04 marzo 2014

Dodici stazioni


Già alla prima stazione m’accorsi che qualcosa non andava.


Per il momento decisi d’aspettare e non ciucciai quel latte che la tetta di mia madre, generosamente, offriva.

Finché ero ancora in contatto con i Superiori li informai: controllarono.

Sì, c’era stato uno sbaglio: dovevo andare in un altro posto, ma non c’era modo di rimediare e così tirai un sospiro: bevvi lo stesso latte che mia madre, incredula, tirava dalla tetta e metteva nel biberon. Bisogna portare pazienza, pensai.



Alla seconda Stazione ero all’asilo e ricordo che mi piaceva esplorare il sottopalco del teatro: c’erano mille cianfrusaglie e, da una piccola botola, si riuscivano a vedere le gambe delle bambine.

Mia nonna, intanto, parlava con la suora che insisteva...è così bravo, facciamo che metterlo in prima solo come osservatore, poi si vedrà...ma ha compiuto cinque anni da poco...non fa niente, solo osservatore, poi si vedrà...

Sì, ci fu uno sbaglio.

Così, mi ritrovai ad andare in bici quando i miei compagni di scuola trafficavano con i motorini, col motorino quando andavano in moto, con la moto quando prendevano la patente...mi stufai di rincorrere, e presi la patente a 23 anni. Fanculo agli sbagli degli altri.



Alla terza stazione attendevo i risultati degli esami: terza media, col cuore in gola. Chissà com’è andata.

Nove di Latino e nove d’Italiano: solo sette in Matematica.

Con quella pagella – pensai – il mio sogno di studiare anche il greco e poi chissà...forse l’aramaico e l’egizio...era a portata di mano.

Ma ci fu uno sbaglio, anzi, un’interferenza.

Non considerai che mio padre, finalmente, aveva deciso di esercitare la sua patria potestà e s’impose con mio nonno, che voleva farmi fare il Classico per avere un nipote medico.

Così, il 1° Ottobre del 1964 mi ritrovai al secondo piano dell’Istituto tecnico, aula 207, ad osservare il cielo ed il fabbricato – nel quale era passato mio padre quand’era nuovo – inaugurato proprio da lui, Benito Mussolini in persona.

Il cielo era terso, azzurro, senza una nuvola: che ci facevo lì? Ci doveva essere stato uno sbaglio, non c’era altra risposta.



Alla quarta stazione conobbi l’amore.

Sfrenato, infinito come il cielo, ricchissimo d’ogni bene come il mare.

Navigai sui suoi seni come sull’onda lunga dell’Atlantico, poi mi rifugiai fra le sue cosce come nel porto con l’entrata più angusta ma sicuro, protetto da ogni quadrante dai venti della vita.

Assaporai le sue labbra carnose mille e poi altre mille volte...ma la volta che fu mille e una lei disse che non poteva continuare.

Come? Perché?

Suo padre non mi voleva: avevo la testa troppo nelle nuvole, non ero concreto.

Meglio un Geometra del Comune che conosceva: persona quadrata, che già guidava la macchina e sapeva quel che voleva della vita.

Per una seconda volta qualcuno sbagliò e mi coinvolse nel suo errore: se n’accorse.

Tornò, anni dopo, e mi offrì tutta se stessa in cambio di quell’amore che era oramai trascorso ma che lei diceva poteva tornare...saremo di nuovo noi...

Non s’accorse che avevo cambiato oramai stazione: ero diventato cinico senza saperlo.

Lei tornò alla sua città e sposò il geometra: la incontrai anni dopo e mi mostrò due marmocchi, i suoi figli, ma c’era sempre un’ombra di tristezza nel suo sguardo.



Alla quinta stazione gli sbagli iniziarono a pesare e mi ritrovai a dover rendere un pezzo di fegato.

Siccome era strana una colecistectomia a vent’anni, i professori portavano i loro allievi ad osservare il caso: senz’altro un brutto scherzo della genetica, concludevano sempre.

Ero sempre circondato da camici bianchi.

Uno mi chiese: cosa fai? Biologia, risposi. Auguri, ciao.

A dire il vero, nei miei desideri, sarei dovuto essere anch’io fra quegli studenti: che ci fosse stato uno sbaglio?

Mi chiesi se alla seconda stazione qualcuno non avesse sbagliato a farmi fare la Primina: l’anno seguente ci fu la liberalizzazione dell’ingresso alle facoltà universitarie, e sarei riuscito a realizzare ugualmente il mio sogno.





Alla sesta stazione sperimentai la vita del tombeur de femmes.

Strana vita, che assapori per caso, perché quello è il momento storico della liberazione sessuale, come lo fu per Casanova nella Venezia del ‘700. Corsi e ricorsi storici.

Così, trascorsi notti rubate al sonno e regalate al sesso, ma mai appariva la parola “amore”: nessuno voleva permetterselo perché rischiosa.

Meglio accontentarsi di fugaci sguardi, d’allusioni, che duravano fin quando lei si infilava nuovamente mutandine e reggiseno, quasi strappati via nella foga del desiderio, dell’amplesso liberatore.

Oppure pomeriggi passati nei luoghi più impensati...in una piovosa Alassio, in un casotto della Ferrovia in mezzo alle risaie del vercellese...ma il più delle volte nell’alcova di qualcun altro.

Fu uno sbaglio? Forse, ma dettato dalla Storia: eravamo gli attori dell’incedere dei tempi.



Alla settima stazione ci fu un altro sbaglio: meditai che era ora di mettere la testa a posto, e mi sposai.

Così, nacque una figlia e continuai a fare la mia vita di “mordi e fuggi” con le donne.

A dire il vero, il giorno del matrimonio, mia madre se n’accorse e mi disse che ero ancora in tempo per cambiare idea. Sì, con il cortile zeppo d’invitati, fra le quali la mia “fidanzata” del momento.

Come sempre, in questi casi, pone rimedio un divorzio nemmeno poi tanto combattuto: lei lo sa, tu lo sai...ciascuno per la sua strada. Uno sbaglio cosciente.



All’ottava stazione vinsi un concorso ed entrai di ruolo a scuola a spron battuto: finalmente una boccata d’ossigeno!

La persona che mi fece firmare decine e decine di fogli, però, mi raccontò d’essere un ex docente che aveva, di sua volontà, scelto d’essere immesso nei ruoli amministrativi. Come mai? Non disse nulla ma, di sottecchi, mi fece capire che la scuola, come luogo di lavoro, non brillava proprio di luce cristallina.

Me ne sarei accorto col trascorrere del tempo, quando mi fecero trascorrere diciassette anni in uno sgabuzzino: come tutti i prigionieri della letteratura, da Edmond Dantès Silvio Pellico, divenni scrittore mio malgrado, perché quando sei recluso immagini mondi impossibili e favolosi. Devi pur sopportare gli sbagli degli altri.



Alla nona stazione, in un giorno di Maggio e col ritardo di un “fidanzamento oramai d’argento”, mi (ri)sposai, anzi, ci sposammo e facemmo festa a modo nostro, in una società operaia che c’affittò la sala. C’erano piatti liguri e piemontesi ma semplici, tutto all’insegna di premiare l’amicizia al posto dello stomaco, e la damigiana del vino faceva bella mostra di sé proprio dietro al tavolo degli sposi. I figli ci guardavano un po’ stupiti ma anche allegri per quella festa che, oramai, non s’attendevano più. L’officiante, un assessore, lesse una bellissima storia sull’amore coniugale, tratta da uno dei mille Talmud apocrifi, creazioni di gente strana che, come me, non aveva mai sentito una terra come la “sua”, ma solo un posto dove, temporaneamente, posava i piedi. Non ci furono sbagli quel giorno, nemmeno uno, e salutammo gli amici con qualche lacrima fuggevole, che sono le più vere.



Alla decima stazione ero abbastanza sollevato: di lì a poco sarei andato in pensione e il pallido ricordo di cosa fosse la libertà m’inebriava. Quasi non ricordavo più cosa fosse gestire il proprio tempo come più ti piace, non avere orari, impegni, doveri. La Gretel era lì ad aspettarmi: per ora stava ferma sullo scalo, ma il suo scafo già fremeva al pensiero dell’onda.

Invece, arrivò una professoressa come me, esperta di pensioni, la quale affermò sicura che, per salvare l’Italia dal baratro, era necessario che io lavorassi altri cinque anni.

Avevo sentito quelle frasi, o roba simile, centinaia di volta...il Paese non può aspettare, dobbiamo sacrificarci, la Patria ha bisogno di uno sforzo supremo...eppure l’Italia era sempre quella, un posto dove non si sta mai bene perché i tuoi diritti sono sempre aleatori, ma anche i doveri non li controlla nessuno. Passarono anni, ma la situazione non migliorò affatto: probabilmente ci fu uno sbaglio. Pazienza: avrei rivisto la libertà a fine pena, a 67 anni.



All’undicesima stazione morii.

Chiamai mia moglie, che oramai era diventata sorda, ma non mi sentì: stava chiacchierando al telefono con un’amica. Parlavano di creme, ricordo, creme per le smagliature.

Scivolai in una sorta di sonno, poi in una situazione ovattata dove appena percepivo la vita come la mia, appartenente a me: una luce chiara quasi m’abbagliò e mi trovai nuovamente al cospetto dei Superiori.

Qui, non c’erano stati sbagli: la morte è l’unica situazione nella quale non puoi sbagliare.



Alla dodicesima stazione ero in un anfratto, qualcosa del genere...solo rocce intorno a me, ed una luce che calava dall’alto.

Si passava dalla veglia ad una specie di trance che assomigliava al sonno, dove tutto vorticava con una velocità pazzesca: la storia del nostro e d’altri mondi transitavano alla velocità della luce e, mentre osservavi, ti sembrava di conoscere ogni singola persona, ogni singolo essere e ti pareva di partecipare alla vita d’ogni singola molecola.

Solo una cosa non mi piaceva: in quel labirinto c’era poca luce, solo diffusa...quanto mi sarebbe piaciuta una finestra sul mare!

Interpellai un Superiore, il quale chiuse gli occhi e controllò: ma sì, è vero...qui c’è stato uno sbaglio...dovevi andare al livello superiore, dove ci sono le finestre...ma com’è stato possibile...

Grazie, dissi, ho capito: non si può rimediare...eccetera...ne riparleremo al prossimo eone...



Dedicato ad Elisabetta (Eli) e Luigi Tedeschi i quali – ironia della sorte – sono ambedue romani, non si conoscono personalmente, ma hanno perso, entrambi, i genitori a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Il padre di Eli pochi giorni fa. Spero che questa “amicizia elettronica” si faccia sentire e porgo ad entrambi ed a nome di tutti le nostre condoglianze.

7 commenti:

Eli ha detto...



Una piccola chicca preziosa.

Grazie, Carlo.

Ci sono solo tre scrittori capaci di suscitarmi emozioni profonde: Stendhal, Tolstoj, e tu.

Carlo Bertani ha detto...

Non ti sembra d'esagerare un po?
Un abbraccio
Carlo

Carlo Bertani ha detto...

Vedi, ho anche dimenticato l'apostrofo sulla o...

Eli ha detto...


Certo non è piaggeria, ma ciò che sento.
E' probabile che sia esagerato, ma
io sono esagerata tutt'intera!
Ciao.

Eli

alsalto ha detto...

Leggendo ho visualizzato una sorta di corto.
Splendido, grazie Sign.Bertani.
Non la facevo strozzapapere :-)

Un forte abbraccio per Eli.

doc ha detto...

La morte? Una semplice trasformazione energetica, o un nuovo possibile orizzonte fatto di arcobaleni splendenti, di un cammino insieme alla gioia?
Un abbraccio
Doc

Unknown ha detto...

Carlo ho fatto un richiamo su di te nel mio blog, se gai voglia leggilo
Francesco