18 novembre 2014

Il Grande Torino ed io



Il primo ottobre del 1964 era una bellissima giornata pre-autunnale: l’aria era tersa e non c’era una sola nuvola in cielo.


Ero entrato alle Superiori (avevo appena compiuto 13 anni, avendo fatto la cosiddetta “primina” a 5 anni) ma ero tutt’altro che felice: in quella classe non conoscevo nessuno e, meno che mai, trovavo interessante i programmi che, via via, gli insegnanti che s’avvicendavano ci presentavano. Una noia mortale: non c’entravo nulla, sarei dovuto rimanere cinque anni in quel posto per studiare le “meraviglie” della tecnica. Le quali, su di me, suscitavano meno clamore di un gelato al limone.

Guardavo fuori, nell’ampio cortile a ferro di cavallo dove, al centro, sorgeva l’asta della bandiera: l’inizio e la fine delle lezioni non erano ritmati con la solita campanella, bensì con una sirena. Riflettevo che, in quei banchi, era passato anche mio padre ma la cosa non mi riempiva d’orgoglio il cuore. Perché? Poiché non sapevo il motivo che mi aveva condotto ad iscrivermi alla Prima dell’Istituto Tecnico “Q. Sella” di Biella: anzi, ad essere precisi, io non m’ero iscritto a nulla, altri avevano condotto le danze per me.

Ma, per capire l’arcano, dobbiamo precisare che gli attori di questa assurda vicenda erano stati tre: mio padre, mio nonno paterno ed il Grande Torino, inteso come entità singola, quasi avesse personalità psichica.



Ma spicchiamo un salto all’indietro (all’epoca di pochi anni, oggi di un’era) ed atterriamo in una fredda e buia notte del 1944, una notte di freddo e di fame, di guerra e di paura. Alcuni giovani, in un bar, giocano a biliardo: chi sono? Cosa fanno lì?

Improvvisamente, entrano le SS e le canne dei mitra sono più convincenti delle parole, che pochi intendono: è un rastrellamento, una perquisizione e, chi è in età di leva, partirà soldato chi – invece – l’avrà superata, partirà per la Germania. Il treno è già pronto, sul binario morto della stazione, ad un centinaio di metri.

Mio padre è fra quei giovani, ma non ha molta paura: ha solo 18 anni e sarà richiamato solo fra un anno.

La situazione è critica: nessuno osa fiatare, perché le dita sui grilletti sono tese, nervose.

Inizia la presentazione dei documenti: tutta gente troppo vecchia...leve che sono al fronte da tempo...1920, 1922, 1919...com’è possibile una simile situazione? Sembra quasi che, in quel bar, si siano dati appuntamento tutti i renitenti alla leva del circondario! E se fossero partigiani, banditen? I tedeschi adesso sono bruschi, non ascoltano nessuno ed iniziano a schierare la gente contro i muri perimetrali per incolonnarli e portarli al treno.



Arrivano i fascisti e, per una volta, la situazione migliora: il sottufficiale in comando cerca di spiegare al suo collega tedesco l’arcano: sono giocatori di calcio! Di quel campionato che, faticosamente, fascisti e tedeschi cercano affannosamente di tenere in piedi per sviare un poco i pensieri tristi dei bombardamenti, della fame, della penuria d’ogni cosa...

Il tedesco capisce solo qualcosa: per fortuna, fra i tedeschi, c’è il solito altoatesino che traduce e spiega tutto. I mitra si abbassano, compare qualche sorriso...alla fine, i giocatori del Torino riusciranno a portare via con loro parecchia gente che non c’entrava niente: fantomatici giocatori, magazzinieri, massaggiatori, autisti, dirigenti...tutta gente che, uscita dal bar, non finisce di ringraziare...

Mio padre, che era rimasto in un angolo “protetto” dai suoi 18 anni e dalla sua affiliazione al Torino, però, ricorda la triste fila di quelli che s’avviavano verso il treno piombato: non tutti ce l’avevano fatta.

Cos’era il Campionato di Calcio durante la guerra e, soprattutto, durante la Repubblica Sociale?



Il Campionato di calcio 1944/45 non fu mai giocato, anche se negli annali viene riportato: anzitutto, l’Italia terminava a La Spezia e in Romagna. Di là della Linea Gotica c’era il Regno d’Italia, di qua la Repubblica Sociale.

Il Campionato, ovviamente, era monco e terminò con un girone a tre fra Torino, Venezia e Vigili del Fuoco de La Spezia che si disputò a Milano: il Torino sottovalutò i Pompieri, che vinsero. Sempre così quando sottovaluti l’avversario: questi ne fanno due o tre e tu dici “adesso recuperiamo”, ma loro si chiudono in difesa e non sai più dove passare. Inutilmente tardiva la sfuriata granata contro il Venezia.

Più che i risultati, è interessante ricordare le condizioni nelle quali si giocava: la trasferta era sempre a rischio mitragliamento aereo dei treni, spesso i mezzi (autobus, ma spesso autocarri od introvabili auto private) e l’ancor più rarefatta benzina costrinsero più di una volta i giocatori a marce forzate per giungere allo stadio. Alberghi bombardati costringevano a spostarsi in case private ma – si sa – i giocatori preferivano trascorrere la notte nelle case di tolleranza.

Un mondo lontano anni luce dalla nostra modernità del cellulare e dei collegamenti Web, che s’accontentava spesso di pane e salame mangiato al freddo in qualche stazione periferica.

E mio padre?



Fino al 1944 aveva studiato e poi lavorato normalmente ma, durante l’ultimo campionato in periodo bellico, gli trovarono un posto presso la Piaggio (che era sfollata da Pontedera, oramai “americana”) e lì, nei pressi di Biella, costruivano le eliche per i Messerschmitt a “ciclo continuo”. In che senso?

Nel senso che, appena le eliche erano terminate ed attentamente equilibrate, venivano accatastate in magazzino dove una “mano partigiana” faceva cadere la prima, che come un domino trascinava a terra tutte le altre. Addio equilibratura, e si tornava in fonderia: un “ciclo continuo”, appunto.

Cosa faceva mio padre?



Grazie ad accordi col Torino, il 18enne portiere si recava prima delle 22 (c’era il coprifuoco) presso il complesso contraereo (che mai sparò un colpo) della fabbrica: lì, c’era una brandina che lo attendeva e, dopo quattro chiacchiere con gli artiglieri contraerei, se ne andava a letto.

Il giorno dopo (coprifuoco permettendo) riprendeva la via di Biella e, come da precisi accordi, si presentava allo stadio “Lamarmora” – miglior terreno di gioco in Piemonte dopo il “Comunale” di Torino (oggi “Olimpico”), che fu usato anche dalla Nazionale nel dopoguerra – e s’allenava per 8 ore, tempo permettendo.

Lì nacquero amicizie “storiche” come quella con Castigliano (il quale era di Livorno Ferraris, nel vercellese) che sono raccolte nel grande album con la copertina di cuoio nero, che – oggi – il Torino vorrebbe per sistemarle a Grugliasco, nel museo della squadra. Vogliono, però, gli originali ed io faccio fatica a staccarmi da quei rettangolini in bianco e nero, probabilmente fissati da mia madre – che lavorava proprio alla “Biellese Calcio” come segretaria – con la vecchia Zenit a soffietto.

Ci sono pose molto “maschie” – era l’epoca – e fasi d’allenamento: Mazzola che tira un rigore a mio padre, Castigliano che crossa, Loik che centra la porta da lontano…mio padre, spesso, piangeva osservando quelle foto e mi nominava gente a me sconosciuta: quello era il magazziniere, l’altro il massaggiatore…tutta gente scomparsa nella nebbia di Superga od in quella, inesorabile, degli anni.



Termina la guerra e mio padre, spesso, prende il treno per recarsi a Torino: immagino per allenarsi al “Filadelfia”, ma non lo so per certo. Ricordo, invece, che raccontava di un bar – dalle parti di Piazza Statuto – che era diventato il ritrovo della Torino calcistica: era di proprietà di due fratelli che giocavano nella Juventus, e così i giocatori d’entrambe le squadre si trovavano per giocare a biliardo od a carte.

Finalmente, agli albori del 1946, giunge la chiamata e gli viene consegnato il suo primo contratto: credo che mio padre, quel giorno, toccò il cielo con un dito. Terzo portiere del Torino!

Era, però, ancora minorenne: avrebbe compiuto i fatidici 21 anni solo ad Agosto del 1947. E qui avvenne il fatto – o fattaccio – che avrebbe cambiato anche la mia vita: mio nonno rifiutò di firmare.



Capire i motivi di quel rifiuto non è facile: oltretutto, mio padre aveva lasciato l’Istituto Tecnico ad un anno dal diploma che – all’epoca – valeva veramente tanto, più di una laurea d’oggi, ed era spiantato senza mestiere.

Forse, bisognerebbe cercare la ragione nei due caratteri così distanti e diversi: mio nonno aveva frequentato la scuola d’arte ed era un restauratore di valore e successo, tanto che fu chiamato (fra i tanti restauri di pregio) a restaurare la Madonna d’Oropa ed il mobilio dei Borromeo all’Isola Bella, sul lago Maggiore.

Mio padre era un portiere, ma anche un artista del pallone: quando aveva oramai superato la cinquantina, giocammo per scherzo, nel prato sotto casa, io e mio fratello contro di lui, cercando di portargli via il pallone. Ero un discreto libero, mio fratello un attaccante tesserato (non ricordo dove), eppure non ci fece vedere il pallone, non riuscimmo a toccarlo: notare che fu una delle pochissime occasioni nelle quali mio padre giocò con noi. Non lo fece mai, come se quel mondo di ricordi fosse solo suo, e troppo doloroso da evocare.

Due artisti, uno delle antichità che amava oppure disprezzava (“L’Impero è da bruciare”, affermava, riferendosi, per contrappasso, ai “Tre Luigi” francesi) l’altro della magia delle traiettorie, dell’ipnosi da usare con l’attaccante che s’avvicina, con gli occhi e con il corpo. Era e fu troppo.



Per uno scherzo del destino (ce ne saranno parecchi in questa vicenda) mio padre (oramai lontano dal calcio ed appena sposato) nella Primavera del 1949 si ruppe un braccio scivolando su una scala ghiacciata: nel giorno della tragedia di Superga aveva il braccio ingessato. Chissà quanto pianse accanto alla radio.

Per tutta la vita il rapporto fra mio nonno e mio padre fu d’aggressione reciproca: non c’era frase che mio nonno – un vero “Junker” – non terminasse con una nota acida, qualsiasi cosa lui facesse o riferisse e non c’era occasione che mio padre non rintuzzasse con altrettanto veleno. Addirittura, nel 1982, andai con mia figlia a trovare i nonni nella casa di campagna, ma mio padre non volle entrare ed aspettò nel prato. Ogni tanto le cose giravano verso il bel tempo ma, puntualmente, una burrasca li separava nuovamente. Una maledizione.

Grazie ai rovesci finanziari di mio padre (ed ai numerosi tradimenti, che intristirono mia madre), io e mio fratello vivemmo come pacchi postali: vissi molto con i nonni paterni, che mi fecero percorrere la medesima strada di mio padre, ossia le migliori scuole private, ma la mia vita era triste per quei continui dissidi fra i due.

Giunse la terza media e superai con ottimi voti gli esami finali: 9 d’Italiano, di Francese e di Latino e solo 7 in Matematica, che narravano di una predilezione per gli studi classici. E invece.



Mio padre si ricordò improvvisamente dei suoi diritti paterni – a suo dire calpestati: in realtà, mentre lui s’arrovellava in vicende imprenditoriali senza senso, qualcun altro ci doveva pur pensare – e così impose l’Istituto Tecnico, con la solita scusa del “una maturità liceale non dà nulla…” e via di seguito. Guarda a caso, però, era la stessa scuola (anche fisicamente, addirittura ebbi alcuni insegnanti in comune) che lui aveva interrotto negli anni della guerra correndo dietro al suo sogno: cosa cercava in quella imposizione, mentre mio nonno garantiva libertà di scelta?



Da un lato si potrebbe interpretarla come una resa – “mio figlio sarà più assennato di quanto non lo fui io” – ma, dall’altra, c’era quel contratto mai firmato: il pezzo di carta che gli avrebbe aperto le porte del quel mondo, del suo mondo. Sapeva benissimo che avevo una mezza idea di studiare Medicina e, agli occhi di mio nonno, temeva forse che divenissi il “fratello minore” bravo, al confronto dei suoi fallimenti?

Bisogna però riconoscere che i suoi fallimenti avvennero perché agiva in un mondo che non era il suo, del quale era stato privato. Oltretutto, dopo una certa età, mio padre fece una buona carriera in un’azienda locale. E mio nonno? Forse voleva impadronirsi del “figlio buono”, dopo le delusioni che il suo unico figlio gli aveva procurato?



C’è ancora un beffardo sberleffo del destino in questa saga, e ancora una volta porta alla via per Superga che avrebbe incrociato la mia, in quella maledizione fra la strada tortuosa ed i binari della funicolare.

Iniziai l’università nell’Autunno del 1969: Chimica, ovviamente, me ne potesse fregar di meno.

Riconosco, però, agli studi chimici un pregio: forniscono una sorta di relativismo scientifico che, per chi non è digiuno di studi filosofici, procurano un viatico ed un punto d’osservazione disincantato, pronto a recepire i mutamenti come la normalità, non l’eccezione. Il “panta rei” del chimico è ben diverso da quello del fisico o del matematico, che anelano sempre a modelli assoluti per tratteggiare la realtà (si pensi al gas ideale), come se quella realtà fosse un porto sicuro, al riparo dai marosi del relativismo. Argomento interessante, ma torniamo alla nostra storia.



All’epoca, gli studenti provenienti dagli Istituti Tecnici potevano iscriversi solo alla Facoltà di Scienze (Matematica, Fisica, Chimica, Geologia, Scienze Naturali) ed al Politecnico: verso Novembre, ci fu la riforma con la completa liberalizzazione. Un mio ex compagno di scuola emigrò subito a Medicina (oggi è medico) e così meditai di fare anch’io.

Giunsi alla stazione colmo di speranza, ma mi attendeva la doccia fredda: mio padre non volle sentir ragioni “E’ troppo lunga”. Un anno in più di Chimica? Mi sovvenne che giocò ancora una volta la parte di suo padre, che gli negò il Torino.

La mia carriera universitaria terminò nelle secche di una Facoltà di Biologia: capii che i desideri non possono essere edulcorati, né che si possono scambiare i muli per i cavalli.



Oggi sono qui, nell’antica casa di campagna, nel proscenio di quel teatro che vide tutte queste rappresentazioni – fra il tragico ed il grottesco – andare in scena: mi circondano gli stessi quadri e le medesime statue che osservarono questa famiglia per mezzo secolo. Taciturne, silenti con i loro ricordi: solo le pendole rompono il silenzio assoluto che regna, come per non disturbare troppo i fantasmi che la abitano e che diedero, a suo tempo, il meglio di loro stessi per tenere il passo con la saga.



Esco sulla terrazza e mi sovviene Leopardi “E tu, silenziosa luna…” Già, la “silenziosa luna” che sembra osservare dall’alto tutti i nostri destini, il nostro incedere, lo svolgersi incessante del karma che ci avvolge e ci tenta, c’illude o pare ingannarci. Nel samsara del non senso.



PS: sono completamente isolato, le due caselle postali che normalmente uso sono out, forse un attacco informatico, forse altro. Mi restano quelle commerciali, ma voi non le conoscete. Cambierò la casella di posta nel mio profilo Google, così almeno chi vorrà scrivermi potrà farlo.

2 commenti:

massimiliano p ha detto...

Gustoso racconto che mi ha deliziato dall'inizio alla fine.
È sempre un piacere passare per il tuo blog.
Ciao
Massi

Eli ha detto...


Ah, memorie de tempo che fu!

Da far scivolare dolcemente, senza rimpianto alcuno per l'occupazione nazista, la terribile fascio-dittatura, l'autoritarismo paterno.

Eppure quegli anni conobbero il capitalismo dal volto umano di Adriano Olivetti, mica la scellerata spoliazione dell'imprenditoria familistica di adesso, fatta di mediocri assatanati di profitti ma scevri di ogni umanità. A forza d'indossare cappucci, non riescono più a vedere il mondo circostante.

Il tessuto della nostra vita ha conosciuto i tempi belli del '68, quando le parole d'ordine erano "Fate l'amore, non fate la guerra", "Mettete dei fiori nei vostri cannoni". E non è stato facile essere a cavallo di due mondi confliggenti.

Oggi gli slogan sono "Meno stato e più mercato", "Non esiste più il posto fisso", "Globalizzazione, competizione, deregulation", "L'imprenditore non è più il Padrone" "Riforme adesso". Intendendo come riforme il ritorno alla servitù della gleba.
I massacratori sociali li ripetono come mantra, condizionando le menti, ed i buoi e le pecore abboccano mentre si avviano al macello.
Infatti, guarda come siamo ridotti.

Ciao.
Eli