Sono le 10 e 15 della mattina quando saliamo ai binari, affardellati di valige, per sistemare mio figlio sul treno per Venezia. Sono le 10 e 15 di un giorno di Luglio sulle rive di un altro mare, quello di Savona. La stazione è strapiena e frotte di ragazzi e ragazze – tutti zaino e calzoncini corti – aspettano un treno che li farà partire o tornare dalle vacanze.
Un gruppo di giovani tedeschi scherza in cerchio, come sanno scherzare i ragazzi tedeschi: uno alla volta, gettano la battuta nel cerchio e gli altri ridono, sorridono o rispondono piccati. Sempre, però, con la mascella alta quando devono far scendere la frase nel gruppo, come a gettare un sasso in uno stagno. Quattro di essi potrebbero soddisfare i requisiti del vecchio Adolfo: uno, scuro, invece, probabilmente porta geni dall’Anatolia, turchi o curdi che siano. L’ultimo potrebbe essere italiano: anch’egli scuro, ma parla tedesco e non italiano.
Accanto a me, una coppia di serbi si saluta prima di partire: lui, con i baffi, i riccioli e qualche stempiatura, sembra uscito da un film di Kusturica mentre lei – bionda e grassoccia – potrebbe stare dietro al banco di una merceria a Novi Sad.
Una famiglia – probabilmente cingalese – sosta per terra fra i binari: colmi di fagotti, con un bambino che non perdono d’occhio un istante, mentre fa correre un giocattolo sul marciapiede della stazione. Anche due agenti della Polfer sostano, accaldati, ma non sembrano prestar loro attenzione.
La coppia, lui e lei francesi, sono ovviamente più chic, come anche in tenuta sportiva sanno essere: parlano piano, sorridono, si scambiano occhiate ammiccanti anche se – ad occhio e croce – hanno già superato la sessantina.
Sono le 10 e 30 quando il treno per Milano fischia e parte e quel vestito d’Arlecchino – con mille idiomi e mille modi di scherzare, d’amare, d’intristirsi un poco nei saluti – si dissolve.
Sono quasi le 11 quando la barista – nera come il carbone – porge a mia moglie la brioche, appena riscaldata, e lei si scotta il labbro. Mia moglie sorride, anche la barista sorride e mostra due file di denti bianchi come la neve, poi accenna delle scuse: «Se la scaldo, la marmellata diventa molto calda. Una signora, poco fa, mi ha chiesto come poteva fare: soffi, gli ho risposto!» Ride di nuovo. Anche una coppia di tedeschi che non ha capito bene, ma ha intuito, annuisce e sorride.
Sorbito il caffé, giro per il minuscolo bar cercando di raggiungere il giornale abbandonato su un tavolino, facendo attenzione a non travolgere la minuscola ragazzina cinese che sciorina una cantilena incomprensibile alla compagna di viaggio. Fuori del bar, scorre lentamente una corposa comitiva di scout accompagnata da due suore: le uniche col vestito “d’ordinanza”, saio marrone. Saranno pure vesti estive, ma che caldo devono avere!
Nell’attesa che la marmellata della brioche raggiunga una temperatura accettabile, scorro il giornale: le solite baggianate del Governo, un po’ di gossip…le intercettazioni…
In basso, in un riquadro, il titolo: “Il padre dei due bambini morti sul gommone, al largo di Pantelleria, racconta”.
Vorrei lasciar perdere – immagino cosa può raccontare un padre che s’è visto morire i figli in braccio – ma non ci riesco e vado alla pagina per leggere.
Racconta che sono morti di fame ma, soprattutto, di sete: disidratati. Al giornalista che chiedeva perché li avesse gettati in mare, l’uomo risponde che non li ha gettati, li ha “posati”.
Un padre non potrà mai gettare un figlio in mare, anche morto: lo poserà, dolcemente, come lo aveva senz’altro posato altre volte, dormiente, in una culla o in un pagliericcio. Non può “gettarli”.
Allora stramaledico il momento che ho aperto quel giornale, perché un universo di dolore si spalanca di fronte ai miei occhi: avranno sofferto? Certo che avranno sofferto: avranno chiesto mille volte “acqua” – chissà in quale lingua – e d’acqua c’era solo quel nemico deserto salato, infame, pronto a trasmutarsi in terra per liquide bare.
Mi chiedo perché solo quei due piccoli di due e quattro anni – Hamid e Fatma, li chiameremo così – non hanno avuto il diritto di far parte del vestito d’Arlecchino che scorre nella stazione. Solo loro.
La parte razionale si fa viva e genera immediatamente mille congetture, “fondate” ragioni, pessime risposte, “corrette” dichiarazioni. Poi, tutto torna a svanire di fronte ai visi cerei – che immagino – di Hamid e Fatma.
Chissà se adesso, con gli occhi dello spirito, veleggiano nel Canale di Sicilia ed osservano le migliaia di tonnellate di ferraglia che gli uomini hanno saputo posare su quel fondo marino, poco più di mezzo secolo fa.
Chiglie sfondate e torri allampanate, su fondali spettrali, per nascondere agli uomini la perfida insulsaggine del loro essere. Di chi fatica per costruire lamiere, le salda, le forma in navi e poi dà il via al colossale gioco al massacro della distruzione: come in un Risiko che gronda sangue, al primo lancio dei dadi la mente superiore si spegne, e l’animalità trionfa.
Oddio, non proprio tutti perdono quella che ritengono “mente”…o forse sì…perché anche i banchieri che intascano sempre denaro, quando una nave scende per la prima o per l’ultima volta in mare, rispondono forse ad istinti più elevati?
Invece, per Hamid e Fatma, qualcuno ha deciso pollice verso: e non si vengano a raccontare storie di “fatalità”, di “sorpresa”, di “impossibilità”, nel pianeta dove i satelliti contano anche quanti peli hai sul culo.
Tornano alla mente i versi di Fabrizio: «E lo Stato s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…» ma, qui, andiamo oltre qualche provvedimento dettato solo da “audience” post elettorali.
La Chiesa si fa avanti ed afferma che bisogna essere sì “decisi”, ma ci vuole buon senso ed umanità nelle decisioni spinose. Leggasi: controllo dell’immigrazione.
Allora, mi tornano alla mente gli atti del Concilio di Trento – che terminò nel 1563 – quando il matrimonio fra cattolici fu ritenuto valido solo se in forma pubblica, ossia confermato da testimoni e da atti formali. Teniamo a mente quella data, la metà del XVI secolo.
Le disgrazie dell’Africa erano già iniziate da quasi un secolo, giacché nel 1492 – quando partì Colombo – nelle Canarie la popolazione indigena era già stata totalmente sterminata dagli spagnoli, tanto che lo stesso Colombo si fermò per riparare una nave e per godere per qualche ora – prima dell’ignoto – delle “grazie” di Beatriz de Bobadilla, sua antica “conoscenza” e vedova del governatore spagnolo, ucciso dagli indigeni negli ultimi aneliti di ribellione.
Gli spagnoli erano stati preceduti dai portoghesi, da Lanzarote de Freitas a Capo Verde fino a Cabral in Mozambico: anno più anno meno, è all’inizio del ‘500 che l’Europa prende coscienza della vera e propria “miniera” che ha a disposizione. E’ una duplice miniera.
Da un lato del Mare Oceano c’è un continente sterminato del quale non si sa nulla, ma si presume sia zeppo di ricchezze. Dall’altra c’è n’è un altro, poco conosciuto, che si sa però abitato da popolazioni primitive (in senso tecnologico e per i canoni dell’epoca).
Due più due fa sempre quattro e, se l’ipotenusa ha navi ed armi da fuoco, i due cateti saranno precipitati nel servaggio.
Così prende forma la ricchezza europea per almeno tre secoli – non dalla semplice “operosità” delle sue genti, come tanti credono – ma dalla feroce sopraffazione dei “contractors” dell’epoca: il cosiddetto “Triangolo degli Schiavi” fu la base del dominio e della ricchezza europea.
Detto in sintesi: le merci europee (armi, tessuti, ecc) erano vendute ai mercanti arabi di schiavi, i quali scaricavano mercanzie e caricavano “merce umana” per le Americhe. Giunte nelle Americhe, le navi scaricavano gli schiavi e caricavano prodotti grezzi (minerali, cotone, caffé, ecc, estratti o coltivati dagli schiavi) che erano riportati in Europa. Con quelle materie prime, si fabbricavano le merci da riportare ai mercanti in Africa, e l’infernale roulette ripartiva. Così per tre secoli: ghinea dopo ghinea, fiorino su fiorino.
Perché il Concilio di Trento?
Poiché – disgraziati loro – gli africani si convertivano…forse scambiando la croce per un simbolo animista…forse capendoci qualcosa, ma si genuflettevano ed ascoltavano la Messa. Tanto bastava per farne dei cristiani e, i “buoni” missionari del tempo, non potevano che gioirne.
Non erano così contenti i mercanti, i quali si trovavano di fronte al problema di dividere le famiglie – alla partenza od all’arrivo – secondo le esigenze di chi acquistava quella “forza lavoro”. E solo Dio può dividere.
Ecco allora i buoni giuristi cattolici creare la norma: il matrimonio è valido solo se contratto dopo regolari pubblicazioni. Vallo a dimostrare nella savana africana, vai a cercare le “pubblicazioni” sulle navi negriere.
I buoni mercanti di “forza lavoro” gratuita ringraziano, e conferiscono oboli ai santuari. Gli imprenditori ed i banchieri dell’epoca ringraziano per lo scampato pericolo, ed inviano denari al vescovo locale.
I califfi arabi, a loro volta, festeggiano la buona intuizione dei cani infedeli cristiani emettendo freschi "salatich" (permessi), per nuove razzie in altri territori. Tutto funzionò a meraviglia per tre secoli quando, al Congresso di Vienna, improvvisamente, la Gran Bretagna chiese delle limitazioni e la futura abolizione dello schiavismo. Strano: il lupo che diventa vegetariano.
Il “lupo” diventa vegetariano perché – con l’indipendenza delle ex colonie americane – i frutti del pasto erano goduti da altri, ossia dalle ex colonie stesse. Al punto da sostenere a spada tratta la causa sudista – che manteneva la vecchia impostazione del “Triangolo” – contro quella nordista (altrettanto razzista) che usava la clava dell’abolizionismo per sferrare un attacco agli ex imperiali. Ne avrebbero avuto ragione solo grazie ai sommergibili di Doenitz nel 1940, quando – in cambio d’alcune decine di vecchi cacciatorpediniere – gli USA “soffiarono” agli inglesi le basi che avevano nel mondo per “modici” 99 anni.
Curiosi e penosi, allo stesso tempo, gli “illuminati” francesi, che in Patria dissertavano su principi giuridici da fantascienza per l’epoca, mentre sostenevano sotto banco (e nemmeno troppo…) la tratta. In chiave anti-inglese, sia chiaro.
E si giunge al Novecento, dove alla Mecca ed a Medina – giocando sul fatto che le città erano off-limits per gli occidentali – la tratta continua ad essere attuata.
In pochi decenni, ci si mettono tutti: per l’Africa scoppia un’altra disgrazia biblica chiamata “colonialismo”.
Si va direttamente là, per gestire le miniere locali con la mano d’opera a costo pressoché nullo, per farli lavorare come schiavi nella loro terra, per consentire agli europei di riempire le zuccheriere.
Ci si mettono proprio tutti: francesi, olandesi, belgi, tedeschi, inglesi e italiani. Spagnoli e portoghesi hanno abdicato da tempo, e nuovi capi-branco hanno allungato le zanne. Sono i bisnonni di coloro i quali sottoscriveranno il Trattato di Lisbona: buon sangue non mente. Ieri lo zucchero e la gomma, oggi l’Uranio e il petrolio: l’Oro, sempre.
Gli italiani – visto che la cosa ci riguarda – pensarono bene, nel 1935-36, di bombardare – in Etiopia – anche i campi della Croce Rossa Internazionale: tutto documentato nel reportage “Fascist Legacy”, che circola quasi illegalmente in Italia, giacché la Grande TV di Stato non lo ha mai trasmesso, dopo averne acquistato i diritti per l’Italia dalla BBC. Identico trattamento per il film libico “The desert’s lion” – protagonista addirittura Anthony Quinn – che narra le nostre impiccagioni di massa in terra libica.
Mai doppiato e trasmesso: vogliamo, per una volta – dopo aver doppiato anche le schifezze più meschine della filmografia americana – fare un atto d’orgoglio? Doppiatori italiani, dove siete? Registi, produttori, restauratori: dove siete fuggiti?
La nostra percezione dell’Africa e della vicenda dei migranti è minata – sul piano storico – da una trave lunga un miglio marino, conficcata in un occhio divenuto cieco per la troppa salsedine.
Dovremmo inchinarci di fronte a questa gente che sbarca sulle nostre coste, piangere e chiedere scusa.
Siamo colpevoli? No, noi – europei del XXI secolo – non siamo colpevoli per la distruzione di un continente, nel senso che la “colpa” è considerata, generalmente, un sentimento individuale.
La “responsabilità”, invece, valica luoghi e secoli, poiché i frutti delle azioni non scompaiono, bensì generano nuove tragedie. E siamo sì responsabili: noi, proprio noi, perché non è del tutto nostra questa ricchezza. Per secoli, l’abbiamo accumulata spremendo il sangue altrui con un torchio chiamato schiavitù.
Non ci sono assoluzioni, per nessuno: nemmeno per la Chiesa. Provino con un nuovo concilio.
Oggi, mettiamo in dubbio le parole di quel padre poiché ci sembrano troppo dolenti, troppo incongrue con la melensa estate italiana delle abbuffate e delle discoteche. Vogliamo non credere a quelle persone? Benissimo: tre secoli di documentazione storica c’inchiodano alle nostre responsabilità.
La perversione mediatica, giunge ad identificare i migranti come “invasori” e noi – antichi colonialisti – come “portatori di civiltà”. Ieri in Africa, oggi in Asia.
Chissà, se le tonnellate di nequizie che abbiamo – incoscienti – sulle spalle pesano anch’esse, e non ci fanno più fare figli. Non vogliamo più mettere al mondo nuovi lupi? Chissà.
Di certo, con l’attuale trend demografico, fra qualche anno ci saranno soltanto più loro a scaldare pizzette, guidare trattori, accudire animali, potare alberi e raccogliere alimenti. La nostra fisicità, dimenticata, sarà la nostra trappola definitiva.
Finiremo come vecchie e sterili zitelle inglesi, ad osservare il cappellino nuovo della regina, mentre il tempo e gli anni scorrono – oramai – distanti dal nostro vivere.
Loro, fuggitivi da una disperazione che noi abbiamo creato e continuiamo a creare, continueranno ad arrivare e le nostre cannoniere saranno ammutolite, forse dal senso di colpa infuso nelle lamiere da secoli d’ignavia, forse dalla consapevole inutilità del nostro essere. Chissà, se le navi hanno anch’esse uno spirito, chissà se tramandano: dal legno marcescente delle navi negriere, dal tanfo di morte di quelle stive, al puzzo di gasolio nella sala macchine di una corvetta. Chissà.
Gente che non si commuove più, quando due piccoli muoiono a poche miglia dalle spiagge dell’opulenta estate italiana, che nelle città scavalca un morto a terra perché è “fastidioso” senza chiedersi ragione, che non si ferma quando investe un suo simile per non sborsare qualche euro in più d’assicurazione, non merita futuro.
Abbiamo mercificato tutto: quello che non abbiamo considerato, è che esiste anche la merce avariata. Noi.
Un gruppo di giovani tedeschi scherza in cerchio, come sanno scherzare i ragazzi tedeschi: uno alla volta, gettano la battuta nel cerchio e gli altri ridono, sorridono o rispondono piccati. Sempre, però, con la mascella alta quando devono far scendere la frase nel gruppo, come a gettare un sasso in uno stagno. Quattro di essi potrebbero soddisfare i requisiti del vecchio Adolfo: uno, scuro, invece, probabilmente porta geni dall’Anatolia, turchi o curdi che siano. L’ultimo potrebbe essere italiano: anch’egli scuro, ma parla tedesco e non italiano.
Accanto a me, una coppia di serbi si saluta prima di partire: lui, con i baffi, i riccioli e qualche stempiatura, sembra uscito da un film di Kusturica mentre lei – bionda e grassoccia – potrebbe stare dietro al banco di una merceria a Novi Sad.
Una famiglia – probabilmente cingalese – sosta per terra fra i binari: colmi di fagotti, con un bambino che non perdono d’occhio un istante, mentre fa correre un giocattolo sul marciapiede della stazione. Anche due agenti della Polfer sostano, accaldati, ma non sembrano prestar loro attenzione.
La coppia, lui e lei francesi, sono ovviamente più chic, come anche in tenuta sportiva sanno essere: parlano piano, sorridono, si scambiano occhiate ammiccanti anche se – ad occhio e croce – hanno già superato la sessantina.
Sono le 10 e 30 quando il treno per Milano fischia e parte e quel vestito d’Arlecchino – con mille idiomi e mille modi di scherzare, d’amare, d’intristirsi un poco nei saluti – si dissolve.
Sono quasi le 11 quando la barista – nera come il carbone – porge a mia moglie la brioche, appena riscaldata, e lei si scotta il labbro. Mia moglie sorride, anche la barista sorride e mostra due file di denti bianchi come la neve, poi accenna delle scuse: «Se la scaldo, la marmellata diventa molto calda. Una signora, poco fa, mi ha chiesto come poteva fare: soffi, gli ho risposto!» Ride di nuovo. Anche una coppia di tedeschi che non ha capito bene, ma ha intuito, annuisce e sorride.
Sorbito il caffé, giro per il minuscolo bar cercando di raggiungere il giornale abbandonato su un tavolino, facendo attenzione a non travolgere la minuscola ragazzina cinese che sciorina una cantilena incomprensibile alla compagna di viaggio. Fuori del bar, scorre lentamente una corposa comitiva di scout accompagnata da due suore: le uniche col vestito “d’ordinanza”, saio marrone. Saranno pure vesti estive, ma che caldo devono avere!
Nell’attesa che la marmellata della brioche raggiunga una temperatura accettabile, scorro il giornale: le solite baggianate del Governo, un po’ di gossip…le intercettazioni…
In basso, in un riquadro, il titolo: “Il padre dei due bambini morti sul gommone, al largo di Pantelleria, racconta”.
Vorrei lasciar perdere – immagino cosa può raccontare un padre che s’è visto morire i figli in braccio – ma non ci riesco e vado alla pagina per leggere.
Racconta che sono morti di fame ma, soprattutto, di sete: disidratati. Al giornalista che chiedeva perché li avesse gettati in mare, l’uomo risponde che non li ha gettati, li ha “posati”.
Un padre non potrà mai gettare un figlio in mare, anche morto: lo poserà, dolcemente, come lo aveva senz’altro posato altre volte, dormiente, in una culla o in un pagliericcio. Non può “gettarli”.
Allora stramaledico il momento che ho aperto quel giornale, perché un universo di dolore si spalanca di fronte ai miei occhi: avranno sofferto? Certo che avranno sofferto: avranno chiesto mille volte “acqua” – chissà in quale lingua – e d’acqua c’era solo quel nemico deserto salato, infame, pronto a trasmutarsi in terra per liquide bare.
Mi chiedo perché solo quei due piccoli di due e quattro anni – Hamid e Fatma, li chiameremo così – non hanno avuto il diritto di far parte del vestito d’Arlecchino che scorre nella stazione. Solo loro.
La parte razionale si fa viva e genera immediatamente mille congetture, “fondate” ragioni, pessime risposte, “corrette” dichiarazioni. Poi, tutto torna a svanire di fronte ai visi cerei – che immagino – di Hamid e Fatma.
Chissà se adesso, con gli occhi dello spirito, veleggiano nel Canale di Sicilia ed osservano le migliaia di tonnellate di ferraglia che gli uomini hanno saputo posare su quel fondo marino, poco più di mezzo secolo fa.
Chiglie sfondate e torri allampanate, su fondali spettrali, per nascondere agli uomini la perfida insulsaggine del loro essere. Di chi fatica per costruire lamiere, le salda, le forma in navi e poi dà il via al colossale gioco al massacro della distruzione: come in un Risiko che gronda sangue, al primo lancio dei dadi la mente superiore si spegne, e l’animalità trionfa.
Oddio, non proprio tutti perdono quella che ritengono “mente”…o forse sì…perché anche i banchieri che intascano sempre denaro, quando una nave scende per la prima o per l’ultima volta in mare, rispondono forse ad istinti più elevati?
Invece, per Hamid e Fatma, qualcuno ha deciso pollice verso: e non si vengano a raccontare storie di “fatalità”, di “sorpresa”, di “impossibilità”, nel pianeta dove i satelliti contano anche quanti peli hai sul culo.
Tornano alla mente i versi di Fabrizio: «E lo Stato s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…» ma, qui, andiamo oltre qualche provvedimento dettato solo da “audience” post elettorali.
La Chiesa si fa avanti ed afferma che bisogna essere sì “decisi”, ma ci vuole buon senso ed umanità nelle decisioni spinose. Leggasi: controllo dell’immigrazione.
Allora, mi tornano alla mente gli atti del Concilio di Trento – che terminò nel 1563 – quando il matrimonio fra cattolici fu ritenuto valido solo se in forma pubblica, ossia confermato da testimoni e da atti formali. Teniamo a mente quella data, la metà del XVI secolo.
Le disgrazie dell’Africa erano già iniziate da quasi un secolo, giacché nel 1492 – quando partì Colombo – nelle Canarie la popolazione indigena era già stata totalmente sterminata dagli spagnoli, tanto che lo stesso Colombo si fermò per riparare una nave e per godere per qualche ora – prima dell’ignoto – delle “grazie” di Beatriz de Bobadilla, sua antica “conoscenza” e vedova del governatore spagnolo, ucciso dagli indigeni negli ultimi aneliti di ribellione.
Gli spagnoli erano stati preceduti dai portoghesi, da Lanzarote de Freitas a Capo Verde fino a Cabral in Mozambico: anno più anno meno, è all’inizio del ‘500 che l’Europa prende coscienza della vera e propria “miniera” che ha a disposizione. E’ una duplice miniera.
Da un lato del Mare Oceano c’è un continente sterminato del quale non si sa nulla, ma si presume sia zeppo di ricchezze. Dall’altra c’è n’è un altro, poco conosciuto, che si sa però abitato da popolazioni primitive (in senso tecnologico e per i canoni dell’epoca).
Due più due fa sempre quattro e, se l’ipotenusa ha navi ed armi da fuoco, i due cateti saranno precipitati nel servaggio.
Così prende forma la ricchezza europea per almeno tre secoli – non dalla semplice “operosità” delle sue genti, come tanti credono – ma dalla feroce sopraffazione dei “contractors” dell’epoca: il cosiddetto “Triangolo degli Schiavi” fu la base del dominio e della ricchezza europea.
Detto in sintesi: le merci europee (armi, tessuti, ecc) erano vendute ai mercanti arabi di schiavi, i quali scaricavano mercanzie e caricavano “merce umana” per le Americhe. Giunte nelle Americhe, le navi scaricavano gli schiavi e caricavano prodotti grezzi (minerali, cotone, caffé, ecc, estratti o coltivati dagli schiavi) che erano riportati in Europa. Con quelle materie prime, si fabbricavano le merci da riportare ai mercanti in Africa, e l’infernale roulette ripartiva. Così per tre secoli: ghinea dopo ghinea, fiorino su fiorino.
Perché il Concilio di Trento?
Poiché – disgraziati loro – gli africani si convertivano…forse scambiando la croce per un simbolo animista…forse capendoci qualcosa, ma si genuflettevano ed ascoltavano la Messa. Tanto bastava per farne dei cristiani e, i “buoni” missionari del tempo, non potevano che gioirne.
Non erano così contenti i mercanti, i quali si trovavano di fronte al problema di dividere le famiglie – alla partenza od all’arrivo – secondo le esigenze di chi acquistava quella “forza lavoro”. E solo Dio può dividere.
Ecco allora i buoni giuristi cattolici creare la norma: il matrimonio è valido solo se contratto dopo regolari pubblicazioni. Vallo a dimostrare nella savana africana, vai a cercare le “pubblicazioni” sulle navi negriere.
I buoni mercanti di “forza lavoro” gratuita ringraziano, e conferiscono oboli ai santuari. Gli imprenditori ed i banchieri dell’epoca ringraziano per lo scampato pericolo, ed inviano denari al vescovo locale.
I califfi arabi, a loro volta, festeggiano la buona intuizione dei cani infedeli cristiani emettendo freschi "salatich" (permessi), per nuove razzie in altri territori. Tutto funzionò a meraviglia per tre secoli quando, al Congresso di Vienna, improvvisamente, la Gran Bretagna chiese delle limitazioni e la futura abolizione dello schiavismo. Strano: il lupo che diventa vegetariano.
Il “lupo” diventa vegetariano perché – con l’indipendenza delle ex colonie americane – i frutti del pasto erano goduti da altri, ossia dalle ex colonie stesse. Al punto da sostenere a spada tratta la causa sudista – che manteneva la vecchia impostazione del “Triangolo” – contro quella nordista (altrettanto razzista) che usava la clava dell’abolizionismo per sferrare un attacco agli ex imperiali. Ne avrebbero avuto ragione solo grazie ai sommergibili di Doenitz nel 1940, quando – in cambio d’alcune decine di vecchi cacciatorpediniere – gli USA “soffiarono” agli inglesi le basi che avevano nel mondo per “modici” 99 anni.
Curiosi e penosi, allo stesso tempo, gli “illuminati” francesi, che in Patria dissertavano su principi giuridici da fantascienza per l’epoca, mentre sostenevano sotto banco (e nemmeno troppo…) la tratta. In chiave anti-inglese, sia chiaro.
E si giunge al Novecento, dove alla Mecca ed a Medina – giocando sul fatto che le città erano off-limits per gli occidentali – la tratta continua ad essere attuata.
In pochi decenni, ci si mettono tutti: per l’Africa scoppia un’altra disgrazia biblica chiamata “colonialismo”.
Si va direttamente là, per gestire le miniere locali con la mano d’opera a costo pressoché nullo, per farli lavorare come schiavi nella loro terra, per consentire agli europei di riempire le zuccheriere.
Ci si mettono proprio tutti: francesi, olandesi, belgi, tedeschi, inglesi e italiani. Spagnoli e portoghesi hanno abdicato da tempo, e nuovi capi-branco hanno allungato le zanne. Sono i bisnonni di coloro i quali sottoscriveranno il Trattato di Lisbona: buon sangue non mente. Ieri lo zucchero e la gomma, oggi l’Uranio e il petrolio: l’Oro, sempre.
Gli italiani – visto che la cosa ci riguarda – pensarono bene, nel 1935-36, di bombardare – in Etiopia – anche i campi della Croce Rossa Internazionale: tutto documentato nel reportage “Fascist Legacy”, che circola quasi illegalmente in Italia, giacché la Grande TV di Stato non lo ha mai trasmesso, dopo averne acquistato i diritti per l’Italia dalla BBC. Identico trattamento per il film libico “The desert’s lion” – protagonista addirittura Anthony Quinn – che narra le nostre impiccagioni di massa in terra libica.
Mai doppiato e trasmesso: vogliamo, per una volta – dopo aver doppiato anche le schifezze più meschine della filmografia americana – fare un atto d’orgoglio? Doppiatori italiani, dove siete? Registi, produttori, restauratori: dove siete fuggiti?
La nostra percezione dell’Africa e della vicenda dei migranti è minata – sul piano storico – da una trave lunga un miglio marino, conficcata in un occhio divenuto cieco per la troppa salsedine.
Dovremmo inchinarci di fronte a questa gente che sbarca sulle nostre coste, piangere e chiedere scusa.
Siamo colpevoli? No, noi – europei del XXI secolo – non siamo colpevoli per la distruzione di un continente, nel senso che la “colpa” è considerata, generalmente, un sentimento individuale.
La “responsabilità”, invece, valica luoghi e secoli, poiché i frutti delle azioni non scompaiono, bensì generano nuove tragedie. E siamo sì responsabili: noi, proprio noi, perché non è del tutto nostra questa ricchezza. Per secoli, l’abbiamo accumulata spremendo il sangue altrui con un torchio chiamato schiavitù.
Non ci sono assoluzioni, per nessuno: nemmeno per la Chiesa. Provino con un nuovo concilio.
Oggi, mettiamo in dubbio le parole di quel padre poiché ci sembrano troppo dolenti, troppo incongrue con la melensa estate italiana delle abbuffate e delle discoteche. Vogliamo non credere a quelle persone? Benissimo: tre secoli di documentazione storica c’inchiodano alle nostre responsabilità.
La perversione mediatica, giunge ad identificare i migranti come “invasori” e noi – antichi colonialisti – come “portatori di civiltà”. Ieri in Africa, oggi in Asia.
Chissà, se le tonnellate di nequizie che abbiamo – incoscienti – sulle spalle pesano anch’esse, e non ci fanno più fare figli. Non vogliamo più mettere al mondo nuovi lupi? Chissà.
Di certo, con l’attuale trend demografico, fra qualche anno ci saranno soltanto più loro a scaldare pizzette, guidare trattori, accudire animali, potare alberi e raccogliere alimenti. La nostra fisicità, dimenticata, sarà la nostra trappola definitiva.
Finiremo come vecchie e sterili zitelle inglesi, ad osservare il cappellino nuovo della regina, mentre il tempo e gli anni scorrono – oramai – distanti dal nostro vivere.
Loro, fuggitivi da una disperazione che noi abbiamo creato e continuiamo a creare, continueranno ad arrivare e le nostre cannoniere saranno ammutolite, forse dal senso di colpa infuso nelle lamiere da secoli d’ignavia, forse dalla consapevole inutilità del nostro essere. Chissà, se le navi hanno anch’esse uno spirito, chissà se tramandano: dal legno marcescente delle navi negriere, dal tanfo di morte di quelle stive, al puzzo di gasolio nella sala macchine di una corvetta. Chissà.
Gente che non si commuove più, quando due piccoli muoiono a poche miglia dalle spiagge dell’opulenta estate italiana, che nelle città scavalca un morto a terra perché è “fastidioso” senza chiedersi ragione, che non si ferma quando investe un suo simile per non sborsare qualche euro in più d’assicurazione, non merita futuro.
Abbiamo mercificato tutto: quello che non abbiamo considerato, è che esiste anche la merce avariata. Noi.
19 commenti:
Seguo da un pò di tempo il tuo blog e leggo con viva ammirazione i tuoi post.Ti ringrazio perchè in questo post oltre la tua intelligenza, la tua cultura, il tuo sapere,ci metti a disposizione la tua sensibilità.L' argomento trattato oggi è troppo spesso considerato ideologico, proprio perchè in questi dissapori razziali e in questa continua spinta a volerci combattere si vogliono troppo spesso nascondere i nostri malesseri e risaltare la nostra superbia.Nel mio piccolo mondo quotidiano e dal basso del mio poco sapere (e ancor più del conoscere che come ben rilevi tu in un tuo libro è assai più importante)cerco di spiegare a chi mi circonda che non sono questi terribili immigrati,clandestini per fame, a costituire il nostro più immediato pericolo e toglierci sostentamento e lavoro, bensi la nostra superbia e il non volere capire che la nostra unica salvezza è il confronto e il rispetto dei popoli delle differenze e soprattutto del pianeta che ci ospita.ciao!!!
Ti ringrazio, Marco03, per questo commento: è proprio quello che desideravo comunicare. Se non partiamo da monte - dal riconoscere nell'altro un identico essere umano, con semplice empatia - il problema sociale non troverà mai soluzione.
Carlo Bertani
Ciao Carlo e grazie.
Nei tuoi interventi ritrovo sempre una buona parte dei miei pensieri, delle mie esperienze ed emozioni, che spesso non riesco a esternare in modo chiaro. Essi (i tuoi interventi) sono una conferma confortante del mio credo che troppo spesso, minato da tutto quello che ci stà attorno, vacilla.
A proposito del tuo ultimo intervento: mi è venuto in mente quando mio figlio alle medie studiava Cristofolo Colombo e la scoperta dell'America: il libro raccontava i fatti come se Noi fossimo stati gli scopritori (perchè: prima non c'erano?) e i Salvatori di quel popolo, e mai esponeva la questione con gli occhi degli Indiani (gli americani veri) e quello che patirono.
E così lo spronai a guardare quel periodo anche con gli occhi degli Indiani (gli Americani Veri) e riflettere sulla lotta impari e ingiusta che questi dovettero sostenere, perdendola, per difendere la loro terra e la loro cultura.
Concludo il mio post (spero non troppo OT) con un articoletto che ho trovato vagando x internet un po di tempo fa:
“Questo è il giorno. Questo è il giorno che il sole si è voltato. Il nostro cuore è pieno di piaghe che ci avete portato voi. Il mio popolo ha perso la potenza, è debole e disperso. La situazione della mia gente mi riempie di angoscia. Risparmiate le donne e i bambini. Noi abbiamo combattuto contro gli uomini e vogliamo comportarci da uomini. Siete venuti nella nostra terra e vi abbiamo accolto come fratelli e sorelle. Poi ci avete preso l’anima e con l’inganno il comando. Erano nostre le praterie dove trovavamo cibo, e riparo dal freddo. Erano nostre le stelle, che ci guidavano il cammino. Avevamo tutto, ora voi avete tutto quello che era nostro. Avevamo la vita, ora anche la nostra vita vi appartiene. Verrà un giorno, lo so, che il nostro popolo risorgerà. Verrà un giorno, lo so, che ci alzeremo ancora in piedi e vi scacceremo dalla nostra terra. Verrà un giorno, che capirete cosa è il male, e questa terra tornerà al popolo degli uomini , per sempre!”
Nuvola Rossa. Capo Sioux (Lakota) Tribù Orlala.
Un abbraccio.
DaDo
Caro Carlo, disamina spietata della “civiltà occidentale”.
Noi siamo esattamente quello che hai descritto. Mi fa specie osservare che persino in un paese quale gli USA le voci del dissenso siano alquanto più numerose che qui in Italia, come si può riscontrare in internet, a fronte dei pochi blogger critici italiani.
Come stanno le cose in realtà si sa, ma c’è una colpevole indifferenza; hai voglia ad accusare i media di oscurantismo (che, innegabilmente, c’è e impera): siamo noi che cerchiamo compulsivamente Porta a Porta (non leggiamo mai un libro ma compriamo il fumo del Vespone), Studio ApertoTG4&C. - contenti di sapere che va tutto a gonfie vele (la Satta è passata dal centrocampo alla difesa e la Canalis dalla difesa all’attacco) e che 800 milioni di italiani stanno partendo spensierati per le vacanze! -, Matrix, Ballarò, Isole dei famosi, Grandi Fratelli etc (non scorgo differenze tra i generi).
In quante discussioni con colleghi di lavoro, proclamatisi fieramente “progressisti”, ho dovuto constatare il menefreghismo verso i danni dell’attuale società capitalista e l’acquiescenza al sistema, l’indifferenza verso le sofferenze inflitte agli altri (es. guerre “umanitarie”), l’avversione per il diverso da noi, spesso sfociante in vero e proprio razzismo, vs la semplice ricerca del futile e dell’effimero.
L’interesse è è tutto volto all’ iPhone, all’ultimo schermo al plasma ovvero alle ultime imprese di qualche vippaiolo. A livello aziendale nessuno che osi minimamente criticare lo status quo, tutti tesi alla lotta all’ultimo sangue per le briciole che il sistema concede (scampoli di gratifiche etc: probabilmente è sempre stato così, ma ti assicuro che oggi si passerebbe disinvoltamente sul cadavere della propria madre).
Le critiche dei progressisti al Berlusca sono risibili; sono solo parte di una partigianeria calcistica, di un rito identitario ben descritto da Marino Badiale
http://www.ariannaeditrice.it/
articolo.php?id_articolo=13283
quanto si beano tanti “progressisti” dell’ideologia del nulla propalata a piene mani dai canali del Berlusca!
C’è solo da attendere che la merce avariata vada in completa decomposizione.
Ti leggo sempre con molto piacere ma non commento mai, perche' lo considero superfluo.
Ma quest'ultimo articolo, che considero una perla, mi invoglia straordinariamente a farlo.
Sono sardo, figlio di una terra che e' piena di storie di emigrazione in tutto il mondo. Da noi si dice che "seus totus disterraus", siamo tutti esiliati, senza terra.
I migranti del XXI secolo sono da considerare degli eroi.
Anche io, come te, ho una particolare deferenza nei loro confronti.
Spesso mi trattengo a parlare con questi ragazzi, diventati uomini molto in fretta, molto piu' in fretta di noi, che ne hanno passato di tutti i colori pur di raggiungere un minimo di aspettativa di vita. E quando lo faccio mi accorgo della loro paura, non potrebbe essere altrimenti, visto che sono additati come un pericolo pubblico.
Vedo anche le facce di conterranei, stupiti dal fatto che si parli con loro.
Non mi spingo oltre certa curiosita', non e' giusto farlo, magari hanno avuto esperienze terribili che vogliono dimenticare. Ma gli dico di stare attenti, di non fidarsi mai di noi ita(g)liani brava gente, perche' siamo diventati cattive persone. Noi che nei primi del secolo scorso partivamo con gli stracci nei transatlantici per cercare miglior fortuna e il trattamento che ci veniva riservato era del tutto simile a quello che stiamo riservando loro.
E' sempre peggio purtroppo, ed oltre ad essere cattivi siamo diventati indifferenti al dolore ed alla sfortuna.
E' TOTALMENTE nostra responsabilita', di noi occidentali fortunati (ma solo perche' la fortuna ci ha consentito di nascere in una parte del mondo meno sfruttata) quanto succede, la storia, come dici bene nell'articolo, viene scritta sempre dagli sfruttatori e mai dagli sfruttati, dagli schiavisti e mai dagli schiavi.
Parafrasando Fidel Castro, la storia NON ci assolvera'.
Leggere articoli come il tuo, o libri come quelli di Fabrizio Gatti o di Gabriele Del Grande, che ci raccontano come queste persone cercano una vita migliore, senza neanche troppe pretese economiche (in fondo queste ultime anch'esse apparenze artificiose create sempre da noi occidentali), ma con l'unica degna e irrinunciabile pretesa di VIVERE, visto che a loro in fondo e' negato vivere nella terra dove sono nati, non ti fa solo pensare.
Ti chiama ad agire, in qualunque modo, anche con piccoli gesti perche' a volte possono essere un inizio, che siano di amore o di rispetto. Soprattutto quest'ultimo, il rispetto, e' un sentimento totalmente o quasi sparito dall'essere umano occidentale. Rispetto che bisogna avere nei confronti di tutti gli esseri umani, ma soprattutto nei confronti di quelli meno fortunati.
Piu' alziamo i muri contro di loro, e piu' loro cercano di scalvalcarlo. E' assolutamente normale che sia cosi.
Anche io lo farei, fossi nella loro condizione lo farei sicuramente.
Dunque, sono EROI, e dovremo accoglierli a braccia aperte e mani tese, e di contro giocare a calcinculo con certi rappresentanti delle istituzioni per fargli assaggiare un po' di sabbia nel deserto, giusto per capire cosa si prova ad avere fame e sete per giorni e non poter fare nulla per vincerle.
Sono ottimista, prima o poi succedera' ;-)
Ancora grazie.
Ringrazio tutti per i vostri interventi, che completano - con le vostre esperienze - il mio pezzo.
Mi sovviene una riflessione.
Quando scrivo brani meno improntati alla saggistica e più narrativi, molti s'affiancano in un amen. Come se vibrassimo con le stesse corde dell'animo.
Allora penso a Pasolini, a De André - ma anche a Guareschi - che narravano, senza avere la pretesa d'incasellare tutto in uno schema a prova di bomba, dotte citazioni
e note comprese.
Che abbiamo, forse, più bisogno di "raccontarci" piuttosto che "spiegarci"?
Perché, dopo decenni, tutti rimpiangiamo Faber o Pier Paolo o Giovannino, che narravano storie, valicando con un salto eroico tutto lo sterco che si frapponeva fra loro e la gente?
E' vero, abbiamo la corazzata Missouri contro, con i suoi temibili 406 mm spianati, ma se riusciamo a toccare le corde dell'animo - come il grande capo Nuvola Rossa - le nostre parole valicheranno i tempi, nell'eternità del Web.
L'unica "salvatio" che possiamo concederci, che sia vincente?
Grazie a tutti
Carlo Bertani
Il requisito della pubblicità per la celebrazione del matrimonio voleva anzitutto evitare una serie di abusi, e rimarcare il carattere pubblico del connubio. Ciò non toglie che qualcuno possa essersene giovato per fini poco commendevoli, ma escluderei che il diritto canonico venga modellato in base agli interessi degli schiavisti.
Al di là di questa opportuna considerazione, va pur sempre rimarcato che l'immigrazione dall'Africa subsahariana costituisce solo una parte, e non quella maggioritaria, dell'immigrazione italiana.
Che tale immigrazione sia una fuga dalla disperazione e dalla fame è un luogo comune che dovremmo lascirci alle spalle. Chi ha fame non ha la forza di organizzare un viaggio lungo e periglioso, e soprattutto costoso.
Ha giustamente osservato Maurizio Blondet che questi immigrati costituiscono un raro esempio di imprenditore in Italia, a meno che non vogliamo credere che gli imprenditori siano quei bellimbusti abbronzati che vediamo in tv e sui rotocalchi, che non hanno mai rischiato praticamente niente del proprio, e per lo più vanno avanti a forza di finanziamenti pubblici, regalie fiscali palesi e occulte e delocalizzazioni.
Certo, un sistema scolastico concepito come il nostro, che di fatto è pensato per portare quasi tutti alla laurea (laurea che oggi non servirà a niente, se non a finire in un call center o a fare la hostess, se si è una ragazza di bella presenza) non è che sia l'ideale per non incentivare l'immigrazione. Oggi è diventato difficile trovare non solo un italiano disposto a fare il manovale, o la domestica, ma anche il pizzaiolo o il macellaio (lavori faticosi, ma qualificati e discretamente remunerati).
Poi, gli immigrati si accontentano anche di condizioni più pesanti, e compensi più bassi, e questo è un po' lo stesso motivo per cui si è pervenuti alla femminilizzazione totale o quasi di determinate professioni (le donne accettano, per lo stesso lavoro, compensi più bassi).
E non mi si venga a dire che questa evoluzione non sia stata favorita dall'alto.
Io accetto la realtà per come mi arriva, ma non si pretenda da me che debba anche piacermi. Accetto, come ho fatto negli ultimi giorni, di sobbarcarmi un lungo viaggio su treni che più scalcagnati non si può, in compagnia in gran parte di negri e di slavi, che non mi fanno paura. Ma preferirei essere in compagnia di persone che parlano la mia lingua.
Accetto che al posto di alcune pizzerie e friggitorie italiane ci siano ora le vendite di kebab, ma non mi piace. Mi sento straniero in casa, per dirla tutta.
E finisco col ricordare che la scoperta dei nuovi continenti ha portato sì all'arricchimento dell'Europa, ma non senza scossoni, anche molto violenti, a danno di molti abitanti del Vecchio Continente. E in questi scossoni, vicino agli indigenti, ad aiutarli ne c'erano, guarda caso, personalità di santi uomini e donne (San Filippo Neri, San Vincenzo de' Paoli, San Luigi Maria de Monfort, e altri) informati in buona parte alla visione del Concilio di Trento.
Ciao
Luca
Ciao a tutti,
complimenti, Luca, per aver espresso coraggiosamente il tuo punto di vista un po' "scomodo".
Quello che a me da più fastidio dello "straniero" è proprio la sua difficoltà di comunicare, ma è una cosa superabile, con un po' di tempo, le condizioni giuste e un po' di buona volontà.
Ricordo quando io, da straniero negli USA, mi accorgevo in un certo senso di essere tornato bambino... riuscivo solo ad esprimere concetti elementari, con un lessico elementare. Per uno che come me ha investito tanto (a torto o a ragione...) sulla parola, mi sono sentito all'inizio come instupidito.
Col tempo, però, la situazione è cambiata, e alcune delle conversazioni più interessanti e impegante della mia vita le ho sostenute in inglese con alcuni membri della comunità che mi ospitava.
Essere ospite gradito è stato un requisito fondamentale per imparare a comunicare ed esprimermi, e mi ha spronato a studiare e capire a fondo e ad interagire con il "nuovo mondo" in cui vivevo.
Qui in Italia, leggendo le Mille e Una Notte, ho scoperto un Islam così variegato e in un certo senso moderno da fare impallidire la piatta immagine del "mondo islamico" così come ci viene rappresentata da certi media.
Devo scappare. Magari ne riparliamo poi.
Bye bye
S.
Non nego le altre implicazioni del Concilio di Trento - ci mancherebbe - basti ricordare che fu la "base dottrinale" della Controriforma.
E' un fatto, però, che riposa negli archivi vaticani una bolla papale dell'epoca (credo di Paolo III) che concede espressamente la divisione delle famiglie di schiavi. A confermarmi la presenza della bolla, de visu, fu una fonte che non credo si possa tanto facilmente sottovalutare: dom Franzoni, abate di San Paolo fuori le Mura, nel 1973.
Sul rapporto con i migranti, ciascuno di noi ha i propri timori e perplessità. Si tratta di un mondo tanto variegato quanto vero, zeppo di sentimenti: paura, affetto, anche violenza, fedeltà, amicizia...dipende...
In ogni modo - ripeto - con l'attuale trend demografico, non esiste più un'alternativa. Nessuno, nella storia, ha mai fermato i flussi migratori.
Ciao a tutti
Carlo Bertani
Non sottovaluto certo la credibilità dell'abate Franzoni, che ho anche ascoltato in più di un'occasione, e mi è personalmente simpatico, anche se lo sento alquanto lontano come impostazione dottrinale e liturgica.
Caro Carlo e caro" Lucacec " ( è soprattutto a te che mi rivolgo)sinceramente mi sfugge un pò il senso del tuo post, tu dici che l'immigrazione è pilotata e su questo non ci piove, poi dici però che la fame e il colonialismo sono relativi rispetto a questo fenomeno. Ora io mi domando e vi domando ma se invece di essere colonizzati o sfruttati in Africa (come in sud maerica o in asia) fossero stati istruiti all'autonomia e quindi fossero stati in grado di autogestirsi invece che ridotti alla fame avrebbero accettato di farsi adescare da forse malavitose o da sottospecie di imprenditori per traversare oceani e mari?
Io ho detto che le persone che vengono in Italia affrontando viaggi di questo tipo, su carrette del mare, dopo aver attraversato il deserto, non possono essere persone che hanno fame. Sono persone che, oltre a una sana e robusta costituzione, hanno pagato delle notevoli somme ai loro trasportatori. E per fare questo hanno spesso venduto dei beni immobili, anche se modesti.
Il che dovrebbe far riflettere sul fatto che l'emigrazione dall'Africa sottrae, come una sanguisuga, una gran parte delle forze migliori ai paesi di provenienza: i più giovani, i più forti, non di rado i più istruiti. Come ha fatto e continua a fare in Italia, perché se in Calabria la migliore gioventù se ne va tutta al nord o all'estero chi è che resta? I rincoglioniti, i malati e i mafiosi.
E le "agenzie educative" e i media ci riempiono di chiacchiere per farci credere che abbiamo un gran culo nel ritrovarci nella società multietnica e multirazziale.
Luca
La matrice del male rimane sempre il colonialismo, giacché da un lato attrae manodopera a basso costo per le aziende europee, dall'altra sottrae le migliori energie a quei paesi. Tantissimi "boat people" hanno lauree in economia, ingegneria, ecc, ma nei loro paesi non hanno possibilità d'usarle, perché mancano le basi economiche e tecnologiche. Insomma: riveduto e corretto, il metodo coloniale continua a dissanguare l'Africa per risolvere problemi europei. Quanti imprenditori votano la Lega e poi assumono - in nero - i clandestini per pagarli di meno?
Paradossale, ma anche da noi inizia lo stesso percorso (seppure con altri connotati): quanti giovani laureati italiani vanno all'estero?
Ciao a tutti
Carlo Bertani
lo so che non ti aggiunge nulla, anche perchè il mio blog (http://controinformoperdiletto.blogspot.com/) non lo leggono in molti, ma ero tanto daccordo che ho dovuto linkarlo
Grazie "cugino": ho lasciato un commento sul tuo blog.
Carlo Bertani
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