Le bandiere, che il Comune ha fatto infiggere in ogni dove, sono immobili come l’aria che le circonda: piove, tutto è zuppo di un’acquerugiola fastidiosa, la Bormida s’accascia lentamente, ma inesorabilmente, nelle aree di barena, ed il mio umore ne risente.
Riesco appena a scorgere quelle bandiere, dai finestrini appannati dell’auto, e le interrogo: siamo tristi – rispondono – l’acqua non ci perdona e c’inzuppa, gli operai del Comune sono infastiditi dall’incombenza in più e quasi ci odiano, la gente c’osserva frettolosa ma quasi non ci nota, qualcuno non ci vorrebbe e – se potesse – ci sputerebbe pure.
Perché dobbiamo star qui, ad afflosciarci – inutili – mentre il cielo non concede venia e nessuno verrà, domani, alla commemorazione?
Quante domande, bandiere mie: sono troppo piccolo per rispondervi, troppo giovane per aver visto e troppo vecchio per illudermi.
Posso, però, raccontarvi delle vostre nonne, delle bandiere che garrivano al vento in un altro anniversario, quello del 1961: era il centenario!
Vi piacerebbe ascoltarmi?
Dai, racconta, che tanto qui fa solo freddo e ci si bagna. Inutilmente.
Avevo dieci anni ed i calzoni corti, al ginocchio, quelli “belli”, di lana, con tre bottoni cuciti a lato: erano proprio eleganti. Col mio papà alla guida avevamo preso l’autostrada per Torino: soli, io e lui, perché il mio fratellino era ancora troppo piccolo per venire con noi e la mamma era rimasta a casa, ad accudirlo ed riposarsi un po’, dal lavoro e dalle fatiche della casa.
L’autostrada era bella, dai finestrini della “Millecento”, e il mio papà ogni tanto sorpassava, metteva la freccia e sorpassava le “Seicento”, per far vedere che lui aveva la Millecento. Cosa volete: era fatto così.
Terminata l’autostrada, eravamo sfilati per tutto Corso Giulio Cesare, ed avevo abbassato il finestrino: era proprio una bella giornata di sole!
Finalmente, dopo aver superato mille semafori e tante giaculatorie, rivolte ai passanti che attraversavano incuranti delle strisce pedonali, in lontananza cominciò ad apparire “Italia ‘61”, la grande mostra per il centenario.
Sapeste che bella figura facevano le vostre nonne!
Erano tutte bellissime e pulite: leggere, accarezzavano il vento e dappertutto regalavano colore, sensazione di festa, con le prime gemme degli alberi a fare da coro.
Posteggiammo l’auto distante dalla mostra, perché non si doveva arrivare con l’auto, no: avremmo perso la prima meraviglia della festa.
Salimmo, così, una scala e…stupore! In alto, quasi sopra le fronde degli alberi, c’era un treno!
Era la famosa monorotaia.
A dire il vero, ricordo poco di quel breve tragitto: era così veloce!
In ogni modo, fu meraviglioso attraversare un laghetto con quel treno sospeso nell’aria, perché lo spettacolo era meraviglioso.
C’erano due grandi palazzi: uno cubico, in fondo, e l’altro strano: lo chiamavano “Palazzo della Vela” perché era tutto sghimbescio…come sarebbe stato difficile disegnarlo, se me l’avessero chiesto a scuola!
C’erano poi 19 – dico, diciannove! – villette che rappresentavano le Regioni d’Italia e, dentro ad ognuna, una mostra delle particolarità, delle differenze, delle ricchezze, delle meraviglie che componevano quel grande mosaico chiamato Italia.
Ne visitammo qualcuna e vidi così degli animali strani – i bufali – che erano nella villetta della Campania – erano solo fotografie, mica erano veri! – però io non sapevo che in Italia vivevano i bufali, ero convinto che fossero solo in Africa!
Sarebbe lungo raccontavi tutto quel che vidi, perché c’era così tanto…di tutto! Le vette delle Alpi ed il mare infinito, che avevo visto solo due volte, a Genova, dove avevo persino visitato una nave da guerra, ero stato proprio accanto a quei cannoni smisurati!
La gente era felice, si vedeva: compravano noccioline e gelati, panini e bibite e non mancavano d’acquistare i pacchettini di becchime da dare ai piccioni. Fu proprio una gran giornata: solo che, al ritorno, ero così stanco che m’addormentai sulla Millecento e, giunto a casa, papà dovette portarmi in braccio fino al letto.
Com’è successo che, il mattino dopo, non avevo più addosso i miei bei pantaloni, ma solo il pigiama?
Sono arrivato a casa, bandire mie: spero d’avervi consolato almeno un poco, perché a stare appese con quest’acqua ingiuriosa, con quest’indifferenza attorno, verrebbe da intristirsi a tutti.
Adesso che ho richiuso alle mie spalle il portone, e non potete sentirmi, verrebbe a me da piangere.
Non si può celebrare un 150esimo anniversario quando, prima, non s’è fatto nulla per costruirlo, per renderlo qualcosa da ricordare.
In questi 50 anni ho rivisto quel palazzo della Vela abbandonato, coi vetri rotti, solo illuminato dai fuochi delle prostitute: poi parzialmente ristrutturato, poi nuovamente abbandonato, poi ristrutturato…e la monorotaia?
Qual treno, dov’è finito?
Doveva continuare, entrare nel cuore pulsante di Torino e correre, ovunque: perché? Anni dopo, quando ero studente a Torino, ancora lo cercavo ma non c’era più. Prendevo il tram per andare in facoltà: chiudevo gli occhi e mi ritrovavo nel sole, sulla monorotaia, con papà al fianco.
No, bandiere mie, sarebbe meglio compiere un atto di consapevolezza e celebrare la Giornata del Fallimento, della Discordia, del Dolore per quanto non siamo stati in grado di fare in questi 50 anni. E, soprattutto, per quel che abbiamo fatto.
A risentirci per il 200esimo, quando sarò più libero: sarò vento, e passerò a salutare le vostre nipoti.
Riesco appena a scorgere quelle bandiere, dai finestrini appannati dell’auto, e le interrogo: siamo tristi – rispondono – l’acqua non ci perdona e c’inzuppa, gli operai del Comune sono infastiditi dall’incombenza in più e quasi ci odiano, la gente c’osserva frettolosa ma quasi non ci nota, qualcuno non ci vorrebbe e – se potesse – ci sputerebbe pure.
Perché dobbiamo star qui, ad afflosciarci – inutili – mentre il cielo non concede venia e nessuno verrà, domani, alla commemorazione?
Quante domande, bandiere mie: sono troppo piccolo per rispondervi, troppo giovane per aver visto e troppo vecchio per illudermi.
Posso, però, raccontarvi delle vostre nonne, delle bandiere che garrivano al vento in un altro anniversario, quello del 1961: era il centenario!
Vi piacerebbe ascoltarmi?
Dai, racconta, che tanto qui fa solo freddo e ci si bagna. Inutilmente.
Avevo dieci anni ed i calzoni corti, al ginocchio, quelli “belli”, di lana, con tre bottoni cuciti a lato: erano proprio eleganti. Col mio papà alla guida avevamo preso l’autostrada per Torino: soli, io e lui, perché il mio fratellino era ancora troppo piccolo per venire con noi e la mamma era rimasta a casa, ad accudirlo ed riposarsi un po’, dal lavoro e dalle fatiche della casa.
L’autostrada era bella, dai finestrini della “Millecento”, e il mio papà ogni tanto sorpassava, metteva la freccia e sorpassava le “Seicento”, per far vedere che lui aveva la Millecento. Cosa volete: era fatto così.
Terminata l’autostrada, eravamo sfilati per tutto Corso Giulio Cesare, ed avevo abbassato il finestrino: era proprio una bella giornata di sole!
Finalmente, dopo aver superato mille semafori e tante giaculatorie, rivolte ai passanti che attraversavano incuranti delle strisce pedonali, in lontananza cominciò ad apparire “Italia ‘61”, la grande mostra per il centenario.
Sapeste che bella figura facevano le vostre nonne!
Erano tutte bellissime e pulite: leggere, accarezzavano il vento e dappertutto regalavano colore, sensazione di festa, con le prime gemme degli alberi a fare da coro.
Posteggiammo l’auto distante dalla mostra, perché non si doveva arrivare con l’auto, no: avremmo perso la prima meraviglia della festa.
Salimmo, così, una scala e…stupore! In alto, quasi sopra le fronde degli alberi, c’era un treno!
Era la famosa monorotaia.
A dire il vero, ricordo poco di quel breve tragitto: era così veloce!
In ogni modo, fu meraviglioso attraversare un laghetto con quel treno sospeso nell’aria, perché lo spettacolo era meraviglioso.
C’erano due grandi palazzi: uno cubico, in fondo, e l’altro strano: lo chiamavano “Palazzo della Vela” perché era tutto sghimbescio…come sarebbe stato difficile disegnarlo, se me l’avessero chiesto a scuola!
C’erano poi 19 – dico, diciannove! – villette che rappresentavano le Regioni d’Italia e, dentro ad ognuna, una mostra delle particolarità, delle differenze, delle ricchezze, delle meraviglie che componevano quel grande mosaico chiamato Italia.
Ne visitammo qualcuna e vidi così degli animali strani – i bufali – che erano nella villetta della Campania – erano solo fotografie, mica erano veri! – però io non sapevo che in Italia vivevano i bufali, ero convinto che fossero solo in Africa!
Sarebbe lungo raccontavi tutto quel che vidi, perché c’era così tanto…di tutto! Le vette delle Alpi ed il mare infinito, che avevo visto solo due volte, a Genova, dove avevo persino visitato una nave da guerra, ero stato proprio accanto a quei cannoni smisurati!
La gente era felice, si vedeva: compravano noccioline e gelati, panini e bibite e non mancavano d’acquistare i pacchettini di becchime da dare ai piccioni. Fu proprio una gran giornata: solo che, al ritorno, ero così stanco che m’addormentai sulla Millecento e, giunto a casa, papà dovette portarmi in braccio fino al letto.
Com’è successo che, il mattino dopo, non avevo più addosso i miei bei pantaloni, ma solo il pigiama?
Sono arrivato a casa, bandire mie: spero d’avervi consolato almeno un poco, perché a stare appese con quest’acqua ingiuriosa, con quest’indifferenza attorno, verrebbe da intristirsi a tutti.
Adesso che ho richiuso alle mie spalle il portone, e non potete sentirmi, verrebbe a me da piangere.
Non si può celebrare un 150esimo anniversario quando, prima, non s’è fatto nulla per costruirlo, per renderlo qualcosa da ricordare.
In questi 50 anni ho rivisto quel palazzo della Vela abbandonato, coi vetri rotti, solo illuminato dai fuochi delle prostitute: poi parzialmente ristrutturato, poi nuovamente abbandonato, poi ristrutturato…e la monorotaia?
Qual treno, dov’è finito?
Doveva continuare, entrare nel cuore pulsante di Torino e correre, ovunque: perché? Anni dopo, quando ero studente a Torino, ancora lo cercavo ma non c’era più. Prendevo il tram per andare in facoltà: chiudevo gli occhi e mi ritrovavo nel sole, sulla monorotaia, con papà al fianco.
No, bandiere mie, sarebbe meglio compiere un atto di consapevolezza e celebrare la Giornata del Fallimento, della Discordia, del Dolore per quanto non siamo stati in grado di fare in questi 50 anni. E, soprattutto, per quel che abbiamo fatto.
A risentirci per il 200esimo, quando sarò più libero: sarò vento, e passerò a salutare le vostre nipoti.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.
Questa pubblicazione non può essere considerata alla stregua della pubblicazione a stampa, giacché ha carattere saltuario e si configura, dunque, come un libera espressione, così come riferito dall'art. 21 della Costituzione. Per le immagini eventualmente presenti, si fa riferimento al comma 3 della Legge 22 Maggio 2004 n. 128, trattandosi di citazione o di riproduzione per fini culturali e senza scopo di lucro.
Io ad ogni ricorrenza di questa falsa unità nazionale ho sempre avuto una stretta al cuore e mi sono volontariamente isolato. L'Italia come popolo non esiste. Lo dice la storia, quella vera.
RispondiEliminaEsiste come aggregazione culturale, poiché abbiamo tratti comuni. Come "popolo"...non ti sembra un po' vaga come definizione?
RispondiEliminaPoi, anch'io - dal tenore dell'articolo lo avrai capito - non è che faccia i salti di gioia, anzi...
Ciao
Carlo Bertani
Si però Carlo un'Italia divisa, come la vuole bossi, in poco tempo troverebbe la sua potenza dominante. Per il nord è già pronta la Germania che ricordo già ha stretti raccordi con la Lega e in Tosi il suo plenipotenziario. Meglio uniti che divisi, almeno che voi al nord vorrete divenire un appendice della Mitteleuropa a predominanza tedesca.
RispondiEliminaCiao
Guardo con simpatia all'Unità d'Italia, forse perché da ragazzina, come molti, m'infiammavo per le gesta dei patrioti, e soprattutto per la
RispondiEliminasplendida, breve esperienza della
Repubblica Romana del 1849.
Garibaldi in fondo è stato il nostro Che Guevara.
Poi, presa coscienza dell'infinità
dell'Universo e del nostro essere un granello di sabbia su di una sfera lanciata ad una velocità pazzesca nella galassia e nel Cosmo, ho raggiunto un
momentaneo equilibrio nel sentirmi
una cellula nel grande corpo dell'Umanità, il che prescinde da
qualsivoglia bandiera, stato od
etnia.
Ma gli equilibri, si sa, sono per loro natura instabili.
Non escludo prossime varianti.
:-D
Comunque, degl'ideali patriottici
RispondiEliminarisorgimentali e massonici, uno mi sembra completamente disatteso: la laicità.
Centocinquant'anni di storia, ma la laicità dov'è?
Vivo a Roma, quella che dovrebbe essere in qualche modo la città orgoglio di tutti gli italiani, come accade ad esempio in Francia con Parigi o in Gran Bretagna con Londra, ma un po’ l’Italia l’ho girata, sia per lavoro che per diletto, e qualche impressione me la sono fatta. Forse dobbiamo fare un discorso un po’ più argomentato, su questa benedetta unità d’Italia e andare a vedere veramente chi è che la vuole e chi è che non la vuole. Sarà anche vero che sull’idea dell’unità in quanto tale, da nord a sud non c’è nessuno che si esalti più di tanto, è un’idea, per così dire, neutra, che di per se non porta grandi vantaggi ma nemmeno grandi svantaggi (ovviamente parliamo di oggi 2011). L’Italia c’è, ormai esiste, non da molto, formalmente, ma da molto di più come insieme di affinità culturali, per cui la maggior parte della gente ne prende atto, come una cosa ormai in qualche modo scontata, questo checchè ne dicano i leghisti e autonomisti vari. Per cui penso che si possa dire che la maggior parte della gente si sente di fatto ormai italiana, senza essere veramente consapevole di ciò che comporta e senza essere esageratamente nazionalista. Magari qualche volta la gente del nord critica quella del sud, e viceversa quella del sud fa altrettanto, con Roma in particolare, che fa da parafulmine. Ma quelli che veramente non vogliono l’unità d’Italia con convinzione e per motivi realmente degni di considerazione, quanti sono? Per me molto pochi, anche tra i leghisti, e spesso per motivi che di per se non hanno alcuna ragione obiettiva, se non per qualche interesse locale spesso confuso. Si può eventualmente aggiungere che il problema dell’unità se lo pongono solo i leghisti, che in fondo, ripeto, sono una minoranza, e per motivi strettamente elettorali, mentre nel resto dell’Italia è difficile sentire parlare di federalismo, autonomia e, soprattutto di intolleranza verso gli immigrati, che è qualcosa di più concreto, anche se episodi accadono anche al sud.
RispondiEliminaMa tutte queste sono considerazioni su cui si può discutere. La verità è che agli Italiani, non a tutti ma a molti, manca prima di tutto, prima ancora che il sentimento dell’unità del proprio paese, il senso civico, il sentimento del bene comune. Se pensiamo che le discussioni sull’unità d’Italia, sull’ognun per sé, potrebbero benissimo essere riportate tali e quali nel condominio in cui viviamo, penso che questo basti a comprendere; quando la gente litiga per motivi assurdi e talvolta si ammazza, pur di non sforzarsi a trovare soluzioni che si basano sul più elementare senso civico, in un contesto semplice e limitato come quello di un condominio, figuriamoci cosa può succedere su scala maggiore, e l’unità centra ben poco con tutto questo.
Infine c’è da aggiungere una cosa. Non so quanti altri cinquantenari potremo festeggiare, ma non per colpa dei leghisti, bensì perché bisogna vedere se l’Europa ce lo permetterà. Si perchè quello di oggi ha il sapore di un festeggiamento, come dire, di fine anno scolastico: festeggiate pure, poi tutti a casa, dopodichè il prossimo anno si vedrà. Magari nel bicentenario saremo, saranno, costretti a rimpiangere quando ancora c’era un’Italia da festeggiare.
150 anni! Dal visconte dimezzato al cavaliere doppiato.
RispondiEliminaChissà com' era il mondo nel 75 A.B.?
Giunse infine l' anno zero, ed in un' umile culla di paglia e fieno dentro al caveau di una piccola banca ambrosiana...
17 marcio 2011
RispondiEliminaTrascrivo dal Palazzi - popolo -l'insieme dei cittadini appartenenti alla stessa città e alla stessa nazione, parlanti la stessa lingua, aventi lo stesso costume e retti civilmente -
RispondiEliminaAttribuivo alla voce popolo solo la prima parte. Definizione vaga accettata. Sono andato sul dizionario e ho trovato conferma.
Non abbiamo lo stesso costume e non siamo retti civilmente. Non siamo popolo.
Caro Bertani bell'articolo, ricordo anch'io il '61 fui selezionato per far parte del coro di bambini che cantarono al teatro Verdi il "va pensiero" e conservo ancora il libretto sul centenario che ci diedero, ma poi? E oggi ....bocca amara.
RispondiEliminaRenzo
Nonostante tutto è stato un piacere ascoltarTi !
RispondiEliminaNon ci si può affidare allo Zingarelli - kingeagle - per definire l'essenza di un popolo.
RispondiEliminaEsistono dei tratti comuni, per l'Italia, che non vanno sottovalutati: lingua, cultura, religione. Cose che, ad esempio, non avevano gli jugoslavi, e s'è visto come è finita.
C'è un altro aspetto che, per tanti anni, ha cementato: la consapevolezza che l'Italia era nata dopo secoli di servaggio.
Disfiamo tutto?
Dopo - veramente - staremo meglio?
oppure, sarebbe meglio cacciare i cialtroni (dx e sx) del governo bipartisan e ripartire?
Grazie ai due "coetanei" che, ancora ricordano come fu vissuto l'altro anniversario.
Saluti
Carlo Bertani
Nel '61 avevo 18 anni, ammiravo ancora i "Briganti" ( i ricordi dei racconti dei contrabandieri di tabacco del mio paese sugli eccidi commessi dagli invasori piemontesi:nel mio quartiere , nel gioco " a carbineri e brianti" era disonorevole stare con ...i carabineri) per poter festeggiare.
RispondiEliminaAnzi, pre-scelto insieme ad un altro di un'altro indirizzo tecnico, nei colloqui con i rappresentanti della Olivetti, feci in modo di rappresentare le mie aspettative in modo da risultare inconciliabili con gli interessi della Olivetti.
Il co-audito riferi tutto a mio fratello , piu' grande di me di 2 anni, frequentante la mia stessa classe, il quale mi fece la "morale" sfociata poi...in una bi- scazzottata.
Poi, con il tempo e sentendo Gaber
il mio rapporto e' cambiato.
Doc