” – oppure entrano in gioco i bilanci delle aziende dei presidenti, e qui la cosa sarebbe ancora più complessa e dunque non quantificabile da un semplice giornalista. Ci vorrebbe un’inchiesta da parte della Magistratura.

E la vita? Com’era?
In tempo di guerra era tutto un “forse”: non per nulla il campionato 1943-44 fu vinto dalla squadra di calcio dei Vigili del Fuoco di La Spezia!
Ogni trasferta era sempre un “forse”, un’avventura che iniziava sul treno molte ore prima, sempre che il treno non venisse mitragliato, non si rompesse, non ci fossero bombardamenti all’arrivo…immaginate un po’. I tedeschi si diedero molto da fare per tenere in piedi una parvenza di normalità, ma i risultati furono ben lungi dalle aspettative.
La settimana, poi, trascorreva tranquilla (Biella non fu mai bombardata, per questo il Torino era migrato lassù) anche se i giocatori si muovevano: mio padre narrava di un bar nei pressi di Piazza Statuto dove s’incontravano con i “cugini” della Juventus per interminabili partite a biliardo od alle carte. Sorvolava, ovviamente, su dove passassero le notti: col senno di poi ho capito che qualche casa di tolleranza li ospitava, ma erano cose che non si potevano raccontare a un bambino!

Le amicizie, come sempre, dipendevano dal caso: Eusebio Castigliano era di Livorno Ferraris (fra Vercelli e Chivasso) ed erano molto amici perché prendevano lo stesso treno per tornare a casa. Mio padre, ancora piangeva quando vedeva le foto di Castigliano nell’album di famiglia.
Mazzola, invece, aveva il compito di allenarlo a parare rigori e punizioni e mio padre ne aveva un buon ricordo: sempre accondiscendente, nello “scoprire” i punti deboli di un attaccante per migliorare il portiere.
Poi, c’erano le “punizioni” – non quelle tirate sul campo – bensì i giri di corsa sulla pista dell’atletica da compiere come punizione per i ritardi (talvolta, incolpevoli, viste le condizioni di vita) ma che, comunque, il regolamento non considerava. Vai e corri, intanto ti fai il fiato.

Ciò che, invece, non molti sapranno, fu che proprio nel buio della guerra nacque l’innovazione nel mondo del calcio: dopo le disposizioni tradizionali (detto “Metodo”, ossia due terzini, tre mediani e cinque attaccanti) il Torino varò il WM, che è praticamente il 3-4-3 del calcio moderno, con le sue variazioni (4-4-2, 5-3-1, ecc) che oggi osserviamo, soprattutto nelle partite di Coppa Europea.

Forse, per questa ragione dovrebbe essere ricordato – unico al mondo, come Alessandro Magno – come “Grande” Torino, ossia qualcosa che sfugge al freddo computo delle virtù e degli errori: proprio come l’incommensurabile condottiero macedone.

Il resto è solo una fredda lapide con molti nomi incisi, che racconta poco o nulla: come in una fotografia, l’istantanea non comprende gli aneliti di vita vissuta, i sentimenti, a volta qualche acredine di troppo.

C’è ancora una quisquilia, una delle tante in questa vicenda epica, che sempre mi ha colpito. Mio padre, nel 1949 – oramai lontano dal calcio professionista – nel Marzo scivolò sulla neve e si ruppe un braccio. Anche se il destino fosse stato diverso, non sarebbe potuto salire su quell’aereo. Ma queste sono solo illazioni, perché il destino è sempre fumoso, a volte beffardo, e sempre difficile da interpretare per noi che ci crediamo lungimiranti, anziché accettarci come ciechi che s’arrabattano in qualche modo a vivere.

Accidenti…’sto pallone è ancora gonfio dopo tanti anni…ma dove ti metto?

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