Da qualche tempo a questa parte, pare che le questioni medio-orientali siano diventate motivo di contesa politica spicciola, di rivisitazione storica assai superficiale: mi riferisco soprattutto agli utenti di Comedonchisciotte.org, dove pare che ogni articolo scateni sempre più risse e sempre meno ragionamenti, al punto che sto chiedendomi se valga ancora la pena di scrivere per quel sito.
Ma scendiamo a bomba sull’argomento.
Per capire cosa sta succedendo nel Medio Oriente (più il Vicino Oriente) bisogna tornare al 2003, quando le truppe americane sbaragliarono l’esercito di Saddam Hussein. Cosa prevedibile, com’era facile prevedere che l’Iraq si sarebbe presto trasformato in una sorte di Vietnam senza jungla: è un leitmotiv delle guerre americane dopo la II G.M, ossia “vincere la guerra e perdere la pace”.
Ciò deriva dall’incapacità di un popolo che non è mai stato colonialista quando tutti lo erano: difatti, guai ancora peggiori – agli USA – li hanno evitati i britannici, che di queste cose se ne intendono. E persino gli italiani.
In poche parole, gli americani credono alla favoletta dei “liberatori” – la loro retorica ne è intrisa, sono una nazione nata da una guerra contro dei colonizzatori – e non riescono a comprendere che, una volta conquistato un Paese, l’unica cosa da fare è giungere a patti con la classe dirigente sconfitta, altrimenti la nazione è ingovernabile.
Nel 2003, George Bush I il Vecchio avvertì il figlio del rischio che lui stesso s’era trovato ad affrontare nel 1991: “liberare” l’Iraq per regalarlo all’Iran. Bush II il Giovane – mal consigliato da personaggi con scarso acume strategico (si noti la defezione di Powell) – non prestò attenzione ai consigli del padre e, di conseguenza, finì in un vicolo cieco.
Tutti ricordiamo lo stillicidio di vittime USA che aumentavano di giorno in giorno, mentre l’inquilino della Casa Bianca mangiava noccioline.
Affermare che l’Iraq sia oggi “pacificato” è una menzogna – nel solo periodo 1-23 Dicembre 2009 sono stati uccisi almeno 13 soldati USA[1], più quelli che muoiono per le ferite e gli invalidi (non dichiarati) – ed Obama ha dovuto spostare molto in là nel tempo il “rompete le righe” in Iraq, con il plauso dei repubblicani ed il dissenso dei democratici. Business is usual.
Ciò nonostante, il numero degli attacchi è sceso: perché?
Poiché, facendo leva sulla maggioranza sciita nel Paese, gli USA hanno appoggiato ed appoggiano gli sciiti e la minoranza curda in funzione anti-sunnita, ottenendo in questo modo una minor conflittualità nei loro confronti, ma giungendo – infine – al paradosso di Bush il Vecchio, ossia “regalare” l’Iraq agli iraniani.
Per quanto riguarda il passato, vorrei ricordare che lo scrivente mai ritenne probabile una guerra contro l’Iran, e tutti gli articoli che scrisse sono ancora là a testimoniarlo. Certo, non si può mai esser certi al 100%, ma per affermare che non ci sarebbe stata guerra – quando tanti sedicenti “analisti” lanciavano un “allarme guerra Iran” la settimana e comunicavano “segreti” spostamenti di Task Force USA – bisognava avere il coraggio delle proprie opinioni. E guerra non c’è stata, meno che mai in futuro.
Quei movimenti navali erano reali, indiscutibili, ma facevano parte della “Naval diplomacy” per convincere l’Iran a “richiamare” il riottoso Moqtada al Sadr all’ordine, e per fornire qualche spaventapasseri utile agli ayatollah iraniani, tanto per fare accettare l’accordo. Si veda, come termine di paragone, la “Naval diplomacy” durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, per rendersi conto di come certi movimenti navali non siano da ascrivere al quadro militare, bensì diplomatico.
In cambio, l’Iran ottenne il via libera per il suo programma nucleare: con una “zampa” in Iraq, gli iraniani sapevano e sanno benissimo che gli USA non sono più in grado di mercanteggiare. Gli USA hanno cercato di coinvolgere la Russia per l’arricchimento esterno ai confini iraniani dell’Uranio – cosa che sarebbe stata gradita ai russi, moneta sonante e la possibilità di “regolare” dall’esterno il programma nucleare iraniano – ma a Teheran non hanno abboccato, stipulando (in chiave energetica e politica) con la Cina la vendita, per 25 anni, del gas iraniano. Più l’eterna alleanza con l’India in chiave anti-pachistana, ed i russi sono stati spiazzati.
Nello scacchiere Medio Orientale, quindi, la situazione trova un compromesso al ribasso il quale, in ogni modo, ha il pregio di rallentare la guerriglia in Iraq. Al prezzo di un Iran che cresce, economicamente e militarmente.
Se cercate la prova del nove, chiedetevi perché l’ENI si è aggiudicata il contratto per il “succoso” giacimento di Zubair – Paolo Scaroni l’ha definito “un bel boccone” – e se Scaroni, vecchia volpe del petrolio, decide di cacciare i soldi per un giacimento nel sud dell’Iraq, sa che i tempi sono maturi per farlo[2].
Se il Medio Oriente, se non altro, piange meno, nel Vicino Oriente si ride poco, anzi.
La repentina decisione di creare una moneta unica nel Golfo (Iran escluso, ovvio) sembra una risposta saudita, sul piano finanziario, alla crescita militare dell’Iran.
Pur essendo entrambi i Paesi produttori di petrolio, la loro struttura sociale è profondamente diversa: poco popolosa ed ancorata ad un sistema feudale la Saudi Arabia, paese “giovane” che punta sull’industrializzazione e sui frutti della conoscenza l’Iran.
Ovvio che i sauditi non possono, per loro struttura sociale, competere con l’Iran sul piano della tecnologia e della produzione industriale, e per avere forze militari in grado di controbattere all’Iran devono affidarsi agli eterni alleati, gli USA.
Per questa ragione, il “Gulfo” non sembra avere (a differenza dell’euro) valore di moneta “strategica”: parrebbe più un supporto al dollaro che altro, considerando che le altre monete “in gara” per il mercato dell’energia sono senz’altro più “corpose”: l’euro in primis, ma anche – in futuro – lo yuan cinese ed addirittura il vecchio rublo si fa avanti.
Perciò, una moneta di per sé “esterna” all’area del dollaro, ma ad esso ancorata non da legami finanziari ma strategici, potrebbe essere gradita a Ryad – che potrebbe mettere in campo qualcosa per contrastare l’egemonia iraniana nel Golfo – ma dall’altra anche dagli USA i quali, sapendo benissimo che il dollaro è oramai una moneta “a termine”, almeno per gli scambi petroliferi potrebbero fare affidamento su una moneta “amica”, nel senso che potranno sempre regolare il rubinetto che rifornisce l’aeronautica saudita.
In questo quadro, chi va a soffrire di più è senz’altro Israele.
Tramontato, con la guerra in Libano, il sogno di porsi come crocevia per gli scambi petroliferi dal Nord (Caspio, Kurdistan, ecc) al Sud grazie al porto di Askelon, Tel Aviv si rende conto d’essere la pedina di gambit, da sacrificare per eventi maggiori. E non ci sta.
Le diplomazie israeliana ed americana sembrano esser giunte ad un punto simile a quello del 1956 – la crisi di Suez – quando gli israeliani cercarono in tutti i modi di far entrare gli USA nella partita, ma non ci riuscirono perché quella guerra, per Washington, doveva significare il tramonto delle ex potenze coloniali, GB e Francia. E così fu.
Non si può dire che le due diplomazie siano in conflitto fra loro, ma che corra unità d’intenti è una falsità: gli interessi americani divergono oramai diametralmente dalla nota dottrina della “Eretz Israel”, e Tel Aviv sa che non aggiungerà più un metro quadrato di territorio. Anzi, dovrà difendere il West Bank e Gaza dalle richieste internazionali di uno Stato Palestinese.
Che fare?
Nella prospettiva di non poter attaccare i siti nucleari iraniani – sotto il profilo militare sarebbe una follia: troppo distanti, troppi rifornimenti in volo, ampio margine d’allarme per i difensori, ecc – si prova con la destabilizzazione interna. Funzionò ai tempi di Mossadeq, ma quelli erano altri tempi, una situazione molto diversa.
Sull’Iran si fa tanta confusione, soprattutto perché si finisce per osservarlo con i nostri occhi, occhi occidentali. Se è vero che non potremmo mai accettare di vivere in un Paese come l’Iran – nessuno di noi potrebbe ammettere le impiccagioni – è altrettanto vero che un iraniano non si troverebbe certo a suo agio qui: troppa Storia ci divide.
La società iraniana è – a nostra differenza – vitale perché giovane ed “innamorata” della politica, soprattutto stima un Presidente che ha saputo mettere in primo piano la crescita ed il benessere della nazione rispetto agli interessi stranieri: a ben vedere, avremmo qualcosa da imparare.
Sull’altro versante, è innegabile che certe restrizioni del vivere sociale vadano “strette”: difatti, si fa largo uso d’alcolici nelle feste private, nelle case. Mai in pubblico.
Le ragazze “sfidano” l’obbligo del velo portandolo quasi sulla nuca: sono le naturali pulsioni e contraddizioni di una popolazione giovane che desidererebbe maggior libertà.
Non scambiamo, però, queste richieste come il voler buttare al macero la storia del Paese degli ultimi 30 anni: nessuno vorrebbe tornare indietro, ai tempi dello Scià, salvo pochi reazionari monarchici.
La sfida iraniana diventa quindi interessante sotto il profilo sociale per l’intero mondo musulmano: il problema – che a nostro avviso molti non avvertono – è che non possiamo giudicarlo con il nostro metro! Il termine “Illuminismo” – da noi – ha un preciso significato, mentre laggiù non vuol dir nulla.
Separare l’ambito religioso da quello sociale, senza scadere nella secolarizzazione della dottrina religiosa, e tanto meno relegandola in una Torre d’Avorio è impresa ardua, anche perché gli iraniani ritengono il Credo sciita parte integrante della loro vita.
A differenza dei sunniti, che non hanno quasi organizzazione gerarchica religiosa, il credo sciita è fortemente strutturato: moneta a due facce senz’altro, ma che consente un dialogo fra interlocutori certi.
In mezzo a questo vero e proprio tourbillon sociale, è chiaro che è facile innestare dall’esterno delle parvenze di “rivolta” contro il Governo iraniano: queste rivolte esistono, ma non sono ascrivibili né comprensibili se non all’interno della tradizione del Paese. Ripeto: non con il nostro metro.
D’altro canto, nel quadro geopolitico sopra presentato, cosa rimane da fare alle diplomazie occidentali? Cercare almeno, a mo’ d’arma spuntata, di creare grattacapi a chi governa, pur sapendo che non s’otterranno grandi risultati.
Tutto ciò, però, getta ancor più nella disperazione la situazione palestinese: se il quadro geopolitico non consente ad Israele l’espansione che desiderava, sarà molto difficile strappare delle concessioni su quel fronte.
Anche qui, notiamo come il rapporto Goldstone non sia – ad oggi – ritenuto di sostanziale valore fondante per giungere ad una svolta nella situazione: anch’esso viene usato in chiave diplomatica, come contrappeso alle velleità israeliane di potenza.
Comprendo che il quadro potrà apparire cinico, ma è a questo che dobbiamo riferirci se vogliamo dissertare di questioni geopolitiche. Non è ciò che desidereremmo in un’ottica di pace e di prosperità per tutti, ma è ciò che abbiamo. It’s diplomacy, baby. Rassegnati.
Per ora, accontentatevi degli auguri di Buon Anno.
Copyright 2009, riproduzione vietata. E’ solo possibile scrivere un breve abstract e linkare l’articolo.
Ma scendiamo a bomba sull’argomento.
Per capire cosa sta succedendo nel Medio Oriente (più il Vicino Oriente) bisogna tornare al 2003, quando le truppe americane sbaragliarono l’esercito di Saddam Hussein. Cosa prevedibile, com’era facile prevedere che l’Iraq si sarebbe presto trasformato in una sorte di Vietnam senza jungla: è un leitmotiv delle guerre americane dopo la II G.M, ossia “vincere la guerra e perdere la pace”.
Ciò deriva dall’incapacità di un popolo che non è mai stato colonialista quando tutti lo erano: difatti, guai ancora peggiori – agli USA – li hanno evitati i britannici, che di queste cose se ne intendono. E persino gli italiani.
In poche parole, gli americani credono alla favoletta dei “liberatori” – la loro retorica ne è intrisa, sono una nazione nata da una guerra contro dei colonizzatori – e non riescono a comprendere che, una volta conquistato un Paese, l’unica cosa da fare è giungere a patti con la classe dirigente sconfitta, altrimenti la nazione è ingovernabile.
Nel 2003, George Bush I il Vecchio avvertì il figlio del rischio che lui stesso s’era trovato ad affrontare nel 1991: “liberare” l’Iraq per regalarlo all’Iran. Bush II il Giovane – mal consigliato da personaggi con scarso acume strategico (si noti la defezione di Powell) – non prestò attenzione ai consigli del padre e, di conseguenza, finì in un vicolo cieco.
Tutti ricordiamo lo stillicidio di vittime USA che aumentavano di giorno in giorno, mentre l’inquilino della Casa Bianca mangiava noccioline.
Affermare che l’Iraq sia oggi “pacificato” è una menzogna – nel solo periodo 1-23 Dicembre 2009 sono stati uccisi almeno 13 soldati USA[1], più quelli che muoiono per le ferite e gli invalidi (non dichiarati) – ed Obama ha dovuto spostare molto in là nel tempo il “rompete le righe” in Iraq, con il plauso dei repubblicani ed il dissenso dei democratici. Business is usual.
Ciò nonostante, il numero degli attacchi è sceso: perché?
Poiché, facendo leva sulla maggioranza sciita nel Paese, gli USA hanno appoggiato ed appoggiano gli sciiti e la minoranza curda in funzione anti-sunnita, ottenendo in questo modo una minor conflittualità nei loro confronti, ma giungendo – infine – al paradosso di Bush il Vecchio, ossia “regalare” l’Iraq agli iraniani.
Per quanto riguarda il passato, vorrei ricordare che lo scrivente mai ritenne probabile una guerra contro l’Iran, e tutti gli articoli che scrisse sono ancora là a testimoniarlo. Certo, non si può mai esser certi al 100%, ma per affermare che non ci sarebbe stata guerra – quando tanti sedicenti “analisti” lanciavano un “allarme guerra Iran” la settimana e comunicavano “segreti” spostamenti di Task Force USA – bisognava avere il coraggio delle proprie opinioni. E guerra non c’è stata, meno che mai in futuro.
Quei movimenti navali erano reali, indiscutibili, ma facevano parte della “Naval diplomacy” per convincere l’Iran a “richiamare” il riottoso Moqtada al Sadr all’ordine, e per fornire qualche spaventapasseri utile agli ayatollah iraniani, tanto per fare accettare l’accordo. Si veda, come termine di paragone, la “Naval diplomacy” durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, per rendersi conto di come certi movimenti navali non siano da ascrivere al quadro militare, bensì diplomatico.
In cambio, l’Iran ottenne il via libera per il suo programma nucleare: con una “zampa” in Iraq, gli iraniani sapevano e sanno benissimo che gli USA non sono più in grado di mercanteggiare. Gli USA hanno cercato di coinvolgere la Russia per l’arricchimento esterno ai confini iraniani dell’Uranio – cosa che sarebbe stata gradita ai russi, moneta sonante e la possibilità di “regolare” dall’esterno il programma nucleare iraniano – ma a Teheran non hanno abboccato, stipulando (in chiave energetica e politica) con la Cina la vendita, per 25 anni, del gas iraniano. Più l’eterna alleanza con l’India in chiave anti-pachistana, ed i russi sono stati spiazzati.
Nello scacchiere Medio Orientale, quindi, la situazione trova un compromesso al ribasso il quale, in ogni modo, ha il pregio di rallentare la guerriglia in Iraq. Al prezzo di un Iran che cresce, economicamente e militarmente.
Se cercate la prova del nove, chiedetevi perché l’ENI si è aggiudicata il contratto per il “succoso” giacimento di Zubair – Paolo Scaroni l’ha definito “un bel boccone” – e se Scaroni, vecchia volpe del petrolio, decide di cacciare i soldi per un giacimento nel sud dell’Iraq, sa che i tempi sono maturi per farlo[2].
Se il Medio Oriente, se non altro, piange meno, nel Vicino Oriente si ride poco, anzi.
La repentina decisione di creare una moneta unica nel Golfo (Iran escluso, ovvio) sembra una risposta saudita, sul piano finanziario, alla crescita militare dell’Iran.
Pur essendo entrambi i Paesi produttori di petrolio, la loro struttura sociale è profondamente diversa: poco popolosa ed ancorata ad un sistema feudale la Saudi Arabia, paese “giovane” che punta sull’industrializzazione e sui frutti della conoscenza l’Iran.
Ovvio che i sauditi non possono, per loro struttura sociale, competere con l’Iran sul piano della tecnologia e della produzione industriale, e per avere forze militari in grado di controbattere all’Iran devono affidarsi agli eterni alleati, gli USA.
Per questa ragione, il “Gulfo” non sembra avere (a differenza dell’euro) valore di moneta “strategica”: parrebbe più un supporto al dollaro che altro, considerando che le altre monete “in gara” per il mercato dell’energia sono senz’altro più “corpose”: l’euro in primis, ma anche – in futuro – lo yuan cinese ed addirittura il vecchio rublo si fa avanti.
Perciò, una moneta di per sé “esterna” all’area del dollaro, ma ad esso ancorata non da legami finanziari ma strategici, potrebbe essere gradita a Ryad – che potrebbe mettere in campo qualcosa per contrastare l’egemonia iraniana nel Golfo – ma dall’altra anche dagli USA i quali, sapendo benissimo che il dollaro è oramai una moneta “a termine”, almeno per gli scambi petroliferi potrebbero fare affidamento su una moneta “amica”, nel senso che potranno sempre regolare il rubinetto che rifornisce l’aeronautica saudita.
In questo quadro, chi va a soffrire di più è senz’altro Israele.
Tramontato, con la guerra in Libano, il sogno di porsi come crocevia per gli scambi petroliferi dal Nord (Caspio, Kurdistan, ecc) al Sud grazie al porto di Askelon, Tel Aviv si rende conto d’essere la pedina di gambit, da sacrificare per eventi maggiori. E non ci sta.
Le diplomazie israeliana ed americana sembrano esser giunte ad un punto simile a quello del 1956 – la crisi di Suez – quando gli israeliani cercarono in tutti i modi di far entrare gli USA nella partita, ma non ci riuscirono perché quella guerra, per Washington, doveva significare il tramonto delle ex potenze coloniali, GB e Francia. E così fu.
Non si può dire che le due diplomazie siano in conflitto fra loro, ma che corra unità d’intenti è una falsità: gli interessi americani divergono oramai diametralmente dalla nota dottrina della “Eretz Israel”, e Tel Aviv sa che non aggiungerà più un metro quadrato di territorio. Anzi, dovrà difendere il West Bank e Gaza dalle richieste internazionali di uno Stato Palestinese.
Che fare?
Nella prospettiva di non poter attaccare i siti nucleari iraniani – sotto il profilo militare sarebbe una follia: troppo distanti, troppi rifornimenti in volo, ampio margine d’allarme per i difensori, ecc – si prova con la destabilizzazione interna. Funzionò ai tempi di Mossadeq, ma quelli erano altri tempi, una situazione molto diversa.
Sull’Iran si fa tanta confusione, soprattutto perché si finisce per osservarlo con i nostri occhi, occhi occidentali. Se è vero che non potremmo mai accettare di vivere in un Paese come l’Iran – nessuno di noi potrebbe ammettere le impiccagioni – è altrettanto vero che un iraniano non si troverebbe certo a suo agio qui: troppa Storia ci divide.
La società iraniana è – a nostra differenza – vitale perché giovane ed “innamorata” della politica, soprattutto stima un Presidente che ha saputo mettere in primo piano la crescita ed il benessere della nazione rispetto agli interessi stranieri: a ben vedere, avremmo qualcosa da imparare.
Sull’altro versante, è innegabile che certe restrizioni del vivere sociale vadano “strette”: difatti, si fa largo uso d’alcolici nelle feste private, nelle case. Mai in pubblico.
Le ragazze “sfidano” l’obbligo del velo portandolo quasi sulla nuca: sono le naturali pulsioni e contraddizioni di una popolazione giovane che desidererebbe maggior libertà.
Non scambiamo, però, queste richieste come il voler buttare al macero la storia del Paese degli ultimi 30 anni: nessuno vorrebbe tornare indietro, ai tempi dello Scià, salvo pochi reazionari monarchici.
La sfida iraniana diventa quindi interessante sotto il profilo sociale per l’intero mondo musulmano: il problema – che a nostro avviso molti non avvertono – è che non possiamo giudicarlo con il nostro metro! Il termine “Illuminismo” – da noi – ha un preciso significato, mentre laggiù non vuol dir nulla.
Separare l’ambito religioso da quello sociale, senza scadere nella secolarizzazione della dottrina religiosa, e tanto meno relegandola in una Torre d’Avorio è impresa ardua, anche perché gli iraniani ritengono il Credo sciita parte integrante della loro vita.
A differenza dei sunniti, che non hanno quasi organizzazione gerarchica religiosa, il credo sciita è fortemente strutturato: moneta a due facce senz’altro, ma che consente un dialogo fra interlocutori certi.
In mezzo a questo vero e proprio tourbillon sociale, è chiaro che è facile innestare dall’esterno delle parvenze di “rivolta” contro il Governo iraniano: queste rivolte esistono, ma non sono ascrivibili né comprensibili se non all’interno della tradizione del Paese. Ripeto: non con il nostro metro.
D’altro canto, nel quadro geopolitico sopra presentato, cosa rimane da fare alle diplomazie occidentali? Cercare almeno, a mo’ d’arma spuntata, di creare grattacapi a chi governa, pur sapendo che non s’otterranno grandi risultati.
Tutto ciò, però, getta ancor più nella disperazione la situazione palestinese: se il quadro geopolitico non consente ad Israele l’espansione che desiderava, sarà molto difficile strappare delle concessioni su quel fronte.
Anche qui, notiamo come il rapporto Goldstone non sia – ad oggi – ritenuto di sostanziale valore fondante per giungere ad una svolta nella situazione: anch’esso viene usato in chiave diplomatica, come contrappeso alle velleità israeliane di potenza.
Comprendo che il quadro potrà apparire cinico, ma è a questo che dobbiamo riferirci se vogliamo dissertare di questioni geopolitiche. Non è ciò che desidereremmo in un’ottica di pace e di prosperità per tutti, ma è ciò che abbiamo. It’s diplomacy, baby. Rassegnati.
Per ora, accontentatevi degli auguri di Buon Anno.
Copyright 2009, riproduzione vietata. E’ solo possibile scrivere un breve abstract e linkare l’articolo.