Sinceramente,
volevo parlare di lingue: non quelle bollite, in bagnèt verde, salmistrate o
con capperi ed acciughe bensì quelle che ci servono per comunicare. Poi…Il
dibattito sull’accordo italo-cinese ha raggiunto tali livelli che ho rimpianto
il vecchio bar Sport all’angolo, dove almeno se si nominava Gigi Riva tutti
tacevano ed assentivano, pensosi, e così ho pensato di dare una mano. Non per
spingere qualcuno giù nel dirupo, ma per aiutare a non finire tutti nella rupe
Tarpea dell’insipienza, ammanigliati ed uniti dall’unico desiderio: dirla (sul
web non ha senso farla) più grossa dell’altro.
Che dite, ci
proviamo?
Tutto iniziò con un
popolo di emigranti disgraziati per loro parte, che ebbero una particina
marginale nel tentativo blasfemo di dare un giro di volta al Great Game
del’Asia che, come ben saprete – nell’ultimo ventennio dell’800 fino alla 1GM –
occupava le scacchiere con tre attori: Russia, Cina ed Impero Britannico.
Orbene, quel popolo
di sgomitatori, che anelavano a qualcosa in più di qualche uadi desertico in
Africa Orientale, per l’incrinarsi dell’Impero Cinese si videro assegnare una
porticina laterale chiamata Tien-Tsin, che distava da Pechino quanto Oslo da
Palermo.
Questo per dire che
noi, italiani, inviammo un corpo di spedizione – con annessa flotta – per
tentare di colonizzare l’unico Paese al mondo che colonia non era mai stata,
ossia la Cina la quale, mezzo secolo dopo, si presentò seduta, alla conferenza
di pace che doveva giudicarci in quanto vinti, sullo scranno dei vincitori.
Una vicenda
lapalissiana: Pirandello ci avrebbe sguazzato alla grande.
E’ interessante,
per parlare dell’oggi, appressarsi a quei giorni così lontani – ricordate “L’ultimo imperatore” di Bertolucci? –
eppure non c’è paragone più calzante.
Un popolo
colonizzato fino all’altro ieri, che tentava di colonizzare – in sest’ultima
fila, sia chiaro – chi non conosceva nemmeno il significato della parola
“colonizzazione”, non perché avessero vissuto chissà quali nirvana nei secoli
precedenti, bensì poiché ogni sopraffazione era stata interna, proveniente da
una parte del suo stesso insieme. E cos’era questo insieme?
La lingua.
I cinesi sono stati
fra i primi a giungere alla lingua come mezzo di comunicazione, e come
contenitore degli eventi passati di un popolo. Che cambia: incessantemente,
rovinosamente, gloriosamente.
Crearono una lingua
ideogrammatica, come gli egizi, ma mentre i secondi finirono sotto il giogo Romano,
loro non ci giunsero, perché Traiano si fermò a Ctesifonte e non osò dare la
mazzata finale all’impero dei Parti (o persiano che dir si voglia), che fungeva
da “cuscinetto” con il grande Oriente cinese – del quale i Romani erano
perfettamente a conoscenza, giacché Roma era invasa da sete cinesi, al punto
che ci sono giunte le lamentazioni degli imperatori per i troppi “aurei” che
volavano in oriente – del quale, però, avvertivano “a naso” la potenza, e non
si fidarono a sfidarlo. I Germani bastavano ed avanzavano.
E passano così due
millenni. Ma la Cina aveva già alle spalle un paio di millenni di Storia, e
così assommava a quattromila. Dio com’è lungo da scrivere: “quat-tro-mi-la”…E
cos’avevano fatto in quei 4000 anni? Di tutto. Di più e di meno, di meglio e di
peggio: sempre all’interno della stessa lingua, vergata col pennello dalla
sapiente casta dei mandarini, i funzionari imperiali che celavano le mani nelle
lunghe maniche per mostrare a tutti che loro non le usavano per lavorare,
bastava la mente.
A parte le
quisquilie, come la metallurgia finissima, la polvere da sparo – bistrattata!
Usata per giochi di luce! – la bussola, la stampa…cos’aveva partorito quella
mente collettiva, di generazioni di sapienti?
Tre Libri.
l’I Ching – il libro del Mutamento – il Nei-Ching, il canone medico cinese, ed
il Tao-Te-Ching, il libro del Tao
Universale. Kung-Fu-Ciang (Signore del Kung-Fu), detto in Occidente Confucio, coetaneo di Budda Sakyamuni e
Socrate, li definiva “molto antichi”.
Vi potrei
raccontare d’altre “avventure” cinesi – come quando, nel 1400, giunsero fino
all’attuale Mozambico con una flotta d’alto mare (non giunche) e 25.000 uomini
d’equipaggio ed armati, e poi tornarono indietro – e di quando Vasco da Gama fu
condotto fino alle Mollucche proprio dai discendenti di coloro che avevano
fatto i piloti per i cinesi. Ma a che servirebbe?
Siamo stati noi ad
aprire lo scrigno cinese, “noi” nel senso di russi, inglesi, francesi,
tedeschi, australiani, americani…sì, nell’ultima fila anche qualche italiano…e
adesso ci domandiamo, angosciati: cosa vogliono da noi?
Noi, che non ci
siamo domandati cosa volevano gli spagnoli, cruenti dominatori, gli scaltri
francesi, sempre pronti a propalare il meglio ed appoggiare il peggio che
esista, per puro interesse, oppure gli stupidissimi, ma armatissimi, americani
ed i loro scaltri cugini britannici…cosa volevano? Dominarci, sfruttarci.
Oggi, sembriamo
pazzi di paura perché un cinese ci propone un accordo commerciale. Giungiamo a
dire che inquineranno i nostri porti, vomiteranno nelle nostre acque i loro
veleni e dimentichiamo che, fino a ieri, i sottomarini atomici USA scaricavano
quel che volevano nei nostri mari, che le petroliere a stelle e strisce o con
la Union Jack, ci affumicavano e lavavano le loro cisterne appena oltre
l’orizzonte (a volte meno)…adesso no, abbiamo paura addirittura dei gamberetti
in agrodolce.
Dominare, vincere,
brutalizzare, umiliare: questi sono i verbi che conosciamo.
I cinesi non
credono in questo principio, ossia non pensano che una vittoria economica o
militare sia un obiettivo da raggiungere perché porta stabilità. Nel loro modo di pensare – che è molto simile al nostro,
antico panta rei – sanno che la
mutazione, il cambiamento sono il leitmotiv dell’avventura umana, e dunque non
se ne preoccupano, credono di più nell’armonia
del mutamento. Se avete letto il Libro del Mutamento (I Ching) – miracolosamente scampato alla distruzione del V secolo
a.C. – ne capirete (rectius:
sorseggerete) meglio il significato (migliore la traduzione di Richard
Wilhelm).
La Cina è sempre
rimasta, dunque, un enorme contenitore culturale isolato: almeno, la Cina che
conosciamo, perché nel V secolo a.C. un imperatore si svegliò la mattina e
decise che tutto quello che c’era stato prima andava abolito, distrutto,
dimenticato. Almeno un millennio di vita cinese andò in fumo, con il rogo di tutti
gli archivi.
Riflettiamo che,
nell’epoca nella quale i cinesi bruciarono i loro archivi, in Europa la lingua
scritta non era ancora giunta: i più bravi, in quell’epoca, mungevano le
pecore.
Si corse lo stesso
rischio durante la “rivoluzione culturale”, quando le Guardie Rosse si
presentarono all’Archivio di Stato per darlo alle fiamme: per fortuna si
presentò di fronte a loro un vecchio, con una pistola in mano, che disse “Dovrete passare sul mio cadavere”. Era
Ciu-En-Lai, l’ex Ministro degli Esteri. E non osarono.
Qualcuno ricorda il
Tibet, per avere ancor più paura. Lo venite a raccontare a me, un buddista di
tradizione tibetana? Avete mai parlato con un Lama tibetano? Avete conosciuto
S.S. il XIV Dalai Lama, Tenzin Ghiatzo?
La Cina del
dopoguerra era un Paese affamato, che giunse a maturare una sciagura per
sfamarsi: non lo dico io, lo dicono gli stessi Lama tibetani: raccontano di
“gare” per accaparrarsi un torsolo di cavolo marcio nel fango, fra prigionieri
e popolazione civile.
Le soldataglie cinesi
presero tutto quel che riuscirono a prendere, dall’oro al legno: fu un’amara
lotta fra poveri dignitosi (i tibetani) e miseri senza dignità (i cinesi). Ma
fu. Allora.
Oggi molte cose
stanno cambiando: i cinesi hanno collegato Lhasa al mondo con un aeroporto ed
una ferrovia – non lo fanno certo per carità – ma hanno costruito anche scuole
ed ospedali. Può darsi che si giunga, in futuro, ad una pacificazione
definitiva: in fin dei conti, i Lama tibetani erano considerati i “protettori”
dell’Impero Cinese.
Tutto,
ricordiamolo, iniziò sempre con noi, gli occidentali – russi od inglesi poco
cambia – che destabilizzarono un sistema equilibrato da secoli, da millenni: le
truppe inglesi entrarono in Lhasa nel 1904.
E noi ci
spaventiamo, abbiamo paura che taglino il codino alle nostre Mercedes? Vedremo.
Tanto, che ci possiamo fare? Siamo stati noi, con la smania dei nostri
investimenti, a svegliare il Dragone: smettiamola di lamentarci come
donnicciole.
Mirabile sintesi storica.
RispondiEliminaMa che io sappia il rogo dei libri non è del V sec. a.c.
Lo ordinò il Primo Imperatore, Qin Shi Huang Di, 259-210 a.c. sostenuto dal suo ministro Li Si,che aveva abbracciato l'interpretazione nazista di Confucio