26 dicembre 2007

Una sola vocale

Qualcuno afferma che non si dovrebbe scrivere nei giorni delle feste comandate, tanto meno a Natale, ma è pomeriggio, ho pranzato abbondantemente ed ho un bel peso sullo stomaco. Il cibo ingurgitato? No, ho ancora “sullo stomaco” l’articolo che il Times ha dedicato all’Italia pochi giorno or sono. A dire il vero, non ho sullo stomaco l’articolo in sé, ma la risposta che lei ha dato – presidente Prodi – a quelle righe.
Alcune frasi – riportate dai media nazionali – mi hanno colpito non perché raccontassero chissà quali novelle, ma per la capacità – in poche righe – di tratteggiare la nostra realtà. Pare quasi che, su una nave che affonda, gli ultimi ad accorgersene siano proprio quelli che ci stanno sopra.
Che la “Perfida Albione” non sia tenera con l’Italia lo sappiamo, che i tedeschi non aspettino altro che un fatto di sangue per gettare sui rotocalchi una pizza con una pistola nel mezzo, è altrettanto vero, ma le parole del Times sono pietosamente, intrinsecamente, ferocemente vere. Di là delle possibili interpretazioni e dietrologie.

"Gli italiani sono i meno felici d'Europa" afferma il quotidiano inglese. Sentenza dura: gettata con troppa approssimazione?

L’imprecisione è intrinseca in ogni universale, in quanto generalizzazione di un’entità composita – tutti lo sanno – ma ci sono dati che è difficile “dribblare” perché riportano a realtà comuni, espanse nella società che si esamina.
La prima è la natalità: che piaccia o non piaccia, il trend demografico è un numero che qualcosa indica. Gli italiani sono i meno prolifici d’Europa, e si “salvano” soltanto per la maggior prolificità degli immigrati: il 10% dei nuovi nati, secondo l’ISTAT, ha genitori stranieri, quando gli immigrati sono il 5% della popolazione. Esattamente il doppio.
La natalità è un indice da “prendere con le molle”, ma da non sottovalutare: proviamo ad “incrociare” il dato con altri, questa volta pubblicati dalla rivista RIZA psicosomatica.

La forza di volontà si spegne a 30 anni: ben 6 giovani su 10 confessano di non sentirsi abbastanza coraggiosi e volitivi…Secondo i dati della ricerca, ben il 62% degli intervistati ritiene di non essere abbastanza dotato di forza di volontà…E a ben vedere è proprio la fascia che va dai 25 ai 40 anni a dare maggiori segni di cedimento…”

Se riflettiamo che la fascia d’età compresa fra i 25 ed i 40 anni è proprio quella che dovrebbe “reggere” la natalità, il dato si spiega da sé: quando mai, persone sfiduciate e dalla volontà appannata, fanno figli con ardore?
Interessante è anche la risposta – in qualche modo autocritica – che gli italiani forniscono: quel 62% che affermano di non aver sufficiente volontà, sembrano volerci raccontare la loro inadeguatezza, il non sentirsi all’altezza dei compiti richiesti.
La stessa rivista approfondisce le motivazioni della sfiducia:

Per i più giovani gli insuccessi negli studi (22%), genitori incapaci di incoraggiare (20%) e i fallimenti con l'altro sesso (18%). Fra i 30 e i 40 anni a falciare la forza di volontà ci pensano l'insoddisfazione sul lavoro (27%), un matrimonio rivelatosi troppo presto sbagliato (24%) o l'ambiente di lavoro troppo competitivo (23%).”

La principale causa di guai – si evince da questi dati – è da ricercare nell’ambiente esterno, ossia nei rapporti sociali, soprattutto sul lavoro.
Qui, gli italiani, compiono una troppo frettolosa autocritica: sono proprio così certi d’essere intrinsecamente “inadeguati”?

A volte mi giungono alle orecchie storie di ex allievi. Altre di conoscenti, lontani parenti, amici.
Il denominatore comune di queste storie è l’incertezza: sento raccontare di “posti di lavoro” nei quali si “lavora”, nella stessa settimana, due giorni nel profondo Sud e tre a Milano. Oppure si fanno turni obbligatori (pena il licenziamento) e continuativi di 12 ore, alla faccia della legge 626 e di tutte le normative sulla sicurezza: poi ci stupiamo dei poveri morti della Thyssen-Krupp. Anche trascorrere due notti la settimana sul treno, dormendo in cuccetta per presentarsi al lavoro il giorno seguente, non è proprio uno scherzetto.
Sarebbe giusto sentirsi “adeguati” al confronto di simili trattamenti? L’unica persona che si sente “adeguata” a simili violenze, si fa presto a definirla: lo schiavo.
Ma ritorniamo al Times.

Il problema non riguarda solo prezzi e salari, con un 'mood' che raggiunge il cuore del dibattito dell'Italia con se stessa sulla propria anima e identità

La frase – un po’ contorta (dove sono finiti i buoni traduttori?) – sembrerebbe affermare che gli italiani sono afflitti oltre misura, anche rispetto al cattivo andamento economico. Qui, c’è una percezione diversa fra realtà ed aspettative.
Oggi è Natale e credo che quasi tutti l’abbiano trascorso in famiglia: di là delle diverse tradizioni, s’è cucinato parecchio, s’è riempito il frigorifero d’avanzi e in qualche angolo della cucina sono rimasti “fondi” di vino nelle bottiglie.
Apparentemente, siamo ancora benestanti: rispetto a gran parte del pianeta, è senz’altro vero.

Il problema inizierà domani: Adusbef, Codacons, Adoc e Federconsumatori hanno già stilato la “tabella di marcia” dei rincari per il prossimo anno. Considerando generi alimentari, energia, mutui e quant’altro, per ogni nucleo familiare è previsto un aumento di spesa di circa 800 euro. Una mazzata.
Mi passano nella memoria le immagini delle tante “nonnine” italiane, pensionate fra i 500 ed i 700 euro il mese: come faranno? Già oggi fanno i salti mortali e, talvolta, campano a caffelatte. Eppure, forse perché nella vita hanno visto di peggio, si fanno forza e cercano ancora – come possono – di rendersi utili per figli e nipoti.
Anche “figli e nipoti”, però, non se la passano certo allegra: per tantissimi giovani che – per amore o per forza – vivono da soli, l’aumento di 800 euro di bollette varie rappresenta circa una mensilità. Hai voglia di metterti a fare figli.

Anch’io – che sono un “privilegiato”, con stipendio fisso e ruolo a tempo indeterminato – inizio a sentire il “peso” di quei 60 euro circa che ogni mese si prendono Regioni, Province e Comuni, sullo stipendio o nella bolletta dell’ENEL: 720 euro l’anno per che cosa? Per fare una carta d’identità che potrei ricevere on-line? Per realizzare opere pubbliche, nelle quali la metà dei costi sono tangenti mascherate? Per mantenere in vita evanescenti “progetti di avviamento” al lavoro?
I fattori economici non sono, da soli, determinanti (come si sopravvive alle guerre?) ma contribuiscono ad acuire i naturali problemi familiari: se, quando c’è “maretta”, ci sono i soldi per “staccare” un momento e prendersi un pausa – magari una semplice vacanza in un fine settimana – ci sono più possibilità di capire la persona che vive con noi, di comprendere, anche di perdonare se ci sembra d’aver subito un torto.
Se, invece, il “forcing” del lavoro è costante, martellante e senza gratificazioni (bassi stipendi) si generano sempre più tensioni interne alla famiglia: nei casi “limite”, assistiamo alle tragedie. Cosa che, peraltro, ci viene “passata” oramai come un fatto comune: è “normale” sgozzare il cane, uccidere a martellate la moglie e poi impiccarsi. E’ “comune” sparare a moglie e figli nei loro letti, per poi puntare il fucile sotto il mento e premere il grilletto. Questa è oramai la cronaca di un giorno qualsiasi: siamo diventati “inadeguati” alla vita? Svegliamoci dal sogno, anzi: dall’incubo.

Le ragioni che il Times indica come i “mali” dell’Italia sono fotografati con impietosa precisione:

Il passato é la gloria dell'Italia, ma ne è anche la sua prigione, con la politica e l'economia dominate da una gerontocrazia, mentre gli imprenditori e i politici più giovani sono tenuti a freno…Sebbene ci siano buoni registi, non c'é nessuno che possa essere paragonato a Fellini o Visconti…

A parte il fatto che in Italia ci sono tuttora ottimi attori e registi – Giovanna Mezzogiorno, Margherita Buy, Stefano Lo Cascio, Sergio Rubini, la Archibugi, Soldini (svizzero-italiano), ecc – e che la critica è quindi errata alla base, ossia scambia la presunta mancanza d’artisti con le carenze della classe politica nei confronti dell’arte, il resto è quasi drammaticamente vero. Quasi perché la differenza non è tanto fra giovani e vecchi imprenditori, ma fra coloro che vivono all’ombra della Casta e quelli che credono, coraggiosamente, di vivere in un paese normale.
Sulla gerontocrazia esistente, nulla da eccepire: dal Quirinale fino ai consigli comunali.
Laddove il Times sbaglia (?) clamorosamente è nell’affidare il “controcanto” a Lucherino da Montezemolo, che si lancia in una ricetta, a suo dire, vincente per il nostro paese:

Il nostro paese non si è solo fermato, ma sta andando indietro…Siamo un paese pieno di eccellenze e di energie positive. Possiamo invertire questo declino aprendo il paese al mercato, sbarazzandoci della burocrazia e liberando il talento dei giovani…”

Insomma, la ricetta è sempre la stessa: meno Stato e più mercato. Il che, potrebbe essere discusso ed approfondito, se non fosse clamorosamente inaffidabile il pulpito dal quale viene la predica.
Vogliamo ricordare i tanti “salvataggi” della FIAT, pagati con i soldi dell’aborrito Stato? Oppure, scivolando nel tempo, le tante vite di giovani piloti italiani, morti sbucazzati dagli Spitfire mentre combattevano su antiquati biplani CR-42 FIAT? Ancora indietro: le colossali e marcescenti commesse di guerra della Prima Guerra Mondiale, quando gli Agnelli s’arricchirono consegnando autocarri che si rompevano ad ogni passo? Peccato che l’autiere che “abbandonava il mezzo” – all’epoca – fosse immediatamente fucilato: così, durante la ritirata di Caporetto, tanti poveri autieri italiani pagarono con la vita le “combine” fra lo Stato e gli Agnelli.
Decenza, Montezemolo, decenza.

Da ultimo, il quotidiano inglese cita il “sorpasso” che la Spagna ha compiuto nel PIL pro-capite nei confronti dell’Italia. Non che questi arzigogoli dei banchieri c’impressionino più di tanto: basta essere passati per la Spagna negli ultimi anni per rendersi conto che laggiù campano meglio.

E, questo, è ciò che l’ha fatta inalberare – presidente Prodi – che non le è proprio andato giù: non il resto, non prendere coscienza dell’infelicità degli italiani, della vostra pochezza, che siete diventati oramai un inutile peso. Voi, compresa quella massa informe che oggi si ritiene “opposizione”: in realtà, siete gli uni i supplenti degli altri.
Lei non si è limitato a minimizzare, bensì ha contrattaccato:

E' singolare che questo articolo esca proprio quando i dati sull'export evidenziano come l'Italia avrebbe superato la Gran Bretagna.”

Per prima cosa – lei m’insegna – sui condizionali non si gioca manco un’unghia: l’Italia “avrebbe” superato nell’export la Gran Bretagna? Cos’è, una nuova moda? Dopo le “scommesse” sui future, scommettiamo anche sui dati macroeconomici?
Anche scambiando quel condizionale con un più rassicurante indicativo presente, la risposta non c’azzecca per niente. Lo sa che, nel 1914, la Russia zarista superò la Gran Bretagna imperiale nella produzione di ghisa?
A quel tempo, le produzioni di ghisa e d’acido solforico erano considerate – con qualche approssimazione – una sorta di “PIL” dell’epoca. Eppure, come la storia ha evidenziato, la Russia del 1914 – per citare Marx (non Karl) – “non stava troppo bene”, tanto che precipitò nel volgere di pochi anni.
Anche la sua ostinata sicumera nel propagandare come riesca a governare con un solo voto di maggioranza – al suo posto – la risparmierei: e questo, vale anche per i divertenti “saltafossi” come Fini, Casini e Veltroni che stanno confezionando le strenne per il nuovo anno, ossia una sorta di legge elettorale/pateracchio per “blindare” ancor più la Casta al potere. Presentandola, ovviamente, come il non plus ultra della democrazia.

Il problema centrale di una classe politica è l’identificare correttamente la propria funzione, ossia stabilire con certezza gli obiettivi da raggiungere, i mezzi per attuarli ed i tempi. Questa è la vera politica, che non si sottrae con dei mezzucci al giudizio degli elettori, scrivendo ogni giorno che passa una nuova legge elettorale per fregarli, oppure medita di tappare la bocca alla gente con il Decreto Levi. Peggio ancora, la tappa a due magistrati coraggiosi come la Forleo e De Magistris.
Quando una classe politica smette di svolgere queste funzioni, si trasforma nel vuoto simulacro di se stessa, diventa un carapace senza cuore e cervello, un inutile orpello. Invece di svolgere una funzione, inizia a praticare la finzione della sua realtà, di ciò che dovrebbe essere e dovrebbe fare. Finisce per avvitarsi tragicamente su se stessa, per chiudersi a tutte le critiche, per incensarsi negli agoni televisivi, per essere – sintetizzando – completamente auto-referente. E boriosa.

Stupisce osservare che, nel nostro idioma, le due realtà siano separate da una sola vocale: funzione e finzione. Curioso, vero? Una vocale che finisce per essere la maledizione di noi tutti.
Mi torna allora alla mente cosa rispose Luigi XVI, quando gli fu comunicato che Parigi era in rivolta: «Che problema c’è: schierate il reggimento delle Fiandre!»
Poco tempo dopo, cercava lui stesso di raggiungere le Fiandre, camuffato, su una carrozza: tutti sappiamo cosa successe a Varennes.
La Storia è allo stesso tempo prodiga ed avara, poiché ci racconta come le situazioni, giunte al loro limite, trovino in qualche modo soluzione. A volte in modo cruento, altre con passo più lieve, ma ci racconta che gli equilibri divenuti troppo instabili hanno già in sé il seme dell’evoluzione. Esempi a decine: da Cesare all’URSS. L’avarizia della Storia è che non ci può dire quando, ma la Storia è Storia, non profezia.
Chissà che nome avrà, quale sarà il luogo della vostra Varennes: magari una sola vocale, o una consonante, faranno la differenza. Chissà.

19 dicembre 2007

Ma chi credono di prendere in giro?

«Sogno o son desto?» mi viene da pensare mentre scorro le pagine di Televideo del 16/12/2007, quando TERNA (la società che gestisce la rete elettrica) comunica l’ultimo “record” dei consumi elettrici nazionali: 56.810 MW, registrato nella medesima giornata.
Per chi non è abituato a valutare questi dati, si può spiegare – con qualche approssimazione – che la rete elettrica è come la rete idrica: se spilliamo una determinata quantità d’acqua, altrettanta deve essere immessa negli acquedotti.
A differenza della rete idrica, però, la rete elettrica non può rimanere “a secco”, poiché subirebbe gravi danneggiamenti: in tal caso, vengono staccati segmenti di rete per mantenere in tensione il resto della rete, oppure viene immessa più energia dalle centrali, sia italiane sia estere, poiché la rete elettrica europea è interconnessa.
Gli ultimi “record” di richiesta energetica erano avvenuti in estate: 56.450 MW il 19-7-2007; precedentemente, nel 2005 s’era raggiunto un massimo di 54.100 MW e nel 2004 di 53.600 MW, ma sempre nei mesi di Giugno e di Luglio.
La ragione di tali alte richieste estive è in gran parte da addurre ai climatizzatori, sempre più diffusi, che consumano parecchia energia. Quello che non era atteso era un picco invernale.
Ciò che mi ha fatto sobbalzare è stata la giustificazione addotta da TERNA: “è colpa degli addobbi natalizi”. Signori: spegnete gli Alberi di Natale, altrimenti mandate in rovina la rete nazionale!
Questa non è disinformazione: questa è bieca disinformazione. False comunicazioni sociali: è addirittura un reato.
La prima obiezione da muovere a TERNA è che tutti gli inverni, gli italiani, addobbano case e giardini con collane di luci, e mai era successo che la richiesta fosse così alta. La seconda obiezione è che queste luminarie sono accese per lo più di notte, quando i consumi elettrici scendono al 15% rispetto ai massimi diurni (secondo i dati che TERNA stessa comunica alla Borsa Energetica).
La terza obiezione è che, per quanto s’accendano Alberi di Natale, non si tratta di consumi che incidono un gran che: sono le applicazioni in campo termico dell’energia elettrica ad essere le vere sanguisughe del sistema, come i climatizzatori.
Cosa non ci vogliono raccontare?
Non ci vogliono dire che, da anni, viviamo oramai in una continua emergenza: la richiesta aumenta e facciamo fatica a “tenere il passo”. Come mai questa anomala richiesta invernale?
Alberi di Natale a parte, a nessuno è venuto in mente che un’ondata di freddo s’è abbattuta sull’Italia? Niente di così eccezionale, data la stagione.
Il freddo, però, ha colpito di più le regioni meridionali che quelle settentrionali, più la parte adriatica che quella tirrenica. E qui è la differenza.
Durante la stagione invernale, che faccia più o meno freddo, al Centro-Nord sono in funzione gli impianti di riscaldamento: metano, gasolio, legna o pellets, sono sistemi che bruciano in loco il combustibile, senza coinvolgere la rete elettrica.
Al centro-Sud, invece, la situazione è un po’ diversa: a differenza del Nord, al Sud non tutte le case sono provviste d’impianto di riscaldamento, giacché la stagione è meno fredda.
C’è differenza dalle aree interne a quelle costiere, ma moltissime grandi città del Sud sono sprovviste d’impianti di riscaldamento centralizzati, e spesso non c’è nemmeno una stufa a metano in casa.
I climatizzatori – che al Sud, d’estate, sono quasi indispensabili – possono anche fungere da riscaldatori: semplicemente, tantissime persone hanno acceso i climatizzatori per riscaldare gli ambienti.
Non è priva di senso la rinuncia ad un costoso impianto di riscaldamento (per condominio o singola abitazione), poiché è raro che al Sud si raggiungano temperature così fredde, ma quando accade la rete elettrica è sottoposta ad un superlavoro, e tutte le centrali devono fornire il massimo, più le importazioni.
Ciò che non c’azzecca proprio niente è la puerile giustificazione addotta da TERNA: gli Alberi di Natale!
Non si tratta, in questa sede, di ritornare ancora una volta sugli abissali ritardi italiani in campo energetico: basti pensare che il termodinamico – nato in Italia dagli studi di Rubbia e realizzato dall’ENEA – non ha avuto la sua prima applicazione nel nostro paese, bensì in Spagna.
E’ bastata la permanenza in Spagna di Rubbia per due anni (2004-2006, quando lo cacciarono dall’ENEA) e la collaborazione con Juan Antonio Rubio – direttore generale del CIEMAT, il principale centro di ricerche energetiche, ambientali e tecnologiche spagnolo, dipendente dal Ministero dell’Educazione e della Scienza, già collega di Rubbia al CERN – perché la Spagna riuscisse ad avere il suo primo impianto operativo dal Giugno 2007 (10 MW), mentre l’Italia “pensa” d’iniziare l’attività dell’impianto sperimentale di Priolo Gargallo (5 MW) nel 2009. Forse.
Da noi si “parla” di nuovi impianti in Calabria ed in Sardegna, in Spagna ci sono già 40 progetti approvati o in costruzione. Solo la Spagna? No, anche in Israele. Solo nei paesi ricchi? No, anche in Algeria e Marocco.
Siccome stiamo diventando sempre più poveri (proprio in questi giorni la Spagna ci ha superati per PIL pro-capite), può darsi che ci arriveremo dopo l’Algeria e il Marocco.
Non manca nemmeno la querelle sugli aerogeneratori: le mappe che il CESI sta stendendo (il primo studio sistemico della ventosità italiana per l’utilizzo energetico) stanno fornendo risultati confortanti. Non avremo le 2.200 ore annue dell’Olanda, ma abbiamo moltissimi siti che superano le 1.500 ore annue, che rendono competitivi gli aerogeneratori.
Da noi vanno di moda gli “esteti” come Sgarbi – che s’oppongono agli aerogeneratori perché rovinano il paesaggio – oppure elucubrate considerazioni sulle speculazioni basate sui Certificati Verdi.
Osservo la lunga catena alpino/appenninica che si stende da La Spezia a Ventimiglia – 250 Km di crinali deserti e privi (salvo alcune eccezioni) di bellezze artistiche – e mi chiedo perché non installano lì i mulini, lontano dalle spiagge e dalle città.
Certamente il paesaggio non sarebbe più quello di prima, ma – dalla costa – sarebbe addirittura difficile scorgere gli aerogeneratori. Qualcosa mi dice che – la stessa gente che spende fiumi d’inchiostro per salvare il paesaggio – non si scompone allo stesso modo per le centrali a carbone. Io, almeno, non li sento mai urlare di sconcerto per il carbone come fanno, invece, per i mulini a vento.
Inoltre, mi piacerebbe tanto sapere chi compra l’inchiostro a questa gente, visto che Scaroni – presidente dell’ENI – ebbe a dire che “per fortuna, l’Italia non ha venti costanti come il Nord Europa”. Bella fortuna.
Il gioco è oramai chiaro e scontato: a parte questo rumore di fondo, il tentativo dei “poteri forti” è un altro.
A forza d’accendere Alberi di Natale – cari italiani – verrà il giorno che capiterà un bel black-out, magari d’inverno, così si fermeranno anche gli impianti di riscaldamento a gas (le pompe di circolazione sono elettriche).
Milioni di caldaie in blocco: tanta paura, consenso facile.
Forse non riusciranno ad imporci le centrali nucleari – anche se tanti finti ambientalisti ci contano ancora – ma un bel po’ di carbone per molti anni sì, ce lo dovremo beccare.
L’unica cosa da non fare è seguire l’esempio spagnolo, laddove le società iberiche hanno iniziato ad “intaccare” la colossale bolletta energetica che spendiamo ogni anno – 46 miliardi, in Italia, nel 2007 – per dirottare una parte di quei soldi sulla produzione nazionale, arricchendo la propria popolazione, non impoverendola come fanno – d’amore e d’accordo – Prodi, Berlusconi & soci.
Perché? Perché il sole e il vento sono di tutti, il carbone no. Non pensavo però – nel fondo che sta toccando questo paese di sapienti baldracche – che riuscissero ad inventarsi anche quella degli Alberi di Natale. Non c’è proprio mai fondo al fondo.

15 dicembre 2007

Le autostrade dei sogni (mancati)

Gentile Ministro Bianchi,
è con gran pena che mi rivolgo a lei, così canuto e all’apparenza saggio, perché l’essere ministro – quel ministerium che sa di servizio – ci dovrebbe consentire di rivolgerci a lei come in confessione, nel pubblico confessionale del Web.
Ho dovuto per forza scriverle perché sono stato colpito da due eventi, nella medesima sera, che la riguardano: come supremo gestore dei trasporti italiani e come comunista. Almeno, così dicono di lei.

E’ notte, la buia notte di dicembre che ottenebra le strade dell’Appennino, quando nel fascio dei fari m’appare un conoscente. Non fa l’autostop, non fa nulla: attende nella notte. Come non fermarsi per chiedere se ha bisogno d’aiuto?
Vuole conoscere il tenore dei miei pensieri mentre guidavo? Presto fatto.
Ronzava ancora nelle orecchie l’omelia dell’arcivescovo di Torino, durante le esequie dei quattro operai morti alle acciaierie Thyssen-Krupp (i “fabbri” di Hitler, ricorda?), che scagliavano nell’etere – urbi et orbis – il messaggio ripetuto da tutti i cantori di regime: «Mai più, mai più esseri umani bruciati, carbonizzati, resi cenere dal fuoco della fabbrica!» Memento, homo.
Finalmente, verrebbe da dire.
M’arresto: «Successo qualcosa?»
«No, aspetto la corriera.»
«Qui?»
«Sì, dovrebbe passare fra tre quarti d’ora.» Tre quarti d’ora nella notte a due sotto zero. Verrebbe quasi la voglia di raccontarlo al Ministro dei Trasporti.
«Sali, dai, che si va a casa.»
«Come va?» i soliti convenevoli. «Hai finito di lavorare a quest’ora?»
«Sì». «Ma che orario fai?»
Ancora lo ricordo, ragazzo, sui banchi di scuola. Non so che titolo di studio ha e che scelte fece, ma ora lo ritrovo solo, nella notte, che aspetta una corriera più evanescente di quelle che portano da Kabul a Mazar–I–Sharif.
«L’orario di lavoro è dalle 7 del mattino alle 19, continuato: l’altro turno» – ci vuole tanto ad indovinarlo? – «è dalle 19 alle 7.» Settore? Edile, grandi costruzioni.
E così scopro che, quel ragazzo che osservavo giocare sul campo di calcio, ora manovra per 12 ore continuative qualche marchingegno che scava, trita, carica, stende, liscia, batte terra o cemento, asfalto o ghiaia. Per dodici ore, continuate.
«Lo hai scelto tu di fare 12 ore il giorno?»
«No: è così, oppure non lavori.»
Questa è la strategia della "sicurezza" dopo i morti di Torino.

Verrebbe la voglia di raccontarlo al ministro del lavoro, ma è troppo occupato a gustare il frutto delle sue alchimie strategiche che riguardano lavoro e pensioni, e allora m’avvicino al confessionale, scosto la tenda e lo racconto ad un ministro comunista. Almeno, così mi hanno raccontato: un tizio che è docente d’Economia dei Trasporti, che è stato messo lì da un altro accademico che fa di nome – per mostrare d’essersi affrancato dalla schiavitù – Diliberto.

Ascolteranno, questi libertari comunisti? Non lo so: se non ascolteranno loro, udranno gli italiani.
Mentre si celebrano sante messe – con le liturgia della Chiesa, dei partiti e dei media di regime – sui poveri morti di Torino, nell’indifferenza di tutti c’è chi continua a lavorare per dodici ore filate con delle pericolose macchine operatrici. E poi si grida all’incidente.
Ci arrabbiamo – giustamente – per i giovani laureati sottoccupati nei call-centre, e ci dimentichiamo dei dannati della terra, di quelli che per strappare un tozzo di pane devono giocarsi brandelli di vita.
Verrebbe la voglia d’urlarlo in faccia ad un ministro comunista. L’unico che si riesce a trovare: l’altro, è sempre occupato a tradurre, dal latino che giunge da Oltretevere, il nuovo verbo della “solidarietà sociale”.

Non faccio in tempo a salutarlo ed a salire le scale di casa che giunge un’altra sorpresa: è proprio la tua sera, Ministro Bianchi.
E’ arrivata una bella multa di 160 euro per eccesso di velocità, più cinque punti in meno sulla patente. La data è “solo” del 10 di Agosto, ma non fa nulla: anche i treni non arrivano mai in orario.
“Ha raggiunto la velocità di 93 Km orari nel comune di Cassine…” per una attimo, mi tornano alla mente Tenco e gli anni della mia gioventù.
Ma, quel tratto di strada, non è la tanto osannata “superstrada” Acqui-Alessandria?!?
Eccome! Eh, lo ricordo bene: fine dei problemi di traffico nell’alessandrino: c’è la superstrada! Ricordo suoi colleghi – per carità, inferiori per censo, “solo” sindaci e amministratori provinciali – che tagliavano nastri e si davano gioiose pacche sulle spalle: ce l’abbiamo fatta, finalmente abbiamo la superstrada!

Io, ingenuamente, credevo che su una superstrada si potesse raggiungere la folle velocità di 93 Km orari, ma ho scoperto il tranello e qui – nella quiete del confessionale – glielo voglio raccontare. Così, nell’attesa di traslare la salma di Lenin nella casa di Diliberto, potrete colpire questi sordidi controrivoluzionari.
All’insaputa di tutti (!), certi oscuri nemici del popolo – amministratori comunali, forse vigili urbani ligi al dovere, chi mai lo saprà? – hanno posizionato cartelli con il divieto di superare i 70 Km orari in alcuni punti – deserti come la ridotta dei Tartari – della superstrada e così, quando il settore vinicolo non va tanto bene, “vignano” lo stesso grazie alla tecnologia dell’autovelox. E voi potete, appagati e garruli, tagliare ogni anno le risorse finanziarie per gli Enti Locali. Tanto, paghiamo noi.
Forse, se volessimo aumentare la sicurezza sulle strade, non sarebbe meglio pensare a forme di segnaletica attiva, oppure non consegnare ai neo-patentati auto che corrono a 160 Km/h? Come dice? La FIAT ha storto il naso? Beh, ma lei è un ministro comunista...

Ora, caro Ministro Bianchi (onomatopeico), non m’adombra il pensiero di quei cinque punti: siccome ho quasi 40 anni di patente e non ho mai – forse per mia fortuna – avuto un incidente ritengo che, se la fortuna continuerà ad arridermi, potrò assommare tanti punti da vincere una lavatrice.
I soldi? Anche quelli non sono importanti: “vanno e vengono”. Vanno da noi, per giungere a voi.
Ciò che mi deprime è il ricordo. Sì, ha ragione: un figlio dei fiori non pensa al domani. E io penso a ieri. Lei ha appena scapolato il gran tranello dello “fermo” dei TIR, e starà senz’altro confortandosi per lo scampato pericolo con robuste dosi di coramina.

Era appena l’altro ieri, quando lei fu incaricato di sovrintendere allo scassato regno delle mulattiere nazionali: ancora ricordo cosa affermò come suo indirizzo, la Stella Polare che l’avrebbe guidata nel suo ministerium.
«Finalmente, darò il via alle “autostrade del mare.”» Aspetti, ministro, non scappi dal confessionale: ci sono i filmati RAI e le ANSA dell’epoca che la inchiodano. La prego, non si nasconda dietro l’altar maggiore…
Non voglio tediarla – queste cose lei le sa benissimo – ma voglio confortarla: aveva ragione da vendere!

Il modello di trasporto italiano – fino all’avvento ferroviario – fu un modello marittimo e fluviale: per la forma stessa dell’Italia, anche i bambini comprendono che, le merci che si spostano dal Nord al Sud, è meglio se occupano spazi in mare che nelle autostrade. Oltretutto, una modesta nave con 2.000 tonnellate di portata utile, “toglie” dalle strade 85 TIR, quei maledetti che stavano per farle la festa. Quei poveracci, quei dannati del volante che devono correre come matti, altrimenti rischiano il posto.
L’altro segmento di trasporto era rappresentato dalla rete dei canali veneti e dal Po. Posso ricordarle che, nel 1819, l’arciduca Ranieri d’Austria inaugurava la rete di canali che, dalla Svizzera, portava a Venezia via Lago Maggiore, Ticino, Naviglio Grande, Naviglio Pavese e Po? Già, ma lei insegna economia dei trasporti, mica storia…
Eppure, tutti i nostri problemi nascono da quella negazione. Come dice? Nessuno lo chiede, dall’Europa non è giunto nulla…
No, ministro: adesso non mi faccia arrabbiare, altrimenti – al posto dell’assoluzione – le arriverà un cazzottone.
Non mi dica che non lo ha letto. Non ha letto il Libro Bianco “La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte”? Lo so, sono 138 pagine fitte fitte, e nelle tiepide sere romane viene voglia di far dell’altro.
Lì, l’UE ci tirava le orecchie proprio per la scarsa attenzione posta alla navigazione interna, per la nostra scellerata disattenzione per la navigazione marittima. Qui da noi, pare che tutto ciò che esula dalle autostrade non esista.
E la TAV? Ma, Buon Dio, era l’UE stessa che le raccomandava cosa fare: “…il trasporto via mare fra porti europei, che avrebbe potuto alleggerire la congestione nella Comunità, in particolare quella attorno alle Alpi e ai Pirenei, non ha conosciuto lo stesso sviluppo…(rispetto alla ferrovia N. d. A.).
Il trasporto marittimo intracomunitario e il trasporto fluviale sono due elementi chiave dell'intermodalità che devono permettere di far fronte alla congestione crescente delle infrastrutture stradali e ferroviarie…Il loro rilancio presuppone la creazione di autostrade del mare…(pag. 44).

Insomma, Ministro, aveva visto giusto! Domanda: perché non ha fatto niente?
Mancavano i soldi?
Non mi sembra, visto che la stessa UE era disposta a finanziare il 50% delle spese di progetto, ed il 10% di quelle di realizzazione, per il collegamento fluviale di Milano via Cremona, Po, con i porti adriatici. Qual era la stima dei lavori?
Il Consorzio Navigare sul Po li stimò, nel 2001, in 400 miliardi di vecchie lire: mettiamoci un po’ di rivalutazione – e i contributi europei – e forse la spesa sarebbe inferiore ai 200 milioni di euro. Troppo poco? Eh, lo so: è una miseria…

Poi, prima dei tre rituali Pater, Ave e Gloria, voglio ricordarle che sono un po’ stufo di ricevere sempre posta che – ad onor del vero – dovrebbe sbrigare lei.
Come quella del signor Albert Mairhofer – un simpatico altoatesino – che ha fondato a Londra una società, la Tirol-Adria, che si propone di creare un collegamento fluviale fra le valli dell’Adige e dell’Inn. So che ha capito: qui si parla di mettere in collegamento il Mediterraneo con il Danubio, mica roba da ridere. Piatto ricco: già ci pensava Franz Josef.
La prego, intervenga: non so più cosa rispondere ad Herr Mairhofer, perché ha già ricevuto risposte – per ora solo interlocutorie – dal governo federale tedesco e da quello austriaco, da quelli regionali del Tirolo e della Baviera.

Recentemente mi ha fatto sapere che anche la regione Veneto si è mossa ed il progetto verrà presentato a Berlino: “Gentile dott. Albert Mairhofer…sono ad informarla che sarò io a rappresentare la Regione Veneto al convegno di Berlino, e che nel corso dell’intervento provvederò ad accennare la possibilità di realizzare il collegamento fluviale in oggetto…Cordialmente, Paolo Menegazzo.
Ma, è possibile che lei non ne sappia proprio nulla? Qui fanno convegni, fondano società ed associazioni, siti Web: lei, dov’è nel frattempo?
Mairhofer continua a chiedermi perché “Herr Prodi” non gli risponde: magari Herr Prodi ha passato una “velina” ad "Herr Bianchi", ed era così velina che è volata via nel ponentino. Faccia qualcosa, perché lo sa come sono questi italiani di lingua tedesca: sono gente seria, d’altri tempi: ritengono che, quando si scrive al proprio governo, s’abbia da ottener risposta. Per loro, non c’è differenza fra il governo di Roma (!) e quello di Berlino.
Insomma, io mi pento e mi dolgo per quei 93 Km l’ora, ma lei non mi faccia fare – gratis – il supplente!

Ora la saluto, e le confesso che sono moderatamente ottimista per il vostro futuro. Dopo tanti mesi di tentennamenti – nei quali avete lasciato passare riforme che nemmeno il centro-destra si sarebbe immaginato di fare, come lavoro e pensioni, RAI, sicurezza, scuola e tutto il resto – ho visto che oggi state risollevando la schiena per protestare. Finalmente.
Come dice? Sono solo proteste per una legge elettorale che vi vedrebbe svantaggiati? Allora siete solo capaci a protestare per salvare le vostre poltrone! E le “autostrade del mare”? Erano solo un sogno del giovane Werther?
Grazie, Ministro Bianchi: no, non fa nulla per l’assoluzione. Faccio a meno. Saluti “comunisti” (sic!).
P.S. La storia dei turni di 12 ore è tutta vera e sacrosanta: ho dovuto solo – nell’Italia dei diritti sanciti dai partiti “amici” dei lavoratori e dai sindacati rampanti – confondere un po’ le acque per non rendere riconoscibili luoghi e situazioni. Non per me, che non rischio nulla, ma per chi me l’ha raccontata. Capirà: c’è l’Italia dei ministerium, e c’è quella di chi “tiene famiglia”.

07 dicembre 2007

Poveri noi

Dimenticata e negletta, la nostra povera scuola torna a far parlare di sé soltanto in due occasioni: quando vengono pubblicati sul Web filmati di dubbia provenienza e liceità, oppure quando arrivano le “pagelle” europee. Il discorso, come vedremo in seguito, tocca sì la scuola, ma varca il portone di tutti gli istituti dello Stivale e s’espande nelle strade.
Quando giungono le “pagelle” dall’Europa, ogni Ministro della (Pubblica) Istruzione trema, come se si trovasse – imberbe diciannovenne – di fronte alla commissione di maturità.
Purtroppo, il nostro candidato sa di non aver studiato molto e dunque spera, tremante, nella Dea Bendata e nella benevolenza (o distrazione) della commissione.
I risultati, però, sono sempre deludenti: 33° nella lettura, 26° nelle scienze, 38° nella matematica…
A fronte di una simile débacle, l’attuale inquilino di Viale Trastevere ha escogitato di ripristinare i vecchi esami di riparazione, poiché – a suo dire – la situazione era intollerabile. Mi sa che, se non prenderà presto altri provvedimenti, fra pochi anni sarà ancora peggio.
Non è questo però l’aspetto che mi ha colpito nell’azione di Fioroni – ossia la questione di merito, pur discutibile – ma il metodo.
Con una circolare ministeriale, sono stati surrettiziamente reintrodotti gli esami di riparazione, che il ministro D’Onofrio aveva abolito nel 1994.
Non entriamo, per ora, nel merito del provvedimento ma fermiamoci al metodo, perché la forma è anche sostanza.
La riforma D’Onofrio ebbe un regolare passaggio parlamentare, mentre l’opposto percorso è stato attuato con una semplice circolare: a sua giustificazione, il Ministro Fioroni ha opposto l’argomentazione giuridica che non si trattava di reintrodurre gli esami di riparazione, bensì di modificare soltanto il sistema di recupero dei debiti scolastici. Il tutto – chi ha seguito un poco gli interventi dell’attuale governo sulla scuola lo sa – fa parte della cosiddetta “strategia del cacciavite”, tesa a cambiare le cose senza chiedere nulla al Parlamento perché – questo Fioroni lo sa benissimo – su molti provvedimenti l’attuale governo non avrebbe una maggioranza sufficiente per approvarli.
Ora, se per un solo debito non saldato si dovrà ripetere l’anno scolastico, chi ancora ha vissuto la stagione degli esami di riparazione non trova sostanziali differenze. Un bel ritorno al passato.
L’aspetto più curioso, nelle giustificazioni addotte da Fioroni per l’insolita via giuridica scelta, consentirebbe, ad un ipotetico governo che volesse ripristinare la pena di morte, d’usare il medesimo approccio.
Basterebbe cambiare il regolamento carcerario con una circolare interna del Ministero di Grazia e Giustizia, nella quale s’afferma che i condannati per omicidio – primo del loro ingresso in carcere – dovranno essere allineati di fronte ad un muro ed un plotone di guardie dovrà collaudare i mitragliatori in dotazione sparando loro nel petto. Fra l’altro, era il metodo usato nel Giappone medievale per collaudare le migliori spade.
Come si potrà notare, nessuno menziona la pena di morte. E gli esami di riparazione.
Ora, uscendo di metafora, rimane il problema di decisioni prese senza l’intervento del Parlamento, passate dall’Esecutivo e giunte sulle nostre teste senza il minimo controllo. E, in aggiunta, spesso alcuni ministri non partecipano nemmeno ai lavori di preparazione di tali provvedimenti: i ministri della sinistra radicale, ad esempio, non furono mai “invitati” alle trattative che sfociarono nell’accordo del 23 Luglio sul welfare. Una “dimenticanza” provvidenziale? Oppure consapevole?
Ecco, allora, che una decisione (ripeto: non stiamo parlando di merito) così importante per milioni di studenti, è stata partorita da un ristretto numero di persone (il Ministro, il Consiglio Superiore d’Istruzione e qualcuno del suo staff, presumiamo), è transitata in Consiglio dei Ministri praticamente “sulla fiducia” ed è giunta a modificare profondamente la scuola italiana. Senza discussione, senza confronto, senza dibattito né approvazione: questa è democrazia?
Ritorniamo allora per qualche istante ad analizzare come sono partorite le leggi: se hai una solida maggioranza parlamentare – come Berlusconi nella scorsa legislatura – ti puoi permettere il lusso del passaggio parlamentare. Non dimentichiamo, però, che la maggioranza di Berlusconi viveva in un Parlamento coatto, reso schiavo dai diktat di un padre-padrone che poteva – in qualsiasi momento – rovinarti vita e reputazione agendo su ben sei reti televisive, come le recenti inchieste hanno dimostrato. Solo poche settimane or sono, le reti Mediaste partirono all’attacco di Fini e Casini, tirando in ballo le loro vite private per screditarli e cercare di ricattarli sotto l’aspetto politico.
Se, invece, la maggioranza è risicata o – ancor peggio – divisa al suo interno, ecco che lo strumento principe per legiferare diventa il decreto, splendida “scorciatoia” istituzionale.
Si parla poco di questo aspetto, ma è molto, molto importante.
La Costituente, nella stesura della massima carta giuridica, previde come mezzo principe per legiferare il percorso ordinario, ossia l’approvazione da parte d’entrambi i rami del Parlamento. Oggi, possiamo discutere se sia ancora attuale avere due Camere “fotocopia”, ma dal punto di vista giuridico l’approvazione di una legge in Parlamento garantisce (almeno, dovrebbe…) che i rappresentanti eletti ne prendano visione, discutano, modifichino, approvino.
Siccome i Costituenti erano persone di grande equilibrio, compresero che – in particolari situazioni – quel percorso sarebbe stato troppo lungo: fu affiancato quindi dal Decreto Presidenziale e dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa approvazione del Parlamento entro (se ben ricordo) 60 giorni.
La ragione di tale impostazione è chiara: se devo stanziare delle risorse per un terremoto od un’alluvione, lo farò immediatamente ed il Parlamento – trattandosi di norme di buon senso – approverà.
La Decretazione, nella Costituzione Italiana, prevede l’esistenza di un’urgenza, ossia che lo stesso provvedimento – con il normale passaggio parlamentare – giungerebbe “fuori tempo massimo”.
Notiamo che, oramai, si legifera quasi esclusivamente per decreto, e se non giunge in tempo l’approvazione del decreto si reitera lo stesso, fino all’approvazione. Alcuni decreti legge, si trascinano da una legislatura a quella successiva.
Così, provvedimenti come il riassetto del welfare e delle pensioni, nascono con un decreto, un collegato alla Finanziaria, e vengono approvati senza discussione, con un semplice voto di fiducia.
Tutti usano ed hanno usato, da decenni, questo metodo, soprattutto dopo il 1994. In quale democrazia viviamo, allora?
Viviamo da molto tempo in una sorta di “Colpo di Stato” strisciante, nel quale i rappresentanti eletti non hanno voce in capitolo e, talvolta, non sono nemmeno chiamati a votare. Secondo Fioroni, un aspetto importante come la valutazione di milioni di studenti non vale nemmeno una discussione.
Per questa (ed altre) ragioni – non sussistendo mai una vera discussione di merito – viviamo una continua stagione di “riforme” laddove, in realtà, non si cambia mai nulla o molto poco, per tornare domani all’altro ieri.
Ecco perché le leggi appena emanate iniziano quasi sempre con “Visto il Regio Decreto numero…”: altro che futuro, altro che democrazia. Regi Decreti: accontentati e corri.

03 dicembre 2007

Invidiosi?

La notizia – una novità annunciata – che il partito del Presidente russo Vladimir Putin ha conquistato il 64% dei voti, e quindi la maggioranza assoluta alla Duma, ha squassato le cancellerie europee, come se non se lo aspettassero da tempo. O sono degli sciocchi, oppure – qualificandosi come “diplomatici” – possono da domani cambiare mestiere.
Pare quasi – da una sponda all’altra dell’Atlantico – che se delle elezioni non finiscono sul filo di lana, con un pugno di voti (quelli non sono mai comprati, chiaro?) a fare la differenza, oppure con interminabili strascichi sulla correttezza del voto, non siano elezioni democratiche. Da quali pulpiti vengono le prediche!
Alle ultime elezioni politiche italiane, tutti gridarono ai brogli, ma furono considerate pienamente democratiche: peccato che, nei cassonetti dei rifiuti della capitale, furono ritrovati scatoloni di schede. «Tutto normale, tutto sotto controllo» affermarono subito le autorità preposte, che nemmeno spiegarono come mai – a notte fonda – il ministro dell’Interno (Pisanu) di un governo dimissionario si recò a casa del Presidente del Consiglio. Era in programma una partita a scopone scientifico? A rubamazzetto? No, perché sia Berlusconi e sia Pisanu non fornirono nessuna spiegazione: e le “stranezze” dei comuni dov’erano sparite centinaia di schede bianche?
Saltiamo di là dell’Atlantico, e sollazziamoci dalle risate: laggiù, utilizzarono per votare nel 2004 le macchinette della Diebold, il cui software fu curato da un certo Jeff Dean – pregiudicato per 23 capi d’accusa legati al furto – e nelle cui mani fu lasciata la macchina elettorale che – come quattro anni prima in Florida – “lavorò” per il Presidente, invalidando d’autorità almeno 200.000 voti in Ohio, lo stato di Michael Moore.
La Diebold – la società che s’occupava (insieme alla ES&S) della macchina elettorale, per la quale lavorò Jeff Dean – aveva sede, guarda a caso, in Ohio. Inoltre, il vice presidente della Diebold ed il presidente della ES&S erano fratelli, e Dean fu proprio colui che stese il software di gestione del sistema elettorale – che non lasciava copia cartacea dei voti – cosicché qualsiasi controllo successivo sarebbe stato inutile.
Un fatto casuale? No; negli stessi anni, gli USA gestivano le elezioni-farsa in Iraq, distribuendo i certificati elettorali insieme alle tessere annonarie per l’acquisto del pane: c’è altro di cui meravigliarsi?
Sì, perché furono invalidate anche 100.000 schede in Alaska e, quando i Democratici chiesero conto di quelle invalidazioni – ossia di poter prendere visione del sistema elettronico che aveva condotto a quelle scelte – fu loro risposto che non era possibile, giacché si trattava di una questione di “sicurezza nazionale”. Niet.
Possibile che le nostre classi politiche non si siano ancora rese conto che, a fronte della loro inconsistenza, la Russia ha una dirigenza con i fiocchi?
Intendiamoci: ci sarà corruzione anche in Russia, non è certo tutto oro quello che luccica, ma gli atti politici non sono fumo e sogni, e li possiamo verificare.
Appena eletto, Vladimir Putin si ritrovò un paese a pezzi: nessuno avrebbe giocato mezzo centesimo sull’ex colonnello del KGB, di soli 47 anni, un pivello!
Il “pivello”, per prima cosa, fece un lungo tour – fra il 2001 ed il 2002 – nelle capitali dove sapeva d’essere ancora ascoltato: Tripoli, Damasco, Hanoi, Pechino…ossia, le vecchie alleanze dell’URSS.
Aveva pochissimo da offrire, ma lo offrì: 12 caccia Sukhoi-27 non cambiano certo la faccia del pianeta, ma il Vietnam li ricevette. Non si fece impressionare dagli ayatollah iraniani, e procurò loro avioniche derivate dal Mig-29. Quel poco che aveva.
Nella sua smisurata insipienza, George Bush non si rese conto che ogni dollaro d’aumento del greggio corrispondeva ad un parallelo incremento di prezzo del gas siberiano: fece spallucce e continuò a mangiare noccioline.
Fu a Mosca, però, che avvenne la mossa vincente: a fronte della scelta di privatizzazione del sistema energetico – propugnata da Eltsin – Putin compì un’inversione a 180 gradi, ripartendo dal concetto che la proprietà mineraria è dello Stato.
Potremo giudicare poco ortodossi i metodi usati – come se in Occidente s’usasse sempre il tappeto rosso! – ma oggi Gazprom è il secondo colosso economico mondiale, dietro solo a Microsoft (fino a quando?).
Già nel 2003, Putin reinvestiva il 50% del surplus derivante dagli introiti energetici nell’industria aerospaziale: oggi, la Russia ha in previsione un caccia di V° generazione per il 2012 (in collaborazione con l’India) ed una miriade di nuovi prodotti, aeronautici e missilistici, militari e civili.
Risultato: l’economia va meglio, al punto che Putin ha creato un “fondo di compensazione”, vale a dire una “cassa” da riempire nei periodi di vacche grasse, per non dover soffrire in caso di vacche magre. Lo facevano già nell’Antico Egitto.
Il tenore di vita della popolazione è migliorato, l’industria ha commesse e produce alta tecnologia, il sistema energetico produrrà utili per molti decenni, e non saranno pochi oligarchi a goderne i frutti, bensì lo Stato e la popolazione.
Si potrà criticare questo strano connubio fra ortodossia clericale e vecchi metodi da falce e martello, però in Russia ha condotto ad un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita e, soprattutto, alla consapevolezza che alla guida della nazione c’è qualcuno che lo sa fare. Come Presidente? Come Primo Ministro? Dal punto di vista costituzionale, Putin non ha infranto assolutamente nulla.
Come risponde l’Europa? Ah, la risposta c’è stata, siate sicuri!
Da Tirana, Romano Prodi – un po’ premier italiano, un po’ ex Presidente europeo – ha risposto per le rime: vogliamo l’Albania nell’UE e nella NATO!
Bene – viene da dire – aggiungiamo anche l’Albania alla Bulgaria ed alla Romania – paesi che non erano e non sono pronti per gli standard europei – continuiamo ad estendere la “cittadinanza romana” fino ai confini dell’impero. Fin quando, avremo una guardia pretoriana composta da soli Ostrogoti, che si mangeranno anche l’ultimo imperatore. Serbia e Croazia no: noi vogliamo l’Albania per fare uno “sgarro” ai russi. I quali, se vorranno, ci faranno passare i sorci verdi in Kosovo e ci chiuderanno (un pochino, tanto per farci soffrire un po’…) il rubinetto del gas.
I metodi di Putin sono veramente esecrabili – parola dei nostri politici – che nella stessa giornata hanno assistito alla condanna a due anni e quattro mesi di reclusione, per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio, di Donatella Pasquali Zingone, moglie del “fustigatore di costumi” Lamberto Dini. Ovviamente, la signora non vedrà mai le patrie galere: ci ha già pensato l’indulto di Mastella.
Oppure vogliamo chiedere com’è finita la vicenda di Previti? Con il medesimo indulto.
Forse, i tantissimi “fregati” dai bond Parmalat, da quelli argentini, fino ai milioni di cassintegrati e disoccupati, che generazioni di boiardi di regime, i quali hanno sciacallato l’Italia, hanno creato in questi anni, non si farebbero problemi se – un Putin locale – ne mandasse qualcuno al fresco. Anzi, notizia fresca di giornata: ci sarà anche la “rottamazione” in Finanziaria, tanto per non scontentare Lucherino da Montezemolo. La tradizione, anzitutto.
Se la Russia fa fortuna con le commesse energetiche, cos’hanno fatto i nostri governi per contrastare quella tendenza, ovvero per “intercettare” qualcosa dei 48 miliardi di euro (esborso 2006) che spendiamo per l’energia?
Hanno creato holding, catalizzato la produzione locale con ampi e generalizzati “conti energia”, mandato avanti il piccolo e micro idroelettrico, l’eolico, il solare termodinamico…insomma, hanno fatto qualcosa?
No, criticano Putin. Poco democratico: ci dispiace, venga a “ripetizione” da noi.
Da Mosca, un “marameo” lungo 5.000 miglia.

27 novembre 2007

La risposta delle cento pistole

Non è elegante citare sé stessi – tutti lo sanno – ma a volte è necessario farlo per riannodare i fili di un discorso lasciato in sospeso.
Osservo la strabiliante rivoluzione copernicana (e Gattopardesca) degli ultimi giorni e mi chiedo: era tutto così inaspettato?
Sono andato a rileggere un articolo che scrissi all’indomani delle ultime elezioni politiche – Aprile 2006 – dal titolo “La domanda delle cento pistole”, che potrete trovare facilmente sul Web. Sono circa 18 mesi or sono, ma allora tanti si cullavano nell’illusione di un “governo delle sinistre”, oppure in un pronto “ritorno delle destre”. Gli scenari, invece, già allora erano evidenti.
Ecco cosa scrivevo:

Fra cinque anni Berlusconi avrà circa 75 anni: non è più l’età nella quale si combattono le grandi battaglie elettorali; ci vuole un Delfino, che però non c’è, perché l’unico successore di Berlusconi – vista l’impostazione “aziendale” di un partito come Forza Italia – potrebbe essere solo il suo clone. Se il centro destra può affondare sotto i colpi di una eventuale (e molto probabile) sconfitta nel referendum sulla riforma costituzionale – giacché la Lega Nord non potrà superare un simile schianto, anche perché priva del suo leader storico – la base sociale che lo sostiene continuerà ad esistere.

Questa base sociale è quella di un paese che non è mai giunto alla maturità, che ancora non fa parte dell’Europa: sono i boiardi ed i parvenu di regime (d’entrambi gli schieramenti) che fra la sana competizione sul merito – associata ad un serio stato sociale – e le “combine” di regime scelgono senz’altro queste ultime. In altre parole, l’anticamera di un sottosegretario è senz’altro più affollata di una missione industriale in Oriente.
Anche se la corruzione tocca tutto l’arco politico, le responsabilità della borghesia sono più estese, giacché sono i ceti che dispongono di capitali a dare l’imprinting economico: questi ceti sono da sempre rappresentati dalle forze politiche di centro, dai tempi del “pentapartito” alla Casa delle Libertà. La quale, oggi è “implosa” non perché Prodi è riuscito ad approvare una Finanziaria, bensì perché era scoccata la sua ora. E chi sono i becchini/arabe fenici della situazione? Torniamo al vecchio articolo:

Una “riserva di caccia” della destra priva di Berlusconi e di Bossi è ciò che attendono il Gatto e la Volpe, ossia Casini e Fini, per rifondare un impianto politico basato sulle loro forze (molto radicate sul territorio), più un nuovo partito d’ispirazione liberale e gollista che potrà nascere dalle ceneri di Forza Italia. In definitiva, quindi, Prodi è oggi necessario anche al centro destra per il suo carisma in Europa – per cercare di sanare le astruse acrobazie di un tributarista che ha giocato a fare l’economista, un certo Giulio Tremonti – e rimettere in sesto l’economia per avere in futuro maggiori margini di manovra (e di spesa).

Il disegno di un “grande centro”, senza più l’ingombrante fantasma di Berlusconi, era da tempo nell’aria: Fini e Casini mordevano il freno da tempo e, oggi, il definitivo approdo al centro del Partito Democratico rende possibile quella prospettiva. I due non aspettavano Berlusconi, bensì Veltroni e Rutelli! E Berlusconi? Vediamo cosa sostenevo:

In fin dei conti, il Cavaliere da Arcore lavorava pro domo sua ed in questi anni lo ha dimostrato ampiamente: c’è da credere che cambi proprio adesso impostazione?
Il liberismo sfrenato della piccola e media impresa fa a pugni con qualsiasi tipo d’associazionismo: perché mai Berlusconi dovrebbe “associarsi” ad interessi perdenti quando può salvare sé stesso? La solidarietà non ha mai illuminato a giorno i salotti del capitalismo italiano.

La mossa di Berlusconi, quella di fondare un partito di destra, è disperata: allo scoccare delle nuove alleanze – puntualmente – è stata divulgata la gran scoperta dell’acqua calda: Rai e Mediaset erano un solo corpo bicipite! Questo è un vero e proprio “pizzino” nei confronti del Cavaliere: attento, Berluscon da Arcore, poiché questa volta stai rischiando non un partito od un futuro politico, ma le tue aziende! Consiglieremmo a Berlusconi ampi periodi di riposo in Sardegna: famiglia, nipotini e nulla più.
Chi è stato il gran regista occulto dell’operazione? Forse più di uno, ma qualche indicazione – già 18 mesi or sono – la fornivo:

Lo scontro interno a Confindustria condurrà inevitabilmente al rafforzamento di Luca Cordero di Montezemolo – che rappresenta l’altra faccia dell’imprenditoria, ossia i grandi gruppi – perché ha dimostrato d’aver puntato sul cavallo vincente: gli incentivi per la ricerca saranno appannaggio dei grandi gruppi industriali e non certo dei piccoli, che vedranno scomparire la loro ancora di salvezza, ossia la legge Tremonti sulla de-fiscalizzazione degli utili.

Lo scontro interno a Confindustria vide il suo apice al meeting di Vicenza, che avvenne pochi giorni prima delle elezioni del 2006: chi non ricorda la “platea” di piccoli e medi imprenditori che applaudiva Berlusconi, mentre la grande impresa era giunta lì solo per incoronare Prodi?
Qui va aperta una parentesi, che riguarda i rapporti interni alla borghesia: mi rendo conto d’usare un linguaggio che può sembrare “demodè”, ma è l’unico che può spiegare con semplicità il fenomeno.
C’è un aspetto unitario della borghesia – che potremmo riassumere nella pratica di rimanere classe sociale dominante – ma la borghesia possiede anche aspetti contradditori al suo interno, che la conducono a frantumarsi per competere sul piano economico e finanziario.
Così, gli interessi del grande capitale – attento agli sviluppi internazionali – possono non coincidere con quelli di chi produce beni per il mercato interno, oppure dei commercianti che sono in qualche modo legati alla potenzialità di spesa dei ceti meno abbienti.
La situazione internazionale – negli ultimi due anni – è sostanzialmente mutata: due anni fa Bush non era ancora “l’anatra zoppa”, non aveva un Congresso in grado di mettergli bastoni fra le ruote. In altre parole, doveva mediare molto di meno.
Oggi, invece, è chiaro a tutti che l’avventura neocon statunitense è fallita, ed è franata miseramente: i dati economici sugli USA e sulla divisa americana preannunciano scenari da brivido. Le avventure neocoloniali sono agli sgoccioli: la guerra in Libano del 2006 – a mio avviso – fu il giro di boa, quando s’accorsero con costernazione che Israele (con l’appoggio USA) non era in grado di raggiungere il Litani. Altro che guerra in Iran.
Tutto ciò non mette al riparo da nuove guerre (ricordiamoci di Clinton…) oppure da nuove alleanze nello scacchiere internazionale (le “aperture” della Francia a Washington…), ma il quadro futuro annuncia nuovamente scenari multipolari, laddove sarà necessario contrattare ogni mossa. Paradossalmente, Teheran e Caracas potrebbero correre più rischi dal prossimo inquilino della Casa Bianca che da un Bush “bollito”.
Questi mutamenti possono interessare poco alle piccole imprese – più attente a competere sulla qualità, oppure a trovare “santi in paradiso” per sopravvivere – mentre sono la principale preoccupazione del grande capitale: future commesse internazionali, grandi opere da realizzare in posti lontani, dopo il passaggio delle truppe.
In questo scenario, a chi affidarsi?
Come sempre, la poltrona più elevata di Confindustria coincide con quella della più grande azienda italiana: il signor FIAT del momento è anche signore di Confindustria, ed è anche deus ex machina degli equilibri politici, poiché oggi la grande borghesia – prospettandosi lo sblocco di una serie di “nodi” internazionali (Balcani, Vicino e Medio Oriente, Europa dell’Est, Caucaso) – già pregusta stratosferici affari.
Come si può notare, Berluscon da Arcore è una figura secondaria, utile al momento, oppure da gettare nella spazzatura quando non serve più. Andiamo a rileggere un’altra frase del precedente articolo:

Ciò spiega anche la strana “dimenticanza” del varo di una legge sul conflitto d’interesse fra il 1996 ed il 2001: in quel caso Berlusconi doveva essere lo spauracchio da presentare agli elettori del centro sinistra per far loro ingoiare anche i bocconi meno gradevoli. Oggi, invece, anche il “babau” non fa più paura perché cotto e stracotto soprattutto dai suoi stessi alleati, e dunque Romano Prodi potrà governare anche se avrà un solo voto di margine.

Puntualmente, Prodi se la cava per il rotto della cuffia ad ogni votazione al Senato: non è un miracolo? No, signori miei, è soltanto il prodotto dell’abile orchestrazione che i poteri forti – bancari ed imprenditoriali – azionano dietro le quinte. Qualcuno ancora crede che il Parlamento sia il luogo dove si sceglie la politica italiana? Torniamo ancora una volta al passato:

Nel momento stesso che il centro destra riuscisse a rifondare sé stesso, lì inizierebbe il campo minato per il professore, ma a quel punto – con i conti pubblici in ordine – il capitalismo italiano tornerebbe a “sdoganare” una destra divenuta “europea” e senza l’ingombro di un Berlusconi di troppo. Ah, dimenticavo: che c’entriamo noi? Niente, la “carne da cannone”, la fanteria, non ha mai interrotto il sonno dei generali.

La prova del nove finale? Osserviamo le dichiarazioni di voto che s’annunciano per la fiducia sul decreto del welfare: Rifondazione Comunista s’è vista sbattere la porta in faccia, nemmeno qualche misero emendamento per una legge che consegnerà generazioni di giovani alla schiavitù, non al lavoro. I Comunisti Italiani “ci penseranno”: meno male che c’è qualcuno che “pensa”, mentre gli altri finiscono a 90 gradi.
Entrambi, hanno annunciato che voteranno la fiducia. Poi, l’hanno “messa giù dura” per Gennaio: ci vorrà un “ripensamento”! Bisognerà “rifondare” l’alleanza! Secondo voi, qualcuno li sta a sentire? Se non li invitarono nemmeno alla riunione del 23 Luglio sul welfare!
In realtà, questi signori sono i peggiori traditori dei lavoratori – che ingenuamente, in molti, li hanno eletti – poiché sanno benissimo che la nuova “Santa Alleanza” fra Fini, Casini, Veltroni & Rottami Vari non li prevede. I loro voti sono serviti per ripianare i deficit di bilancio lasciati da Tremonti, per avere un po’ di fiducia dall’Europa, per tranquillizzare i banchieri.
Nessuno di loro ha nemmeno tentato di chiedere qualcosa (che era nel programma) sulla tassazione delle rendite: Prodi ha semplicemente risposto loro che non era “all’ordine del giorno”, un eufemismo che cela un “vaffanculo” istituzionale.
Eppure, non demordono. Perché? Poiché sanno che troveranno sempre uno scranno a 20.000 euro il mese, comode poltrone in TV, benefici a pioggia per i loro silenzi e le loro omissioni. Nessuno di loro ha il coraggio di comunicare la verità: terminata una stagione politica, si serrano le fila e si torna all’antico, ossia a contrattare le alleanze in Parlamento, alla conta delle preferenze truccate, ai “penta” ed “esa” partiti, al blocco di centro che ha addormentato il paese per decenni.
Giordano e Diliberto sono proprio indefinibili: ingenui o venduti? La borghesia, una volta concluso l’affare, liquida la manovalanza con pochi spiccioli.

14 novembre 2007

Lettera aperta al Ministro dell’Interno

Gentile On. Amato,
mi permetto d’importunarla mentre l’Italia è squassata da un vento di mille perché, giacché pochi riescono a capire come si possa definire un fatto “accidentale”, una maledetta “fatalità”, colpire a morte un giovane che si trova sull’auto e si sta recando ad una partita di calcio.
Non siamo rassicurati, convinti, acquietati dalle sue parole: non riusciamo a capire perché le circostanze “siano ancora da chiarire”; sembra che a non aver compreso nulla – paradossalmente – sia proprio il primo depositario della sicurezza interna, ossia Lei.
Le giustificazioni addotte ci sembrano un guazzabuglio di non sense, un tentativo puerile di giustificare l’ingiustificabile, di normalizzare ciò che normale non può essere.
Dapprima ci avete raccontato che il poliziotto aveva sparato in aria poi – forse rendendovi conto che la stavate “sparando” voi un po’ troppo in alto – vi siete corretti, per lasciar posto ad una ridda di “giustificazioni” e di “chiarimenti” che parevano quelli di un ragazzino che ha marinato la scuola e viene scoperto.
La prima cosa che mi ha subito insospettito – signor Ministro – è la sparizione del bossolo: non s’era in piena Amazzonia, non eravamo nelle paludi di Key West, bensì in una tranquilla area di servizio dell’Autostrada del Sole. Il tanto osannato RIS di Parma riesce a trovare mezzo capello in una scena del delitto a decine d’anni di distanza e…sparisce un bossolo?
No, ci racconti un po’ come stanno le cose, perché Bruno Vespa ci ha strapazzato i cosiddetti per anni, facendo e disfacendo il processo di Cogne in diretta, e oramai ciascuno di noi sa benissimo che, a quei professionisti, non sfugge nulla. Un bossolo: possibile?
Visto che un bossolo “scarta” al massimo di qualche metro, dopo l’esplosione, non è che – per caso – qualcuno ha “provveduto” subito a farlo sparire?
Dopo poco tempo – maledizione – salta fuori un testimone che afferma, e sostiene con una testimonianza agli inquirenti, che ha visto l’agente sparare ad altezza d’uomo. Finalmente, da un agente (di commercio) in viaggio, giunge agli italiani una parola di verità: gli aerei possono continuare a volare tranquilli, nessuno ha sparato in aria.
Sarà sorpreso anche Lei – Signor Ministro – e ne converrà che è assai strano che un agente di polizia spari ad altezza d’uomo senza un bersaglio, così, tanto per sparare. Una situazione d’emergenza? Qualcuno stava per essere ucciso, sopraffatto, ferito?
Non ci sembra, perché altri testimoni affermano che la breve baruffa fra una decina di persone, che s’era creata nel parcheggio per questioni di tifo, s’era acquietata quando le auto della polizia – dall’opposto parcheggio – avevano acceso le sirene.
Come spiegare l’arcano? Anche Lei, persona sagace e “sottile”, sarà incuriosito.
Vuoi vedere che… – per carità, è solo un’ipotesi – che l’agente ha meditato di sparare alle gomme dell’autovettura per, in un secondo momento, raggiungere l’opposto senso di marcia ed arrestare i tifosi?
Ci sembra un poco azzardata – lo ammettiamo – poiché non ne esistevano gli elementi: i ragazzi stavano andandosene, le macchine stavano per partire, ogni rischio di colluttazione era rientrato.
Sparare un colpo di pistola per colpire un pneumatico…a quella distanza?
Gli italiani – Ministro – non riescono a comprendere poiché sanno che, a 70 metri di distanza, nemmeno Guglielmo Tell riuscirebbe a colpire qualcosa con una pistola d’ordinanza. Per colpire una gomma a quella distanza, ci vuole una carabina.
A meno che, a meno che…l’agente non abbia millantato di poterlo fare…potrebbe essere…magari dopo alcune, brillanti prove al poligono di tiro, sostenuto dai risultati ottenuti…”Mo’ ci provo…” e gli altri stanno a guardare. Un’ipotesi troppo assurda?
Può esserlo senz’altro, lo ammettiamo, ma ricordiamo che la tragedia del Cermis – quella funivia tranciata dal timone di coda di un A-6 americano – avvenne perché il pilota aveva scommesso di passarci sotto. Una bravata.
Come dice, Ministro? Che non ne abbiamo certezza?
Certo, ha ragione: possiamo solamente ipotizzarlo (sulla base d’alcune notizie dell’epoca), perché non ci fu processo in Italia, tutto fu deciso lontano, negli USA. Tre anni di carcere, se ben ricordo, in parte condonati o roba del genere: il solito amorevole buffetto.
Faceste tanto i gradassi e finiste per farvi soffiare il processo sotto il naso: vuoi vedere che, se provavate a minacciare di rescindere il contratto d’affitto della base di Aviano, magari il processo sarebbe rimasto in Italia?
Adesso, sembra che tutta la faccenda sia soltanto una questione di ordine pubblico: addirittura, per le violenze accadute a Roma in serata, avete sibilato nuovamente la parola “terrorismo”.
Spero – Ministro – che qualcuno stesse scherzando, perché anche lei dovrà capire che – a forza di raccontare che la gente muore per le pallottole sparate in aria, oppure che le funivie cadono per nonsisabeneperché – qualcuno s’incazza e sono dolori.
Certo – Ministro – vorremmo tutti avere la sua flemma, il suo aplomb britannico, la sua elegante parlata germanica, la sua cultura, il suo savoir faire ma – che vuole – non tutti ci riescono.
Ci sono in giro giovani poco acculturati, che non comprendono le “sottigliezze” del linguaggio giuridico, che non afferrano come il reato ipotizzato per chi uccide sia “omicidio colposo” – ossia senza volontarietà dell’atto – mentre per quattro ragazzi che si spintonano in un parcheggio scatti subito l’ipotesi di “lesioni colpose”.
Temono – i poveretti – che nella patetica giustizia italiana, con le aggravanti e le attenuanti che s’accavallano a caso, le due sentenze potrebbero finire addirittura per assomigliarsi.
Lo so, Ministro, bisognerebbe fare uno sforzo per addentrarci meglio – tutti – nei meandri del diritto: che ci vuole fare, siamo soltanto il misero prodotto della scuola che voi ci propinate.
Se parliamo di sforzi, però, qualcosa si potrebbe fare.
Circa un paio di settimane or sono – a Napoli – una pattuglia di carabinieri sparò ad un’auto che non s’era arrestata ad un blocco. Risultato: un giovane ucciso. Subito dopo, la autorità (sono uno scrittore, so quando usare le maiuscole) comunicarono che “probabilmente i giovani avevano appena effettuato una rapina”.
Sentenziare la pena di morte per una rapina ci sembra un’interpretazione del codice penale assai estrema – ne conviene? – anche perché non sapremo mai – ci perdoni, ma talvolta la sfiducia c’assale – se veramente quei giovani avevano rapinato qualcuno. Di veramente certo, c’è solo il morto, colpito ovviamente “per caso”, magari sparando con un’arma corta a decine di metri di distanza su un bersaglio in movimento. I gommisti chiedono, all’unisono, una maggior precisione nel tiro, i becchini s’astengono, gli impresari di pompe funebri votano a favore.
Siccome io e Lei – signor Ministro – abbiamo qualche anno alle spalle, mi sono permesso di salire in biblioteca e di cercare un vecchio libro, che forse anche Lei avrà sfogliato.
Cerca e ricerca…alla fine – coperto di polvere – è saltato fuori: si chiama “Cronaca di una strage”. Non le dice nulla?
Ma sì, Ministro, era il 12 maggio del 1977 – adesso ricorda, so che ha prodigiosa memoria – stiamo parlando del ponte Garibaldi, dell’uccisione di Giorgiana Masi.
Terrorismo? Per carità, Ministro, non provi a barare con me: ci accomunano i capelli brizzolati e il mal di schiena.
Era una manifestazione non violenta indetta dal Partito Radicale dell’epoca, per sostenere alcuni referendum: non vado oltre, so che ha una mente prodigiosa. Se ha qualche vuoto di memoria, chieda al suo (allora) compagno di partito Fabrizio Cicchitto – lo troverà all’opposto balcone, fra le file di Forza Italia – no, non è più socialista. Cicchitto fece un animoso intervento alla Camera dei Deputati, laddove domandava lumi. Ne cito un breve estratto:

“Vi è stato un preventivo attacco contro chiunque si avvicinasse a Piazza Navona, da cui è derivata una situazione aggressiva verso i cittadini, per nulla organizzati, per nulla violenti…E’ la direttiva impartita alle forze dell’ordine che va nettamente contestata e condannata…”

Se vuole il testo completo dell’intervento di Cicchitto, sono a disposizione.
Sfogliando quelle pagine, mi sono chiesto che fine fecero le indagini per sapere chi aveva ucciso – colpita alla schiena – una ragazza che fuggiva sul ponte Garibaldi verso piazza Sonnino.
In quelle pagine – se vorrà, ripeto, sono a Sua disposizione – ci sono le fotografie di poliziotti in borghese che sparano ad altezza d’uomo, armati con mazze e bastoni (armi improprie per dei poliziotti, che dice?). Si vedono pistole e fucili “fumanti”, tutti in mano a poliziotti e carabinieri: anche quella volta, il morto fu dalla solita parte.
Il motivo della missiva è semplice – e qui concludo – perché si riassume in una sola domanda: quali provvedimenti furono presi per quei poliziotti in borghese, armati con pistole, fucili, mazze e bastoni, che sparavano su dei giovani che stavano fuggendo?
Di questo passo – con la sostanziale impunità dei “tutori” dell’ordine – dove andremo a finire? A quando la prossima “Uno Bianca”?
Con “sottile” cordialità
Carlo Bertani

11 novembre 2007

Sono aperte le iscrizioni alla nuova DC

L’accettazione, da parte di Veltroni, del sistema elettorale proporzionale è la grande novità, il giro di boa della politica italiana: ovviamente, siamo sempre all’interno del sistema del Gattopardo, ma qualcosa è mutato.
Da quell’annuncio, è tutto un rincorrersi verso il centro: Casini vede premiati gli sforzi di anni, Fini scende a rotta di collo la china che lo porterà all’abbraccio con Casini e lascia all’alpeggio Storace e la Santanché.
Silvio Berlusconi comprende il rischio, ed attua la contromossa: volete il grande centro? Dovrete fare i conti con me, con le camicie nere di Storace e con quelle verdi della Lega.
A sinistra, i rossi orfanelli di tanto clamore si contano, dopo il grande embrassons nous del Partito Democratico, e comprendono che il loro ruolo sarà quello del PCI d’antica memoria: opposizione e “governi ombra”. Non consideriamo rottami vari, come i rais Mastella e Di Pietro: per loro, ci sarà solo l’accasamento coatto o l’estinzione.
Per comprendere l’improvvisa accelerazione, dobbiamo tornare indietro di un paio di settimane, al monito lanciato – all’unisono – da Luca di Montezemolo e da Mario Draghi. Quando i poteri forti si muovono – Confindustria e Banca d’Italia – significa che gli equilibri non sono più coerenti con i desideri delle borghesie, finanziarie ed industriali, e che si deve cambiare.
Ricordiamo un passo del discorso di Montezemolo, laddove affermava che “il futuro della politica italiana non possono essere Grillo e la Brambilla”.
E passi che la FIAT non consideri Grillo un interlocutore – niente auto elettriche ad idrogeno? – mentre il rifiuto della Brambilla è più interessante: perché? Poiché la Brambilla è una creatura di Berlusconi: chi rifiuta lei, rifiuta lui.
In realtà, doveva essere lo scorrere del tempo a sancire la fine politica di Silvio Berlusconi – pensavano ad un governo Prodi autorevole, che durasse l’intera legislatura – ma così, per tante ragioni, non è stato. Che fare? Lasciare nuovamente al governo l’uomo di Arcore, che si trascina appresso l’amico Tremonti (mal visto sia in Corso Marconi che a Via Nazionale), con prevedibili scontri con il sindacato, con nuovi “tira e molla” fra i centristi e la Lega?
Ricordiamo che Berlusconi riuscì a fare quasi solo riforme “a futura memoria” – scuola, pensioni – oppure nate monche in partenza (quella costituzionale), perché anch’egli aveva a che fare con una maggioranza composita. Per altre – quella dei fondi pensione, ad esempio – non ci riuscì proprio, e sì che aveva una solida maggioranza parlamentare.
Silvio Berlusconi non è più l’uomo dei poteri forti, e il centro sinistra deve abbandonare “piantagrane” vari: tutti uniti per sorreggere la FIAT e le grandi banche, niente più grilli per la testa. Da Fini a Veltroni, tutti insieme appassionatamente: anche Dini chinerà il capo.
Il risultato? Una legge elettorale fatta ad hoc per favorire l’aggregazione al centro: stiamo tornando indietro, a prima del 1992, con i partiti che non indicheranno più un premier ma lo sceglieranno in Parlamento, come un tempo, con le classiche “combine” sottobanco.
Con il meccanismo delle preferenze, potranno affermare che gli italiani sceglieranno nuovamente i loro rappresentanti; dimenticano una cosa: con le preferenze, potranno nuovamente controllare il singolo voto, grazie al noto meccanismo della combinazione di numeri e di nomi. La mafia ringrazia.
L’accettazione dei diktat di Confindustria e della Banca d’Italia, nasce per i partiti da un’amara constatazione: se la Brambilla era l’icona di un Berlusconi dai capelli rossi, il vero pericolo poteva nascere soltanto da un partito che venisse alla luce dai movimenti che sono scesi in piazza con il V-day, e dalle proteste della Rete.
Lo sbarramento – potranno decidere se del 5% o del 10% (come ha chiesto Mastella) – li garantirà dal rischio di nuove formazioni politiche: la Casta, in questo modo, rinnova sé stessa al potere, cambia volti e numeri ma continuerà a controllare, sostanzialmente, il timone e le macchine della nave.
Un po’ di maquillage sarà necessario – comprendiamo – ma gli amanuensi della carta stampata e delle TV sono già pronti per una nuova, colossale operazione mediatica: d’altro canto, in Italia si riesce a far credere che un ragazzo muore, in un autogrill, colpito da una pallottola esplosa da una pistola che sparava in aria.
Possiamo fare qualcosa? A mio avviso, poco o nulla: stiamo lasciando scorrere settimane e mesi importanti, nei quali sarebbe stato possibile creare una nuova formazione politica, come affermo da tempo.
Molti storcono il naso, sostengono che chiunque vada al potere replicherà le magagne di sempre: siamo giunti al “contro-qualunquismo”. Altri si defilano nell’ombra, pronti a salire sul carro di Cesare.
Qualcuno ha sbagliato? Quando Grillo, dopo il V-day dell’8 Settembre, scrisse che ne prevedeva un altro per il 25 Aprile, qualcuno – sul suo blog – gli chiese: e cosa facciamo fra Settembre ed Aprile?
Ecco, quella era la vera domanda.

08 novembre 2007

Noi e loro

Ancora una volta, cerco disperatamente di guardare un programma televisivo fino al termine – in questo caso, “Anno zero” – e finisco per salire nello studio e mettermi a scrivere.
Finché trasmettono qualche intervista a Biagi od a Tonini va bene, ma quando i giornalisti presenti in studio iniziano a dissertare sulla libertà d’espressione in TV, mi viene da pensare dov’abbiano vissuto negli ultimi anni. In RAI?
Come fanno a non sapere che le nomine televisive sono tutte pilotate dal potere politico, da decenni? Perché non scorrono l’elenco dei cognomi presenti in RAI e li confrontano con quello dei parlamentari? Potrebbero munirsi di matita rossa e divertirsi a tracciare i collegamenti: ecco…Buttiglione Angela…Buttiglione Rocco…, Berlinguer Bianca…Berlinguer Enrico…
Ma fateci il piacere…
Il fatto curioso, perché squisitamente “RAI-centrico”, è riscontrare che lamentano una débacle dell’informazione: scarsa libertà, giornalismo d’inchiesta quasi inesistente, censura su tutto…
Tutto vero, ma vero per il giornalismo televisivo.
Io, sto scrivendo queste righe e non ho angeli custodi che mi suggeriscono cosa devo scrivere. Se mi garba, invierò il pezzo ad altri siti che lo pubblicheranno, oppure deciderò d’approfondire l’argomento…insomma, come un qualsiasi giornalista.
Io posso farlo: loro, no.
Domattina, pagherò questa mia libertà andando a scuola ed occupandomi – come faccio da decenni – dell’educazione dei ragazzi: stipendio basso, inutili “grane” a iosa, noiosissimi dibattiti sul nulla incombente, su una scuola che non si rende conto d’esser stata dimenticata da tutto e da tutti. Che s’arrangino i poveri “prof”.
Eppure, ho il mio spazio d’informazione: anzi, che spazio!
L’informazione sul Web cresce a ritmi del 5-10% annuo – oggi siamo intorno al 45% – e non mostra cedimenti: per la prima volta, nel 2007, gli investimenti pubblicitari televisivi hanno iniziato a scendere: TV, giornali, radio, riviste, tutti.
L’unico a salire? Il Web.
I ragazzi, oramai, non cercano altri canali d’informazione: se serve sapere qualcosa, lo digitano su Google oppure vanno a leggere Wikipedia. Con tutti i rischi del caso, ovviamente, sempre – però – minori di quelli che incontrerebbero ascoltando “Porta a Porta”.
Che dire? Questi signori – che identificano l’informazione con le loro dorate poltrone in TV – non si rendono conto che oramai sono dei dinosauri in estinzione: altrimenti, non avrebbero tentato di tapparci la bocca con il pietoso decreto Levi, aggirabile facilmente su provider esteri, e forse per questa ragione hanno desistito.
Il giorno che dal Web riusciremo a far emergere un’organizzazione politica – e credo che quel tempo non sia più così lontano – di questa gente parleremo come oggi si narra dei cantastorie. Folcloristici, fantasiosi, ma irrimediabilmente confinati nel ricordo.
E’ solo questione di tempo, quel tempo che in Occidente non sappiamo più considerare come un alleato, il quale lavora per noi e contro di loro. Sursum corda.

05 novembre 2007

Ignoranza, male primigenio

Nel volgere di pochi giorni, ci sembra d’aver scoperto che esistono bande di romeni che rubano e ammazzano. Facciamo appena in tempo a voltar pagina, che la trama del film “Un giorno d’ordinaria follia” si svolge sotto i nostri occhi. Un ex capitano dell’esercito – congedato per turbe psichiche – costruisce un bunker sul terrazzo condominiale, lo attrezza con trappole esplosive, “collauda” un lanciafiamme (era un capitano del Genio…) e dà inizio alla mattanza, sparando con armi di precisione a puntamento laser.
Il cadavere della povera Patrizia Reggiani è appena sceso nella terra che subito la segue quello di Pino di Sanfelice, che passava di lì per caso.
Due morti “imprevedibili” – qualcuno potrebbe affermare – e invece erano due morti evitabili, se solo si fossero comprese anzitempo le ragioni di quelle storie.
Pensando al film “Un giorno d’ordinaria follia”, un’altra pellicola mi torna alla mente, “Il tempo dei gitani”, di Emir Kusturica, e il filo dei pensieri mi riporta nello schermo della mente l’ex ambasciatore della Repubblica di Jugoslavia – un montenegrino – al tempo della guerra del Kosovo.
Sì, perché il diplomatico – pressato dalle domande che chiedevano lumi sull’apparente follia di quelle terre – rispose che, per comprendere i Balcani, e più precisamente la Jugoslavia, non si poteva far altro che “leggere i libri di Ivo Andric e guardare i film di Kusturica”.
Sembrerebbe – detta da un diplomatico – quasi una battuta per evitare domande e risposte imbarazzanti, eppure così è: senza afferrare il coagulo di vicende che si concentrano in quei luoghi, è quasi impossibile comprendere come mai una persona riduca in fin di vita una donna solo per approfittare del suo corpo. Così, è difficile capire perché un uomo malato di mente possa mantenere il privilegio dell’arma – tipico degli ex ufficiali – e che nessuno se ne renda conto. L’Esercito lo congeda perché non si fida più di lui, e lo consegna – armato – in un condominio della capitale.
Nella stessa città, per vie assai misteriose, il destino “recapita” un romeno, il quale s’imbatte in una donna che torna a casa una sera come tante altre, e finisce in tragedia.
In queste faccende, però, il Fato c’entra ben poco: sono gli uomini che creano il filo degli eventi.
Macrocosmo e microcosmo sembrano sovrapporsi in queste due vicende, quasi che le due follie – l’una definita quasi “antropologica” da frettolosi analisti, l’altra ritenuta oramai facente parte del nostro vivere quotidiano – siano fatali, ineluttabili, quasi “normali”. Eppure, di normalità – oramai – c’è ben poco.
Le statistiche ci dicono che i crimini sono diminuiti – non intendo commentare queste cifre, conscio che il noto “mezzo pollo” non ha mai sfamato chi il pollo non ce l’ha – ma credo che, una sola giornata “d’ordinaria follia” del nostro vivere odierno, stramazzerebbe in pochi minuti un abitante di mezzo secolo fa che dovesse giungere fra noi con la macchina del tempo.
Basta scorrere qualche giornale dell’epoca per rendersene conto: il delitto Fenaroli/Ghiani tenne banco per mesi, ma non avveniva lo stillicidio di violenza – spesso gratuita – come oggi accade. In questo senso, dobbiamo ammettere che siamo profondamente malati: i legami di solidarietà sono oramai labili, mentre quelli della competizione – stimolati dal sistema economico – prevalgono. Sui capitani in pensione e sui romeni girovaghi.
Su tutto, poi, regna oramai un senso di fatalismo che ci preclude di capire cosa sta succedendo.
A molti, oggi, risulterà incomprensibile perché la Romania sia entrata in Europa frettolosamente, senza che s’attendesse qualche anno di “decantazione” prima d’aprire le porte di quel paese all’UE.
Romania e Bulgaria sono entrate in Europa per precise ragioni geo-strategiche: dei rumeni e dei bulgari, a nessuno fregava un accidente.
La necessità, la fretta era dettata dal momento storico favorevole: prima che gli USA riescano a districarsi dal pantano iracheno, prima che la Russia torni ad essere così forte da gettare nuovamente la spada sui Balcani.
La furbesca Europa dei banchieri – conscia di non avere forza militare per un confronto – ha approfittato del momento favorevole per occupare uno spazio che altri, in quel momento, non erano in grado d’occupare.
Tanto per capirci, la debolezza economica di quei paesi, li consegna mani e piedi legati alle burocrazie europee, alle banche europee, al sistema economico europeo.
Cosa se ne fa l’Europa della Romania?
Del paese, in sé, poco o nulla ma del territorio sì, perché la Romania si apre sul Mar Nero, e sull’altra sponda del Mar Nero c’è tanto petrolio e tanto gas che vorrebbe giungere in Europa, ma non ci riesce. Fra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare.
Su quel mare s’affacciano l’Ucraina – sempre in bilico fra Russia ed USA – e la Turchia in bilico fra USA e UE. Da quelle parti ci sono la Cecenia, La Georgia, il Kazachistan ed il Caspio…ho, mio Dio, quanto petrolio e gas c’è intorno al Caspio…
Si può farlo giungere in Europa con i “corridoi” adriatici: il meglio sarebbe un percorso nella pianura serba, poi Montenegro o Albania, quindi la Puglia, ma c’è di mezzo un rompicapo chiamato “Kosovo”, che nessuno sa come risolvere. Si può optare per un percorso più a sud, che coinvolga Grecia ed Albania, ma dall’altra parte sempre sulle coste rumene bisogna andare a parare.
Ecco la soluzione dell’enigma, ecco perché due paesi con economie traballanti, con un controllo del territorio evanescente, con popolazioni nomadi che li attraversano hanno trovato casa a Bruxelles.
Scopriamo oggi i Rom e gli tzigani?
Veramente, sono secoli che viaggiano per l’Europa: già rubavano galline quando ero bambino, però non capitava mai che una donna che tornava a casa dopo aver fatto la spesa venisse uccisa in quel modo.
Qualcosa è cambiato, già, tutto cambia.
Ad uno di questi “cambiamenti” abbiamo dato una mano anche noi, anche se ne siamo immemori: quando l’UCK scese in Kosovo, nel 1999, si fece consegnare le piantine delle città e diede 24 ore di tempo ai Rom di quelle terre per andarsene. Chi fuggiva perdeva casa e beni, chi restava bruciava insieme alla casa: se avete dubbi, leggete la “Storia di Reska” – la troverete facilmente sul Web – per rendervi conto di cosa successe a Pristina, a Graçanica, a Kosovo Polje, a Mitrovica.
A Kosovska Mitrovica, in un solo pomeriggio, furono date alle fiamme 1.500 case di Rom che vivevano lì, stanziali, da secoli. Decine di migliaia di Rom, che vivevano e lavoravano in quelle terre, fuggirono in Serbia ed in Bulgaria: poi, come uccelli migratori, si sparsero ovunque.
Sarebbe ingiusto, però, non ammettere che i Rom sono molto diversi dalle popolazioni europee, differenti anche dalle altre etnie jugoslave. Le donne lavorano e mendicano – non battono il marciapiede, è assai raro – ed i bambini sono considerati forza lavoro a costo zero. Questa è la loro società, il loro modo di vivere, da secoli: a Bruxelles non lo sapevano?
I Rom che viaggiavano nell’Europa di 50 anni fa, trovavano un mondo contadino che quasi li specchiava: molti facevano i calderai, e non era raro che nelle campagne la gente acquistasse i paioli di rame dagli “zingari”. I quali, poi, se c’era qualche pollaio “invitante” lo visitavano, ma non accadevano tragedie.
Poi la comunicazione s’è espansa, e le TV occidentali hanno iniziato a “battere” i Balcani, con l’iconografia di un mondo opulento, facile, a portata di mano.
La linea di faglia dei due mondi ha iniziato a scricchiolare: il concetto del tempo ci ha divisi. Loro, che continuano a viaggiare con i loro ritmi antichi, con le loro abitudini ataviche – che noi non condividiamo, non accettiamo, non comprendiamo – e noi che ci affrettiamo sulla via del tempo, dove non ci seguono più.
Inevitabilmente, inesorabilmente, lungo le linee di faglia si scatenano i terremoti. Anche questo non sapevano a Bruxelles?
E a Roma? Nessuno poteva accertare che una “faglia” s’era creata – ed era stata quasi sicuramente certificata da una commissione medica militare – nella mente di un ex ufficiale? Nessuno ha pensato di privare quell’uomo delle armi? Non è la prima volta che persone che possiedono armi facciano macelli: in famiglia, soprattutto. E la vicenda della “Uno Bianca”? Non ci ha insegnato nulla?
Linee di faglia che si creano, nelle menti e nella storia, mentre noi procediamo immemori del nostro vivere, del nostro creare mondi mostruosi, per noi e per gli altri.
Alla fine – per dare giustizia a una moglie che tornava a casa pensando alla cena e ad un passante che probabilmente cercava una pizzeria – si scatena la “vucirria” di giornalisti e commentatori, mentre gli avvoltoi della politica si lanciano su quei due poveri morti per cercare d’accaparrarsene un’unghia.
Intanto, le linee di faglia, sotterranee, nascoste, continuano a fremere, a stridere, ad aggrovigliarsi. Fino al prossimo terremoto.

30 ottobre 2007

L’Italia dei Rais

La decisione presa da Mastella e da Di Pietro, di non approvare la commissione d’inchiesta sui fatti del G8 di Genova, fa male, anche perché – ricordiamo – un alto funzionario di Polizia, appena raggiunta la pensione, s’era affrettato a comunicare che l’irruzione nelle scuole dove dormivano i no-global era stata “macelleria sudamericana”.
Qualcosa da chiarire, quindi, c’era e rimane, di là delle pure e semplici rilevanze giudiziarie.
Invece, i due rais del Sannio e dei Bruzzi, hanno votato con il centro-destra: non per chissà quali motivazioni politiche, bensì per lanciare una messaggio nell’etere alle forze corazzate di sir Archibald Berlusconi, che scendono da Nord. Pietosa la giustificazione addotta all’Alto Comando dal rais Menelik Mastellà, un tempo alleato degli italiani, il quale ha risposto che – se tale ordine era stato concordato (nel programma) – “lui non lo aveva letto”. Il rais Hailé Depreté pare sia fuggito più ad ovest, verso la savana, e non si hanno sue notizie.
Non siamo ancora a conoscenza delle decisioni che prenderà il generale Graziano Prodi – almeno, ufficialmente, comandante delle truppe in Africa Orientale Italiana – ma sappiamo che i sommergibili stanno già salpando dalla base di Massaua, per ignota destinazione. Forse, una difficile e perigliosa navigazione li condurrà a ritrovare la via della Patria.
La situazione sta rapidamente degenerando: l’errore – che oggi qualcuno inizia ad ammettere a denti stretti – è stato fidarsi delle infide truppe coloniali: già i Romani diffidavano dei Sanniti, e gli ascari di Mastellà hanno confermato la tradizione. Incomprensibile, poi, l’appoggio dato al rais Depreté dalla “pasionaria” Franca Rame, ma si sa – come affermò un poeta “futurista” – “che la passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie, senza indagare se…
Il vostro corrispondente dell’EIAR vi saluta: raffiche di fucile mitragliatore s’odono per l’aria, e rumori di colonne militari in fuga sono oramai ovunque. Qui Radio Mogadiscio: arrivederci, Italia, arrivederci a tempi migliori!

28 ottobre 2007

Lupi, peli e antichi vizi

Avevamo appena assorbito i “colpi” conseguenti alle pessime riforme delle riforme del centro destra, il tentativo di chiuderci la bocca con il Decreto Levi, che salgono sul palco i poteri forti in prima persona – è raro che accada – per raccontarci come vorrebbero rivoltare l’Italia.
E passi che ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole, ma a tutto c’è un limite: quello della decenza.
Luca di Montezemolo si spaccia per gran moralizzatore della vita pubblica, ma dimentica che ha fatto affari fino a ieri sia con il centro destra e sia con il centro sinistra. Manco capace a non sputare nel piatto dove lui – oggi – e gli Agnelli – ieri – hanno gozzovigliato a piacere.
Eh, sì, perché fa comodo lamentarsi del pessimo welfare italiano, ma dimenticano che la regola è sempre stata: i periodi di vacche grasse per noi, mentre le vacche magre se le deve “sbucciare” lo Stato.
E poi, francamente: mai nessuna autocritica! Quando la FIAT produceva automobili che arrugginivano da sole, era perché conveniva acquistare l’acciaio greco – che costava un’inezia – perché raffreddavano le colate con l’acqua di mare. Acciaio al sale.
Chissà perché, invece, le auto tedesche sono da sempre costruite con materiali superiori, costano di più ma reggono al mercato perché – alla lunga – i costi di manutenzione sono inferiori.
Le cose da raccontare, sul parossistico capitalismo italiano, sarebbero tante: da quando la Terni produceva acciaio di qualità inferiore alla Krupp e lo rivendeva a prezzi più alti alla Regia Marina. Oppure da quando – negli anni fra le due guerre mondiali – la Caproni di Reggio nell’Emilia presentò un velivolo bimotore, monoplano metallico con cabina pressurizzata, che precedeva di quasi un decennio i DC-1 e DC-2 americani. Perché non fu prodotto? Poiché non si trovarono i finanziatori: la FIAT, quando le conviene, sa muovere le sue pedine. Vestivamo alla marinara, e ci piacevano i biplani.
Invece di venirci a strapazzare i cosiddetti, Montezemolo provi a fare l’imprenditore come Dio comanda: perché le ammiraglie Lancia costano parecchio di più dei modelli tedeschi?
Perché il progetto della nuova Fulvia HF è fermo da anni? Gli altri hanno riprodotto – in chiave moderna – Maggiolini e Mini Minor, ed oggi le vendono.
Per essere considerato un interlocutore politico valido, provi prima a dimostrare di saper reggere al mercato senza correre ciclicamente sotto le gonne di mamma-Stato. Provi a proporre contratti innovativi come alla BMW – 28 ore settimanali su 4 giorni – e vedrà che la produttività cresce.
Invece, il Lucherino pensa a contratti ancora più “flessibili”, perché il capitalismo italiano sa solo fare la rincorsa sui costi di produzione, non sull’innovazione.
Dopo Mortadelle e Cavalieri, ci tocca anche sorbirci Draghi (Mario, “in completa sintonia” con Montezemolo) e Carrozzieri. Quante occasioni si perdono per star zitti, caro Montezemolo e, se la cravatta non sai tagliartela da solo, noi non siamo certo i tuoi camerieri. Arrangiati, sei grande e vaccinato.

24 ottobre 2007

Il tempo del Gattopardo è scaduto

Ieri sera avevo meditato d’accendere il televisore e di guardare Ballarò: confesso d’aver resistito soltanto una mezzora, ma è bastato per farmi correre un brivido lungo la schiena, Parossismo allo stato puro.
Non dilunghiamoci ma, un Diliberto che consegna “metaforicamente” alla telecamera un disegno di legge per ridurre i costi della politica, mi fa letteralmente cagare. Dov’eri negli ultimi 15 anni?
Gli risponde un Maroni che cita la “debacle” economica del governo Prodi: rapporto deficit/PIL al 4,3%...debito al tot%...e continua: dati dell’Unione Europea del 2006. Dimentica che i dati erano quelli della sua ultima Finanziaria, stesa nell’ultimo anno del centro destra. Sorvoliamo sui minuetti fra sindacalisti ed imprenditori: in Italia si guadagna poco. “Mo’ me lo segno”, avrebbe risposto Troisi.
Sale quindi sul desktop l’icona di una ragazzina rossa come un semaforo: mi chiedo se vicino ci sia anche Roger Rabbit. Poi comprendo che quella Michela Vittoria Brambilla – nome ben scelto, complimenti, suona bene…Publio Virgilio Marone…Quinto Fabio Massimo… – dovrebbe essere il Veltro del centro destra. Che fu da Feltre a Montefeltro?
No, la ragazza non è il Veltro – mi correggo – perché è “nuova”. Ma chi c’è dietro?
Se non è un Veltro allora è un “gratta e vinci”, un’icona da grattare con la monetina.
Sì, perché penso a cosa succederà domani, quando un povero “marun” (piemontese: sfigato) Prodi porterà i libri in tribunale e tornerà a Bologna. Gratteranno la Michela ed apparirà il viso di Tremonti – dopobarba al mentolo – che ci ammansirà sui decimali del nuovo deficit, della nuova manovra, che non ha ragione l’UE ma non ha nemmeno torto lui. Che tutti sanno tutto e noi niente. Perché, figli miei – risponderebbe il Marchese del Grillo – io so’ io e voi non siete un cazzo.
Basta, premo sul pulsante del frullatore e li sbatto oltre l’orbita del teletrasporto: zoooooooooom! Telecomando. Spento. Come sarà l’alba del giorno dopo?
L’alba del giorno dopo, nella quale sto scrivendo, è grigia e simile a tante altre ma ha un che di diafano, e una vena d’angoscia ha tinto anche i platani della piazza. Questi – rifletto – stanno per lasciarci un’eredità di quelle che stramazzano un toro, e noi non siamo pronti. Le cose stanno accelerando improvvisamente, con Diliberto che non consegna – metaforicamente – un disegno di legge al cameraman, ma le dimissioni di un’intera classe politica allo sbando. Che cerca conforto nel viso dolce e un po’ smarrito di una ragazzina appena uscita dal casco del parrucchiere.
Chi mi riparlerà di domani luminosi, dove i muti canteranno e taceranno i noiosi” cantava Fabrizio 40 anni fa: chi potrà risarcirci di tanto sfascio?
Riflettiamo che non c’è voluto molto: è bastato l’8 settembre, il V-day, per innescare tutto, una spirale di parossismo che ha condotto un Ministro della Giustizia (noi non toccheremo mai un giudice che indaga!) a licenziare un magistrato.
Il dramma è che tutto questo sta per cascarci addosso e non siamo pronti. Dobbiamo correre ai ripari, e in fretta.
Non penso che chi ha partecipato al V-day chiedesse cose tanto diverse rispetto al milione di persone che sabato scorso sono scese in piazza per urlare a Prodi “ma che vai facendo?”, non credo che Veltri, Beha & Co, la pensino poi così diversamente. Perché qui, amici miei, non ci si sente solo più dei poveracci quando si varca il confine francese: oramai, ci si sente disgraziati quando si va in Slovenia.
Abbiamo bisogno di persone che la smettono di presentare proposte di legge ai cameraman, e ringraziamo le ragazzine acqua e sapone: necessitano persone che sappiano cosa fare per un prezzo del petrolio che s’impenna di 10 dollari ogni 4-5 mesi, che decidano cosa fare dei nostri poveri fantaccini in Libano, quando Bush vaneggia oramai come Hitler nel bunker.
Le cose da fare non sono poi tantissime, e sappiamo anche quali sono: non capiamo perché si debba fare una riforma per decidere che farai il precario “soltanto” per 51 mesi (e dopo?), oppure perché si “migliorano” le pensioni per andarci da 60 anni a 62.
Abbiamo bisogno di ristrutturare la nostra forma di Stato – nessuno ha Stato, Regioni, Province, Comuni, Circoscrizioni e Comunità Montane, non c’è nazione che possa farcela a reggere un simile fardello! – le alternative sono poche: lo stato napoleonico (Stato – Province) oppure “simil-federale” con Stato e Regioni.
E poi, via i comuni con meno di 5.000 abitanti: non ce la possono fare, con pochi mezzi, a svolgere i loro compiti. Sono degli inutili Fort Apache!
Smettiamola di raccontare che c’è una “crescita economica”, perché ogni aumento dell’economia lo consegniamo ai banchieri con il signoraggio. Paradossalmente, ci converrebbe non crescere per niente, almeno non aumenteremmo il debito!
E poi un colpo di spugna sull’infinità sequela di cazzate e ciarpami: come si fa ad introdurre nuovamente l’esame di riparazione ad anno scolastico già in corso! Perché De Magistris non ci può raccontare quel che è successo? Perché Rete4 non va sul satellite? Perché i manager ingrassano sfasciando le aziende pubbliche e le vecchiette devono campare con 512 euro il mese?
Le cose le sappiamo, inutile continuare.
Oggi abbiamo a disposizione il Web: usiamolo.
Lancio da queste pagine una proposta operativa: a Grillo, a Beha, a Veltri, oserei dire alle “buonevoglie”, ovunque siano, basta che non siano i soliti marpioni riciclati.
Iniziamo a stendere un programma organico ed a costituirci in qualcosa di più tangibile dei blog: se dobbiamo chiamarlo “partito” non fa niente, non facciamoci spaventare, basta chiarire anzitempo – con un programma chiaro – cosa vogliamo fare e, per questo, un mese di dibattito organizzato sul Web è sufficiente. Con tanto di voti alle varie proposte.
Dopo, facce nuove che raccontano cose nuove, che non abbiano paura di prestare la propria faccia non per una nuova stagione politica – il tempo del Gattopardo è scaduto – ma per una nuova Italia. Basta con l’inno di Mameli: meglio quello di De Gregori.
Un nuovo partito non raccoglierebbe abbastanza consensi per farcela da solo a governare? Non fa niente. Entrerebbe comunque in Parlamento e restringerebbe le aree di manovra dei centro/destra/sinistra, che si vedrebbero costretti ad evidenziare sul proscenio quelle alleanze “innaturali” che già sappiamo esserci.
Farebbero di tutto per rimanere attaccati alla poltrona – questo è certo – ma agendo in quel modo non sortirebbero altro effetto che salire ancor più sulla berlina e mostrare a tutti – ma proprio a tutti – il sedere nudo. Accelerando esponenzialmente la loro caduta.
Facciamo in fretta, però, perché le mie “antenne” mi dicono che il tempo è agli sgoccioli. Non vorrei che si realizzasse la profezia di Gianni Agnelli, ossia che saremmo stati salvati la prima volta da un Cardinale, e la seconda da un Generale. E io, di generali con o senza stellette, non ne voglio sentir parlare, anche perché i Cardinali – sotto mentite spoglie – sono già sfilati.
Se ritenete che questa sia soltanto una sequela di cazzate, un brutto risveglio, un torpore della mente che si è tramutato in uno sfogo, non temete e rassicuratemi. Tranquillo, Bertani: hai solo fatto un brutto sogno.
Altrimenti, serriamo le scotte, chiudiamo i boccaporti e cerchiamo un buon locale in porto dove poter discutere su come reggere alla tempesta. Estote parati.