Se proprio dovessimo confessare il sentimento che abbiamo provato leggendo l’accusa, esplicita, lanciata a Parigi dal premier turco Erdogan ad Israele – il genocidio di Gaza – potremmo definirlo meraviglia, ma non stupore.
In altre parole, non c’attendevamo una così esplicita veemenza, ma la sostanza c’era già chiara.
Cos’ha detto, Erdogan?
“Israele rappresenta oggi la principale minaccia per la pace regionale…Se un paese fa un uso della forza sproporzionato, in Palestina, a Gaza, utilizza bombe al fosforo, non gli diremo “bravo”. Gli chiediamo come possa agire in questo modo…Goldstone è ebreo e il suo rapporto è chiaro…non c’è dichiarazione alla quale gli israeliani non reagiscano, non si rimettono mai in discussione, non c’è un giorno in cui non ritengano di aver ragione.[1]”
Ma ce n’è anche per i sostenitori di sanzioni od interventi militari nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare:
“finora l’AIEA ha parlato di probabilità e non di certezze.”
La dura presa di posizione turca dovrebbe essere soppesata con attenzione sia ad Ovest, sia ad Est: perché?
Poiché, soprattutto dopo “l’era Bush” – ossia dopo i fallimenti della politica USA nello scacchiere del Vicino e Medio Oriente – c’è un grave deficit politico nel mondo musulmano e qualcuno sarà chiamato, presto o tardi, ad assumersi le responsabilità che oggi sono delle fallimentari amministrazioni occidentali o dei loro Quisling.
La situazione “sul campo” è sempre grave, anche se i media occidentali hanno iniziato a “spegnere le telecamere” sull’Afghanistan ma, soprattutto, sull’Iraq: si riportano notizie d’elezioni politiche, ma s’omette di raccontare quante vite continua a stroncare la guerriglia, civili iracheni e militari USA.
Ciò che manca in Europa e negli USA è veramente una “exit strategy”, ossia quella che potrà essere, in definitiva, un andarsene almeno con “l’onore delle armi”. Nemmeno questo è possibile pianificare.
Se l’Afghanistan è tuttora territorio di guerra, quello che vogliono far credere è che l’Iraq sia diventato in qualche modo “normale”: come si può definire “normale” un Paese dove il tempo è ritmato dagli scoppi delle autobombe?
Se le armi occidentali hanno completamente fallito (ammettendo di credere, come allocchi, che questa fosse la loro missione) nell’esportazione della democrazia, oggi non sanno nemmeno come riportare, almeno, la situazione ad un livello “accettabile” per andarsene.
Per capire quanto sia costante, nel tempo, questo fallimento, ci viene in aiuto un giornalista sui generis, sul quale non possiamo assolutamente nutrire dubbi d’incompetenza o di superficialità nel valutare quei luoghi, quelle guerre e quegli scenari: Thomas Edward Lawrence.
Ecco cosa scriveva in una corrispondenza per il Sunday Times, il 2 Agosto del 1920, sull’Iraq:
“Il popolo britannico è stato condotto in Mesopotamia in una trappola, dalla quale sarà difficile uscire con dignità ed onore. Sono stati ingannati mediante la costante mistificazione dell’informazione.
Il nostro governo è più carente del vecchio sistema turco. I turchi presidiarono il Paese con 14.000 militari di leva (locali compresi) ed uccisero una media annuale di duecento Arabi per mantenere la pace. Noi, dispieghiamo 90.000 uomini, con aeroplani, autoblindo, battelli armati e treni corazzati. Abbiamo ucciso circa 10.000 Arabi solo durante la recente Estate.”[2]
Le parole di Lawrence potrebbero, con differenze di dettaglio, essere pubblicate con la data odierna. E qui entra in gioco Erdogan.
Apparentemente, le dichiarazioni di Erdogan possono essere interpretate come un attacco ad Israele: in realtà, sono il necessario distacco da posizioni filo-israeliane, quel tanto che basta per accreditare nuovamente la Turchia come un interlocutore attendibile nel mondo arabo e musulmano.
Se non bastano le parole di Lawrence per convincerci dell’inadeguatezza, dell’inconsistenza politica dell’Occidente in quelle aree – dall’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916, la dichiarazione di Balfour per aggraziarsi il barone Rothschild (che finanziava lo sforzo bellico britannico), passando per il trattato di Sèvres del 1920 e terminando con le farsesche elezioni irachene ed afgane di questi anni – bisognerà comprendere che nel mondo arabo e musulmano di serie proposte politiche se ne scorgono poche. Anzitutto, per la pochezza degli attori.
L’Arabia Saudita è certamente il regno del denaro e dei petroldollari, ma è anche la nazione che vive – diremmo “istituzionalmente” – un grave deficit di democrazia, intesa come completa assenza di dialogo interno, di dibattito politico: tutto è deciso, pianificato e controllato dalla reggia di Ryad.
Potrebbe essere altrimenti? Il regno saudita è poco popoloso, composto prevalentemente da deserto e con un’economia completamente succube del petrolio: mancano principalmente gli “attori” del vivere sociale. La stessa cosa vale, in dimensioni ridotte, per gli Stati del Golfo.
Anche la Giordania è troppo piccola per essere veramente attrice nello scenario medio-orientale, nonostante gli sforzi di una dinastia mai doma nell’accettare tali angustie.
L’Egitto, da sempre, è nazione-guida per il mondo arabo: l’Istituto di Al-Azhar è probabilmente il maggior centro del pensiero musulmano, il passato ha visto sulla scena egiziana personaggi del calibro di Nasser. E’ il presente il problema.
L’Egitto è “congelato” da troppi anni in una sorta di “mubarakesimo” che ne ha devitalizzato le energie prorompenti. Il “regno” di Hosni Mubarak assomiglia sempre di più a quello ricordato in Russia come l’epoca di “nonno Breznev”: una società bloccata nelle sue dinamiche, sottoposta ad un’asfittica censura di polizia, laddove le energie vitali sembrano perdersi come acqua negli uadi.
Cosa rimane? Il minuscolo e frammentato Libano? La sfinge libica?
La Siria è la nazione che ha mantenuto più d’ogni altra, dopo il crollo dell’URSS, l’antica impostazione nasseriana del socialismo reale, mentre la disputa con Israele per la restituzione delle alture del Golan non ha mai trovato soluzione.
D’altro canto, la Siria non ha certo le potenzialità economiche dei due vicini: all’Est, l’Iran degli ayatollah, ad Ovest la Turchia, l’erede dell’Impero Ottomano.
E, se vogliamo tornare un poco indietro nei secoli, queste sono le due realtà che hanno impregnato il mondo musulmano, più dei califfati di Baghdad – senz’altro più ricchi di cultura, che proveniva, però, in gran parte dall’Est – ma privi di quel pragmatismo che ha consentito ai due Paesi di valicare secoli di storia senza mai essere schiacciati da un colonialismo di nome e di fatto.
Cosa sta accadendo, oggi?
L’Iran sta procedendo a marce forzate verso l’industrializzazione e la modernità, con un tentativo unico nel suo genere d’interpretare l’Islam senza violentarlo ma senza, sull’altro versante, farsi imbrigliare come i Paesi del Golfo.
Se, però, guardiamo più alla Storia Moderna, solo la Turchia possiede un “know-how” imperiale nel mondo musulmano: l’Impero Ottomano, caduto meno di un secolo fa, è uno dei grandi “animali addormentati” della Storia, che poco è valutato e che tanto, ancora oggi, determina negli eventi.
Basti riflettere che la Bosnia è ancora oggi una “piccola Turchia”, che Paesi come l’Albania nacquero proprio dal collasso del grande impero morente, colpito dalle armi europee ovunque perché vastissimo, dal Bosforo all’Iraq, dalla Libia al deserto arabico. Proprio i luoghi dove oggi manca qualsiasi proposta politica convincente, il vuoto pneumatico della proposta.
Qualche commentatore un po’ superficiale ha giustificato la veemente “uscita” di Erdogan con la questione armena, “elevata” dal Congresso USA a livello di genocidio. Fra un po’ sarà un secolo che si parla del genocidio armeno, eppure la Turchia non aveva mai meditato di rompere l’alleanza con Israele – e, di fatto, d’incrinare quelle con gli USA e con l’Unione Europea, giungendo a mandare all’aria un’importante esercitazione NATO – soltanto per la vicenda armena.
E’ ovvio che un simile approccio non favorirà l’integrazione della Turchia in Europa: allora, perché? Questioni interne?
Se così fosse, Erdogan si sarebbe limitato ad infiammare qualche piazza fra il Bosforo ed Erzurum, come aveva già fatto in passato: lanciare da Parigi – prima di un colloquio con Sarkozy – una simile freccia, significa non temere le conseguenze internazionali. Anzi, quasi cercarle.
Se s’osserva con più attenzione la Geografia di quei luoghi, si noterà che la lunghissima frontiera turca dell’Est corre dalla Siria all’Iran per centinaia di chilometri. Comunità turche sono stanziate nel nord dell’Iraq (a Kirkuk, ad esempio) fino in Cina, lungo l’antica Via della Seta.
E’ senz’altro presto per definire quali potranno essere gli sviluppi nell’area, ma di certo la forza NATO in Afghanistan è sulla via del logoramento: locale, causato dalla guerriglia e dall’instabilità del governo Karzai, e generale, dovuto alla sempre maggior scarsità di mezzi economici degli USA e dell’Europa. Come riecheggiano le parole di Lawrence!
La frattura ad Occidente sarà compensata – ci sono già stati ampi segnali in merito – con un rinsaldarsi dei legami con la Siria e con l’Iran, ma questo è ancora poco per giustificare il passo di Erdogan.
La Turchia si sta proponendo per il “dopo” NATO ed USA in Afghanistan ed in Iraq, quando quei Paesi saranno abbandonati a loro stessi. La partita vede già in campo l’Iran – il 60% della popolazione irachena è sciita, e lo stesso Bush padre evitò di salire fino a Baghdad, nel 1991, per non “regalare l’Iraq all’Iran” (e contestò la successiva scelta del figlio) – mentre, ad Est, un sempre più claudicante Pakistan non riesce a garantire più nulla, nemmeno il controllo interno del territorio.
L’attacco di Erdogan ad Israele – più che una presa di posizione nei confronti di Tel Aviv – significa una presa di distanza necessaria, quasi una “credenziale” da “spendere” – domani – in una futura strategia pan-islamica nella regione. Dove, per ora, l’unica alternativa per le Nazioni che politicamente contano – ossia Turchia, Siria ed Iran – è l’alleanza.
La porta che si sta schiudendo ad Est – la lunga via che conduce fino alle “locomotive” cinese ed indiana – sembra oggi più allettante dell’asfittica Unione Europea, degli USA con le pezze al sedere, dell’orgoglio israeliano che sconta un isolamento oramai totale nell’area: c’è da chiedersi cosa succederà in Egitto con il “dopo Mubarak”.
In altre parole, non c’attendevamo una così esplicita veemenza, ma la sostanza c’era già chiara.
Cos’ha detto, Erdogan?
“Israele rappresenta oggi la principale minaccia per la pace regionale…Se un paese fa un uso della forza sproporzionato, in Palestina, a Gaza, utilizza bombe al fosforo, non gli diremo “bravo”. Gli chiediamo come possa agire in questo modo…Goldstone è ebreo e il suo rapporto è chiaro…non c’è dichiarazione alla quale gli israeliani non reagiscano, non si rimettono mai in discussione, non c’è un giorno in cui non ritengano di aver ragione.[1]”
Ma ce n’è anche per i sostenitori di sanzioni od interventi militari nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare:
“finora l’AIEA ha parlato di probabilità e non di certezze.”
La dura presa di posizione turca dovrebbe essere soppesata con attenzione sia ad Ovest, sia ad Est: perché?
Poiché, soprattutto dopo “l’era Bush” – ossia dopo i fallimenti della politica USA nello scacchiere del Vicino e Medio Oriente – c’è un grave deficit politico nel mondo musulmano e qualcuno sarà chiamato, presto o tardi, ad assumersi le responsabilità che oggi sono delle fallimentari amministrazioni occidentali o dei loro Quisling.
La situazione “sul campo” è sempre grave, anche se i media occidentali hanno iniziato a “spegnere le telecamere” sull’Afghanistan ma, soprattutto, sull’Iraq: si riportano notizie d’elezioni politiche, ma s’omette di raccontare quante vite continua a stroncare la guerriglia, civili iracheni e militari USA.
Ciò che manca in Europa e negli USA è veramente una “exit strategy”, ossia quella che potrà essere, in definitiva, un andarsene almeno con “l’onore delle armi”. Nemmeno questo è possibile pianificare.
Se l’Afghanistan è tuttora territorio di guerra, quello che vogliono far credere è che l’Iraq sia diventato in qualche modo “normale”: come si può definire “normale” un Paese dove il tempo è ritmato dagli scoppi delle autobombe?
Se le armi occidentali hanno completamente fallito (ammettendo di credere, come allocchi, che questa fosse la loro missione) nell’esportazione della democrazia, oggi non sanno nemmeno come riportare, almeno, la situazione ad un livello “accettabile” per andarsene.
Per capire quanto sia costante, nel tempo, questo fallimento, ci viene in aiuto un giornalista sui generis, sul quale non possiamo assolutamente nutrire dubbi d’incompetenza o di superficialità nel valutare quei luoghi, quelle guerre e quegli scenari: Thomas Edward Lawrence.
Ecco cosa scriveva in una corrispondenza per il Sunday Times, il 2 Agosto del 1920, sull’Iraq:
“Il popolo britannico è stato condotto in Mesopotamia in una trappola, dalla quale sarà difficile uscire con dignità ed onore. Sono stati ingannati mediante la costante mistificazione dell’informazione.
Il nostro governo è più carente del vecchio sistema turco. I turchi presidiarono il Paese con 14.000 militari di leva (locali compresi) ed uccisero una media annuale di duecento Arabi per mantenere la pace. Noi, dispieghiamo 90.000 uomini, con aeroplani, autoblindo, battelli armati e treni corazzati. Abbiamo ucciso circa 10.000 Arabi solo durante la recente Estate.”[2]
Le parole di Lawrence potrebbero, con differenze di dettaglio, essere pubblicate con la data odierna. E qui entra in gioco Erdogan.
Apparentemente, le dichiarazioni di Erdogan possono essere interpretate come un attacco ad Israele: in realtà, sono il necessario distacco da posizioni filo-israeliane, quel tanto che basta per accreditare nuovamente la Turchia come un interlocutore attendibile nel mondo arabo e musulmano.
Se non bastano le parole di Lawrence per convincerci dell’inadeguatezza, dell’inconsistenza politica dell’Occidente in quelle aree – dall’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916, la dichiarazione di Balfour per aggraziarsi il barone Rothschild (che finanziava lo sforzo bellico britannico), passando per il trattato di Sèvres del 1920 e terminando con le farsesche elezioni irachene ed afgane di questi anni – bisognerà comprendere che nel mondo arabo e musulmano di serie proposte politiche se ne scorgono poche. Anzitutto, per la pochezza degli attori.
L’Arabia Saudita è certamente il regno del denaro e dei petroldollari, ma è anche la nazione che vive – diremmo “istituzionalmente” – un grave deficit di democrazia, intesa come completa assenza di dialogo interno, di dibattito politico: tutto è deciso, pianificato e controllato dalla reggia di Ryad.
Potrebbe essere altrimenti? Il regno saudita è poco popoloso, composto prevalentemente da deserto e con un’economia completamente succube del petrolio: mancano principalmente gli “attori” del vivere sociale. La stessa cosa vale, in dimensioni ridotte, per gli Stati del Golfo.
Anche la Giordania è troppo piccola per essere veramente attrice nello scenario medio-orientale, nonostante gli sforzi di una dinastia mai doma nell’accettare tali angustie.
L’Egitto, da sempre, è nazione-guida per il mondo arabo: l’Istituto di Al-Azhar è probabilmente il maggior centro del pensiero musulmano, il passato ha visto sulla scena egiziana personaggi del calibro di Nasser. E’ il presente il problema.
L’Egitto è “congelato” da troppi anni in una sorta di “mubarakesimo” che ne ha devitalizzato le energie prorompenti. Il “regno” di Hosni Mubarak assomiglia sempre di più a quello ricordato in Russia come l’epoca di “nonno Breznev”: una società bloccata nelle sue dinamiche, sottoposta ad un’asfittica censura di polizia, laddove le energie vitali sembrano perdersi come acqua negli uadi.
Cosa rimane? Il minuscolo e frammentato Libano? La sfinge libica?
La Siria è la nazione che ha mantenuto più d’ogni altra, dopo il crollo dell’URSS, l’antica impostazione nasseriana del socialismo reale, mentre la disputa con Israele per la restituzione delle alture del Golan non ha mai trovato soluzione.
D’altro canto, la Siria non ha certo le potenzialità economiche dei due vicini: all’Est, l’Iran degli ayatollah, ad Ovest la Turchia, l’erede dell’Impero Ottomano.
E, se vogliamo tornare un poco indietro nei secoli, queste sono le due realtà che hanno impregnato il mondo musulmano, più dei califfati di Baghdad – senz’altro più ricchi di cultura, che proveniva, però, in gran parte dall’Est – ma privi di quel pragmatismo che ha consentito ai due Paesi di valicare secoli di storia senza mai essere schiacciati da un colonialismo di nome e di fatto.
Cosa sta accadendo, oggi?
L’Iran sta procedendo a marce forzate verso l’industrializzazione e la modernità, con un tentativo unico nel suo genere d’interpretare l’Islam senza violentarlo ma senza, sull’altro versante, farsi imbrigliare come i Paesi del Golfo.
Se, però, guardiamo più alla Storia Moderna, solo la Turchia possiede un “know-how” imperiale nel mondo musulmano: l’Impero Ottomano, caduto meno di un secolo fa, è uno dei grandi “animali addormentati” della Storia, che poco è valutato e che tanto, ancora oggi, determina negli eventi.
Basti riflettere che la Bosnia è ancora oggi una “piccola Turchia”, che Paesi come l’Albania nacquero proprio dal collasso del grande impero morente, colpito dalle armi europee ovunque perché vastissimo, dal Bosforo all’Iraq, dalla Libia al deserto arabico. Proprio i luoghi dove oggi manca qualsiasi proposta politica convincente, il vuoto pneumatico della proposta.
Qualche commentatore un po’ superficiale ha giustificato la veemente “uscita” di Erdogan con la questione armena, “elevata” dal Congresso USA a livello di genocidio. Fra un po’ sarà un secolo che si parla del genocidio armeno, eppure la Turchia non aveva mai meditato di rompere l’alleanza con Israele – e, di fatto, d’incrinare quelle con gli USA e con l’Unione Europea, giungendo a mandare all’aria un’importante esercitazione NATO – soltanto per la vicenda armena.
E’ ovvio che un simile approccio non favorirà l’integrazione della Turchia in Europa: allora, perché? Questioni interne?
Se così fosse, Erdogan si sarebbe limitato ad infiammare qualche piazza fra il Bosforo ed Erzurum, come aveva già fatto in passato: lanciare da Parigi – prima di un colloquio con Sarkozy – una simile freccia, significa non temere le conseguenze internazionali. Anzi, quasi cercarle.
Se s’osserva con più attenzione la Geografia di quei luoghi, si noterà che la lunghissima frontiera turca dell’Est corre dalla Siria all’Iran per centinaia di chilometri. Comunità turche sono stanziate nel nord dell’Iraq (a Kirkuk, ad esempio) fino in Cina, lungo l’antica Via della Seta.
E’ senz’altro presto per definire quali potranno essere gli sviluppi nell’area, ma di certo la forza NATO in Afghanistan è sulla via del logoramento: locale, causato dalla guerriglia e dall’instabilità del governo Karzai, e generale, dovuto alla sempre maggior scarsità di mezzi economici degli USA e dell’Europa. Come riecheggiano le parole di Lawrence!
La frattura ad Occidente sarà compensata – ci sono già stati ampi segnali in merito – con un rinsaldarsi dei legami con la Siria e con l’Iran, ma questo è ancora poco per giustificare il passo di Erdogan.
La Turchia si sta proponendo per il “dopo” NATO ed USA in Afghanistan ed in Iraq, quando quei Paesi saranno abbandonati a loro stessi. La partita vede già in campo l’Iran – il 60% della popolazione irachena è sciita, e lo stesso Bush padre evitò di salire fino a Baghdad, nel 1991, per non “regalare l’Iraq all’Iran” (e contestò la successiva scelta del figlio) – mentre, ad Est, un sempre più claudicante Pakistan non riesce a garantire più nulla, nemmeno il controllo interno del territorio.
L’attacco di Erdogan ad Israele – più che una presa di posizione nei confronti di Tel Aviv – significa una presa di distanza necessaria, quasi una “credenziale” da “spendere” – domani – in una futura strategia pan-islamica nella regione. Dove, per ora, l’unica alternativa per le Nazioni che politicamente contano – ossia Turchia, Siria ed Iran – è l’alleanza.
La porta che si sta schiudendo ad Est – la lunga via che conduce fino alle “locomotive” cinese ed indiana – sembra oggi più allettante dell’asfittica Unione Europea, degli USA con le pezze al sedere, dell’orgoglio israeliano che sconta un isolamento oramai totale nell’area: c’è da chiedersi cosa succederà in Egitto con il “dopo Mubarak”.
Non fraintendiamo: non sarà certo una Sublime Porta ma, quelle centinaia di miglia di monti e deserti ad Est di Erzurum, sono per Ankara – oggi – più importanti della Padania e della Ruhr. Al punto di schiaffeggiare pubblicamente Israele.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
9 commenti:
La Turchia rialza la testa e non teme ritorsioni è un paese di gente seria. Ricordo che durante la guerra in Iraq nel 2003 il parlamento turco votò una risoluzione contro il passaggio delle truppe americane dal proprio territorio per attaccare l'IRAQ e il governo di allora, molto più filo-americano dell'odierno, si adeguò. Ve lo immaginate se fosse stata l'Italietta di Berlusconi ad essere al posto della Turchia, il parlamento non l'avrebbero neanche preso in considerazione e il governo avrebbe steso tappeti rossi al passaggio delle truppe USA. Ops ma è già successa in Italia una cosa del genere nel 1999 con la guerra in Serbia, dove per soprammercato noi stessi bombardavamo la Telecom Serbia che possedevamo al 40% e comandava il csx.
Ciao
Carlo
p.s.
Ti invidio due cose:
1) Stai per andare in pensione e lascerai una scuola ormai pienamente fascistizzata con la discrezionalità dei presidi per la progressione di carriera come al tempo del fascio
2) Ti trasferirai in Francia dove ancora esiste una democrazia. Invece come ha detto Giorgio Bocca in Italia i rimbecilliti italiani vogliono il regime autoritario
Se per quello, rademmo al suolo anche la FIAT-Zastava (l'Avvocato s'incacchiò mica poco), ma D'Alemoni ha oggi una barca da 800.000 euro. Mica ha mai raschiato, a mano, la vernice come faccio io sulla Gretel.
Eh, l'ho sempre detto che nella vita ho sbagliato tutto...sarebbe bastato qualche inchino in più...
Ciao
Carlo
PS: detto fra noi, però, non cambierei mai le linee di carena della Gretel con quelle della panzershiff del Massimone. La sua Bismarck si prenderà pure un paio di nodi in più e 5 gradi sulla bolina, ma provare per credere cosa significa navigare per 12 ore su un bordo lungo con la falchetta bagnata dalle onde. Gretel è una brava ragazza: queste cose non le farà mai. Basta, Carlo, sono le 8.35 e la carta a vetro aspetta solo te.
Bellissimo articolo. La Turchia ha finalmente lanciato un segnale chiaro tanto a Israele quanto a Stati Uniti e, sopattutto, all'Europa. L'Unione Europea, interamente frammentaria al proprio interno, sta vivendo una drammatica crisi politica, che hai accuratamente descritto nel tuo ottimo saggio "Europa svegliati". Speriamo che si risvegli davvero. Cari saluti.
Le vere origini dell’avvicinamento tra la Turchia ed il mondo arabo e musulmano, nella storia contemporanea, sono da trovarsi non nel Partito per la Giustizia e lo Sviluppo guidato da Recep Erdogan, ma nella diplomazia lanciata dal maestro di quest’ultimo, Necemttin Erbakan, il quale, però, dovette dimettesri nel 1997 su pressioni dell’istituzione militare, protettrice delle radici laiche del paese. I militari allora non sopportavano l’idea che la Turchia si aprisse all’oriente.
Quel che ha detto Erdogan a Parigi, in realtà, non ha sorpreso tutti (Ricordiamo bene le sue parole dell’anno scorso (29 gennaio 2009) a Davos (Svizzera) che accusavano il presidente israeliano Shimon Peres di non aver fatto abbastanza per evitare tantissime vittime civili a Gaza). La cosa raccapricciante, invece, rimane la “risposta” del ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, il quale ha paragonato Erdogan al leader libico Gheddafi ed a Hugo Chavez. Anche il primo ministro, Netenyahu, ha condannato il discorso parigino di Erdogan.
Qua non resisto alla tentazione di raccontare una vecchia storiella russa. Nella Russia zarista, in occasione della Grande Guerra, un soldato ebreo deve recarsi al fronte. Salutanodolo, la madre si raccomanda a lui: “figliolo, dopo che hai ucciso un turco riposati, e poi dopo che ne hai ucciso un altro, riposati!”. Allora lui le risponde: “madre, potrebbe essere anche che loro uccidano me”. E lei a lui: “Ma cosa dici? Perché dovrebbero? Tu sei un ebreo, un buon ebreo”. Il vero problema con lo Stato di Sion è da trovarsi nel “punto di vista”. Una volta risolto, Israele potrebbe essere considerato un Paese normale come gli altri.
Per quanto riguarda i Paesi arabi ed il modello che questi possono seguire (Turchia o Iran), ci vorrebbe forse un altro commento. Grazie Carlo per l’articolo e Ciao a tutti! Mahmoud, Giordania.
Leggermente off topic
Vedete cosa vuol dire avere un genio della lampada sordo..
Avevo detto dell'ITALIA non della POLONIA porc...
Arrivo adesso dai miei campi di lavoro: grazie Giacomo per il tuo apprezzamento, però sono pessimista, non credo che l'Europa del Trattato di Lisbona potrà mai diventare qualcosa di diverso da una burocrazia autoritaria. In fin dei conti, il dubbio che ponevo al termine di "Europa svegliati!" s'è risolto piuttosto male.
Trepidavo per il tuo commento Mamhoud, perché - come usa dire - "tocchi con mano".
Ho evitato di trattare il passato perché, come ben sai, andarsi ad impegolare con gli equilibri istituzionali turchi è peggio che districare il nodo di Gordio.
Mi farebbe molto piacere se tu commentassi più approfonditamente il problema, soprattutto portando - se le hai - notizie e punti di vista dalla Giordania. Prenditi pure lo spazio che vuoi.
Acc, Mozart: non ci capivo una mazza del tuo commento...poi ho aperto Repubblica...
Ma voi, ci credete che un presidente caschi giù come vaso dei fiori da un balcone? Ancora ricordo il presidente macedone che cadde mentre stava per atterrare a Mostar, poi saltarono fuori storie strane...mah, 'sto complottismo, a volte c'azzecca, altre...
Ciao a tutti
Carlo
“Il rapporto tra Turchia e Israele è simile a quello tra un uomo e la sua amante: ci tiene tanto, purché sia segreto”. (David Ben Gurion)
Prima di entrare nel vivo della questione sul “dove va” la Turchia, sarebbe meglio, secondo me, cominciare col “dove sta”. La prima problematica da prendere in considerazione, quindi, è quella di collocare geopoliticamente il paese in questione, tenendo presente la geografia fisica, quella culturale e l’azione politica. Nel caso turco, tale compito è tutt’altro che facile. L’impero ottomano, nel periodo di massimo splendore, parlava il turco ma scriveva in caratteri arabi ed abbracciava tre continenti. Si stendeva dal sud dell’Ungheria a Gerusalemme, fino ad Aden, al Cairo e alla frontiera est dell’Algeria. Nel 1908, i Giovani Turchi marciarono col loro esercito contro Istanbul col fine di trasformare l’impero, arretrato economicamente, in una moderna monarchia. Nel 1924 fu proclamata la Repubblica Turca, di cui Mustafa Kamal Pascià (detto Ataturk) fu il primo presidente. Cosa fece Ataturk? Come prima cosa prese il più possibile le distanze dal mondo islamico, abolendo il califfato, laicizzando lo stato, adottando l’alfabeto latino, il calendario gregoriano e attuando riforme di stampo occidentale. Ataturk sogna una Turchia occidentale, ma lo stato da lui modellato dà vita ad un sistema politico autoritario, imponendo il partito unico, negando la libertà di espressione e perseguitando le minoranze curda e greca.
La Turchia è ancora orientale.
Nel periodo del dopoguerra, una serie di avvenimenti avvicinano relativamente la Turchia alla sfera ovest del pianeta, tra cui la cosiddetta dottrina Truman, 1947 (che interessò, però, anche paesi occidentali come Francia e Italia), l’apertura al multipartitismo eseguita dal successore di Ataturk, Ismet Inonu, e soprattutto l’adesione alla NATO nel 1952. Ma tutto ciò, come ci ricorda lo storico turco Arif Dirlik, non bastò perché Ankara si considerasse più europea e meno asiatica.
Inoltre, lo scenario economico politico del periodo della guerra fredda, visto da Mao Zedong, comprendeva la cosiddetta “Three Worlds Theory”. Dove mettiamo la Turchia, stando alla divisione di Mao? Primo mondo? Negli anni cinquanta, la Turchia non era né superpotenza né fortemente industrializzata. Secondo mondo? Tanti paesi a est e a nord, lei no! Terzo mondo? No. Non era inoltre uno dei paesi non allineati. La poca stabilità politica negli anni ‘60, il problema cipriota del ’74, colpi di stato (’60, ’71, ‘81) eseguiti dall’istituzione militare, custode dei principi di laicità ed accidentalità, la questione curda: tutto ciò ha fatto della Turchia uno dei Paesi più “dinamici” del mondo. Adesso che questo Paese ha raggiunto, proprio grazie alla sua dinamicità, una certa stabilità politica è in grado di guardarsi attorno e decidere quale strada intraprendere, quella verso est o l’altra verso ovest.
Turchia e mondo arabo
Il rapporto con i Paesi arabi è molto complesso ed è caratterizzato per lo più da un reciproco antagonismo. Il motivo è ovviamente storico: gli arabi si allearono con i nuovi colonizzatori (francesi e inglesi) contro gli ottomani; in più, attribuiscono il loro sottosviluppo scientifico e tecnologico al dominio ottomano che è durato ben quattro secoli durante i quali l’“arabità”, sia nella sua dimensione linguistica che nazionalistica, subì vari attacchi di turchizzazione. La Turchia, da parte sua, invase Alessandretta nel 1939 (una città siriana che appartiene tutt’oggi alla Turchia), fu il primo stato musulmano a riconoscere lo stato d’Israele (1949), mantenne rapporti tesi con l’Egitto di Nasser e con la Siria per più di 60 anni. Inoltre avviò negli anni ’50 alcuni progetti, sostenuti dall’occidente, nella zona araba, in primis quella filosovietica. Si pensi al Patto di Baghdad (1955) ed a CENTO (1959). Per non parlare di altri temi caldi che non fecero altro che aumentare l’antagonismo tra i quali l’acqua, la questione curda e l’alleanza tra Ankara e le Forze Armate Israeliane.
Le relazioni arabo-turche cominciarono a cambiare rotta dopo gli anni ’70. In realtà, i due fattori principali che hanno spinto la Turchia a tendere verso rapporti equilibrati e “normali” col mondo arabo sono: 1) la crisi cipriota (1974). Isolata dalla comunità internazionale e dall’occidente, la Turchia iniziò a guardare verso sud. 2) Il sopraggiungere della febbre dell’oro nero come elemento decisivo nei rapporti diplomatici nella regione.
Qualcuno può affermare che le relazioni arabo-turche sono entrate in una nuova fase dopo gli accordi bilaterali di Adana (1998) con Damasco, all’indomani della crisi con il leader curdo Öcalan. Ma il vero avvicinamento è avvenuto con l’arrivo, nel 2002, di una maggioranza musulmana moderata al governo, il ché ha in qualche modo “tranquillizzato” i regimi ed i popoli della regione. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, infatti, non ha fatto nulla per nascondere la propria tendenza ad adottare una politica vicina al tessuto socio-politico-culturale della regione. Le numerose visite ufficiali di Erdogan e Gül nei Paesi arabi al fine di sciogliere il gelo diplomatico del passato e la risoluzione parlamentare del 2003 contro il passaggio delle forze armate USA dal proprio territorio per invadere l’Iraq lo dimostrano.
A dire il vero è difficile pensare a questo “miglioramento” senza considerare i cambiamenti “qualitativi” semi-radicali all’interno della società turca. Ciò ha incitato gli arabi a fare attenzione all’esperienza turca, la quale è riuscita, a differenza di quella iraniana khomeinista, a dare risposte alle domande più bollenti sull’Islam e il suo ruolo nella vita politica: il rapporto tra politica e società; quello tra il sé e l’altro, le problematiche della compatibilità non solo tra tradizione e modernità, ma anche tra religione e laicità.
Naturalmente, i Paesi arabi (fatta eccezione per il cosiddetto asse moderato) logorati dalle superpotenze statunitensi e israeliana, trovano nella Turchia una plausibile alternativa. Si spera, infatti, che la Turchia di oggi, molto meno atlantica del secolo scorso, si impegni ad integrarsi positivamente nella regione di modo che pace e stabilità socio-economica prevalgano.
Turchia e Israele
Per quanto riguarda Tel Aviv, è difficile prevedere dove stia andando l’amicizia con Ankara, anche perché, come ci ricorda Ben Gurion, tale amicizia è stretta ma clandestina. Tuttavia, la vecchia storia d’amore non è destinata, secondo me, a trasformarsi in un matrimonio che intensifica la cooperazione strategica tra i due paesi per i seguenti motivi:
1) Questo tipo di cooperazione richiede un’alleanza bilaterale, un certo grado di “sintonia” a livello istituzionale, militare, costituzionale, ideologico tra gli alleati per garantire una sorta di infrastruttura socio-politica su cui si basa la cooperazione. Questo non è il caso di Turchia-Israele.
2) L’alleanza bilaterale stabilisce un impegno di difesa reciproca tra i due paesi. Ma è piuttosto improbabile che la Turchia intervenga in qualsiasi conflitto arabo-israeliano a livello militare. D’altro canto, Israele non correrà in aiuto di Ankara in caso di operazioni belliche che coinvolgono la Turchia di Erdogan. C’è da chiedersi, ma la dottrina militare israeliana ha mai coinvolto le sue forze armate in un conflitto, se non per i confini?
3) La dimensione dinamica geopolitica dentro la quale la Turchia attualmente si sta muovendo, come si è visto nell’articolo di Bertani, è da trovarsi nell’Asia arabo-musulmana. Ciò potrebbe essere dovuto, in parte, al gelo della membership di Ankara nell’UE. La Turchia rimane l’unico membro (Paese candidato dal Consiglio Europeo di Helsinki) a dover subire fasi di “allenamento” nonché di “test” a volte anche provocatori per continuare ad aspirare alla piena membership. La dignità politica turca formula una regola che recita più o meno così: “Se la porta ovest è dannatamente semichiusa, possiamo rivolgere lo sguardo verso quella orientale, felicemente semiaperta”. Ankara non abbandonerà l’idea di potenziare i rapporti culturali, politici ecc… con il mondo arabo-islamico solo per far contento lo stato ebraico. D’altro canto, Israele non può muoversi altrettanto liberamente in questa dimensione, ossia nell’Asia islamica. Anzi, quest’ultima considera ancora questo Paese, che si estende dal sud del Libano fino al Sinai, un corpo estraneo dal contesto politico, ideologico, culturale regionale.
4) Alcune considerazioni storiche, culturali e soprattutto religiose rendono una cooperazione strategica tra Ankara e Tel Aviv poco popolare, sia tra i turchi che tra gli israeliani. Qua è interessante ricordare che, Masud Yilmaz, ex primo ministro turco, durante una sua visita ufficiale ai Territori Occupati, ha dichiarato l’intenzione del governo turco di consegnare all’autorità palestinese un plico di documenti ottomani attestanti che vasti territori erano di proprietà di famiglie palestinesi. (Questi territori adesso fanno parte del suolo israeliano)
Erdogan non è stato il primo leader turco e non sarà l’ultimo a difendere i diritti dei palestinesi e i luoghi musulmani sacri, cari al popolo turco, dagli attacchi dello stato ebraico. Per non parlare dell’ultima uscita da Tel Aviv: l’insulto all’ambasciatore turco da parte del governo israeliano, il quale in fretta ha rimosso che proprio la Turchia ha accolto gli ebrei cacciati dalla Spagna, salvandoli dall’Inquisizione.
Mahmoud, Giordania
Ps. Durante la stesura di questo commento mi è giunta la notizia della decisione da parte del ministero della difesa israeliano secondo la quale decine di migliaia di palestinesi senza documenti sono costretti a lasciare le loro terre. La meta potrebbe essere un paese confinante, 7 anni di carcere oppure Gaza, il carcere a cielo aperto. Questo “transfer” può certo smuovere l’opinione pubblica turca. Se le elezioni politiche turche fossero vicine, questa notizia potrebbe essere determinante per garantire il successo del partito di Erdogan. Altro che il rumeno dietro il semaforo!
Posta un commento