“Chi semina vento, raccoglie tempesta”
Proverbio popolare
Quando abbiamo visto le fotografie dell’alluvione in Veneto, il cuore s’è riempito di lacrime. Poi, quando il Governatore Zaia ha lanciato quel grido di soccorso: “Il Veneto è in ginocchio ed ha bisogno dell’aiuto di tutti!”, ci è sembrato che si fosse tornati con i piedi per terra. Perché, quando la terra diventa acqua, quel che restituisce, dopo, è una sorta di fondale marino, nel quale sono disseminati i resti di milioni di vite troncate.
Poi, proseguendo nella lettura dell’articolo[1], il cuore è tornato a stringersi: la Regione ha ricevuto “risposte positive” da parte d’alcune banche, ossia l’apertura d’alcune linee di credito. D’altro canto, con le banche strutturate come S.p.A., la carità non può essere iscritta a bilancio.
Infine, alcuni animali salvati dalle Forze di Polizia. E basta.
6 Novembre 2010, province di Vicenza e di Padova: acqua, su tutto. 150.000 animali morti, le cascine sono diventate isole, con i piani terreni zeppi di fango, mentre nelle stalle scorre il fiume.
Aiuto: certo. Da chi?
4 Novembre 1966, Firenze travolta dalla piena dell’Arno: non ci fu bisogno di chiedere, l’aiuto giunse spontaneo, da ogni parte d’Italia e dall’estero, in migliaia e migliaia che presero il sacco a pelo e basta, senza chiedersi troppi perché.
Ero troppo giovane, e non ricevetti il permesso paterno per recarmi a Firenze.
Due anni dopo, però, scavavo nella cantina di un orologiaio in un paesino delle valli biellesi: tremenda alluvione, 150 morti, un’economia distrutta, fango persino sui tetti.
L’orologiaio – quando si dice la disgrazia – era già stato alluvionato nel Polesine, 1951, ed ora tornava ad osservare quella malta grigiastra che tutto include, soffoca, nasconde e che – quando s’asciuga appena un poco – diventa una morchia che devi togliere pezzo per pezzo, come chewing-gum che tutto aggrappa, attanaglia, morde.
La sua speranza eravamo solo noi, che da quella cantina potevamo ritrovare alcune casse zeppe di pezzi di ricambio – minuscoli bilancieri, ingranaggi grossi quanto una lenticchia, quadranti… – tutto in quelle casse sepolte dal fango, la sua speranza di “riveder le stelle”, d’immaginare ancora una volta un futuro.
Era un uomo piccolo e magro – ancora lo ricordo – con due lenti tonde e la calvizie incipiente: ogni tanto, saltava fuori dal fango una bottiglia di vino e voleva assolutamente che la stappassimo subito, che la bevessimo. Era l’unica cosa che poteva offrirci.
Per fortuna, ogni tanto una cassa saltava fuori. La ripulivamo alla belle e meglio, le rovesciavamo secchi d’acqua per togliere il fango poi, facendo passamano su scale di sapone, le portavamo al piano superiore, dove la moglie era riuscita a trovare chissà come una bombola di gas liquido e coceva spaghetti per tutti, conditi con l’olio perché non c’era altro.
Non avemmo il tempo d’essere felici né di ripensare a quanto stavamo facendo: per noi era normale così, la sola cosa che c’interessava era ridare all’orologiaio i suoi ferri, i suoi quadranti, le sue molle. Per fortuna, tutto in quelle casse che ritrovammo.
All’epoca, le visite dei politici non erano gradite. Venivano, sfilavano nelle auto con i finestrini chiusi perché ad ogni curva arrivavano sulle carrozzerie linde palate di fango. La Polizia non diceva nulla, non osava dire nulla: noi, eravamo quelli che potevano tirar fuori dal fango quella gente, non le banche e nemmeno le “Forze dell’Ordine”. Solo noi e gli Alpini: l’avessero ben chiaro.
Oggi, qualcuno, dopo decenni nei quali non ha fatto altro che magnificare una chimerica autosufficienza della propria gente, dovrebbe guardarsi intorno e cercare di capire. Che tutti siamo deboli, fragili, percossi dalle intemperie e che “anche durante un naufragio, si deve pur mangiare”.
Ci si chiede come celebrare i 150 anni dell’Unificazione. E ci si scanna.
Un’Unificazione che nessuno riconosce e sente più: al Nord per non dover mantenere il Sud, al Sud con l’orgoglio di chi si è visto calpestato e colonizzato. Ed ucciso se protestava.
C’è stata forse un po’ di retorica di troppo sugli “angeli del fango”: qualche regista c’ha intessuto le sue fortune, qualcuno ha voluto far sua una cosa che era di tutti e di nessuno.
Certo, se ci fu un momento nel quale l’Italia s’unì fu in quelle occasioni, in quelle alluvioni, quando si prendeva il sacco a pelo e si partiva, perché altri avevano bisogno d’aiuto. Altri italiani, od europei – più in là era difficile andare – che si sentivano fratelli nel bisogno, nel cemento dell’amore che univa più forte del fango che soffocava, della terra che tremava, dell’acqua che spazzava via, del freddo e dell’umidità che facevano battere i denti.
E ci si riscaldava a quel fuoco, concreto o trasfigurato, nel quale tutti eravamo fratelli.
Chi ha mantenuto, nel tempo, quei principi nulla ha da rimproverarsi: chi, invece, per troppo tempo ha alimentato il gelo della divisione e dell’odio, osservi oggi l’albero con i frutti muffiti, i rami secchi e spezzati, le foglie malate. E si chieda il perché.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Proverbio popolare
Quando abbiamo visto le fotografie dell’alluvione in Veneto, il cuore s’è riempito di lacrime. Poi, quando il Governatore Zaia ha lanciato quel grido di soccorso: “Il Veneto è in ginocchio ed ha bisogno dell’aiuto di tutti!”, ci è sembrato che si fosse tornati con i piedi per terra. Perché, quando la terra diventa acqua, quel che restituisce, dopo, è una sorta di fondale marino, nel quale sono disseminati i resti di milioni di vite troncate.
Poi, proseguendo nella lettura dell’articolo[1], il cuore è tornato a stringersi: la Regione ha ricevuto “risposte positive” da parte d’alcune banche, ossia l’apertura d’alcune linee di credito. D’altro canto, con le banche strutturate come S.p.A., la carità non può essere iscritta a bilancio.
Infine, alcuni animali salvati dalle Forze di Polizia. E basta.
6 Novembre 2010, province di Vicenza e di Padova: acqua, su tutto. 150.000 animali morti, le cascine sono diventate isole, con i piani terreni zeppi di fango, mentre nelle stalle scorre il fiume.
Aiuto: certo. Da chi?
4 Novembre 1966, Firenze travolta dalla piena dell’Arno: non ci fu bisogno di chiedere, l’aiuto giunse spontaneo, da ogni parte d’Italia e dall’estero, in migliaia e migliaia che presero il sacco a pelo e basta, senza chiedersi troppi perché.
Ero troppo giovane, e non ricevetti il permesso paterno per recarmi a Firenze.
Due anni dopo, però, scavavo nella cantina di un orologiaio in un paesino delle valli biellesi: tremenda alluvione, 150 morti, un’economia distrutta, fango persino sui tetti.
L’orologiaio – quando si dice la disgrazia – era già stato alluvionato nel Polesine, 1951, ed ora tornava ad osservare quella malta grigiastra che tutto include, soffoca, nasconde e che – quando s’asciuga appena un poco – diventa una morchia che devi togliere pezzo per pezzo, come chewing-gum che tutto aggrappa, attanaglia, morde.
La sua speranza eravamo solo noi, che da quella cantina potevamo ritrovare alcune casse zeppe di pezzi di ricambio – minuscoli bilancieri, ingranaggi grossi quanto una lenticchia, quadranti… – tutto in quelle casse sepolte dal fango, la sua speranza di “riveder le stelle”, d’immaginare ancora una volta un futuro.
Era un uomo piccolo e magro – ancora lo ricordo – con due lenti tonde e la calvizie incipiente: ogni tanto, saltava fuori dal fango una bottiglia di vino e voleva assolutamente che la stappassimo subito, che la bevessimo. Era l’unica cosa che poteva offrirci.
Per fortuna, ogni tanto una cassa saltava fuori. La ripulivamo alla belle e meglio, le rovesciavamo secchi d’acqua per togliere il fango poi, facendo passamano su scale di sapone, le portavamo al piano superiore, dove la moglie era riuscita a trovare chissà come una bombola di gas liquido e coceva spaghetti per tutti, conditi con l’olio perché non c’era altro.
Non avemmo il tempo d’essere felici né di ripensare a quanto stavamo facendo: per noi era normale così, la sola cosa che c’interessava era ridare all’orologiaio i suoi ferri, i suoi quadranti, le sue molle. Per fortuna, tutto in quelle casse che ritrovammo.
All’epoca, le visite dei politici non erano gradite. Venivano, sfilavano nelle auto con i finestrini chiusi perché ad ogni curva arrivavano sulle carrozzerie linde palate di fango. La Polizia non diceva nulla, non osava dire nulla: noi, eravamo quelli che potevano tirar fuori dal fango quella gente, non le banche e nemmeno le “Forze dell’Ordine”. Solo noi e gli Alpini: l’avessero ben chiaro.
Oggi, qualcuno, dopo decenni nei quali non ha fatto altro che magnificare una chimerica autosufficienza della propria gente, dovrebbe guardarsi intorno e cercare di capire. Che tutti siamo deboli, fragili, percossi dalle intemperie e che “anche durante un naufragio, si deve pur mangiare”.
Ci si chiede come celebrare i 150 anni dell’Unificazione. E ci si scanna.
Un’Unificazione che nessuno riconosce e sente più: al Nord per non dover mantenere il Sud, al Sud con l’orgoglio di chi si è visto calpestato e colonizzato. Ed ucciso se protestava.
C’è stata forse un po’ di retorica di troppo sugli “angeli del fango”: qualche regista c’ha intessuto le sue fortune, qualcuno ha voluto far sua una cosa che era di tutti e di nessuno.
Certo, se ci fu un momento nel quale l’Italia s’unì fu in quelle occasioni, in quelle alluvioni, quando si prendeva il sacco a pelo e si partiva, perché altri avevano bisogno d’aiuto. Altri italiani, od europei – più in là era difficile andare – che si sentivano fratelli nel bisogno, nel cemento dell’amore che univa più forte del fango che soffocava, della terra che tremava, dell’acqua che spazzava via, del freddo e dell’umidità che facevano battere i denti.
E ci si riscaldava a quel fuoco, concreto o trasfigurato, nel quale tutti eravamo fratelli.
Chi ha mantenuto, nel tempo, quei principi nulla ha da rimproverarsi: chi, invece, per troppo tempo ha alimentato il gelo della divisione e dell’odio, osservi oggi l’albero con i frutti muffiti, i rami secchi e spezzati, le foglie malate. E si chieda il perché.
Articolo liberamente riproducibile nella sua interezza, ovvia la citazione della fonte.
Splendido ricordo che hai fatto bene a condividere con tutti noi.
RispondiEliminaIl fango è riuscito a entrare nello stivale!
Forse era il destino topografico di una stranissima e rara formazione geologica nata al tempo della divisione della pangea.
Su quello stivale abbiamo calpestato la storia e le orme lasciate si stanno dissolvendo nelle alluvioni continue, fisiche e morali.
L'Italia è un tormento che ci allaga il cuore e ci svuota di sangue, non più un tricolore ma una monocromia grigia.
grazie Carlo
B.S.
A margine, notiamo come la Lega Nord - deus ex machina di questa maggioranza - non riesca nemmeno più a chiedere, ed ottenere, soldi per un sacrosanto motivo.
RispondiEliminaSono proprio alla frutta.
Ciao
Carlo
Chiedo a tutti i componenti del blog che sono interessati a partecipare alla rivista d'inviarmi urgentemente una mail a info@carlobertani.it.
RispondiEliminaCi sono novità.
Carlo
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/03/il-veneto-allagatoma-per-i-fiumisi-tagliano-i-fondi/74896/
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